Passaggio a nord-ovest

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In mare aperto

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na volta qui era la desolazione. Uno spiazzo sterrato e fangoso usato fin dal Seicento dalle truppe spagnole, dato che ormai il cortile d’ingresso del Castello Sforzesco non bastava più per apprendere le arti belliche. Poi, con l’Unità d’Italia, si decise di trasferire le esercitazioni militari fuori dalla cinta della città, che stava crescendo a dismisura, e di dare a quest’area una nuova funzione. “Di farla diventare un parco” chiosa Laura. Esatto. Un parco urbano degno degli esempi europei in voga in quegli anni. All’inglese, più democratico, più borghese e più alla moda. Certo non ha le dimensioni dei parchi londinesi, ma non gli manca un certo fascino. I milanesi lo amarono da subito. Era un periodo dove le novità dell’industria e del commercio venivano esposte a tutti: una fiera dopo l’altra di invenzioni e merci, una celebrazione continua della contemporaneità. La diffusa fiducia per un futuro radioso. Il parco divenne il sito naturale per queste mostre. Fino alla più famosa, che proiettò Milano fra le città più moderne d’Europa: l’Esposizione Universale del 1906. “La prima Expo In ma r e a p e rto

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di Milano”. Esatto. Qui era tutto un pullulare di padiglioni. Tutti poi smantellati. ma qualcosa rimase di quella stagione d’ottimismo sfrenato: l’Acquario della città, un gioiellino del liberty milanese. Porto Laura e Sara di fronte all’edificio. L’Acquario è l’unico tangibile ricordo di una manifestazione che aveva avuto un vero e proprio doppio battesimo del fuoco: ad aprile, una catastrofica eruzione del Vesuvio aveva provocato lo slittamento dell’inaugurazione, e ad agosto un incendio avrebbe devastato buona parte dei padiglioni. L’Acquario uscì illeso dalla calamità, ma la Belle Époque volgeva al termine e dietro l’angolo si profilava l’orrore di due guerre. Fortunato con gli incendi, l’Acquario Civico lo fu certamente meno con le bombe del ’43. Passarono vent’anni prima che la struttura riaprisse i battenti, e molti di più prima che tornasse agli antichi fasti. Di tutte queste traversie abbiamo perduto la memoria. Se penso alle infinite polemiche nate attorno ai ritardi di Expo 2015, mi viene da ridere. L’Esposizione del 1906 fu aperta addirittura con un anno di ritardo! Era dedicata ai trasporti, traendo spunto dalla realizzazione del traforo del Sempione, opera titanica che ci avrebbe messo in comunicazione con l’Europa. Solo che i lavori andavano avanti a rilento e mica si poteva festeggiare prima che il traforo venisse inaugurato! La cosa interessante è che l’Esposizione aveva due sedi. Una qui, nel parco, sul sedime della vecchia piazza d’armi, e l’altra nella nuova piazza d’armi, più a nord-ovest. Fra le due zone, distanti qualche chilometro e divise da una linea ferroviaria, venne creato un trait-d’union futuristico e surreale al tempo stesso. Si trattava di una ferrovia so42


praelevata, che sorvolava Milano come un angelo di metallo. Uno scenario degno di Metropolis, ante litteram. Camminiamo per i viali del parco. Ragazzi che tamburellano sui bonghi, come nella canzone di Elio, madri che spingono passeggini, uomini che fanno jogging. È il nostro parco, questo, sì. Una specie di piccolo museo domestico, pieno di perle da scoprire. Penso al teatrino di Arman, quello in cemento armato con gli scheletri di sedie annegati dentro, o alla piccola ma bellissima biblioteca. Quand’ero ragazzo venivo qui con i miei amici e la chitarra. Ci sedevamo vicino a quest’albero, proprio all’ombra di questo ponte. “Ma dai” ride Laura. “Non ti ci vedo a fare il fattone!” Sorrido. La sua è una battuta innocente, mica può saperlo che in effetti in quegli anni il parco era una piazza di spaccio impressionante. “E perché proprio qui?” Perché mi piaceva il ponte, rispondo. Io ero figlio di sfrattati e anche il ponte lo era. “Che vuol dire? Non capisco!” Salgo i gradini. Vedete, questo ponticello aggraziato, purtroppo martoriato da quegli orribili lucchetti (maledetto sia nei secoli lo scribacchino che ha inventato questa demenziale abitudine!), era nato per stare da tutt’altra parte. “Dove?” Sui Navigli, nell’attuale via Ascanio Sforza. “Sembra un ponte per innamorati”, dice la grande. Be’, a dir la verità quando lo posarono destò un notevole scandalo. “Davvero?” Come cambia il comune senso del pudore, nel giro di così poco tempo. Vedete le quattro sirenette che lo sormontano? Tutta questa nudità era considerata oscena nella Milano ottocentesca. Si dice che passando dal ponte, le signore chiudessero gli occhi turbate. I giovani, invece, si sfidavano a toccare In ma r e a p e rto

