Diego Carpenedo Ha fatto parte del Senato della Repubblica nella XI e XII legislatura della Repubblica Italiana: nel 1992 viene eletto nella Democrazia Cristiana, mentre nel 1994 conferma il seggio con il Patto per l'Italia, aderendo poi al gruppo del Partito Popolare Italiano. Ricandidato per L'Ulivo alle elezioni politiche del 1996 nel collegio senatoriale di Codroipo, ottiene il 32,4% dei voti e non viene rieletto.
L’errore che fece fallire il progetto del tunnel di Monte Croce Carnico VENERDÌ 4 GENNAIO 2019 Alois Mock, Aurelio Amodeo, Austria, Circolo culturale Enfretors, Dario Rinaldi, Diego Carpenedo, Eduard Heilingsetzer, Eduard Wallnofer, Erwin Frühbauer, Fabio Santorini, Felbertuernstrasse, G. Battista Carulli, Giovanni Pietro Nimis, Giuseppe Tonutti, Hermann Knoflacher, Karl Sekanina, Kötschach-Mauthen, Luciano Di Sopra, Monte Croce Carnico, Paluzza, Valle del Gail, Vittorino Marpillero 19.01.04 Copertina libro Diego Carpenedo su traforo M. Croce Carnico Di tanto in tanto si torna a parlare del “traforo” di Monte Croce Carnico, ovvero del tunnel stradale che avrebbe dovuto collegare Paluzza (Alta Carnia) a Kötschach-Mauthen (valle del Gail), evitando i tornanti che da una parte e dall’altra del confine salgono fino al passo, diventando in alcuni giorni dell’anno impercorribili a causa della neve o, come è accaduto nel novembre scorso, di frane e cedimenti. Una nuova occasione per parlarne è offerta dall’uscita di un libro dal titolo “La strada di Monte Croce Carnico”, di cui è autore Diego Carpenedo, ex senatore della Repubblica per la Democrazia Cristiana e tra i protagonisti della ricostruzione del Friuli dopo il terremoto, ma anche ingegnere. Carpenedo appartiene infatti a una generazione di politici in cui la competenza non era ancora un marchio d’infamia, come accade oggi, ma una condizione per poter svolgere meglio il proprio mandato al servizio della collettività. Il progetto del tunnel sotto Monte Croce Carnico lo aveva sempre appassionato, tanto che nel 1958, anno della sua laurea, avrebbe voluto dedicargli la tesi. Nel libro riaffronta l’argomento ormai con l’occhio dello storico, più che del politico o del tecnico. E lo fa prendendolo alla larga, incominciando dal Mesolitico, da un’epoca della storia – o della preistoria – in cui si hanno già tracce di come quell’incisione nel crinale carnico, tra la Creta di Collinetta e il Pal Piccolo, fosse percorsa dall’uomo per spostarsi da una valle all’altra. Il libro, edito dal Circolo culturale Enfretors, sarà presentato oggi, alle 17.30, nella sala Cesfam di Paluzza. È composto da quattro capitoli: la strada dei Veneti, la strada dei Romani, la strada del XX secolo e il progetto (o i progetti) del traforo. Il libro ha un apparato iconografico piuttosto ampio, comprendente foto, cartine e documenti, compresi quelli sottoscritti dalle delegazioni italiana e austriaca che avevano partecipato agli incontri in vista della realizzazione del traforo poi non nato. Con il permesso dell’autore, pubblichiamo qui sotto l’ultimo capitolo del libro, quello più interessante e attuale. ***
Come si è detto nei capitoli precedenti, la strada di Monte Croce, il segmento stradale che collegava Timau al valico e a Mauthen, costruito probabilmente al tempo dell’imperatore Augusto e oggetto, nei primi quattro secoli dopo Cristo, di ripetuti interventi di manutenzione o per la realizzazione di varianti, la parte più delicata e difficile dal punto di vista costruttivo dell’intera strada che collegava “per compendium” Aquileia con Veldidena (Innsbruck), con la caduta dell’Impero romano d’occidente perse il suo ruolo ed il suo valore e rimase praticamente sepolto nell’oblio fino al secolo scorso. L’attenzione per detto segmento fu risvegliata dal ruolo strategico assunto dal fronte nella zona durante il primo conflitto mondiale che portò, all’inizio degli anni ’30, al suo completo rifacimento sul versante italiano, con i parametri allora riservati alle strade statali. Nella seconda metà del secolo breve le considerazioni intorno al valore ed al ruolo della strada di Monte Croce Carnico provocarono una seconda fiammata di interesse e la messa a punto di un grande progetto rimasto purtroppo sulla carta: la costruzione di una galleria (il traforo) che avrebbe sostituito l’intero tronco stradale da Timau a Mauthen. Al ricordo di questa idea, delle ragioni che portarono a concepirla e di quelle che ne provocarono l’abbandono, sono dedicate le note che seguono. L’idea di un traforo di Monte Croce Carnico, per assicurare un collegamento veloce e stabile anche nel periodo invernale della Carnia e del Friuli con la Carinzia occidentale, risale agli anni ‘50, quando attraverso il passo si riallacciarono i legami tra italiani ed austriaci, dopo il gelo provocato dal secondo conflitto mondiale e l’aumento del traffico turistico proveniente dal Nord Europa, principalmente dalla Germania, divenne evidente e incontestabile. Ho ricordi personali in proposito. Nel 1958 mio padre insistette a lungo con me perché utilizzassi la mia tesi di laurea in ingegneria civile proprio