Mario Salvini
DIECI STORIE PER INNAMORARSI DEL
Mario Salvini
Il diamante è per sempre Dieci storie per innamorarsi del baseball
Perché il diamante è per sempre
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uesta non è la storia del baseball. Non è un compendio, né una cronologia di eventi. E neppure una rassegna dei personaggi e degli avvenimenti che hanno attraversato tre secoli. Ergo: potreste non trovarci il vostro campione o quell’epopea di cui avete sentito tanto parlare. Non c’è nessuna pretesa di esaustività, non avrebbe potuto esserci. Qui vorrei che trovaste una ragione per amare il baseball. Qualche riferimento in più per amarlo se già siete infatuati o appassionati. Un buon motivo per cominciare ad amarlo se lo conoscete poco o per nulla. Un appiglio per dargli una possibilità se siete tra gli scettici che lo ritengono lento e noioso, se siete tra quelli che almeno una volta nella vita hanno detto: “Eh, ma in America vanno a vedere il baseball solo per mangiare”. Perché, là, lo sanno tutti, purtroppo i ristoranti non li hanno ancora inventati. Del resto di ragioni per cui, se non lo ha già fatto, il baseball dovrebbe entrare nei vostri cuori, ce ne sono tante. Perché se il football è ogni maledetta domenica, il baseball è ogni santo giorno. Perché gli altri sport cominciano quando finisce l’estate, accendono luci intermittenti e diventano un riempitivo in un 5
periodo che deve inventarsi gli svaghi. Il baseball comincia a primavera, insieme alla vita, ci accompagna nella luce della bella stagione, sboccia in estate. E quando se ne va, in autunno, ci lascia al buio. Perché il lancio inaugurale all’Opening Day può essere l’inizio di qualsiasi cosa. Ogni tifoso è convinto di poter riempire i sei mesi di lì in avanti con tutte le sue speranze. In fondo il baseball ha avuto i Miracle Mets del 1969, la squadra pronosticata come la peggiore di tutta la Major League Baseball ma che poi ha vinto le World Series. Da allora ogni sogno è lecito. Perché l’Opening Day, lo ha detto una volta Joe DiMaggio, è qualcosa che aspetti come da bambino aspettavi una festa di compleanno. Sapendo che sarebbe successo qualcosa di grande. Perché nelle prime partite della stagione, in tutti i campi, anche i nostri, si sente l’odore dell’erba tagliata. Perché quando ti capita di camminare sull’asfalto per andare verso il diamante gli spikes, i tacchetti, ti fanno appena appena un po’ di solletico sotto la pianta dei piedi. Perché a baseball si gioca spesso di lunedì, e poi capita di rigiocare il martedì. Se oggi hai battuto tre valide fai bene a sorridere, a sentirti a posto con te stesso e a berci su una birra celebrativa. Ma non è il caso di esaltarti troppo, perché domani c’è un’altra partita. E se fai 0 su 4, se lasci corridori in base, hai ragione a incazzarti un po’. Ma bevici su una birra, ché il giorno dopo si ricomincia e avrai l’occasione di rifarti. Perché in molti vi diranno che tutti quei numeri rendono il baseball astruso. Ma è gente che non ha capito niente: le sta6
tistiche rendono unica ogni partita, ogni azione, ogni lancio, ogni battuta. Tutto diventa importante, anche i respiri diventano ricordi. Ed “è l’eros intenso della memoria che distingue il baseball dagli altri sport”. L’ha scritto Don DeLillo in Underworld. (E le prime 59 pagine nell’edizione economica di Underworld sono il più poetico inno a uno sport che io abbia mai letto.) Perché “Amavo il Gioco con tutto il mio cuore, non solo per il divertimento che mi dava, ma per la dimensione mitica ed estetica che dava alla vita di un ragazzo americano. Specie per quelli che avevano nonni in difficoltà a parlare inglese”. Lo ha scritto Philip Roth nel racconto My Baseball Years. Perché lo stesso Roth e Don DeLillo per anni sono andati a pranzo insieme almeno una volta al mese. E con loro c’era sempre anche Paul Auster. “E di cosa parlavate?” deve aver chiesto un giorno ad Auster la giornalista Anna Lombardi che lo intervistava per La Repubblica. “Di baseball”, ha risposto lui. “Soprattutto di baseball”. Perché certi calciatori hanno sposato Elisabetta Viviani, Martina Colombari e Posh Spice. Con tutto il rispetto e l’ammirazione: Joe ha sposato Marilyn. Perché il baseball “ci solleva dalle nostre nevrosi. Ripara i nostri guai, ed è una benedizione”. L’ha scritto Walt Whitman, un poeta. Il poeta di O capitano! Mio capitano! È morto nel 1892. Perché alle World Series NON c’è il concerto a metà partita. Perché, vi diranno in tanti, specie in Italia: nel baseball non succede niente. Ma è solo che non sanno dove e cosa guardare. 7
Perché sul diamante un sacrificio – una volata o una smorzata – è riconosciuto, codificato e soprattutto apprezzato come tale. E porta sempre un risultato concreto. Perché nel baseball l’allenatore non indossa cappottini attillati, né sciarpe vistose. Non ha la cravatta e nemmeno le scarpe lucide. Non sai se ha il ciuffo pettinato, il sale e pepe arruffato o un gatto morto in testa. L’allenatore del baseball ha la divisa col suo bravo numero. E porta il cappellino. Magari gli si vede troppo la pancia, ma non importa: è vestito come i suoi giocatori. Sarà un caso, ma non succede in nessun altro sport. Perché non c’è l’orologio. Il tempo non è effettivo, né semi-effettivo. Non ci sono il recupero e nemmeno ridicoli tabelloni che lo quantificano. Ci vuole il tempo che serve. E le pause, a chi sa capirle, raccontano un sacco di cose. Perché “Nella vita non c’è nulla, assolutamente nulla che si avvicini al piacere che si prova ad arrivare a casa base tranquillo. Tanto non c’è più fretta, ormai, perché quella palla che hai appena colpito se ne è andata, se ne è volata via. Non si vede più”. Anche questo l’ha scritto Philip Roth. Perché nel baseball si perde spesso, anche la squadra che vince le World Series nel corso della stagione mette insieme almeno una sessantina di sconfitte. E si sbaglia ancora di più. Come ha scritto John Grisham, il baseball ha a che fare con il fallimento: non capita in tutti gli sport di essere nella Hall of Fame battendo solo tre volte su dieci. Il Gioco ti rende umile. Perché, come dice Susan Sarandon in Bull Durham, il baseball è una religione. E dopo averle provate tutte: Buddha, Allah, Brama, Visnù, Shiva, gli alberi, i funghi, scopri che l’u8
nica fede con cui puoi davvero nutrire la tua anima è quella del baseball. Perché, come dice Brad Pitt in Moneyball, è impossibile non essere romantici con il baseball. Perché “Al mondo c’è una sola cosa che è meglio del baseball: parlare di baseball”. L’ha detto un giorno Gabo, Gabriel Garcia Marquez. Perché il baseball è come la vita: senza la tua squadra non sei nessuno, ma quando conta veramente sei solo contro tutti. Mario Salvini
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Jackie Robinson
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i sono uomini che diventano simboli quasi per caso. Semplicemente, si sono trovati al posto giusto al momento perfetto. Magari altri avevano le loro stesse abilità e i medesimi meriti, solo non hanno avuto altrettanto tempismo. Né fortuna. Se ci voltiamo indietro a guardare il secolo passato e cerchiamo di mettere in fila le immagini che dovrebbero riassumerlo, in una c’è un “omino” con ridicoli baffetti sulla tribuna d’onore di uno stadio. È il 5 agosto del 1936 a Berlino, Adolf Hitler, tronfio, si gode la sua Olimpiade. Li ha voluti fortissimamente quei Giochi, li ha ricoperti di simboli che fino a lì non avevano mai avuto. Con un solo scopo: celebrare il regime e dimostrare a tutto il mondo la superiorità della razza ariana. Com’è finita nel salto in lungo e nelle discipline veloci dell’atletica lo sappiamo tutti: Jesse Owens ha trionfato e sbeffeggiato le orrende teorie razziste dei nazisti. Per decenni si sono susseguiti racconti mai davvero confermati, su Hitler che avrebbe lasciato lo Stadio Olimpico in anticipo pur di non partecipare alla premiazione e non stringere la mano a quel nero americano. Di sicuro come già nel salto in lungo, nei 100 metri e nella staffetta 4x100, quel giorno, il 5 agosto, Jesse ha vinto la medaglia d’oro nei 200 metri. Ed è altrettanto certo che Mack Robinson è arrivato di un niente in ritardo all’appuntamento 11