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i seni prosperosi delle sorei del pont di ciapp. “Come le hai chiamate?” Di tutti i monumenti che abbiamo perduto in una Milano che si rinnova di continuo, e che anzi nel suo rinnovarsi trova la sua identità più autentica, quello che maggiormente mi fa soffrire aver perduto è il dialetto. Lo dico da figlio di meridionali immigrati durante il Boom, cresciuto in un contesto senza dialetto. Sentir parlare ancora in milanese è per me ogni volta un regalo. Sorei del pont di ciapp, ripeto. E poi traduco. Le ragazze ridono. Ma non le chiamavano solo così le quattro sirenette. Erano conosciute anche come “sorelle Ghisini”. Come vi dicevo, erano gli anni di una forzata industrializzazione che avrebbe cambiato per sempre il volto della città e della Nazione. Questo ponticello di metà Ottocento, che ai nostri occhi appare romantico e passatista, a quei tempi era una incredibile novità tecnologica. Era un prefabbricato in ghisa, il primo ponte metallico costruito in Italia. “Ah... ecco perché Ghisini!” intuisce Sara. “E come mai poi l’hanno spostato?” mi chiede Laura. Perché i Navigli che oggi vogliamo tutti riaprire - come se fosse una cosa semplice e non un’opera elefantiaca e antieconomica -, la rete di canali che ora rimpiangiamo, cento anni fa erano diventati una fogna a cielo aperto. E la Milano che guarda sempre avanti, quella del faa e disfaa l’è semper un laurà, quella che voleva apparire al passo col resto dell’Europa, non ci ha messo nulla a tombinarli. Che ci stava a fare un ponticello lì, su un canale coperto? Lo portarono qui, residuo di una modernità già obsoleta dopo pochi decenni. Passiamo davanti a un baracchino ambulante. Direi che un gelato ce lo meritiamo. Andiamo a 44


lapparcelo sulla pedana del teatro di Burri. Me lo ricordo, da ragazzo. In quel periodo di degrado del parco, la cosa forse più deteriorata era proprio questo teatro, ne era diventato il simbolo. Fu installato nel 1973, durante la XV Triennale: l’unica opera architettonica di quello che all’epoca era forse il pittore italiano vivente più famoso al mondo. Un oggetto minimale - un palcoscenico in cemento e sei quinte laterali rotanti in acciaio dipinto - utopicamente aperto all’utilizzo spontaneo della cittadinanza. Divenne un rudere nel volgere di pochi anni, e nel 1989 fu demolito. La cosa fece infuriare Burri al punto da dichiarare che non avrebbe mai più esposto a Milano. Ora eccolo di nuovo qui, ricostruito, non ostante le polemiche accese di chi proprio non lo voleva più fra i piedi. Ti piace?, chiedo a Sara. Con lei c’è un gioco, da qualche tempo. Giriamo per la città e appena vediamo un edificio moderno, prima di esprimere la mia opinione, le chiedo la sua. Lo facevo anche con Laura alla sua età, chiaro. Ma con Sara mi diverto di più, perché è più imprevedibile. Laura ha il gusto della storica, dell’archeologa. S’emoziona di fronte a un mosaico romano o a un dipinto del Rinascimento. Sara è una modernista d’assalto. I ghirigori floreali del liberty commuovono Laura, Sara invece li trova pacchiani. “Sì, mi piace” dice la piccola, perentoria. E a te?, chiedo alla grande. “Non lo so. Cioè... è bello che tutti lo possano usare, ma così non rovina il prato?” Ecco, appunto. Mai d’accordo queste due.

Il gelato è finito, è ora di rimettersi in cammino. Alziamo gli occhi verso la Torre Branca - la “Torre In ma r e a p e rto