per sviluppare questo progetto. Non lo potei accontentare per il diverso avviso del professore con il quale dovevo collaborare. L’idea del traforo di Monte Croce Carnico maturò, più o meno negli stessi anni, anche a Trieste, dov’erano pressanti i problemi dello sviluppo economico della città e del rilancio dell’attività portuale, che necessitava di adeguati collegamenti con l’Europa. L’idea si materializzò all’inizio degli anni ’60, quando le grandi compagnie petrolifere decisero la costruzione dell’oleodotto transalpino, da Trieste ad Ingolstadt, che trasporta il petrolio greggio per le raffinerie austriache e tedesche e percorre la valle del But, con il suo carico di servitù, attraversando le Alpi Carniche, in galleria, nei pressi di Timau. La realizzazione dell’opera (1964-1967), avvenuta senza alcun intralcio, creò l’illusione, a Trieste come nelle vallate carniche, che iniziative simili si potessero considerare, per così dire, a portata di mano. Ma non vi è dubbio che fu la nascita della Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia a dare slancio e forza all’idea del traforo. La straordinaria produzione legislativa nel primo anno di vita della nuova istituzione (per impulso di Berzanti, un grande presidente del quale poco ci si ricorda) rivelò ai più una dimensione sconosciuta della pubblica amministrazione e diede la sensazione che circolasse un’aria nuova, che prendessero corpo nuove idee e opportunità. Di conseguenza si moltiplicarono i dibattiti sulle iniziative possibili. Nel mese di giugno del 1966, l’Assessorato regionale ai Trasporti ed al Turismo organizzò un convegno dedicato ai valichi e alle strade di interesse europeo, che ebbe larga risonanza
sui media. Luciano Di Sopra, uno dei relatori, si incaricò di esporre con efficacia, come sapeva fare, le intenzioni e i desideri dell’Amministrazione regionale. Denunciò l’esistenza di una questione nord-orientale italiana. La sua perifericità, disse, andava superata non solo per trarre la Regione Friuli Venezia Giulia dalla condizione di sottosviluppo, ma anche o soprattutto per assicurare una crescita equilibrata dell’intera comunità nazionale. In questa prospettiva il traforo di Monte Croce Carnico diventava indispensabile per costruire una direttissima Trieste-Monaco, un’altra strada “per compendium”. Corsi e ricorsi della Storia come si dice. Il convegno si concluse con l’affermazione che al bivio di Stazione per la Carnia dovevano separarsi due collegamenti internazionali, uno verso l’Austria per il valico di Camporosso e Tarvisio e uno verso la Germania attraverso il passo di Monte Croce Carnico, e che gli stessi dovevano essere potenziati per assicurare lo sviluppo economico del Friuli Venezia Giulia e dell’Italia intera. In questo modo prese corpo l’idea della “Regione ponte” e della necessità di una sua azione politica che si facesse carico dell’interesse nazionale, che regnò incontrastata in quegli anni e che fu accolta in montagna con particolare favore. Prometteva infatti “la rottura dell’isolamento delle zone montane” e costituiva la premessa per lo sviluppo dei poli di industrializzazione previsti dalla programmazione a Tolmezzo e nel Gemonese. “I vantaggi delle zone montane diventano così complementari con quelli della costa regionale e delle città, in termini di economia turistica, industriale, commerciale e portuale”, scrisse l’avvocato Marpillero, allora assessore regionale all’Industria e Commercio. Il convegno fu seguito di lì a poco da un incontro ufficiale che si tenne a Klagenfurt, per esaminare il problema dei collegamenti stradali lungo il confine comune, nel quale si confrontarono due delegazioni di esperti, italiani e austriaci. Il Land Carinzia e la Regione Friuli Venezia Giulia lo avevano organizzato in accordo con il livello istituzionale superiore. A Roma e a Vienna, come è facile intuire, tenevano gli occhi ben aperti su questioni del genere, oltre che le mani sui cordoni della borsa. Il quel momento la Carinzia premeva sul Governo federale per ottenere l’approvazione del progetto dell’autostrada Villaco-Salisburgo, in competizione con altre istanze di priorità provenienti dalla Stiria. A Klagenfurt sapevano bene di aver bisogno di un favore da parte degli amici del Friuli Venezia Giulia, vale a dire che premessero politicamente affinché l’Italia garantisse la costruzione del tronco autostradale Udine-Tarvisio e non già, in alternativa, la ristrutturazione della statale 13 lungo la valle del Fella. A Trieste serviva l’assenso austriaco per il progetto del traforo. Gli interessi della due Regioni si intrecciavano in modo tale da consentire una loro composizione. E fu proprio questo aspetto a dominare l’incontro. Una volta rassicurata sulle intenzioni italiane di giungere rapidamente a Tarvisio con l’autostrada, la delegazione austriaca dichiarò di accettare l’idea di un traforo in sostituzione della strada di valico esistente a Monte Croce Carnico, a condizione che il traffico previsto fosse turistico e non commerciale. Quindi nessun porto di Trieste collegato con la Baviera su quel tracciato.
