2007 03 04 Officina Terzani - la Repubblica

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Domenica

il reportage

La balla di lana più preziosa del mondo

La

di

DOMENICA 4 MARZO 2007

MAURIZIO CROSETTI e DARIA GALATERIA

la scienza

Repubblica

Il bibliofilo e la bugia di Galileo PIERGIORGIO ODIFREDDI

Officina Terzani Nella sua amata casa-rifugio alla ricerca del segreto

che ha trasformato Tiziano in uno scrittore di culto

PAOLO RUMIZ

C

la memoria

TIZIANO TERZANI FIRENZE

hissà dove s’è nascosto Tiziano. Forse nella pendola Hoken accanto al pianoforte con lo spartito di Schubert, o dentro la gabbia di un grillo portato trent’anni fa dall’Oriente. Può essere nella statua di Ganesh, il dioelefante indiano che dormicchia vicino al lettone cinese con una collana di fiori al collo, oppure nella pancia di un cobra in bronzo acciambellato accanto al fuoco. Se poi ascolti gli scricchiolii e gli spifferi della casa, lui imbroglierà ancor più le carte. Ti befferà chiamandoti dall’armadio degli incensi tibetani, poi dal buco del camino col ronzio di un calabrone, poi dagli scaffali dei libri giapponesi, oltre la statuetta-guardiana di San Rocco in abito spagnolo delle Filippine. È facile perdersi nell’officina Terzani, la casa nomade che, di trasloco in trasloco, ha seguito l’uomo e la sua famiglia nei più straordinari paesi dell’Asia fin qui, al capolinea di Firenze-Bellosguardo. Anche Angela, la compagna che ha diviso con lui una vita e ci guida leggera di stanza in stanza, a volte ci si perde. Anche Folco, il figlio che ha raccolto dal vecchio le ultime parole sulla vita e la morte, sa che probabilmente è inutile cercare. Forse l’uomo dalla bianca tunica non sta da nessuna parte lì dentro, nemmeno nella montagna di articoli dattiloscritti, lettere e appunti a mano — quarant’anni di storia — ancora stipati in scatoloni dalle esotiche stampigliature. (segue nelle pagine successive)

M

MACAO, dicembre 1999

ia carissima Saskia, grazie infinite del tuo messaggio. Ne avevo bisogno per sapervi tutti tornati a casa, ma anche per ricordarmi che ho ancora, almeno in famiglia, delle stelle su cui orientare il mio sempre più confuso e labirintico cammino. Ieri mattina — una di quelle domeniche grigie ma non fredde della Hong Kong invernale — mi son messo in cammino dall’Università, dove sto, a piedi giù per la collina fino sul lungo mare e poi al Macao Ferry. Volevo passare due giorni a Macao e respirare l’aria prima che questo primo lembo di sogni occidentali in Asia sia, fra una settimana, anche l’ultimo ad ammainare una bandiera cristiana sulle sponde d’Oriente [… ] Mal me ne incolse! […] Tutto a Macao è stato rifatto, ricementato. Da nessuna parte ho sentito una zaffata di quell’odore di morte che era la sua vita. Per un giorno avrei voluto essere cieco, sordo e senza olfatto, tanto ogni sensazione mi feriva. Credo che ho raggiunto il fondo del mio viaggiare in questa Asia. Penso all’India come ad una grande consolazione ed ancor più a San Carlo che la solita fortuna dell’istinto mi ha fatto decidere di riaprire come porto sicuro per tutte le memorie. Ah, Saskia. Che cos’è una città? E Firenze? (segue nelle pagine successive)

