Che pasticcio, Mr. Alce!

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Illustrazioni di

Traduzione di Claudia Valentini



La sera della terza domenica di dicembre Mr. Alce precipitò nella nostra casa di Finkenwaldweg. Durante il periodo dell’Avvento ci piace suonare insieme i canti natalizi, e per questo eravamo tutti riuniti in salotto: Kiki seduta al pianoforte, la mamma con il flauto, e io, addetto al canto. Ho, infatti, una bellissima voce bianca. Nell’aria c’era un gran profumo di bucce d’arancia, che la mamma aveva sistemato sui termosifoni accesi. La luce calda delle candele si rifletteva sui vetri delle finestre, mentre fuori, grossi fiocchi di neve si posavano a terra soffici e leggeri. Dentro di me sentivo crescere tutta l’attesa del Natale.

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“Tu scendi dalle stelle, o re del cielo”, avevo appena intonato. La mamma aveva abbassato il flauto e si era lanciata in un elegantissimo: “E vieni in una grotta al freddo e al gelo”. A scendere dalle stelle, però, non fu il re del cielo, bensì Mr. Alce. Si udì un frastuono assordante e un attimo dopo lo vedemmo sfondare il soffitto del salotto. O, a voler essere più precisi, sfondò prima il tetto e poi il soffitto del salotto. Il pavimento ci tremò sotto i piedi. La mamma e Kiki presero a urlare.



In una grandinata di tegole e mattoni, una cosa enorme e marrone atterrò su Søren, mandandolo in mille pezzi. Søren era il nostro tavolino dell’Ikea. Le candele dell’Avvento e i biscotti natalizi al cocco che c’erano appoggiati sopra fecero la stessa fine. Poco male per i biscotti: li aveva preparati la nonna, che ce li aveva spediti per posta, e come al solito erano tutti bruciacchiati. Ogni anno la mamma li tiene esposti come decorazione fino alla Vigilia di Natale, poi io e Kiki li portiamo alle anatre del parco. E quando la nonna viene a trovarci durante le feste, noi le diciamo sempre che erano buonissimi. A me non piace tanto raccontare bugie, ma bisogna pur pensare anche alle anatre del parco. “Santo cielo, ma che cos’è?” sussurrò la mamma quando la nuvola di polvere si fu posata. La cosa enorme e marrone giaceva immobile tra i detriti, i resti disintegrati di Søren e le briciole dei biscotti. Aveva le corna, e quattro zampe, ognuna delle quali indicava un punto cardinale diverso. “È un alce”, disse Kiki. “E direi che è un maschio.” Davvero un colpo da maestro. Era appena riuscita

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a dimostrare per l’ennesima volta che in fatto di cultura generale si poteva sempre fare affidamento su di lei, anche in una situazione di emergenza come quella. E forse, per questo, si sarebbe pure aggiudicata un regalo in più sotto l’albero. Quando hai una sorella maggiore, la vita può essere davvero ingiusta. Le corna dell’alce sembravano foderate di morbido velluto. Davano una sensazione di caldo e di freddo al tempo stesso. “Bertil Wagner, tieni giù le mani da quella bestia!” mi ordinò la mamma. E io mi ritrassi subito. Mamma ha il terrore delle pulci e dei pidocchi, infatti non mi fa tenere neanche un cane. “E tu come lo sai che è un maschio?” chiese poi a Kiki. “Le femmine di alce non hanno le corna”, spiegò mia sorella. “Ah sì…” disse la mamma annuendo. “Ovviamente.” Ovviamente! Per fortuna che a sentirla non c’era Gerlinde Woltershausen. È la nostra vicina di casa e, da quando la mamma si è separata da papà, è diven-

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tata anche la sua migliore amica. Tutti i giovedì va alle riunioni del collettivo femminile e si batte per l’emancipazione delle donne. Mamma alzò lo sguardo verso la gigantesca voragine scura che si era aperta nel soffitto, dai cui bordi continuavano a staccarsi pezzi d’intonaco. “Ma gli alci possono volare?” domandò poi dubbiosa. “No”, rispose Kiki. “Così come non possono fare trekking, immersioni o giocare a tennis. E nemmeno parlare.” Come se avesse atteso proprio quel momento, l’alce aprì gli occhi. “Ti sbagli, bambina!” bofonchiò. “Io parlo ben cinque lingue, e tutte correntemente!”


“Sarà”, ribatté Kiki impassibile. “Ma con un fortissimo accento americano!” Detestava non avere sempre l’ultima parola. Mamma, intanto, era rimasta impalata come una candela, come se si fosse ingoiata il flauto. Non faceva che spalancare e richiudere la bocca. Non era abituata a vedersi piombare in casa alci parlanti.


“Salve, sono Mr. Alce”, si presentò l’alce. E aveva una voce vellutata proprio come le sue corna. “Della famiglia dei cervidi.” Si rimise in piedi drizzandosi sulle zampe e si fece ancora più grande. Con la testa gli arrivavo a malapena alla gola, da cui pendeva una sacca con un ciuffo ispido che sembrava una barba. “I cervidi sono ruminanti e cambiano le corna ogni anno”, spiegò Kiki senza che nessuno le avesse chiesto nulla. “Ovviamente”, ripeté la mamma. “Come, ad esempio, anche le renne”, aggiunse Kiki. “Ovviamente”, disse la mamma per la terza volta. Mr. Alce si acquattò e incassò la testa fra le spalle. “C’è per caso una di quelle bestiacce qui?” sbuffò rabbioso. “Ovviamente no!” rispose la mamma. “Adesso, sarebbe così gentile da spiegarci come ha fatto a finire proprio qui in casa nostra?” La ammirai molto. Riusciva a essere cortese anche con gli ospiti che le riducevano il salotto in macerie, e che avevano il nostro Søren sulla coscienza.