Gli esperti austriaci spiegarono che l’Austria (e la Carinzia) non aveva alcuna intenzione di costruire un’altra arteria di grande comunicazione. Il traffico commerciale doveva essere spostato per quanto possibile sulle ferrovie e, per la parte restante, erano più che sufficienti i progettati collegamenti autostradali per Tarvisio e il Brennero. Infine le zone montane dovevano puntare sul turismo e non essere disturbate da correnti di traffico troppo intense. Questa era la loro filosofia, a ben vedere contrastante con quella esposta nel sopraricordato convegno di giugno e anche più ragionevole, come il tempo si apprestava a dimostrare. L’esito dell’incontro di Klagenfurt fu presentato dalla stampa come un grande successo, anche se i più esperti di politica, notoriamente molto attenti alle sfumature delle altrui opinioni, annotarono che la filosofia e le precisazioni della delegazione austriaca non solo divergevano dalle nostre, ma erano anche in contrasto con le argomentazioni che avrebbero accompagnato il progetto del traforo che doveva essere presentato a Roma, ai ministeri competenti e all’Anas. Tutti comunque fecero buon viso a cattivo gioco, per andare avanti, confidando nella buona stella che in teoria non ci dovrebbe abbandonare mai. Fu comunque chiaro che, prendendo sul serio i nostri interlocutori, la possibilità di realizzare il traforo era legata alla costruzione dell’autostrada da Udine a Tarvisio (simul stabunt, simul cadent) e che attraverso la costruenda galleria sarebbe transitato soltanto il traffico turistico. Nel 1967 accadde un fatto che si rivelò di grande importanza per il dibattito sulla utilità dell’auspicato traforo di Monte Croce Carnico. In quell’anno vennero completati i lavori di costruzione dell’opera più significativa della cosiddetta “Felbertuernstrasse” e cioè la galleria sotto i Tauri che collega i versanti settentrionale e meridionale della catena montana più famosa dell’Austria, ovvero che collega Lienz (Osttirol) con Kitzbühel (Tirol). Una galleria di oltre 5 kilometri di sviluppo, che sta nel mezzo di due celebri stelle alpine, il Grossklocner e il Grossvenediger, progettata al tempo della annessione dell’Austria alla Germania nazista e la cui realizzazione era stata rinviata dapprima per lo scoppio della seconda guerra mondiale e poi, terminato il conflitto, per ragioni economiche e anche a causa di un progetto concorrente di costruzione di un bacino idroelettrico. Alla fine la soluzione di ogni problema era stata raggiunta e una società tra i Comuni interessati, il Land del Tirolo ed il Governo di Vienna aveva affrontato e risolto il nodo finanziario. Quando la galleria dei Tauri venne aperta al traffico tutti si resero conto che detta opera, costruita per esigenze locali, richiamava un imprevisto notevole traffico turistico diretto in Italia. Nella strada statale 52 bis che percorre la valle del But si osservò il passaggio di molte automobili con targhe mai viste prima, provenienti dall’Europa centro settentrionale. Venne spontaneo osservare che il costruendo traforo di Monte Croce Carnico avrebbe potuto contare su volumi di traffico maggiori di quelli finora stimati e che quindi anche i problemi legati al finanziamento dell’opera potevano essere ridimensionati. Nello stesso anno 1967 in Italia si costituì una società per azioni, con capitale sociale di 10 milioni di lire e sede legale in Udine, che aveva come oggetto la “realizzazione del traforo di Monte Croce Carnico, con relativi raccordi, e la gestione, anche per concessione, delle opere e dei servizi relativi”. Detta società inoltrò subito all’Anas una richiesta di concessione per l’opera, allegando un progetto preliminare della stessa e uno studio economico elaborato dall’Istituto di Strade e Trasporti dell’Università di Trieste.