con quella stessa storia. Mack, il cui vero nome era Matthew, è la quasi dimenticata medaglia d’argento dei 200 metri all’Olimpiade di Berlino. Li ha corsi in 21”1, quattro decimi di secondo meno veloce di Owens che con 20”7 aveva staccato il record del mondo. Nero del sud, come Jesse, straordinario quasi quanto lui, Mack Robinson è stato un grande atleta. Avrebbe potuto essere un simbolo di cambiamento, per quattro decimi di secondo non lo è diventato. Peggio: adesso quasi nessuno se lo ricorda più. E allora ci ha pensato suo fratello Jackie. Che invece è arrivato al momento e nel posto giusti. Ed è entrato nella storia, dello sport e del suo Paese. Jack Roosevelt – detto Jackie – Robinson, di cinque anni più giovane di Mack, è arrivato primo. È l’uomo che ha abbattuto le barriere razziali nello sport professionistico degli Stati Uniti. E come tale sarà ricordato per sempre. Anche lui è straordinario. Su qualsiasi campo lo metti, pista o pedana, Jackie è un fenomeno. Solo un anno dopo la medaglia olimpica del fratello, per dire, il Pasadena Star-News, quotidiano della cittadina californiana dove si è trasferita la famiglia Robinson, parla di lui, diciottenne studente della John Muir High School, come di una specie di prodigio del football, del basket, del baseball, dell’atletica leggera e del tennis. Pasadena non è nemmeno un brutto posto per crescere. Certo meglio di Cairo, in Georgia, dove è nato il 31 gennaio del 1919, 20 giorni dopo la morte del presidente Theodore Roosevelt. Da lì quel suo nome altisonante, Jack Roosevelt Robinson, quintogenito di Jerry e Mallie McGriff. Solo che, subito dopo la sua nascita, papà Jerry aveva lasciato Mallie. E allora lei si era presa i suoi cinque figli e li aveva portati il più lontano possibile da dove erano nati, dall’altra parte dell’America. Dalla Georgia alla California. Aveva affittato un appartamento al 121 di Pepper Street di Pasadena e lì li ha tirati su. Jackie – diminu12
tivo obbligato, è il più piccolo dei cinque – a un certo punto dell’adolescenza si fa anche affascinare un po’ troppo da certe bande di giovani balordi di strada. Per fortuna c’è suo fratello Carl che se lo va ogni volta a riprendere. E per fortuna c’è lo sport. Qualsiasi pallone o pallina gli mettano in mano, lui sa farci cose che gli altri ragazzi possono solo immaginare. Ragazzetto prodigio, è il quarterback della squadra di football della scuola, interbase o catcher in quella di baseball, guardia nel quintetto del basket. Qualsiasi pallone o qualsiasi racchetta, anche. Nel 1936, a 17 anni, mentre il fratello Mack è davanti agli occhi del mondo a Berlino, Jackie vince il singolare junior al Pacific Coast Negro Tennis Tournament. Persino con il tennistavolo ha familiarità, visto che vince almeno un’edizione del campionato scolastico. Tutti successi che tornano buoni anche quando la polizia lo ferma, insieme ai suoi amici, dopo aver combinato qualche scemenza in giro per Pasadena. C’è sempre un coach – di football, di basket, di atletica, di baseball – che va a garantire per lui. Questo per dire che Jackie non è nato paziente e saggio; di indole non è l’uomo tranquillo e disposto a porgere l’altra guancia che diventerà. E anche in questa premessa, nella metamorfosi che è stato capace di imporsi, sta la grandezza della sua epopea. Al Pasadena Junior College, tra una partita e l’altra di tre diversi sport di squadra, stabilisce il record della scuola nel salto in lungo, battendo quello che apparteneva al fratello Mack: in altre parole, aveva doti atletiche che gli consentivano di far meglio di un vice-olimpionico. Solo che in quegli stessi mesi viene anche arrestato. Non sopportava i soprusi, Jackie, e allora un giorno in cui un suo amico nero viene fermato e vessato arbitrariamente da un poliziotto, lui si mette a protestare con veemenza. Troppa. Ed è condannato a due anni, per fortuna con sentenza sospesa. Per fortuna perché da lì a poco passa dal Pasadena Junior College alla molto più prestigiosa University of California di Los Angeles, evidente13
mente non con lo studio come primo obiettivo. I Bruins, così sono chiamate le squadre di tutti gli sport della Ucla, lo vogliono per il baseball, per il football e per l’atletica. Nel baseball comincia benissimo, battendo 4 su 4 nella prima partita e mostrando al mondo l’azione più pazza e caratteristica del suo repertorio: la grande rubata, la rubata di casa base. Ma poi – curiosamente – la carriera è fiacca. La sua media battuta alla Ucla è di .097. Novantasette, meno di una valida ogni dieci turni, troppo poco. In compenso nel football è all’altezza della fama che si è fatto alle superiori. Non che siano molti i neri, in Ncaa, all’epoca. Però è vero che, a differenza dello sport professionistico, in quello universitario non c’è segregazione. Così, insieme a lui, ai Bruins giocano Woody Strode e Kenny Washington che diventeranno i primi afroamericani della storia della Nfl, la lega professionistica di football. Con quei tre la Ucla è rimasta imbattuta. E Jackie è diventato uno degli atleti universitari più conosciuti in tutti gli Stati Uniti. Per il football, certamente, e per la sua versatilità, visto che riesce a vincere anche un campionato nel salto in lungo, con la gran misura di 7 metri e 58. La carriera dunque sembra instradata verso il football: Robinson ha già anche il suo bell’accordo con i Los Angeles Bulldogs, della Pacific Coast Football League. Ma quando è quasi pronto a cominciare, il mondo si ribalta di colpo. E la tragedia si rivelerà essere la fortuna del baseball. I giapponesi bombardano Pearl Harbor, gli Stati Uniti entrano in guerra. Arriva la chiamata nell’esercito e la partenza. Robinson finisce a Fort Riley, in Kansas, dove, prima di entrare alla scuola ufficiali, conosce Joe Louis, ai tempi già una star della boxe. Ed è anche grazie al nuovo, importante, amico, che Jackie riesce a farsi assegnare alla scuola ufficiali e viene trasferito a Fort Hood, in Texas. Dove però rifiuta di giocare nella locale squadra di football, forse perché il livello è troppo basso per un fenomeno come lui. O forse per provocazione: Robinson si presenta infatti a una sorta di provino di baseball, ma viene 14
allontanato. “Devi giocare nella squadra con quelli di colore”, gli dice sprezzante un collega allievo ufficiale bianco. Peccato che nella base non ci siano abbastanza aspiranti tenenti afroamericani per comporre una squadra. Jackie in compenso è assegnato al 761° Tank Battalion “Black Panthers”, che diventerà la prima divisione corazzata interamente composta da militari neri a combattere in Europa. La guerra però non la vedrà mai, perché il 6 luglio del 1944 è coinvolto in un altro episodio controverso. Uno “scontro” che gli costa il deferimento alla corte marziale e che, ancora una volta, racconta di un carattere tutt’altro che accomodante. Non davanti alle ingiustizie e agli insulti razzisti, quantomeno. Succede che una sera, a pochi giorni dalla partenza del suo reparto per la Francia, Robinson sta rientrando in alloggio dopo una visita medica a una caviglia infortunata fin dai tempi del Pasadena Community College. Sull’autobus incontra la moglie di un collega ufficiale, Virginia Jones, si siede vicino a lei, a metà del mezzo. Il conducente, tale Milton Renegar, gli intima di lasciare quel posto e di andare a sedersi nelle ultime file. Non ci sono regole secondo le quali i neri dovrebbero sedere nei posti in fondo. Anche Virginia Jones era nera, ma, come ha scritto Scott Simon nella biografia Il mio nome è Jackie Robinson, “aveva la carnagione particolarmente chiara”. L’autista è evidentemente infastidito nel vedere il giovane allievo con una donna che lui crede bianca. Ne nasce una discussione, non è nemmeno chiaro quanto animata. Né se – come sembra da alcune versioni – Renegar abbia chiamato Robinson “sporco negro”. Di certo lo fa una donna alla fermata, dopo che Jackie e Virginia scendono dal bus per aspettare quello successivo. Ed è a quel punto che entra in scena un gruppo di soldati, che partecipa al litigio. Interviene la polizia militare, Jackie viene portato via e finisce immediatamente sotto interrogatorio. Un soldato semplice, Ben Mucklerath, verbalizzando i fatti commenta ad alta voce: “Quello sporco negro dell’uf15
