di Mac Barnett Illustrato da Mike Lowery Traduzione di Sara
Ragusa
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Era il 1989, un sabato. Mi trovavo in un posto in cui passavo buona parte dei sabati nel 1989: il Minigolf Golden Tee. Il Minigolf Golden Tee è un luogo vero, in una via vera, Castro Valley Boulevard, che si trova in una città vera, Castro Valley. Puoi controllare. Il Minigolf Golden Tee è un vero minigolf, pieno di tutte le cose finte che si trovano nei veri minigolf: veri finti mulini, vere finte pagode e tre veri finti draghi con lunghi colli che spuntano da un vulcano. Castro Valley è in California, c’è sempre un bel sole e il cielo azzurro. Si sta quasi sempre bene all’aperto, e questo è molto positivo se ami il minigolf. 9
Da piccolo il minigolf mi piaceva abbastanza. I videogame invece li adoravo. E al Minigolf Golden Tee c’era una sala giochi. Fuori dalla sala giochi era un bel giorno di primavera. Dentro era buio e c’era odore di moquette vecchia. Sopra al bancone nell’angolo c’era una scritta al neon rosa che diceva SNACK BAR. Vendevano un trancio di pizza per un dollaro (ma non era buona). Si sentivano i dischi di plastica dell’hockey da tavolo che sbattevano contro i bordi. Palline di gomma dura rotolavano su per gli Skee Ball e cadevano nei buchi con un rumore sordo. I giochi facevano bip. I bambi-
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ni gridavano. I giochi facevano bop. I bambini gridavano di nuovo. C’era un’area con dei videogiochi che sputavano una lunga striscia di biglietti che potevi scambiare con premi di plastica: ragni finti o palline. I premi erano roba da quattro soldi. I giochi con i biglietti erano per i polli. Io ero lì per i videogiochi che per un quarto di dollaro ti davano tre vite e l’unico premio era un posto in classifica. Non giocavi per vincere delle palline, ma per essere il migliore. I videogiochi erano disposti in file ordinate, come le colonne di un tempio in rovina. Sugli schermi brillavano le parole INSERT COIN, che lampeggiavano nel buio. Io ero nell’angolo, oltre ALTERED BEAST, oltre EXCALIBUR, oltre TEENAGE MUTANT HERO TURTLES e GHOULS ‘N GHOSTS.
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Erano tutti bei giochi, ma a me interessava SPY MASTER 2: ARCADE EDITION. SPY MASTER 2: ARCADE EDITION era il sequel di SPY MASTER, ed esisteva solo nella versione da sala giochi. La grafica era migliorata, le missioni più folli. Ma quel gioco era conosciuto soprattutto perché era molto molto difficile. Impossibile. Imbattibile. Ed ecco che io ero proprio là, di fronte al mostro finale, con tre vite e un power-up. Sentii dire a qualcuno dietro di me: “Ehi, questo ragazzino sta per finire SPY MASTER 2!”.
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Salto. Pugno. Salto. Salto. Pugno. Ero curvo sul joystick da tre ore, sudavo e schiacciavo pulsanti. Quella mattina, quando mi aveva portato al Minigolf Golden Tee, la mamma mi aveva dato una banconota da cinque dollari. Quattro dollari li avevo cambiati in monetine da un quarto, e poi avevo speso l’ultimo dollaro per un trancio di pizza. Il piatto unto era ancora appoggiato sopra al videogioco.
Alle mie spalle si era radunata una folla. “Ha ancora tre vite”, disse un ragazzino. “E un power-up”, aggiunse un altro. “Non ho mai visto nessuno finire questo gioco”, disse un uomo sulla quarantina in canottiera che stava sempre in sala giochi. Cercai di non farmi distrarre dal subbuglio. Il mostro finale di SPY MASTER 2 era la Super Spia, un uomo del Kgb gigantesco con un completo nero e una valigetta di metallo. Lo scontro si svolgeva sull’ala di un aeroplano russo. 13
Io schiacciavo furiosamente il pulsante del salto per schivare gli attacchi della Super Spia. “Ehi, come ti chiami?” mi chiese qualcuno. “Mac.” Non spostai gli occhi dallo schermo. “Matt?” Succedeva spesso. “Mac”, ripetei. “M-A-C.” “Ehi ma sono solo tre lettere! Puoi scrivere il nome intero in classifica!” Era vero, ed era anche l’aspetto migliore di avere un nome di tre lettere negli anni Ottanta. Se avessi finito il gioco, sarei stato al primo posto. Chiunque fosse entrato al Minigolf Golden Tee avrebbe saputo che ero il migliore. La Super Spia mi lanciò un candelotto di dinamite. Io ci saltai sopra e sferrai un pugno nello stomaco della spia. La folla acclamava il mio nome. “Dai che lo batte!” gridò l’uomo in canottiera. “Fico!” disse un bambino. “Naa, finirà male.” 14
Riconobbi quella voce. Era Derek Lafoy.