Nella primavera del 1968, anno politicamente effervescente nella nostra regione non solo e non tanto per l’eco dei moti studenteschi di contestazione, ma perché si svolsero le elezioni per il primo rinnovo del Consiglio regionale, venne pubblicato dall’editore Del Bianco un libretto che riportava alcune fondamentali considerazioni, maturate nella prima legislatura della Regione, sulla necessità del traforo di Monte Croce Carnico. La pubblicazione, commissionata e presentata dall’avvocato Vittorino Marpillero, assessore regionale uscente e sostenitore dell’opera, regista di molte iniziative che ruotavano attorno ad essa, era composta da tre capitoli o parti. Il primo, a cura di G. Battista Carulli, conteneva un profilo storico della strada di Monte Croce Carnico, l’analisi del tracciato della statale dal punto di vista geologico, morfologico e delle precipitazioni nevose e alcune considerazioni sulla geologia dei terreni interessati dal progetto del traforo. Il secondo capitolo, a cura di Aurelio Amodeo e Fabio Santorini, era dedicato all’analisi delle caratteristiche tecniche ed economiche del già ricordato progetto di traforo allegato alla domanda di concessione inoltrata all’Anas. Il terzo e ultimo capitolo, a cura di Giovanni Pietro Nimis, esaminava i problemi interni ed esterni alla Regione, alla risoluzione dei quali avrebbe efficacemente contribuito la realizzazione del traforo. Il documento, riletto oggi a distanza di tanto tempo, si rivela di grande interesse e illustra questioni colpevolmente sottovalutate. Lo scritto di Carulli ricordava con esemplare chiarezza che il versante della valle che sta sotto il Pal Piccolo ha pendenze notevoli che non di rado superano i 50°, che la necessità di superare il dislivello ha costretto il tracciato a torcersi in dodici tornanti che si sviluppano uno sopra l’altro, che la strada è impostata su di un terreno facilmente disgregabile sotto l’azione di forti precipitazioni e dell’alternanza gelo-disgelo (da cui derivò l’esigenza di opere costose per proteggere e sostenere) ed infine, ultimo dato ma di sicuro non il meno importante, che al di sopra di detta formazione flyscioide carbonifera stanno pareti calcaree che possiedono una più che buona consistenza, ma non hanno stabilità. Le bancate calcaree si presentano con giaciture verticali o a franapoggio. Da esse si staccano blocchi di grandi dimensioni che colpiscono ripetutamente, più volte, la sede stradale nella loro caduta rettilinea. Come dire che a voler mantenere in sicurezza una strada su quel versante non si finirà mai di lavorare e spendere denaro! Come è stato già ricordato, il progettista della strada che da Timau sale al passo, l’ingegner Bonicelli, direttore dell’ufficio del Genio civile di Tolmezzo, queste cose le sapeva o almeno le aveva intuite. Il suo primo progetto prevedeva infatti di salire al passo dal pianoro dei Laghetti utilizzando il versante sulla sponda destra del Rio Collinetta. Fu malauguratamente costretto a cambiare versante dal parere vincolante dell’autorità militare, perché il tracciato che aveva scelto era esposto alla vista e al tiro delle artiglierie degli austriaci. Il contributo di Amodeo e Santorini è interessante, perché ci ricorda che la prima ipotesi di traforo, quella messa a punto dal progetto preliminare inviato all’Anas, aveva optato per un tunnel più alto e più breve di quello che poi fu scelto per la progettazione definitiva. Stimava che la sua apertura al traffico potesse avvenire nel 1972 e che l’importo dei lavori sarebbe stato pari a 14 miliardi di lire. Non c’è alcun dubbio sul fatto che nel ventennio 1968-1988, che separa la prima dall’ultima valutazione dell’importo dei lavori, l’inflazione galoppò. Ma non fu questa la sola causa dell’aumento vertiginoso della spesa prevista. Contarono anche
la normativa divenuta nel tempo molto più esigente e la diversa scelta tecnica a favore di un tunnel più lungo ed a quota più bassa, indispensabile per il traffico commerciale, non per quello turistico. Contò il perfezionismo con cui si affrontò la scelta del tracciato e delle opere complementari, senza rendersi conto che in tal modo il rapporto tra costi e benefici dell’opera peggiorava e rendeva l’esecuzione dell’opera meno probabile. Ritorneremo più avanti, nelle conclusioni, su questi aspetti della lunga e tormentata vicenda del traforo di Monte Croce Carnico. Infine il contributo di Nimis sottolineava come, negli anni’60, la nostra doveva essere considerata una “regione debole, periferica all’intenso sviluppo industriale… ancor priva di una solida struttura di base, ma soprattutto dell’unico dispositivo utile a una sua manifestazione spontanea, che solo un’adeguata dotazione nel settore della viabilità può dare”. E ancora: “Solo attuando il traforo di Monte Croce Carnico si rimane presenti nel gioco delle scelte avvicinando la Baviera, il Tirolo ed il Salisburghese all’Adriatico e restituendo a Trieste un grande entroterra”. Insomma anche Nimis, uno tra i professionisti più intelligenti e sensibili della mia generazione, un valoroso architetto-filosofo, sosteneva