ficiale”. “Chiamami ancora sporco negro e ti spacco in due”, reagisce Robinson. Da lì l’imputazione: insubordinazione. Ma si capisce che, stando così i fatti, l’accusa non regge più di tanto. Non reggerebbe in generale, men che meno contro un atleta conosciutissimo, fratello di un medagliato olimpico. Robinson viene processato e assolto nel giro di quattro ore. Ma questa storia lo perseguiterà a lungo, i suoi detrattori continueranno a rinfacciargliela per anni. In ogni caso Jackie, anche grazie a questa vicenda, oltre che per la caviglia malconcia e per un innegabile occhio di riguardo, non parte in guerra. Inizia invece a giocare a baseball nell’unico modo in cui gli è concesso: nelle Negro Leagues. Cioè nei campionati riservati ai neri, nei quali, come è facile immaginare, puoi trovare fior di fenomeni. Ce ne sono un po’ in ogni squadra. In una soprattutto, i Kansas City Monarchs, il club che per la stagione 1945 offre a Robinson 400 dollari al mese. Un buono stipendio. Ben investito, visto il gran campionato che tira fuori lui. Altro che gli stenti patiti a Ucla: 47 partite giocate, .387 di media battuta con 5 fuoricampo e 13 basi rubate. Numeri individuali eccezionali, purtroppo per i Monarchs non sufficienti per arrivare alle finali. Ma certamente abbastanza per farsi notare. Come se qualcuno abbia mai potuto avere dubbi sul fatto che lui – come Monte Irvin, come Ernie Banks, come Roy Campanella, come il fenomenale lanciatore Satchel Paige, e come tanti altri idoli delle Negro Leagues – non avesse abilità, potenza ed esperienza per poter giocare nella Mlb, la massima serie del campionato americano. Solo che, semplicemente, la cosa non veniva nemmeno presa in considerazione, in una realtà a noi oggi impossibile non solo da comprendere, ma persino da descrivere. I neri in California o a New York erano integrati in molti ambiti, mentre nel Sud – e non solo – non avevano accesso agli stessi locali pubblici dei bianchi. Potevano essere arruolati e morire nell’esercito, ma in nessuno Stato e in nessuna città, nemmeno a New York o 16
a Boston, potevano sognare di giocare a baseball negli Yankees o nei Red Sox. Con la stessa logica per cui tutto questo ci sembra inconcepibile, era scontato che, prima o poi, qualcuno avrebbe abbattuto la diga, e che quei talenti sarebbero arrivati in Mlb. Ma intanto non avveniva. C’erano opinionisti che denunciavano questa incongruenza, tanto più evidente dopo che centinaia di migliaia di americani neri avevano servito il Paese in guerra. E che molti di loro non erano tornati. Sam Lacy, sul Baltimore Afro-American, e Wendell Smith, sul Pittsburgh Courier, scrivevano editoriali a favore dell’integrazione nello sport. Con argomentazioni inoppugnabili provocavano, a volte inveivano, contro il sistema di fatto segregazionista. Lo stesso faceva anche la più famosa delle giornaliste sportive dell’epoca, Shirley Povich, su una tribuna certamente molto più in vista tra i bianchi, dato che scriveva per il Washington Post. E quindi il dibattito c’era, eccome. Solo veniva spesso liquidato con sufficienza, quando non con stucchevole ipocrisia. Come quando il commissioner dell’epoca, Kenesaw Landis, ebbe brillantemente a dire: “Non esiste un regolamento che impedisce ai neri di giocare in Mlb. Sono loro che preferiscono le Negro Leagues”. Negro Leagues dove, per inciso, gli stipendi erano quello che erano, non sempre arrivavano come e quando avrebbero dovuto e soprattutto certe gestioni – specie relativamente alle scommesse – poteva capitare che risultassero “allegre”, per così dire. Tutto soffocato sotto un tetto di ipocrisia. Perché poi di esibizioni ufficiose, in cui i grandi campioni bianchi incrociavano i migliori delle Negro Leagues, ce n’erano eccome. Capitava anzi che fenomenali battitori finissero eliminati al piatto contro il leggendario Satchel Paige. Stando ai miti tramandati, persino a una superstar come Babe Ruth sarebbe capitato almeno quattro volte. E in ogni caso, Paige, con le sue esibizioni tirava su dei bei dollari ovunque. È stato calco17
lato che durante la Seconda guerra mondiale, con le sue borse raccattate qua e là, fosse lui l’atleta più pagato al mondo. Di certo c’è che a conflitto finito molti dei grandi club della Mlb avevano voci importanti nei loro bilanci derivanti dagli affitti degli stadi alle squadre di Negro Leagues. La sensazione era non solo che prima o poi sarebbe successo, ma che il momento era imminente: un afroamericano sarebbe arrivato in Mlb. Già nel 1945, prima ancora della fine della guerra, i Boston Red Sox organizzarono un try-out, un provino. Probabilmente più per necessità che per convinzione. Il problema era che un componente del consiglio cittadino, Isadore Muchnick, aveva minacciato di cancellare dal rigido regolamento comunale l’emendamento che concedeva la possibilità di giocare partite di baseball la domenica, a meno che non fosse data la possibilità di entrare in squadra anche ad atleti di minoranze etniche. “Nessun nero vuole provare per noi”, tagliò corto il general manager del club, Eddie Collins, per sbrigare la faccenda. Una spiegazione talmente poco convincente che alla fine a Fenway Park furono costretti a convocare tre talenti delle Negro Leagues: Sam Jathroe, Marvin Williams e ovviamente lui, Jackie Robinson. È il 16 aprile, l’Armata Rossa è già entrata a Berlino. E quando Jackie dal box di battuta inizia a sparare una palla dopo l’altra contro il “Green Monster”, l’altissimo muro verde dietro l’esterno sinistro del campo di Boston, lo staff tecnico dei Red Sox comincia a figurarsi molti scenari futuri. Muchnick, anni dopo, rivelerà che l’allenatore di Boston, Joe Cronin, guardando quelle battute aveva detto: “Se avessimo quello in squadra nessuno ci batterebbe”. Ed è da notare che i Red Sox, pur avendo allestito spesso grandi squadre, non vincevano una World Series, la finale del campionato, ormai da 27 anni, dal 1918. Eppure non se ne fa niente. Lo stesso Cronin, addirittura nel 1984, ammetterà in un’intervista che l’ingaggio di 18
Robinson, o di Williams, o di Jathroe, sarebbe stato “semplicemente impensabile”. Prima di tutto perché un periodo, breve o lungo, di apprendistato in Triplo A, cioè nel livello più alto delle leghe minori, sarebbe stato necessario. E la squadra di Triplo A affiliata ai Red Sox ai tempi era a Louisville, Kentucky. Figurarsi se era immaginabile anche solo l’idea di vedere dei neri in campo coi bianchi in Kentucky. Quel tryout era stato un teatrino per far contento Muchnick, niente di più. Tanto è vero che i Red Sox, della cosmopolita ed emancipata Boston, sono poi stati l’ultima squadra di tutta la Mlb a ingaggiare un afroamericano, Pumpsie Green. Ed è successo 14 anni dopo, nel 1959. Dunque lì, a guerra finita, doveva capitare qualcosa di davvero deflagrante per cambiare la storia e rimettere a posto le cose. Serviva qualcuno che avesse il coraggio di andare contro le convenzioni e contro l’inerzia. Serviva un uomo coraggioso. Serviva Branch Rickey. Che è l’altro vero, grande, protagonista di questa storia. Rickey è uno apparentemente sempre un po’ fuori posto: sovrappeso, vestito con colori spesso improbabili, un perenne e ridicolo papillon, il cappello dalle larghe tese, il sigaro incollato alla bocca. Lo incontreremo ancora, in questo libro, alle prese con due ragazzini della parrocchia di The Hill, tutti e due catcher, tutti e due italiani: Joe Garagiola e Yogi Berra. Arriva dai St. Louis Cardinals che sotto la sua dirigenza hanno conquistato quattro World Series. L’ultima nel 1942. Dopo la quale passa a Brooklyn, dove lo chiamano con uno scopo: far vincere la terza squadra di New York. La più sfigata delle tre. Ai tempi gli Yankees avevano già trionfato in dodici World Series, i Giants in dieci. Quelli di Brooklyn mai. E come avrebbe potuto vincere una squadra che si chiamava: Dodgers. Letteralmente, “quelli che si scansano”. Secondo alcuni, il nome derivava da certe strade del quartiere, così strette che 19