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Vittoria” di Gio Ponti all’epoca del Duce - poi passiamo davanti ai bagni misteriosi di De Chirico, nati anch’essi per la XV Triennale (e ai colori, da poco restituiti, la mia memoria sovrappone l’immagine di quanto erano diventati grigi, rotti, ruderizzati). Al Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio ci andremo un’altra volta. Certo, nel sentiero che stiamo battendo noi, quello dei mercanti e delle esposizioni, sarebbe significativo fermarsi per una tappa. Anche quello in fondo è uno spazio espositivo. Di idee, di arte, non di merci in senso stretto. Ma noi, ora, non stiamo facendo una classica visita turistica. La Triennale, con Burri, con Arman, con De Chirico, l’abbiamo già incontrata qui nel parco. E la incontreremo di nuovo sul cammino. Basta saper aspettare. Sto pensando di uscire da qui e sprofondare nella “fossa”, quella parte di sterrato ai margini del tracciato ferroviario, da sempre luogo di incontri omosessuali, descritti in pagine memorabili nei romanzi di Testori, e poi inoltrarmi verso la torre di Vico Magistretti. Ma no, non avrebbe senso. Decido per l’Arco della Pace. Ormai siamo in una città completamente diversa, quella del nucleo storico sembra lontanissima. I segni qui sono più macroscopici. L’asse del corso sembra infinito. Fu disegnato da Napoleone, se ci mettessimo a camminare seguendo questo verso arriveremmo direttamente a Parigi. Ecco anche perché una Esposizione dedicata al traforo del Sempione aveva trovato la sua sede naturale alle nostre spalle. Quando la strada fu completata, chiamarono Luigi Cagnola a progettare un Arco di Trionfo. Che cambiò dedica e nome di decennio in decennio. Dapprima fu dedicato a Napoleone 46


e alla Vittoria di Jena. Poi, tornati gli austriaci, lo si dedicò, incompleto, alla “Pace” determinata dal congresso di Vienna… fino all’ultima e definitiva dedica, ad un altro Napoleone, il Terzo, e a Vittorio Emanuele Re d’Italia. Un monumento per tutte le stagioni, insomma. Noi comunque a piedi a Parigi non ci dobbiamo arrivare. E con lo spirito dell’escursionista, evito con cura il corso e sterzo a sinistra. Ora l’incasato ha la consistenza e la qualità delle dimore borghesi ottocentesche. Una architettura che dovremmo tornare a guardare: i quartieri di Milano più coerenti, forse persino i più belli dal punto di vista urbanistico, spesso sono proprio questi, esterni al centro ma ancora lontani dalla periferia popolare (che è bella anch’essa, ma in modo differente). Prendo via Sangiorgio e scavalco il tracciato ferroviario delle Nord. Costeggiamo la caserma dove migliaia di diciottenni hanno fatto i mitici tre giorni e ci fermiamo un attimo ai giardini Bompiani. Sapete, dico, questi giardini sono stati riqualificati da pochi anni. E fino al secolo scorso qui c’era un enorme scalo merci, servito da quelle ferrovie dove milioni di pendolari continuano a fare avanti e indietro dal nord milanese, come si può leggere in certe pagine illuminanti e amare di Bianciardi. Spesso i parchi, a Milano nascono così. Si dismettono attività militari o logistiche, e su quelle aree si litiga, per decidere se metterle a reddito costruendo case da vendere o se regalarle alla città. Quasi sempre vince la prima delle ipotesi; ma ogni tanto qualche fazzoletto di verde riusciamo a conquistarlo. Come se i parchi, per il semplice fatto che non producono nulla, siano solo un affare andato a male. In ma r e a p e rto

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Stiamo costeggiando via Vincenzo Monti. Gli isolati ottocenteschi ora si sono trasformati in condomini, quasi tutti del Secondo Dopoguerra. Stecche abitative orientate secondo l’asse eliotermico, come prescrivevano i dettami razionalisti. Case borghesi, ben inteso, appartamenti anche lussuosi, ma dall’aspetto dimesso, di gente che ha introiettato il motto dei Borromeo: Humilitas. Quasi si voglia passare inosservati ad ogni costo. Nessuna ostentazione, solo decoro e qualità nei particolari costruttivi, che comprendono forse più i progettisti che gli stessi inquilini. Come nella stecca in via Nievo, di Luigi Caccia Dominioni, il più meneghino degli architetti del Novecento, rivestita di gres azzurrino, col disegno delle facciate che sembra scomporsi, simile a un quadro di Malevic�, o come nella metafisica casa d’angolo di via Cassiodoro, dove siamo ora, di Asnago e Vender. Se dovessi spiegare la qualità urbana del Novecento milanese, se dovessi descrivere il gusto, l’eleganza di quella classe sociale che produceva e metteva in mostra i suoi prodotti, se dovessi cercarne il più tipico genius loci, forse è proprio da qui che dovrei passare. “Ehi, eccolo!” urla Sara indicando oltre i tetti, “siamo arrivati!”. Ha visto il grattacielo di Isozaki, quello che già qualcuno chiama “il materasso”. Non abbiamo ancora girato l’angolo, mi vengono i brividi, le palpitazioni, ho paura! Perché se alle spalle ci stiamo lasciando la misurata borghesia del Novecento, adesso andremo a conoscere quella sguaiata del XXI secolo. Ancora pochi passi e davanti a noi un enorme transatlantico è pronto per salpare. Eravamo a Milano. Benvenuti a Miami.

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