l’incantesimo della lupa Testo di Clémentine Beauvais Illustrazioni di Antoine Déprez
U
na sera d’inverno, mentre la prima neve cominciava a cadere sul paese, la mia amica Lucie ha starnutito.
L
a mattina dopo non l’ho trovata ad aspettarmi seduta sul solito gradino per andare a scuola insieme. Allora ho bussato alla porta di casa e sua madre si è affacciata alla finestra: “Ah, sei tu, Romane. Lucie è malata: oggi resterà a letto. Corri o farai tardi. E copriti bene!”. “Copriti bene”: facile a dirsi! Il cappotto che mi avevano rimediato in orfanotrofio era troppo grande, rattoppato malamente, e lasciava passare certe lame di aria gelida… C’era proprio un tempo da lupi.
E
in effetti... mentre mi dirigevo a scuola pattinando un po’ nella neve, ho scorto, dall’altra parte del fiume, una lupa grigia che guardava verso il paese. Doveva essere la fame ad averla spinta così vicino. Di solito i lupi hanno paura degli esseri umani. Mi sono fermata a osservare la lupa e, per una frazione di secondo, mi è parso di vedere i suoi grandi occhi gialli ridursi a due fessure e la sua ombra sulla neve gonfiarsi, come se, notandomi, il pelo le si fosse rizzato sulla schiena. Ma forse era un’illusione.
I
l paese intorpidito dal freddo era tranquillo, ma arrivando nella piazza principale ho sentito ridere e gridare. Erano Momo e Luis che giocavano a palle di neve mentre andavano a scuola. “Ehi, Romane!” Stupidamente, mi sono girata verso di loro. Plaf! Una palla di neve mi ha centrato la faccia. Come se non avessi già abbastanza freddo! Mi sono piegata subito per schivarne un’altra e ho raccolto due grosse manciate di neve che ho lanciato sulla testa dei due ragazzi. Mentre ridevamo, il signor Percheron, il maniscalco, ci ha interrotto con la sua voce metallica: “Zitti, monellacci! Basta con queste stupidaggini!”. Volevo ribattere che avevamo il diritto di approfittare della prima nevicata, ma lo sguardo grave e preoccupato del signor Percheron mi ha fatto esitare. È stato allora che ho notato, in fondo alla piazza, un gruppetto di persone. “Cosa succede?” ho chiesto. Non ho avuto risposta. Luis, Momo e io ci siamo avvicinati piano, con la neve che ci gocciolava lungo le guance. E solo allora l’abbiamo vista.
L
a colomba di ghiaccio. Posata su un alto trespolo, c’era la statua di una colomba nell’atto di spiccare il volo. Delicata e trasparente, luccicava di mille piccoli arcobaleni sotto i primi raggi del sole. Tutti la osservavano in silenzio. Vicino a lei, il padre di Lucie, sconvolto, teneva tra le mani un pezzo di carta sottile, rigata di nervature come la foglia d’un albero. “Che cos’è?” gli ho domandato. Lui mi ha teso il foglio in silenzio e io ho letto ad alta voce le parole che vi erano state scritte con uno strano inchiostro grigio.
A
bitanti del paese,
l’inverno è duro. Come al solito avete pescato tutti i pesci e avete cacciato tutti i conigli, i cinghiali e i cervi, lasciando il mio branco a morire di fame. Ma quest’anno vi siete spinti troppo in là. Avete catturato la mia unica figlia. Esigo che me la ridiate. Questa colomba è magica. Vi ho racchiuso l’anima di una delle vostre figlie. A mano a mano che la colomba si scioglierà, la malattia di Lucie andrà peggiorando. Riportatemi mia figlia prima che l’ultimo pezzo di ghiaccio sparisca, altrimenti Lucie morirà. Sbrigatevi! Gli alberi ci sussurrano che questa prima neve si scioglierà nel giro di tre giorni.
La lupa