toccava farsi di lato quando passava il tram. Per altri sbeffeggiava una tecnica che aveva sempre a che fare coi tram: quella di scansarsi al loro arrivo, appunto, ma per poi saltare al volo sulla carrozza posteriore e viaggiare gratis. In ogni caso dodgers era originariamente un epiteto dileggiante, assunto poi come nome del team, con una certa ironia, bisogna riconoscerlo. Quando ne diventa direttore, Rickey pensa che la squadra abbia bisogno di essere svecchiata. E di apertura alle novità. Il nuovo direttore aveva fama di non essere molto di manica larga. “El Cheapo” è uno dei suoi tanti soprannomi, quello che più di tutti ne descrive la parsimonia. È concreto, spesso duro. Ma anche uno con una visione, del baseball e della vita. “La fortuna è quel che resta dopo il progetto” è una frase che ripete e un concetto su cui basa il suo pragmatismo. Risulta affascinante indagare le ragioni che lo inducono ad andare contro tutto e tutti prendendosi un giocatore nero da mettere in mostra in mezzo ai bianchi. Sfidando una certa America, assecondando le speranze di un’altra. Accontentando le aspirazioni di equità di un’altra ancora. Impossibile dire con certezza quanto lo abbia fatto per calcolo e quanto per senso di giustizia. Facile invece affermare che avesse l’uno e l’altro intento. E che – come spesso negli affari e nella vita – il vero trionfo sia far combaciare interessi e principi. Più praticamente: Jackie Robinson era un giocatore capace di innalzare il rendimento di qualsiasi squadra di Major. E in più ingaggiarlo avrebbe avuto un significato sociale, storico, che avrebbe travalicato ogni risultato sul campo. Di questo Rickey è totalmente consapevole. Probabilmente, anzi, è anche con una certa vanità che prende la decisione. Vuole che la storia parli di lui. E pazienza se per riuscirci c’è da far incazzare, e anche molto, tanta gente, soprattutto nel Sud. In ogni caso è indubbio che Rickey ha un progetto di redenzione per l’America e la ferma volontà di farla finita con 20
una segregazione grottesca. “Il talento è la cromatura del coraggio” è un’altra frase che Rickey ama ripetere. E lui di coraggio ne ha molto. Coraggio e consapevolezza della portata storica di quello che sta per fare. All’inizio tra l’altro non è nemmeno necessariamente Robinson che vuole. Nei suoi piani c’era semplicemente un afroamericano. Cerca il gesto di rottura, prima che un rinforzo tecnico. Potrebbe essere anche Roy Campanella l’uomo da ingaggiare. E sai che storia ancora più incredibile ne sarebbe uscita: nero e italoamericano. I razzisti avrebbero schiumato di rabbia più di quanto hanno fatto per Jackie. Ma Roy è un casinista, gli piacciono le donne e il whiskey, la birra e le carte: è troppo attaccabile. Il primo potrebbe essere anche Satchel Paige, anzi in un certo senso sarebbe giusto fosse lui. Satchel, o ancora, Don Newcombe, ma sono uno troppo vecchio e l’altro troppo giovane. E soprattutto sono entrambi lanciatori: dal monte di lancio potrebbero rispondere alle inevitabili provocazioni e agli insulti tirando addosso agli avversari. No, il primo nero non può essere un lanciatore. E deve essere inattaccabile, sotto ogni aspetto, tecnico e di comportamento. Doveva essere uno come Jackie Robinson. E quindi è partito il piano. Il contatto avviene attraverso uno scout. Clyde Sukeforth chiama Jackie a Chicago, dove è in trasferta coi Monarchs a casa degli American Giants. Lo convince a un incontro spiegandogli che Rickey ha intenzione di allestire una squadra di Negro League, i Brooklyn Brown Dodgers. E il 28 agosto 1945 Robinson è nell’ufficio del suo nuovo general manager, a New York, per sentirsi raccontare che non sarà mai un Brown Dodgers, perché non c’è nessun progetto di allestire una squadra con quel nome. In compenso lì e in quel momento, con un semplice “sì” può entrare nella storia del baseball e dell’America. Un sì scontato, che Rickey non vuole sentire subito. Prima, da teatrante qual è, si lancia in una performance che descrive i peggio21
ri scenari. Storpiando la voce si mette a insultare Jackie, lo chiama “sporco negro”, in una specie di trailer di quel che lo aspetterebbe. Gli chiede se è sposato: si rallegra scoprendo che Jackie è fidanzato e che presto Rachel, sua compagna alla Ucla, l’avrebbe raggiunto dalla California. E poi, a sorpresa, da una delle mensole del suo ufficio estrae un libro. Un libro italiano: La Storia di Cristo, di Giovanni Papini. Rickey ha studiato bene il suo giocatore prima di sceglierlo. Sa del suo passato, delle condanne giovanili, della corte marziale. E da uomo di cultura prende quel testo, in cui Cristo è presentato come un rivoluzionario, un sovvertitore dell’ordine. Ha capito tutto, sa quello che sarebbe successo. E vuole che anche Jackie abbia la stessa consapevolezza. “Qui, ragazzo, non stiamo parlando solo di insulti, qui parliamo di lanci all’altezza della testa, di scivolate coi tacchetti sulle caviglie. Devo sapere se hai il fegato”, lo incalza. E Jackie: “Se ho il fegato per reagire?”. “No, ragazzo, non hai capito. Voglio un giocatore con il fegato di non reagire.” Jackie non reagisce. Ce l’ha il fegato. Lo avrà sempre, insieme al temperamento, alla pazienza, a quella superiorità dimostrata non a parole, né a gesti estemporanei, ma nei fatti. Giorno dopo giorno, come richiede il baseball. Così dice sì a Rickey, come è normale e logico. E comincia a cambiare il corso della storia. Partendo dal francese, dal gioco declinato in quella lingua insolita in Québec, ai Montréal Royals. Che erano la squadra di Triplo A dei Dodgers, un gradino sotto la Mlb. Un inizio nel luogo ideale, perché in Canada, o almeno in quella parte del Canada, la mentalità era molto diversa da quella di certi Stati del Sud. “Non abbiamo mai avuto problemi, mai nessun episodio sgradevole. A Montréal tutti hanno trattato bene Jackie prima di tutto come essere umano”, racconterà molti anni dopo in un’intervista sua moglie Rachel. I guai però sono arrivati già prima, nella fase di avvicinamento a Montréal, nello spring training del 1946. 22
Già solo raggiungerne la sede a Daytona Beach, in Florida, è un’avventura. Dalla California a New Orleans, Jackie e Rachel prendono l’aereo come da programma. Ma da lì non c’è modo di trovare un volo. Per due giorni si scontrano con scuse improbabili proferite per nascondere l’orrore della discriminazione. Fino a quando i coniugi Robinson si rassegnano a viaggiare in autobus, come si ritiene più consono per una famiglia di neri. Ma è a Daytona che comincia qualcosa di persino più vergognoso. Intanto il suo allenatore, Clay Hopper da Greenwood, Mississippi, non è che sia così smanioso di avere un nero in squadra. Sa bene però quali sono le indicazioni e i piani del suo general manager, e quindi prova a fare buon viso (per lui) a cattiva sorte. In una partita capita che Jackie faccia un gran numero in difesa: una presa mirabolante; e Rickey, presente a rimirarsi il suo nuovo pupillo, commenti: “Quale altro essere umano avrebbe potuto riuscirci?”. E Hopper: “Signor Rickey, lei crede davvero che uno sporco negro possa essere definito essere umano?”. Non benissimo, se si considera che sono parole del suo allenatore. Va detto che col passare delle settimane Hopper cambia di molto idea sul suo giocatore. E che anzi poi parlerà benissimo di lui. Però le premesse sono quelle, non tanto incoraggianti. E tutt’attorno non è che vada molto meglio. Una dopo l’altra le partite di spring training vengono cancellate, a Jacksonville, a Richmond, a Savannah. In Virginia, in Georgia ci sono ancora leggi che impediscono ai neri di andare in campo coi bianchi. Quindi niente partite. A Sanford, a partita in corso, con Montréal in vantaggio sui St. Paul Saints, Robinson arriva a casa base, segna un punto. Ma mentre va verso il dugout, la “panchina”, viene fermato dallo sceriffo, entrato in campo con le manette: “O esci, o sospendo la partita”. A DeLand dicono che no, non si può giocare perché l’impianto di illuminazione è rotto. La partita è pomeridiana. 23