Pena di morte, l’ultima volta in Italia GIORGIO BOCCA e ETTORE BOFFANO

cultura

In mostra le porno-eroine di carta FRANCESCO MERLO

la lettura

Cineromanzi, quando il film si sfogliava GIANNI AMELIO e NATALIA ASPESI

spettacoli

Ligabue, il rocker si addice alla Bassa EDMONDO BERSELLI e GINO CASTALDO

Repubblica Nazionale


28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

DOMENICA 4 MARZO 2007

la copertina Scrittori di culto

“Tra queste mura è tutto così: dietro ogni oggetto c’è una favola”,

racconta il figlio Folco aggirandosi tra draghi di terracotta, statue di divinità orientali e scatoloni di dattiloscritti. Che racchiudono il segreto di un uomo straordinario e dell’amore dei suoi lettori, più grande e appassionato dopo la morte

Il mio addio all’Asia TIZIANO TERZANI

PAOLO RUMIZ (segue dalla copertina)

(segue dalla copertina)

ì perché, dopo aver accumulato per anni, alla fine lui ha gabbato il mondo andandosene leggero, in una stanzetta vuota sugli Appennini, a guardare il tramonto con accanto una statuina senza valore di Milarepa, un tappetino e due bastoncini di incenso. S’è liberato di tutto, ha scaricato le zavorre per far volare la mongolfiera. Ai vivi ha lasciato invece uno zoo sterminato di draghi di terracotta, gru, coccodrilli e mandrie intere di elefanti. La casa di un mago, o forse di un alchimista che scompare col suo segreto, lasciando a noi l’enigma di tanti oggetti con poche istruzioni per l’uso: misture di erbe e profumi, indovinelli su carta di riso, lumini e vecchi orologi. Oggetti nomadi, pronti a emigrare ancora, in cerca di nuovi padroni, in un viaggio che non finisce mai. Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo, Bangkok, Nuova Delhi. Comincia una traversata nel tempo, nella vita di uno scrittore ancor più amato da morto che da vivo. Folco s’infila nell’angolo degli incensi, cerca briciole di memoria, tira fuori da sotto il letto l’olio e il petrolio bianco necessari a fare la giusta mistura col profumo. Accanto, i gong, le candele, i fiori. «Lui teneva sempre in funzione tutto questo, ha insegnato anche a me come fare, sapeva che gli oggetti vivono solo se attorno ci crei un’atmosfera. Ora anch’io lo so: quando si svegliano sono straordinari, ma basta trascurarli pochi giorni e ripiombano nel letargo. Richiedono una dedizione tale che devi scegliere: vivere tu o far vivere loro». «Il babbo era infaticabile, entusiasta, tornava da ogni viaggio carico di cose. Traversava le frontiere più pericolose con terrecotte o tappeti sulle spalle, per portarli a casa. Ma non era affatto un collezionista, lo affascinava la storia degli oggetti, quello che ci stava dietro. La contrattazione necessaria a comprarli, le storie, gli incontri casuali che la scoperta e l’acquisto comportavano: questo era il suo modo di conoscere i luoghi». Accarezza un grosso elefante vietnamita e il suo gemello, immobili nel salotto. «Ce li portò a casa dicendo che aveva comprato due elefanti vivi, ma il governo aveva detto di no, li aveva parcheggiati allo zoo e gli aveva dato in cambio quelli in terracotta. Così il babbo ci portava allo zoo, ci mostrava la coppia di pachidermi veri e diceva: quando sarete grandi, loro saranno vostri. In questa casa è tutto così, dietro a ogni oggetto c’è una favola». L’altarino degli antenati, uno stipetto cinese zeppo di statuine e foto di famiglia. Accanto, un Budda con la collanina d’oro che ha accompagnato Tiziano per tutta la vita, il lettone-armadio di Macao, grande come mezza stanza, comprato con cinquemila dollari vinti al casinò. «Sono circondato di oggetti dalla nascita — continua Folco — e forse per questo oggi non ne voglio. Di mio non possiedo nulla: quattro magliette, un’amaca, una coperta e un sasso che porto sempre con me. Non ho casa, dormo in casa di amici, vivo tra l’India, l’Italia e Los Angeles. Ma chissà — sorride con gli occhi furbi da brigante — forse posso permettermi un lusso simile solo perché ho alle spalle tutto questo». La stanza si riempie di luce mandarino, oltre la finestra e gli ulivi c’è un gran tramonto verso i colli della Lucchesia. Ad altezza davanzale, incastrato tra le due pareti laterali, un soppalco di quattro metri per tre, con sopra un tappeto tibetano di Lasha e l’ultimo tavolo da lavoro, appena più grande di una scatola da scarpe, su misura per un uomo