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“Sono precipitato”, rispose Mr. Alce. “Ho preso male una curva sopra l’Irlanda.” “Stava volando sopra l’Irlanda?” “In verità ero diretto in Scandinavia. E mentre svoltavo c’è stato l’incidente.” “Ma l’Irlanda è parecchio lontana da qui.” “È la forza centrifuga”, s’intromise Kiki. “Doveva andare parecchio veloce.” Era davvero imbarazzante come cercasse di sfoggiare tutto il suo sapere davanti a Mr. Alce. Mamma le chiese di andare a prendere la macchina fotografica per fare una foto all’alce e al luogo dell’incidente, da mandare all’assicurazione. “Piombare giù dal tetto di fronte a una donna così bella… Sono davvero mortificato, madame”, disse Mr. Alce con fare galante. “Il capo ovviamente risarcirà tutti i danni.” Il capo? Era passato molto tempo dall’ultima volta che la

mamma

aveva

ricevuto

un

complimento.

Magari è per questo che le sfuggì l’ultima frase. “Ah, ma sono solo un paio di buchetti, non si preoc-

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cupi”, disse. Le guance le erano diventate tutte rosse. “Certo, però, comincia a fare freddino.” Dai “buchetti”, infatti, entrava già un turbinio di fiocchi di neve. Venivano giù a centinaia. Nelle foto fatte da Kiki quella sera si vede bene quanto fosse bello. Finite le foto, la mamma decise che era il caso di tappare i buchi per non finire tutti sepolti dalla neve. “L’aiuterei volentieri con le riparazioni”, disse Mr. Alce. “Ma temo di essermi preso una bella storta alla zampa anteriore sinistra.” Musica per le orecchie della mamma! Lei si appassiona sempre, quando qualcuno si fa male o sta poco bene. Fosse per lei, avrei la varicella o gli orecchioni almeno tre volte l’anno. “Allora, fin quando non si sarà rimesso, starà nel nostro garage”, ordinò a Mr. Alce. Il garage era vuoto perché, con la separazione, la macchina l’aveva tenuta papà. “E ora vengo subito a farle un bell’impacco di ghiaccio.” A quella fortunata di Kiki toccò aiutare Mr. Alce a uscire di casa tutto zoppicante, mentre a me il

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noiosissimo compito di arrampicarmi con la mamma fin sul tetto. Sistemammo delle tavole per chiudere lo squarcio nel soffitto del salotto e inchiodammo un telo di plastica sotto a quello nel tetto. “Ma Mr. Alce può rimanere con noi?” chiesi poi alla mamma. “Be’, di sicuro fino a quando non gli sarà tornata a posto la zampa”, mi rispose lei. “Poi vedremo.” Papà una volta mi ha detto che non bisogna mai augurarsi che succeda qualcosa di brutto a qualcuno. Eppure, mentre piantavo un chiodo nel telo di plastica, sperai tanto che la zampa di Mr. Alce guarisse nel modo più lento possibile. Quella sera andammo tutti a dormire molto tardi. Sebbene fossi parecchio stanco, non riuscivo a prendere sonno. Dal tetto arrivava lo svolazzio leggero del telo di plastica agitato dal vento. Quando fui sicuro che Kiki e la mamma si fossero addormentate, presi la torcia, m’infilai il cappotto e attraversai il giardino ricoperto di neve fino a raggiungere il garage. Anche Mr. Alce era ancora sveglio. Strizzò gli occhi

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davanti al fascio di luce della torcia. La zampa sinistra era avvolta in tre asciugamani colorati. “Ho una domanda, Mr. Alce”, gli dissi. “Ti risponderò se tu prima mi dai una grattatina dietro l’orecchio destro, ragazzo mio”, fece lui. Aveva le orecchie più grandi della mia mano, il manto lì dietro era morbido e caldo. L’odore ricordava un po’ quello dello zoo o di una stalla per cavalli. Mr. Alce prese a grugnire beato. “Dov’è tuo padre?” mi chiese poi dopo un pochino. “Non lo so. Gerlinde Woltershausen dice che è andato a quel paese, ma quale di preciso non saprei.”



“Ah, sarà in campagna, allora. E ti manca?” Al pensiero di papà, mi venne uno strano mal di pancia e prese a girarmi la testa. Non era una bella sensazione. E non mi andava di parlarne. “Mr. Alce”, tagliai corto. “Chi è il capo?” “Il capo…” bofonchiò lui fra i denti. Zoppicò fino alla porta del garage, poi alzò lo sguardo verso il buio del cielo invernale. “Non l’ho già detto? Il capo è Santa Claus, ovvio.” “San Tachì?” “Santa Claus”, ripeté Mr. Alce. Si voltò verso di me, così ora riuscivo a guardarlo dritto in quei suoi bellissimi occhi marroni. “O, almeno, questo è il nome che ha in America. Voi lo chiamate Babbo Natale.”

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