Facile immaginare che Jackie non veda l’ora di cominciare per davvero. Di salire cioè al Nord, dove si gioca l’International League, il campionato a cui partecipano i Royals. È il 18 aprile, il giorno in cui per la prima volta un nero è in campo in un campionato professionistico. Non si tratta ancora di Mlb, ma di baseball ufficiale, affiliato alle Major, sì. Montréal è in trasferta al Roosevelt Stadium di Jersey City, casa dei Giants. Ci sono molte decine di giornalisti arrivati anche dal Midwest, chiunque ha la percezione che si tratti di un momento storico. E migliaia di spettatori afroamericani arrivati da New York, persino da Philadelphia e da Baltimore. I Montréal Royals vincono 14-1, Jackie batte la sua prima valida al secondo turno, durante il 3° inning. Di certo è stato un fuoricampo – già di per sé una gran cosa –, ma c’è di più: la leggenda vuole che sia stato un fuoricampo ottenuto nel tentativo di effettuare uno slash. E qui bisogna spiegare: c’è un uomo in prima base, con il risultato ancora incerto, quindi una buona situazione per fare bunt, una smorzata che permetta al corridore di raggiungere la seconda. Solo che Jackie il bunt lo finta soltanto: si mette in posizione e quando il lanciatore rilascia la palla lui riporta in alto la mazza ed effettua lo swing. Slash, si chiama, una finta così, serve a spiazzare la difesa. Però in un margine di tempo di molto ridotto il battitore non ha modo di effettuare un giro di mazza vero, ne esce una versione limitata, normalmente con la sola forza dei polsi. Evidentemente a lui sufficiente per spararla fuori. Ed è quello il degno prologo di un’annata mostruosa. I Royals vincono il campionato. La stagione regolare dominata con 18 partite di vantaggio sui Syracuse Chiefs e sui Baltimore Orioles. E poi la finale conquistata per 4-1 sugli stessi Chiefs. Jackie è il migliore del campionato, votato Mvp, miglior giocatore del campionato, per via di una media battuta di .349. Grazie soprattutto a lui, al DeLorimer Downs, lo stadio di Montréal, alla fine la conta dei biglietti venduti nel corso dell’anno supera il milione. In trasferta i tentativi dei lanciatori 24
di colpire Jackie – molti andati a segno – non si contano. Così come le scivolate sulle sue caviglie in seconda base. Ma è andata bene, non si è mai infortunato, né ha reagito. E con la vittoria della International League, Montréal si guadagna l’accesso alla Junior World Series, la sfida con la vincente dell’American Association, l’altro campionato di Triplo A. Che guarda caso sono i Louisville Colonels, la squadra associata ai Boston Red Sox, proprio quella in cui sarebbe stato impensabile che potesse andare a giocare Robinson, perché nessuno, in Kentucky, è disposto a vedere un nero in campo coi bianchi. E infatti alla vigilia della serie di finale molti giocatori dei Colonels si premurano di comunicare che mai giocheranno contro “quello lì”. E così sarebbe andata, probabilmente, se da Boston i Red Sox non avessero comunicato ai dirigenti di Louisville che in caso di boicottaggio della finale potevano scordarsi il rinnovo dell’affiliazione. A malincuore – si immagina – giocano. E perdono. La serie va a Montréal che conclude trionfalmente un 1946 memorabile. La decisiva gara 6, che chiude i giochi, termina 2-0 per i Royals. Sam Maltin, celebre cronista canadese, scrivendo di Jackie regala una frase rimasta nella memoria: “Quello probabilmente fu il solo giorno nella storia in cui un uomo nero sia fuggito da una folla bianca per il troppo amore, e non per paura di essere linciato”. Nella celebrazione Robinson viene portato in trionfo dai fan che per lui cantano: Il a gagné ses epaullettes. Si è guadagnato le sue spalline. Cioè i gradi, sul campo. E lo stesso Hopper, il manager che a inizio stagione lo aveva definito non-umano, ben sapendo che non l‘avrebbe rivisto l’anno successivo, lo saluta col massimo del rispetto: “È stato un onore essere il tuo allenatore, Jackie. Sei un giocatore completo e un autentico gentiluomo”. Non lo avrebbe più guidato, certamente no. Robinson è già stato anche troppo tempo al secondo livello. È ora che il miglior giocatore di Triplo A salga di categoria. E arrivi finalmente in Mlb. 25
Visto però quello che è successo nello spring training dell’anno prima in Florida, Rickey pensa bene di portare i suoi Dodgers a fare la preparazione a Cuba e a Panama. Ed è lì che alcuni compagni di squadra preparano una petizione. Una presa di posizione per dire che loro non lo vogliono Jackie Robinson. Firmatari della protesta Hugh Casey, Kirby Higbem, Bobby Bragan, Dixie Walker, tutti provenienti da Stati del Sud. Più Carl Furillo, italoamericano della Pennsylvania. E qui entra in scena un altro personaggio straordinario di questa storia: Leo Durocher, l’allenatore dei Dodgers, un filosofo del dugout. Leo è un breviario di vita e di baseball. Dice cose come: “Mostratemi uno che perde con stile e io vi farò vedere un idiota”. O: “I bravi ragazzi arrivano ultimi”. Salvo poi ritrattare parzialmente: “Io non ho mai detto che i bravi ragazzi non vincono. Io ho detto che se giocassi in terza base e mia madre stesse passando per andare a segnare il punto della vittoria le farei lo sgambetto”. Robe così. Durocher da giocatore aveva vinto due World Series, una coi New York Yankees, una coi St. Louis Cardinals. Altre due le avrebbe conquistate da manager, in una carriera molto movimentata. Ordina ai suoi lanciatori di tirare addosso ai battitori avversari, e ha un certo gusto per aggredire verbalmente gli arbitri, e infatti viene espulso 95 volte. Fuori dal campo ha una predilezione per la bella vita, il whiskey e le “signorine buonanotte” che circolano negli hotel delle trasferte. Si sposa quattro volte, e nel 1947 dovrebbe essere l’allenatore dei Brooklyn Dodgers, ma di fatto non lo è, perché viene sospeso per “aver frequentato scommettitori abituali”. Insomma, un gran soggetto. Che però ha molti meriti nell’arrivo di Jackie in squadra. Perché quando viene a sapere della petizione, in piena notte convoca i firmatari nella cucina dell’hotel. Il suo discorso – in effetti memorabile – che potete ascoltare riportato per intero, solo leggermente ripulito, nel più recente film-biografia su Jackie intitolato 42, dev’essere suo26
nato qualcosa come: “A me non importa niente se questo qui è bianco, nero, verde o a strisce come una zebra del cazzo. Se io dico che gioca, lui gioca. Questo ci può far piovere in tasca un sacco di soldi. Quindi prendete la vostra petizione e ficcatevela nel culo. Questo può portarci alle World Series, e noi finora non abbiamo vinto un cazzo”. Ed era vero, i Dodgers non avevano mai vinto le World Series, ci erano arrivati una volta, nel 1941, già sotto la sua guida. Ma le avevano perse contro quelli dell’altra parte dell’East River, gli Yankees. In ogni caso: l’invito di Durocher ai suoi è forte e chiaro. E il direttore, Rickey, aggiunge che chi non è d’accordo con l’ingaggio di Robinson verrà ceduto. A sua volta poi convoca la squadra e si concentra in particolare su uno dei firmatari: su Furillo. E gli urla: “Ma dimmi Carl, credi che in America siano tutti contenti di dare il benvenuto ai siciliani?”. A dire il vero Furillo non ha niente a che fare con la Sicilia, suo padre Michele è arrivato in Pennsylvania da Napoli. E poi lui ha più volte detto di non averla mai firmata, quella petizione. In ogni caso la sfuriata di Rickey va a segno, perché Carl si scusa e non obietterà mai più nulla. Bragan invece chiede di essere mandato in un’altra squadra, e lo accontentano. Lo stesso fa Higben, ma per contraddirlo Rickey se lo tiene. E quindi è fatta. Viene diramato il comunicato stampa che annuncia il passaggio di Robinson dai Montréal Monarchs alla prima squadra della franchigia, i Brooklyn Dodgers. Si tratta solo di attendere, con una pressione che monta ovunque e due partiti schierati. Da una parte i sostenitori di Jackie, e del valore simbolico del suo ingresso in Mlb; dall’altra i suoi detrattori, quelli che lo steccato della segregazione vorrebbero mantenerlo. Il 15 aprile 1947 è il gran giorno, l’Opening Day. Per via della squalifica di Durocher, l’allenatore dei Dodgers ad interim è Sukeforh, che decide per quel giorno, e per tutta la stagione, di schierare Jackie nell’insolito ruolo di prima base. 27