irenze che cosa rappresenta nell’immaginario di uno che ne è fuggito ragazzo, pur tenendola in petto come faro di orientamento, termine di paragone anche per gustare tutto “l’altro”? E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove la tua sicurezza? A quale immagine di città ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui? Il vantaggio di noi europei è almeno quello di avere ancora delle città in cui riconoscersi, in cui non tutti i punti di riferimento sono cambiati, in cui si può ancora voltare un angolo e sapere che ci si para dinanzi una chiesa o una colonna, un albero o il portone, sempre dello stesso colore, di una vecchia casa. A Macao non c’era neppure più il mare a rassicurarmi col suo monotono respiro delle onde contro il muro di pietre sotto i grandi alberi. Anche il mare è stato portato via!! […] Ah Firenze, Firenze! Mi chiedo se abbia ragione Theroux di cui mi scrivi. Certo che ci sono ancora delle spiagge dove andare, degli alberghi boutiques in cui i ricchi potranno permettersi di stare lontani dagli “Ossies”, ma non è questo il punto. Il punto è che è finito il senso dell’avventura, il “gusto dell’altro” che ancor avant’ieri era dovunque. Nelle nostre chiacchierate da digiunatori dissennati abbiamo con Poldi deciso di rifare il mondo eliminando i passaporti, ritirando tutti quelli che esistono e lasciando che il viaggiare sia di nuovo una questione di vita e di morte … o di raccomandazioni! Ti abbraccio, mia Saskia e grazie ancora d’aver battuto un colpo. So che ci sei da qualche parte nel mondo e quel sapere mi consola. t.

F

S

(Questa lettera di Tiziano Terzani alla figlia Saskia è inedita Il “San Carlo” a cui si riferisce è la casa di Firenze di cui scrive Paolo Rumiz)

GRILLI E COCCODRILLI

seduto in posizione yoga. È il tavolo de Un altro giro di giostra, dove s’è giocata la riscoperta del mondo attraverso la malattia terminale. Un’esplorazione estrema, avvenuta tutta dentro una costellazione di oggetti posizionati in modo da rappresentare un ordine mentale. L’armadietto con le scorte di tè di ogni tipo, le teiere, il fornello, i libri di Gandhi e Krishnamurti, il cuscino, la finestra sul mondo. Tutto è perfettamente visibile in quell’angolo. La geometria mentale dell’uomo, lo straordinario viaggio immobile verso una frontiera immateriale, la ricerca dell’essenza, l’affrancamento dai bisogni, il lavoro di scavo interiore e di eliminazione del superfluo. E poi la semplificazione portata all’ultima essenza, la riduzione dello spazio a un punto solo, quello in cui morire. Il capolinea della stanzetta himalaiana di Binsar, sotto i ghiacciai del Nanda Devi. E soprattutto Orsigna, il fondovalle tosco-emiliano con i grandi alberi parlanti, le scarpate e il vento di quota, il

luogo del lungo dialogo sulla vita con la moglie e i figli, la rampa di lancio verso l’Altrove. Allora t’accorgi d’aver giocato a rimpiattino con un’ombra imprendibile. La stanza di un guru? «Ah, non c’è parola più sbagliata per Tiziano», sorride Angela, dopo il gran pontificare dei critici sul fenomeno di massa Terzani. «Lui non cercava seguaci. Era solo uno che