Derek Lafoy era un mio compagno di scuola. Mi chiamava “Mac Berretta”. Mi aveva lanciato le scarpe da ginnastica sul tetto della scuola. Aveva un serpente domestico in uno scintillante terrario rosso di vetro che teneva in un angolo della camera. Avevo saputo del serpente da alcuni bambini che l’avevano visto, perché io non ero mai stato a casa di Derek. Non mi aveva mai invitato alle sue feste di compleanno (se lo avesse fatto, ci sarei andato). “Derek”, dissi. “Cosa ci fai qui?” “È la mia festa di compleanno”, rispose. “Ah”, dissi io. Mi arrischiai ad alzare gli occhi dallo schermo e vidi molti dei miei compagni di classe tra la folla che mi circondava. Tiffany, Brandon, Hendrick, tutte e due le Ashley.
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Quello poteva essere il mio momento di gloria. Dovevo vincere. La Super Spia stava lanciando dardi avvelenati. Salto. Salto. Salto. “MAC! MAC! MAC!” mi incitava la folla. “MATT! MATT! MATT!” ripetevano un paio di bambini. “MUORI! MUORI! MUORI!” cantilenava Derek Lafoy. In quel momento la valigetta della Super Spia scintillò. “Perché brilla?” chiese il Signor Canottiera. “Oh oh”, disse un ragazzino. Poi si sentì solo Derek che continuava a gridare: “MUORI! MUORI! MUORI!”. Dalla valigetta della Super Spia partirono dodici raggi luminosi e lo schermo divenne tutto bianco. “Ahia ragazzi! Ha usato la bomba atomica!” Non avevo mai visto niente del genere. Aveva spazzato via tutte e tre le vite che mi restavano. La Super Spia si infilò gli occhiali da sole e rise.
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Spuntò un orologio con il conto alla rovescia. Avevo dieci secondi per mettere un altro quarto di dollaro e riprendere la partita.
Infilai una mano in tasca. Non c’era niente, a parte il tovagliolo della pizza.
“L’avevo detto che moriva”, commentò Derek Lafoy. Tirai fuori il portafogli e aprii il velcro. Forse potevo farcela ad arrivare alla macchinetta che cambiava le banconote e tornare in sei secondi.
Ma non avevo più soldi.
“Ehi, qualcuno ha un quarto di dollaro?” 17
Ma la folla che si era radunata attorno a me ormai era svanita.
Sullo schermo lampeggiarono le due parole più tristi della lingua inglese:
Ero scioccato. Guardai l’orologio. La mamma era andata al cinema con Craig, il suo fidanzato. Craig la portava sempre allo spettacolo del pomeriggio perché diceva che solo gli stupidi pagano il biglietto a prezzo pieno. La mamma non sarebbe venuta a prendermi per un’altra mezz’ora. Cosa potevo fare in tutto quel tempo? 18
Decisi che sarei andato fuori a guardare quelli che giocavano a minigolf (altre dodici parole tristissime). Spinsi la porta e uscii nella luce. Ci volle un intero minuto affinché i miei occhi si abituassero. Quando ce la fecero, vidi una cosa strana vicino alla buca diciotto. Alla buca diciotto c’era un finto castello con il fossato e il ponte levatoio. Ma non era quella la cosa strana. La cosa strana era il cane vero che stava sul ponte levatoio, con uno zaino sul dorso e una pergamena in bocca. “Freddie!” dissi.
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Il cane mi vide e iniziò a scodinzolare furiosamente. “È tuo?” chiese un papà arrabbiato che doveva superare il ponte levatoio con la pallina per arrivare in buca. “No”, risposi. “Be’, sì. No. Più o meno.” “Levalo di mezzo!” gridò il papà. Ma Freddie si era già levato di mezzo. Mi stava correndo incontro. “Al minigolf i cani non possono entrare!” urlò il papà. “Dennis, falla finita e gioca”, disse la mamma. “Stai turbando Zachary.” Freddie sollevò il muso per porgermi la pergamena. Io la presi e la srotolai. La bocca umidiccia di Freddie aveva fatto stingere l’inchiostro, ma si leggeva ancora.
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“Quale telefono?” chiesi. In quel momento un telefono pubblico alla mia destra cominciò a squillare. Presi in braccio Freddie. E poi alzai la cornetta. Era la regina d’Inghilterra.
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