Non interbase, dove c’è Pee Wee Reese, una delle colonne della squadra. Non in seconda, dove Robinson giocava abitualmente, compresa la trionfale annata di Montréal. La stagione inizia all’Ebbets Field, la casa dei Dodgers, a Brooklyn. Di fronte i Boston Braves, e soprattutto il loro lanciatore star, Johnny Sain. Sui gradoni 26.623 spettatori, in tribuna stampa giornalisti da tutti gli Stati Uniti, molti gli inviati dei giornali afroamericani, gonfi d’orgoglio. C’erano già stati neri nella Mlb ante litteram degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento: John “Bud” Fowler, Moses Fleetwood Walker, Frank Stewart, Charles Bannister. Ma poi per decenni il sistema, la consuetudine, prima ancora delle leggi di certi Stati, aveva impedito ai ragazzi afroamericani di giocare dove e come molti di loro avrebbero meritato. Per decenni, e fino a quel giorno. Fino a quando quel ragazzo esce dal dugout e si piazza di fianco al cuscino di prima. Nel suo primo turno di battuta non ottiene un granché, una rimbalzante, con relativo out in prima. Nemmeno al secondo, una volata sull’esterno sinistro. Peggio ancora al terzo: Jackie batte per un doppio gioco avversario, causando la sua eliminazione e anche quella di un compagno già in base. Così, quando si tratta di presentarsi nel box per la quarta volta, siamo al 7° inning coi Braves avanti 3-2. Eddie Stanky, seconda base dei Dodgers, è in prima. E tocca a lui, a Jackie. Che a sorpresa piazza una smorzata lungo il foul di terza. Il difensore di Boston sbaglia il lancio, Sanky avanza in seconda e lui raggiunge la prima, tutti e due salvi. E poi ci pensa Pete Reiser che picchia un doppio per il 5-3 Dodgers. La carriera di Robinson comincia con una vittoria. Passano tre giorni e al Polo Grounds di Manhattan ci sono 37.546 spettatori ad assistere al suo primo fuoricampo, per un bel successo 4-0 a casa dei rivali New York Giants. Per tutto il 1947 alcuni giornali, come i già citati Pittsburgh Courier, il Baltimore Afro-American, il Chicago Defender, de28
scrivono in dettaglio ogni turno alla battuta di Robinson, come se ogni volta fosse il primo passo dell’uomo sulla luna. In compenso il New York Times tratta lo storico debutto di Robinson con sufficienza. La cronaca, firmata Arthur Daley, non lo menziona nei primi paragrafi. Salvo poi garantire nel finale che l’esordiente ha fatto “una forte impressione”. Va ancora peggio in Florida, dove nelle prime settimane i quotidiani non parlano affatto di Robinson. Per loro è come se non esistesse. Per contro un altro cronista, l’afroamericano Wendell Smith del Pittsburgh Courier, viene scelto da Rickey come giornalista-biografo. Smith accompagna Jackie, la moglie Rachel e il piccolo Jackie Junior, nato da poco, in giro per New York. E soprattutto accompagna Robinson in trasferta, resta sempre con lui, perché in molte delle città delle squadre avversarie a lui non è concesso alloggiare negli stessi hotel dei compagni. Né pranzare o cenare con loro al ristorante. Se leggendo questa storia avete pensato che il punto più basso sia già stato toccato, dovrete ricredervi. Forse perché in fondo non c’è un punto più basso. Semplicemente Jackie Robinson ha dovuto mettersi sulle sue spalle larghissime il peso delle peggiori colpe di miseri uomini e di una parte della sua società. E ha dovuto tenerselo quel peso, barcollando senza mai cadere, per buona parte della sua carriera. Sapendo di avere tutte le ragioni. Consapevole anche di essere forte abbastanza per poterlo dimostrare a tutti, a un costo che pochi altri avrebbero saputo sopportare. Ma se invece quel punto vogliamo trovarlo, dobbiamo guardare a una settimana dopo il debutto, alla prima serie casalinga contro i Philadelphia Phillies. Il loro allenatore, Ben Chapman, originario dell’Alabama, era ben noto per le sue idee, e fin da giocatore, anche nei New York Yankees, si era distinto per gli insulti razzisti. Non ai neri, che all’epoca non c’erano, ma agli avversari ebrei. Chiunque poteva immaginare quel che avrebbe detto e fatto una volta che si sarebbe trovato in campo con Robinson. 29
“Sporco negro perché non te ne torni nei campi di cotone?” “Ti aspettano nella giungla, ragazzo nero.” “Torna nella savana.” Così Jackie riporta nella sua autobiografia gli insulti ricevuti da Chapman. Il bello è che la prima di quelle tre gare in casa coi Phillies, i Dodgers la vincono 1-0, e segna proprio Jackie, dopo un singolo e una base rubata. Ma il giorno seguente ricomincia tutto da capo. “Ehi sporco negro, è una palla quella, non un cocomero. Non puoi giocare coi bianchi.” La panchina dei Dodgers insorge in difesa di Jackie. Due giocatori affrontano l’orrido Chapman. Uno è Ralph Branca, probabilmente il migliore tra i lanciatori della squadra. È figlio di un’ebrea ungherese e di un tranviere calabrese, di razzismo e di cretini se ne intende parecchio. Branca quindi esce e punta il dugout di Philadelphia. Da dove gli arriva la sua dose di insulti: “dago” e “mangiaspaghetti”. Medaglie al merito. Con lui c’è Eddie Stanky, nato in Alabama, come Chapman, che lo affronta e lo zittisce. Gli improperi dell’allenatore dei Phillies però un merito ce l’hanno. Sono così evidenti e riportati dai giornali, che la Lega deve prendere posizione. Il commissioner, Hap Chandler, diffida chiunque dal proseguire con condotte del genere. E promuove un decreto che introduce multe per chi insulta Robinson. Non è una reazione scontata. In un certo senso è una vittoria per Jackie, per Rickey e per la loro causa. Ma non attenua le reazioni di molti tifosi e spettatori. Ben presto Robinson comincia a ricevere centinaia di lettere alla settimana nelle sede dei Dodgers. Alcune di sostegno, molte di insulti, qualcuna di minacce. Minacce di morte. E di far pagare a Rachel e al piccolo Jackie Junior la sua colpa di giocare coi bianchi. La presa di posizione del commissioner Chandler inizialmente non scoraggia nemmeno le società rivali di Brooklyn. Philadelphia, in particolare, il cui direttore generale, Herb Pennock, alla vigilia della serie che i Dodgers devono giocare a casa dei suoi Phillies, a maggio, telefona a Rickey: “Non puoi portare qui quel negro con il resto della tua squadra, Branch. Non siamo 30
preparati a questo genere di cose”. Ma di fronte alla risolutezza dei Dodgers, dello stesso Robinson e – particolare decisivo – anche della National League, le proteste poco a poco sono costrette a rientrare. Non solo quelle di Philadelphia, anche quelle dei St. Louis Cardinals, accusati di aver ordito un (mai del tutto dimostrato) tentativo di boicottare i Dodgers. Del resto Jackie scriverà, molti anni più tardi, che le gentili frasi e le galanti attenzioni a lui riservate dagli avversari di Philadelphia in realtà non erano molto peggio di quelle trovate praticamente su tutti i campi. E non erano nemmeno così diverse dalla strisciante ipocrisia di certi suoi compagni di squadra. Non solo in trasferta non poteva mangiare negli stessi ristoranti né alloggiare negli stessi hotel dei Dodgers. Ma, senza che ci fossero regole in merito, non faceva nemmeno la doccia con loro. Fino a quando un compagno di squadra si rompe le scatole e prende posizione invitandolo a fare la doccia con loro, come si sente dire da Branca, un po’ semplificando, anche nel film 42. Roger Kahn nel suo libro The Era scrive che a sovvertire l’abitudine fu Al Gionfriddo, arrivato dai Pittsburgh Pirates a stagione in corso. Semisconosciuto, e a sua volta ignorato per la scarsa rilevanza e forse anche per le origini italiane, Gionfriddo era scioccato nel vedere Robinson aspettare il suo turno. E un giorno in spogliatoio avrebbe detto: “Jackie viene sotto la doccia con me, e se a questi ragazzi del Sud la cosa non sta bene, che vadano all’inferno”. È in questo contesto che un abbraccio diventa simbolo dell’intera vicenda umana e civile, prima ancora che sportiva, di Robinson. Nel fermo immagine scelto per la locandina di 42, e materializzato nella statua posizionata a Coney Island, nello stadio di Minor League dei Brooklyn Cyclones, umili eredi di quei grandi Dodgers (oggi trasferitisi a Los Angeles), Jackie è in piedi, attorno al collo, in un gesto di protezione e solidarietà, ha il braccio di Pee Wee Reese, l’interbase, la star della squadra. 31