la tesi del traffico commerciale attraverso la galleria di Monte Croce. E non era di certo un isolato. Coloro che si occupavano di urbanistica (mi metto nel novero) sostanzialmente erano d’accordo. E i Tir? Non si sapeva bene quanti e quali danni potessero provocare e non vi erano remore a credere che il loro scorrazzare nelle valli avrebbe avuto un effetto benefico su villaggi sepolti nell’oblio. Erano questi gli ultimi ruggiti del Razionalismo. Sarebbe poi arrivati il terremoto e l’immersione nelle necessità della ricostruzione, che ci fecero cambiare idea. Verso la fine dello stesso 1968 fu pubblicato un altro libretto dedicato al traforo di Monte Croce Carnico. L’autore era Giuseppe Tonutti, all’epoca presidente della società Autovie Venete e futuro presidente anche di quella del Traforo di Monte Croce Carnico, persona sicuramente informata. Anche di questa seconda pubblicazione riassumerò il contenuto, utilissimo per comprendere lo spirito del tempo con cui venne affrontato questo problema. La sua prima considerazione riguardava il fatto che il Governo austriaco aveva fino ad allora risolto il problema delle grandi infrastrutture con il bilancio dello Stato, con conseguenze negative per i tempi di attuazione dei programmi. Soltanto di recente (Felbertauernstrasse) l’Austria aveva sperimentato il sistema della concessione e dei pedaggi. Tonutti auspicava che detta esperienza, che ovviamente non escludeva il contributo statale per opere molto costose, venisse ripetuta anche nella costruzione del traforo di Monte Croce Carnico. A proposito dell’asse Trieste-Monaco e del traffico commerciale da avviare lungo esso, Tonutti osservava che non sarebbero stati sufficienti i lavori al passo di Monte Croce e che servivano analoghi interventi sul Gailberg ed al passo Thurn. In alternativa si doveva ricorrere a deviazioni che avrebbero allungato il tracciato, pur mantenendolo il più corto tra quelli che offrivano possibilità di transito tutto l’anno. Al contrario, per il traffico turistico la galleria di Monte Croce Carnico avrebbe da sola risolto il problema della distorsione del traffico che si verificava, perché le spiagge dell’Adriatico, da Grado a Pesaro, avevano il doppio dei posti letto di quelle tirreniche, da Alassio a Viareggio,
mentre i collegamenti efficienti attraverso le Alpi erano situati nella parte occidentale dell’arco alpino. La eliminazione di questa distorsione e il prevedibile sviluppo della motorizzazione garantivano circa la possibilità di ammortamento della costruenda opera. Un’altra importante considerazione di Tonutti si riferiva al fatto che la galleria, per essere realizzata, richiedeva una concessione a due società per azioni, una italiana ed una austriaca, che operassero sui due versanti, e che detta concessione richiamava la stipula di un accordo internazionale approvato dai Governi e ratificato dai Parlamenti di Italia ed Austria. Argomentava inoltre che era da ingenui sperare di conseguire un simile complicato risultato, specie per la parte austriaca che aveva manifestato alcuni dubbi sul progetto, senza un’azione promozionale. L’azione promozionale, a sua volta abbisognava di un progetto definitivo dell’opera, che doveva essere messo a punto dalle due Regioni interessate e dalle due società concessionarie. I tempi per l’inizio lavori si preannunciavano dunque non ravvicinati, inutile nasconderlo. Per il traforo del Monte Bianco erano stati necessari sei anni, dalla firma della convenzione Italia-Francia, per mettere a posto tutte le pratiche e dare inizio ai lavori. Per il traforo di Monte Croce Carnico il nostro Governo non aveva compiuto fino ad allora alcun passo presso quello austriaco. Era urgente provvedere a un tanto, senza dimenticare che per risolvere i problemi del finanziamento dell’opera da parte italiana si poteva utilizzare il meccanismo previsto dall’art. 50 dello Statuto regionale. Più che una dotta relazione, il libretto di Tonutti sembrava un programma di lavoro e infatti all’inizio degli anni ’70 la società Autovie Venete (controllata dalle Regione Friuli Venezia Giulia) acquistò il 60 % (la maggioranza assoluta) delle azioni di quella del Traforo e provvide ad aumentarne il capitale sociale da 10 a 450 milioni. La presidenza della rinnovata società fu affidata a Tonutti. Venne utilizzato anche il suo suggerimento di coinvolgere i Governi nazionali nelle trattative per la realizzazione del traforo di Monte Croce Carnico. Il senatore Zannier, al tempo sottosegretario ai Lavori pubblici, provocò la prima riunione, il primo incontro ufficiale delle delegazioni nazionali che si svolse a Trieste dal 26 al 28 maggio 1971. Al termine dell’incontro fu sottoscritto un documento nel quale si affermava “l’interesse fondamentale dei due Stati” per l’attuazione del progetto. A margine la Regione Friuli Venezia Giulia dichiarò la sua disponibilità a erogare un contributo a fondo perduto e a garantire eventuali mutui necessari ad integrare il finanziamento dell’opera. Le delegazioni si impegnarono a raccomandare ai rispettivi governi la formazione di una commissione mista per la definizione della documentazione necessaria alla stipula della convenzione internazionale. La macchina burocratica si mise finalmente in moto. La commissione mista si riunì a Warmbad il 12 gennaio 1972. Fu annunciata la costituzione di una società per il traforo austriaca con la partecipazione della Carinzia e del Tirolo e della società della Felbertauernstrasse. Si convenne che le due società operative, quella italiana e quella austriaca, concordassero tra loro la soluzione dei problemi connessi con la costruzione e la