Dall’alto, un elefante thailandese di guardia alla porta del giardino; una gabbia cinese per catturare i grilli; foto di Terzani a Suez e con la moglie Angela; un coccodrillo indiano di terracotta; uno scaffale di libri sulla Cina

ha vissuto e ha parlato alla gente di ciò che conta nella vita». Folco s’arrabbia: «Il mio babbo non aveva nessuna ambizione di dire la parola definitiva, figurarsi. Semplicemente ha smesso di cercare risposte nei santoni e nei maestri e ha co-

minciato a cercare in se stesso. Io gli ho detto: babbo, che hai in testa? Lui me ne ha parlato schiettamente, tutto qui. Non immaginava di scoperchiare un simile pentolone. Non sospettava quanto enorme fosse, nella società di oggi, il vuoto di pensiero sulle cose che contano». La camera di Angela, il letto circondato di scatoloni e valigie piene di articoli, lettere e diari da archiviare. Sembra che lui se ne sia appena andato. «A volte non so come andare a dormire, devo scavalcare montagne di cose. Ci sono momenti che vorrei mollare, il lavoro di riordino è immenso, ma quando leggo quei dattiloscritti mi dico che ne vale la pena». Estrae una lettera al direttore de l’Espresso dalla Cambogia

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Terzani la casa nomade

con la scritta «Pass Urgently», un articolo su carta velina da Saigon, crivellato di correzioni a pennarello nero. Poi pezzi in inglese per lo Spiegel dalla Cina, dove fu uno dei pochi europei negli anni del disgelo. «Mi stupisco ogni volta che in tutto questo non ci sia un grammo di muffa. C’è dentro la forza della vita prima ancora che della storia. Sembra tutto successo ieri». Ma ecco, oltre i draghi cinesi, la parete piena di libri indiani e l’armadio con le gabbiette dei grilli; ecco, passata una

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PROFUMO DI ORIENTE Dall’alto in senso orario, bacchette di incenso, una statua del dio Ganesh con ghirlanda di fiori al collo; statua di san Rocco da Macao; pendola di Hoken In basso, articoli dalla Cambogia per L’Espresso

porta, la scrivania di Hans-Joachim Staude, il padre pittore di Angela, nella stanza che fa da capolinea al labirinto. Lei racconta: «Questo mobile ha un cassetto segreto dove mio padre teneva il denaro, e quando il denaro finì, nel 1948, un anno durissimo, lui venne a dirci che il cassetto era vuoto e bisognava darsi da fare. Cominciò quello che rimase per tutti noi il tempo del cassetto vuoto, un tempo straordinario, perché per campare dovemmo affittare delle stanze, e ci venne in casa gente straordinaria, attirata a Firenze dalla bellezza, non dallo shopping. Tiziano mi conobbe allora, nel tempo del cassetto vuoto. Fu rapito da quella casa allegra, povera e piena di storie da raccontare». C’era il dantista Hans Gmelin, i pianisti von Zastrow e Zirovich, lo storico fiorentino Nikolaj Rubinstein in partenza per la