Secondo molti quello storico abbraccio avviene a Cincinnati il 13 maggio 1947, nella prima stagione di Jackie in Mlb. A casa dei Reds il pubblico lo sommerge di insulti. E allora Pee Wee che era ai Dodgers già da otto stagioni, conosciutissimo e stimato anche dagli avversari, prima dell’inizio di un inning, in mezzo alla pioggia di insulti attraversa il diamante, dalla sua posizione di interbase alla prima. Si ferma accanto a Jackie, lo abbraccia e resta lì. Fermo. Come a dire: “Urlate quel che volete, tanto quello che dite non ha alcun senso. Non esiste nessuna solidarietà bianca, la mia solidarietà, e quella della mia squadra, è al nostro compagno. Quei tempi sono finiti”. Non ci sono certezze che sia andata davvero così visto che molti giornali non riportarono l’evento, anche se Lester Rodney ne è sicuro, ma lui lavorava per il Daily Worker, un giornale comunista. Secondo altri, tra cui lo stesso Robinson, l’abbraccio sarebbe avvenuto sì, ma un anno dopo, a Boston, in una partita contro i Braves. Altri ancora sostengono che Pee Wee abbia abbracciato più volte Jackie nei primi difficili anni in Mlb. In ogni caso, qualsiasi sia la verità, quei due uno di fianco all’altro sono entrati nell’immaginario. E questo è quel che conta. Pazzesca semmai è la storia della statua che rappresenta quell’abbraccio. L’ha inaugurata nel 2005 l’allora sindaco di New York Michael Bloomberg. Ma come accade sempre per progetti del genere, l’artista che l’ha realizzata aveva diversi bozzetti tra cui scegliere. E l’amministrazione di New York voleva che la decisione fosse condivisa. Così i responsabili hanno convocato le parti in causa in Comune una mattina di settembre del 2001, piuttosto di buonora. C’era Rachel, la vedova di Jackie, e con lei c’erano Dorothy e Mark Reese, vedova e figlio di Pee Wee. Era martedì 11 e mentre guardavano i bozzetti, prima di dire quale avrebbero voluto, i responsabili presenti sono stati costretti a interrompere tutto. Erano stati avvisati che un aereo si era appena schiantato contro la Torre Nord del World Trade Center. 32
Meglio tornare al 1947. Jackie tra giugno e luglio infila una striscia di 21 partite con almeno una battuta valida. E il 24 di giugno al Forbes Field di Pittsburgh mette il suo marchio di fabbrica sulla partita, sul campionato e sul baseball. Al 5° inning, sul 2-2, batte un singolo. Dalla prima base vola direttamente in terza su valida di Furillo. E una volta lì, prima favorisce la rubata ritardata dello stesso Furillo – che così arriva in seconda – e poi si inventa l’impensabile. Il lanciatore dei Pirates, Fritz Ostermueller, con corridori in seconda e in terza, opta per il caricamento, quello che si fa quando si pensa non ci sia nessuno in grado di rubare una base, come peraltro suggeriva la logica. Ma Jackie sapeva andare oltre la logica. E quando Ostermueller si muove per lanciare, parte verso casa base. Il lancio arriva prima, ovviamente, ma è esterno, alla destra del catcher. E la frazione di secondo necessaria al catcher per girarsi e toccare l’avversario permette a Jackie di scivolare sul piatto. Salvo! E 3-2 per i Dodgers. Che poi chiudono 4-2, e con 33 vittorie (contro 26 sconfitte) salgono in testa alla National League. Per restarci, fino alla fine. Peraltro con grandi numeri di Robinson, primo della squadra per numero di valide (175), terzo per media battuta (.296), primo a pari merito per numero di fuoricampo (12, come Reese). Tutti gli Stati Uniti, vedendolo giocare, hanno la chiara e netta dimostrazione di quanto sia assurdo fare a meno degli afroamericani in Mlb. Non per niente già a 1947 in corso, il 4 luglio, i Cleveland Indians rompono gli indugi e dai Newark Eagles delle Negro Leagues ingaggiano Larry Doby. Dunque i Brooklyn Dodgers avevano ragione su tutta la linea. E con Jackie Robinson finalmente in squadra arrivano per la seconda volta nella loro storia alla World Series. Anche allora, come già nell’unico precedente del 1941, in una “Subway Series”: una serie di finale in cui si va in trasferta in metropolitana. Nel Bronx, contro gli Yankees. Una World Series tutta newyorkese che sul fronte etnico, come grande tema, non ha solo quello del primo nero. Come 33
titolò il quotidiano nella nostra lingua Il Progresso Italiano, in campo c’erano dieci italiani. Ed era vero, sebbene non siano mai stati tutti titolari contemporaneamente. Negli Yankees c’erano Joe DiMaggio, Yogi Berra, Vic Raschi, Phil Rizzuto e Frankie Crosetti; nei Dodgers Ralph Branca, Cookie Lavagetto, Carl Furillo, Al Gionfriddo e Vic Lombardi. Complessivamente, nelle sue prime World Series Jackie batte sette valide (su 27 turni), con due doppi e tre punti portati a casa. Purtroppo però senza valide nella decisiva gara 7, in trasferta, vinta dagli Yankees 5-2. Jackie chiude a 0 su 4 e non c’è lieto fine. Eppure è stato un trionfo. In un certo senso il punto di arrivo della parte più umana della vicenda di Jackie Robinson. La più straordinaria. Al termine di quell’eccezionale 1947, il ragazzo che era arrivato sfidando i pregiudizi, la stupidità, l’ipocrisia di una certa parte del baseball se ne va in vacanza con il premio di Rookie of the Year, miglior esordiente dell’anno. E da lì in avanti la presenza dei neri in Mlb, se non la normalità, diventa via via sempre meno strana. Come Doby a Cleveland, sempre nel 1947, nei Browns di St. Louis debuttano i neri Hank Thompson e Willard Brown detto “Homerun”. E nel 1948 arriva anche l’uomo che tutti aspettavano, il fenomeno che furoreggiava ovunque ma che fin lì era rimasto escluso dalla Mlb: Satchel Paige esordisce con i Cleveland Indians. Ha 42 anni, ne sono passati 22 dal suo debutto nelle Negro Leagues coi Chattanooga Black Lookouts. E, credeteci o no, lancerà la sua ultima, isolata, partita nelle Majors nel 1965 coi Kansas City Athletics, a 59 anni. Sempre nel 1948 i Dodgers danno il via libera anche allo spirito libero di Roy Campanella, ingaggiato già nel 1946 subito dopo Jackie, lasciato nelle Minors mentre lui apriva la strada. E finalmente lanciato verso una carriera strabiliante. Il padre di Roy, John, era figlio di siciliani; la madre, Ida Mercer, era afroamericana del Maryland. Ricevitore di ruolo, debutta con i Dodgers nell’Opening Day del 1948 e ci rimane fino 34
al 1957. Vincendo per tre volte il premio Mvp della National. Cioè in tre stagioni Roy Campanella, italo-afroamericano, è stato il miglior giocatore del campionato. A 36 anni, mentre era in attività, un incidente stradale lo ha lasciato su una sedia a rotelle. In quel momento aveva eliminato il 57,4% dei corridori che hanno cercato di rubare la seconda base con lui dietro al piatto. Da allora sono passati quasi 65 anni, abbiamo visto Johnny Bench e Carlton Fisk, Gary Carter, Pudge Rodriguez e Yadier Molina, ma nessun catcher in tutta la storia si è mai più nemmeno avvicinato alla sua media di colti rubando. Nel 1949 gli stessi Dodgers buttano sul monte il giovane fenomeno Don Newcombe, e i rivali New York Giants fanno debuttare Monte Irvin. Il muro è abbattuto. Il baseball, lo sport professionistico, l’America, sono cambiati. Per sempre. Ed è quindi anche naturale che tutta quella pressione su Robinson si allenti. Non di colpo, non per sempre. Le lettere di protesta, le discriminazioni in certi hotel e in certi ristoranti continuano ancora a lungo. Ma è vero anche che già nel 1949, il 12 luglio, all’All Star Game per la prima volta si vedono giocatori neri, ben quattro: Doby nella selezione della American League; il trio dei Dodgers, Robinson-Campanella-Newcombe in quella della National. Alti e bassi. Miserie e slanci verso un’integrazione che lo sport anticipa rispetto ad altri ambiti della società. Ancora nel 1951, per dire, capita un fatto al tempo stesso inquietante e poetico. A Jackie arriva la milionesima lettera di minacce: “Ti uccidiamo in campo”. L’esterno Gene Hermanski trova la soluzione: “Magari domani ci mettiamo tutti il tuo numero, il 42, così non potranno distinguerci”. Una meraviglia. Che come vedrete avrà un seguito fino ai giorni nostri. Nel frattempo Jackie gioca la sua normale carriera da atleta eccezionale, se così si può dire. Nel 1949 batte .342, ruba 37 35