gestione del tunnel, a cominciare dalla definizione del tracciato prescelto e dei collegamenti con la rete viaria esistente. Di seguito furono attivati gruppi di lavoro che si dedicarono in particolare all’esame delle due opzioni fondamentali: tunnel di valico, il più alto di quota tra i quali misurava poco meno di quattro chilometri di sviluppo, ovvero tunnel di base, da Timau a Wurmlach, lungo 8,1 chilometri? Per evitare strade di accesso alla galleria in “zone franose e dalla morfologia tormentata presenti sia sul versante nord che su quello meridionale e soggette al continuo pericolo di caduta di massi instabili e di slavine e valanghe nelle stagioni invernali”, la scelta cadde sulla opzione di base ed il 30 aprile 1975 il presidente della società Österreichische Plöckenstrassen Eduard Heilingsetzer e quello della società Traforo di Monte Croce Carnico Marpillero (subentrato nel 1973 a Tonutti a seguito dell’entrata nella compagine societaria della Regione Friuli Venezia Giulia, attraverso un aumento del capitale sociale da 450 a 850 milioni), con atto contestuale, affidarono la progettazione dell’opera allo studio Geoconsult di Salisburgo ed alla Autovie Servizi spa di Trieste. Il 6 maggio 1976 un terremoto di notevole intensità colpì il Friuli. Provocò lutti e ingenti danni materiali, ma richiamò corali e straordinari gesti di solidarietà, ai quali l’Austria partecipò attivamente. Per quel che riguarda il traforo di Monte Croce Carnico il gesto di amicizia assunse le forme della seguente nota verbale datata 15 luglio 1977: “L’Ambasciata d’Austria (a Roma) presenta i suoi complimenti al Ministero (italiano) degli Affari Esteri e, per incarico ricevuto, ha l’onore di trasmettere, qui allegato, un progetto d’accordo italo-austriaco concernente il traforo di Monte Croce Carnico e di comunicare che la parte austriaca sarebbe disponibile per avviare negoziati su questo accordo a partire dal 19 settembre 1977”. Dal Ministero degli Esteri l’allegato fu inviato ai Ministeri dell’Interno, del Bilancio, delle Finanze, del Tesoro, all’Anas, alla Regione Friuli Venezia Giulia, alla società Traforo di Monte Croce Carnico e all’Ambasciata d’Italia di Vienna, con la preghiera di esprimere il proprio parere con cortese sollecitudine. Il progetto di accordo era composto da una relazione del Ministero austriaco per le costruzioni e la tecnica e da una bozza di convenzione. Il costo totale dell’opera era stimato in 1,25 miliardi di scellini. I Governi di Italia ed Austria avrebbero dovuto stanziare 240 milioni di scellini ciascuno, quale contributo a fondo perso alle due società operative. I pedaggi previsti avrebbero consentito di coprire in 35 anni i costi di costruzione, gli interessi e l’ammortamento dei crediti. La convenzione chiariva che l’opera complessiva a cui far fronte comprendeva oltre alla galleria anche i piazzali destinati ad ospitare gli impianti, i locali per le squadre di soccorso e gli uffici doganali e le rampe di accesso per collegare l’opera con la viabilità esistente, con sviluppo di circa 3 chilometri in territorio austriaco e 2 in quello italiano. Precisava che i mutui sarebbero stati contratti dalla società italiana e trasmessi, per la parte spettante, alla società austriaca e indicava un meccanismo per l’utilizzo prioritario dei pedaggi fino all’estinzione del debito. Infine la convenzione prevedeva la costituzione di una commissione interstatale con il compito di controllare l’attività delle due società operative, definiva le modalità per il disbrigo
dei controlli di confine e il procedimento arbitrale in caso di disaccordo in merito alla applicazione della convenzione stessa. Leggendo le carte il commento unanime da noi fu: è fatta. Ma ci sbagliavamo. Ovviamente, dopo la promettente nota verbale, ripresero gli incontri tra la delegazione italiana e quella austriaca, ma senza conseguire alcun risultato. L’atteggiamento e le proposte della delegazione austriaca cambiarono ripetutamente. Sul tavolo della trattativa per la realizzazione del traforo di Monte Croce Carnico comparvero molti altri problemi, oltre a quello preannunciato del collegamento autostradale da Udine a Villaco, a proposito del quale tuttavia erano proprio i lavori in territorio austriaco a segnare il passo. Ad esempio fu avanzata la richiesta di appoggio politico dell’Italia in sede comunitaria per le richieste austriache di finanziamenti del collegamento autostradale tra Norimberga e Graz. Continuarono anche le cosiddette “promozioni”. Nel 1980 “Il sole- 24 ore” diede