basi e porta a casa 124 punti. Non hanno scelta: devono dargli il premio di Mvp, il miglior giocatore di tutta la National League è il ragazzo nero con cui tanti all’inizio non volevano nemmeno dividere il campo. Buddy Johnson gli dedica una canzone: Did you see Jackie Robinson hit that ball? Lo hai visto battere quella palla? Testo e musica dimenticabili, ma ugualmente arriva al tredicesimo posto della hit parade americana. E intanto i Dodgers vincono il Pennant, il campionato della National League, ma alla World Series ritrovano gli Yankees. E perdono ancora. Arrivano così le stagioni 1950 e 1951. Dici 1951 e a qualunque appassionato di baseball viene in mente lo the shot heard round the world, il fuoricampo più famoso della storia (grazie anche a DeLillo e al suo Underworld), battuto da Bobby Thomson al 9° inning del match di spareggio per il titolo della National League contro i Dodgers. Ma non molti sanno come ci sono arrivati, i Dodgers, a quello spareggio. E cioè salvandosi alla 154esima e ultima giornata di campionato contro Philadelphia. Non una passeggiata, visto che i nove inning canonici terminano sull’8-8. Tocca andare avanti fino al 14°, quindi, quando Jackie la spara fuori, oltre il muro dello Shibe Park: 9-8. “I Dodgers vanno allo spareggio”, urla il radiocronista, un ragazzo che si chiamava Vin Scully e che avrebbe commentato le partite dei Dodgers in radio e in tv fino al 2016. Spareggio da giocare al meglio delle tre partite e perso su quel leggendario fuoricampo al 9° inning di gara 3. Jackie in quelle tre gare ha battuto 5 su 10. Niente Pennant nel 1951, quindi. Ma i Dodgers lo conquistano sia nel 1952, sia nel 1953. Senza però mai vincere l’ultimo atto, senza mai prendersi le World Series, perché ogni volta lì, sul più bello, ci sono sempre i maledetti Yankees a rovinare tutto. Fino al 1955 e al trionfo della perseveranza e – se lo concedete – della giustizia. Ancora un successo nella National, ancora una World Series da giocare. Ancora contro gli Yankees. E contro chi, se no? 36
Solo che questa storia, fino in fondo, ha un maledetto retrogusto. Nel 1955 Jackie ha la sua stagione più dura. È arrivato tardi in Mlb, ricordate? Nel 1955 ha 37 anni e batte solo .256. La serie per il titolo contro gli Yankees arriva alla bella, gara 7. E chissà mai che faccia avrà fatto quando un paio d’ore prima di cominciare la partita, nel dugout degli ospiti dello Yankee Stadium, sul foglio del lineup, l’ordine di battuta, Jackie legge: seconda base Jim Gilliam, terza base Don Hoak. I due ruoli in cui avrebbe potuto giocare sono occupati. Il manager Walter Alston lo tiene fuori da gara 7, che i Dodgers vincono 2-0 per il loro primo, leggendario, trionfo alle World Series. Allora Robinson si concede ancora un anno, il 1956. La sua media battuta si alza fino a .277. Ma quei momenti di debolezza, quei cali della vista, erano i primi segnali del vero, grande avversario da affrontare da lì in avanti: il diabete. Jackie contribuisce a riportare la sua squadra a vincere la National e dunque alla World Series. Ma gli Yankees di quegli anni potevano crollare una volta, non due. E così la sua carriera straordinaria si conclude con sei presenze alle World Series, e una sola vittoria. Perché sì, nel 1957 con i Dodgers si era anche accordato per la cessione agli odiati rivali, i New York Giants. Ma sarebbe stata un’operazione talmente incredibile che non si è concretizzata. Jackie si ritira. Il giocatore non c’è più, rimane il simbolo. La vicenda di Jackie viene poi raccontata in sette lungometraggi. Il primo film, The Jackie Robinson Story, lo girano che ancora sta giocando, nel 1950. Robinson è anche su tre francobolli emessi dalle Poste degli Stati Uniti. È su una moneta speciale da un dollaro, d’argento. È ovviamente nella Hall of Fame del baseball e nella lista dei 100 migliori giocatori di sempre di Sporting News. Ma anche – ed è molto più significativo – tra le 100 personalità più eminenti, e influenti, del Ventesimo secolo secondo il Time. 37
Alcuni di questi grandi onori Jackie, malato, affaticato, fa in tempo a viverli, la maggior parte purtroppo no. Deve subire anche un altro dramma, il peggiore. Il 17 giugno del 1971 perde il suo primo figlio, Jackie Junior. Era stato in Vietnam, era tornato, aveva avuto problemi seri di droga, ma li aveva superati. Muore in un incidente stradale a 24 anni. Pochi mesi dopo Jackie vede i Dodgers ritirare il suo numero 42. Poi se ne va anche lui, per un attacco di cuore, complicanza della sua condizione ormai devastata dal diabete. Era nella sua casa di North Stamford, in Connecticut. Aveva 53 anni. “Una vita è importante solo nella misura in cui ha avuto impatto nelle vite degli altri”. Non si sa esattamente quando e a chi la disse, ma questa sua frase riassume tutto. Poche altre vite, intese quantomeno come carriere sportive, hanno avuto l’impatto che ha avuto la sua. Sulle vite di centinaia, migliaia di atleti neri – e non solo – nello sport professionistico degli Stati Uniti. E quindi, di conseguenza, di tutto il mondo. Le onorificenze, le strade e gli stadi che gli hanno dedicato in tutti gli Stati Uniti (e a Montréal) non si contano. L’amata moglie Rachel è ancora di questo mondo, ha 96 anni. E con lei ci sono gli altri due loro figli, Sharon e David. Il resto della sua famiglia è la Mlb che il 15 aprile 1997 ritira il suo numero 42 da tutto il campionato. Jackie, che aveva giocato solo coi Dodgers, diventa di tutti. Poi succede che nel 2007, per il sessantesimo anniversario del suo debutto, Ken Griffey Junior chiede al commissioner Bud Selig: “Che ne dice se per un solo giorno metto il 42 di Jackie?”. “È una buona idea, ma dobbiamo chiedere il permesso a Rachel.” La moglie di Robinson ne è orgogliosa e dà l’assenso, a patto che la possibilità sia concessa a tutti. Così da allora sempre più giocatori, il 15 aprile di ogni anno, si fanno fare divise col numero 42. Nelle ultime stagioni ci sono state squadre intere, i Los Angeles Dodgers, i New York Mets, gli 38
Houston Astros, i New York Yankees, i Baltimore Orioles, ma anche i Pittsburgh Pirates, i Philadelphia Phillies e i St. Louis Cardinals, tutte di soli numeri 42. Ogni anno, il 15 aprile, nessuno ci può più distinguere l’uno dall’altro. Siamo tutti Jackie Robinson.
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Jackie Robinson, Joe DiMaggio, Yogi Berra, Derek Jeter... Dieci storie di campioni, di ieri e di oggi, simboli del nostro tempo e del mondo dello sport. Toglietevi dalla testa l’idea che il baseball sia noioso: non esiste un campionato più ricco di sogni, speranze, imprese e vicende umane della Major League. Sul diamante si gioca tutti i giorni. E ogni volta si ricomincia da zero. Così che anche i più grandi campioni imparano a essere umili, ad accettare l’errore e la sconfitta. Non c’è nulla di più americano eppure, o forse proprio per questo, i suoi protagonisti sono figli di immigrati italiani, afroamericani, sudamericani. È uno sport dove fino all’ultimo inning tutto può succedere. Ed è proprio questo che rende il baseball tanto simile alla vita. Con la prefazione di Mike Piazza
Mario Salvini nato a Parma nel 1969, vive a Milano, dove lavora per La Gazzetta dello Sport. Da sempre si diverte con il baseball e con altri sport vari ed eventuali, spesso di nicchia. Ne racconta storie e personaggi sul blog Che Palle! del sito Gazzetta.it e sulle pagine social a esso collegate.
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