notizia di un incontro svoltosi a Vienna tra l’assessore ai Trasporti del Friuli Venezia Giulia, Dario Rinaldi, e il ministro austriaco Karl Sekanina. Quest’ultimo nell’occasione annunciò che avrebbe provveduto ad avviare nuovamente le trattative, non appena il Governo austriaco avesse definito il suo orientamento in merito alle grandi infrastrutture e ai finanziamenti internazionali per la loro realizzazione. L’Austria, per la sua posizione geografica, rappresentava un punto di passaggio obbligato per tutte le grandi linee di traffico della Cee e il suo Governo, pressato da problemi economici, era orientato a prendere nuovi impegni soltanto in presenza di aiuti economici comunitari. Di certo la marcia indietro del Governo austriaco era stata influenzata dall’apertura al traffico dell’autostrada dei Tauri, che aveva provocato una notevole diminuzione del traffico lungo la Felbertauernstrasse e il passo di Monte Croce Carnico e quindi reso più difficile l’ammortamento della costruenda galleria. Nel 1983 vennero completati i lavori di costruzione dell’autostrada Udine-Tarvisio, realizzando in tal modo il disegno carinziano di fare di Villaco il perno nel quale si congiungevano l’ autostrada per Salisburgo e la Germania, quella per la Stiria e Vienna e quella per l’Italia. A Trieste fu coltivata la speranza che il fatto contribuisse a porre fine alle titubanze austriache per il traforo di Monte Croce Carnico, ma nulla accadde. Passarono altri anni di inutili discorsi fino al 1987, quando, durante una visita del Governo carinziano a quello del Friuli Venezia Giulia (incontro di Tricesimo, del 27 marzo 1987), il vicepresidente Erwin Frühbauer riferì che a Vienna vi erano stati avvicendamenti nella compagine governativa e che il nuovo ministro aveva dichiarato di non sentirsi vincolato dagli impegni del suo predecessore. Aggiunse che erano in corso tagli al bilancio federale e che i proventi della tassa sulla benzina non erano più vincolati alla costruzione di nuove strade. Concluse che, per poter riprendere i colloqui tra le delegazioni nazionali e definire i contenuti dell’accordo per il traforo, era necessario attendere il nulla osta dei ministri delle Finanze Mock e dell’Economia Graf. Frühbauer disse anche di ritenere più che opportuna una azione di sensibilizzazione nei loro confronti. All’epoca io ero presidente del gruppo consiliare della Democrazia cristiana in Regione e Alois Mock capo della delegazione della Volkspartei (Övp) nel Governo austriaco. Riuscii ad
ottenere un appuntamento con lui e mi recai a Vienna. Mi ricevette e gentilmente mi spiegò che l’orientamento dell’Övp era quello di tenere in sospeso l’approvazione dell’accordo per il traforo di Monte Croce Carnico. La decisione era stata assunta su richiesta di Eduard Wallnofer, il mitico “Landeshauptmann von Tirol”, per consentirgli di trovare un accordo di governo a Innsbruck. Mi dovetti accontentare di queste notizie. L’anno successivo, finalmente, ripresero gli incontri. Il 4 e 5 maggio 1988, a Udine, si tenne quello conclusivo per “definire l’ammontare del costo di costruzione e del fabbisogno finanziario, quale base per una decisione su una futura realizzazione dell’opera, spettando ai Governi la decisione in merito”, come recita il processo verbale. Il nuovo testo dell’accordo prevedeva la costituzione di una società mista denominata “Traforo di Monte Croce Carnico-Plöckentunnel spa” costituita dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dal Land Carinzia (in sostituzione delle due società nazionali precedentemente all’uopo costituite), con capitale sociale pari 44 miliardi di lire, di cui 40 sottoscritti dalla parte italiana e 4 da quella austriaca. La nuova società avrebbe provveduto alla costruzione del tunnel, dei piazzali e delle rampe di accesso, nonché alla gestione e alla manutenzione del tutto. L’accordo definiva il procedimento arbitrale in caso di controversie e rinviava a una convenzione allegata la definizione dei particolari tecnici, giuridici e finanziari. Infine, l’articolo 4 di detta convenzione affrontava e chiariva la madre di tutte le questioni, vale a dire il finanziamento della società italo-austriaca: sarebbe avvenuto con contributi una tantum, non soggetti a indicizzazione, nei termini di 90 miliardi di lire da parte dello Stato italiano, 40 miliardi di lire da parte della Regione Friuli Venezia Giulia, 360 milioni di scellini da parte della Repubblica austriaca e 4 miliardi di lire da parte del Land Carinzia. Subito dopo la firma apposta sul processo verbale dell’incontro dai capi delle due delegazioni, i ministri plenipotenziari Binder e Tozzoli, cominciò in Austria una bene orchestrata campagna contro il traforo di Monte Croce Carnico. L’Associazione per la protezione della valle del Gail ne assunse la regia, intervenendo con volantini, lettere ai giornali, dibattiti pubblici e pressioni sui rappresentanti politici. Motivò la sua opposizione sostenendo che certamente il tunnel avrebbe provocato un aumento del traffico nella valle, ma che tutto ciò era un male non un bene. Spiegò che gli intasamenti sulle autostrade dei Tauri e del Brennero, che già allora si verificavano, avrebbero scaricato su Monte Croce traffico turistico ma anche commerciale, pesante, e siccome il peso degli azionisti era di 9 a 1, anche a volerlo, non sarebbe risultata praticabile una limitazione del traffico sgradito. Fui invitato a Matrei, il 2 giugno 1989, per partecipare ad un dibattito sulla opportunità del traforo di Monte Croce Carnico, invitato come avvocato difensore del progetto del traforo ovviamente. Il consiglio comunale di quella località, posta all’inizio della rampa di accesso al tunnel della Felbertauernstrasse, aveva indetto un referendum sul tema e organizzato il dibattito. Il mio avversario era un deputato di Vienna, Hermann Knoflacher, ingegnere pure lui e docente universitario. Ci stuzzicammo a dovere. Mi chiese: “Ma perché l’Italia mette il 70% della spesa?” Risposi: “Perché l’Austria non intende intervenire con più di 400 milioni di scellini. Ma se lei mi
autorizza a dire che gli austriaci pensano che sarebbe più giusto dividere a metà la spesa, quando torno a casa mi danno la medaglia”. Altra domanda: “Perché non fare un tunnel turistico più basso, praticabile dalle sole automobili?” Risposi che questo non mi sembrava un argomento da ingegneri, che esistevano le sagome limite che definivano ovunque l’altezza dei tunnel e dei ponti, che vi erano cento altri modi più ragionevoli per impedire il traffico degli autotreni nelle nostre vallate. E così via. Mi pare di ricordare che il pubblico, che gremiva la sala cinematografica di Matrei, dove si teneva il dibattito, fosse più dalla mia parte che da quella di Knoflacher, ma quando lessi il servizio sul dibattito della “Kleine Zeitung” capii che le cose si mettevano male. L’accordo internazionale, con annessa convenzione, non fu mai approvato dal Governo e ratificato dal Parlamento dell’Austria. Il rinvio senza data della decisione fu il modo di bocciarlo senza gli inconvenienti delle bocciature. L’Italia, che aveva sempre spinto per il traforo, restava logicamente in attesa di una decisione della controparte. Si può immaginare che questa decisione-non decisione sia stata assunta, in Austria, giudicando squilibrato il rapporto tra costi (nel frattempo giunti a sfiorare i 200 miliardi di lire) e benefici e anche per il crescere nella pubblica opinione di timori per i possibili danni ambientali prodotti dal traforo. La costruzione di una galleria di superficie da Plöckenhaus al passo (molto bella per chi la guarda dall’interno percorrendola, un pugno nell’occhio per chi la osserva dall’alto, ad esempio dal Pal Piccolo. Fortunatamente lo straordinario sviluppo della vegetazione degli ultimi anni attenua questa impressione negativa.), avvenuta negli anni 1995-2000, in ogni caso, deve essere considerata il certificato di morte di un progetto che avrebbe rafforzato la cooperazione tra la Carnia e la Carinzia occidentale. Un’idea, quella del tunnel, nata sotto una cattiva stella, sfortunata. Se il passo di Monte Croce fosse stato tutto in Italia, o tutto in Austria o all’interno di uno Stato nazionale qualsiasi, il buon senso avrebbe portato a risolvere il problema di un collegamento in sicurezza tra le vallate e della sua agibilità anche nel periodo invernale proprio con una galleria, almeno per il tratto compreso tra il primo tornante (versante italiano) ed il cimitero di guerra (versante austriaco). Il tunnel di valico avrebbe presentato un rapporto tra costi e benefici clamorosamente migliore di quello delle opere realizzate nell’ultimo quarto di secolo per tentare di ottenere lo stesso risultato. Infatti, sui due versanti si è speso di più per ottenere di meno, per conseguire risultati peggiori sotto il profilo della sicurezza e stabilità del collegamento, dei costi di manutenzione e dell’impatto ambientale. Se fossimo stati più fortunati, oggi avremmo la galleria a disposizione del traffico veicolare e la strada esistente impiegata come eccellente ciclopedonale. Avremmo fatto un grande favore agli amanti della bicicletta, che sono tanti e crescono a vista d’occhio, agli operatori turistici e all’ambiente che ci è caro.
Dobbiamo peraltro ammettere che la sfortuna l’abbiamo cercata, che le abbiamo dato una mano inconsapevole con la insistente dichiarazione di voler costruire una strada commerciale da Trieste a Monaco attraverso Monte Croce. Era questa un’idea non realistica, sbagliata (e non certo per il desiderio di rilanciare il porto di Trieste, l’importanza del quale per l’economia regionale appare sempre più evidente), in contrasto con la crescente sensibilità ai problemi ambientali. Un’idea che ha spianato la strada ai sostenitori del no a tutto, anche alle cose ragionevoli, anche al tunnel di valico, anche al traffico turistico, anche al collegamento stabile e sicuro tra le vallate.
NELLA FOTO, la copertina del libro di Diego Carpenedo sulla strada di Monte Croce Carnico, che sarà presentato oggi a Paluzza. ______________________ Austria Vicina è anche su Facebook. Clicca “mi piace” alla pagina https://www.facebook.com/austriavicina.