Grecia. I violoncellisti Gaspar Casadò e il suo allievo di Ceylon Rohan de Saram, con la madre chiusa in uno stupendo sari. «Quanta arguzia nelle nostre cene! Quanto imparavo! Non avevamo bisogno di viaggiare, avevamo il mondo in casa! Tiziano era affascinato da questi personaggi che avevano avuto il coraggio di osare, mettersi in discussione… I suoi orizzonti si aprirono ancora di più, tutto gli apparve possibile dopo gli anni delle ristrettezze… lui, povero di nascita, imparò l’ottimismo in quel mio mondo privo di convenzioni borghesi, dove mio padre parlava dell’infanzia ad Haiti e mia madre raccontava di favolosi viaggi nella Cina pre-rivoluzionaria». La Cina è lì, due pareti piene di libri, con lo scaffale più alto sovrastato da arcigne statue scaramantiche di Macao. «La Cina è il luogo dove siamo stati più felici, io scrivevo i miei diari, lui i suoi articoli, il maoismo stava finendo, eravamo tra i pochissimi testimoni di un’epoca di cui trovavamo ancora le tracce tra cumuli di macerie. In quei milioni di uomini pallidi, spaventati, vestiti tutti eguali, lì tra montagne immense di cavoli e di farina grigia, cercavamo la luce di storie individuali nei lineamenti. Non dimenticherò mai un pezzente chino su un manoscritto antichissimo della Città Proibita. Era un eminente studioso che era stato spedito a fare i lavori più umili durante la rivoluzione culturale. Tutto era eccitante e un po’ borderline, pericoloso quel tanto che bastava… e difatti Tiziano fu espulso…». Angela racconta: «In Cina era stato spazzato via un mondo straordinario, una sterminata memoria dell’umanità… per questo lui rovistava ovunque, dalle case ai robivecchi, i segni di quel tempo estinto… per strapparli all’oblio. Ma appena quegli oggetti diventavano antiquariato, non gli interessavano più. Da allora non ho mai più pensato che una rivoluzione potesse essere una cosa buona… e dire che una volta i contadini cinesi non buttavano mai via la carta scritta, mai, tanta era la reverenza per la cultura… L’agghiacciante pragmatismo della Cina di oggi, la Cina che ci inquieta, è il risultato della distruzione di allora, unita ai disastri del capitalismo». La finestra del salotto verso il giardino. Sul davanzale, un cuscino cinese a forma di gatto, un ananas cambogiano in argento, un coccodrillo indiano in terracotta, un vaso di rame dell’Himalaia, una statuetta colorata di Lu Xun, scrittore cinese identico a Tiziano, seduto a mani conserte, con la stessa tunica bianca. Accanto, un libro di Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa dalla mafia russa che a maggio avrà il premio Terzani alla memoria. Verso il vetro un ragno tesse la sua tela, sembra misurare il tempo in sincronia con la pendola. Folco, nella stanza accanto, rovista in un armadio, poi sbuca con un sorriso e delle scatolette in mano. «Ecco, vedi? Ho ritrovato il suo incenso preferito! Erano mesi che lo cercavo inutilmente in Tibet e nell’Himalaia, e invece era tutto qui! Bastava guardare in una porticina… Ci sono bastoncini per due anni… Guarda! Il suo tappetino dello yoga! I rotoli cinesi! Quanta roba mai aperta…». Usciamo sulla strada, Folco guarda le stelle d’inverno. «Ora ci tolgono anche queste… piazzeranno lampioni moderni nelle stradine dei colli, i lavori sono già in corso. È il nuovo che avanza… Colpo su colpo l’Italia sta perdendo il suo mistero…». Nel buio, per un attimo, la voce di Folco sembra quella del Grande Vecchio, solo davanti alle costellazioni dell’Himalaia.

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DOMENICA 4 MARZO 2007

il reportage

Viene dall’Australia, si chiama “record bale”, è la balla di lana

Made in Italy

più sottile e più costosa del mondo: 300mila dollari per cento chili

di vello di pecore merino. Da anni l’asta per assicurarsela è vinta dalla famiglia Loro Piana che, nei suoi nove stabilimenti e cento negozi, la trasformerà in cinquanta abiti fuoriserie da diecimila euro l’uno: un’avventura imprenditoriale tutta da raccontare...

Una vita sul filo di lana P

BORGOSESIA

er arrivare in via Montenapoleone, una pecora deve farne di strada. E bisogna immaginarne proprio tante, di pecore, milioni di macchie bianche nel verde smeraldo dell’Australia e della Nuova Zelanda. Una volta allevate, accudite, amate e tosate, con le super-pecore australiane si producono tre milioni di balle di lana all’anno, lana merino, la più sottile del mondo, e altre due milioni con le strepitose neozelandesi. Ma ancora non è niente. Da queste cinque milioni di balle di lana bisogna tirarne fuori due, quelle con la fibra più sottile, sottilissima: il giudice è un microscopio elettronico. Due su cinque milioni. Da dieci anni, queste pepite di lana da novantasei chili ciascuna le comprano all’asta i fratelli Loro Piana. Tanto per dire: se una pecora fosse una Ferrari, Sergio e Pier Luigi Loro Piana guiderebbero quella pecora, al limite la costruirebbero. E ancora non è abbastanza. Perché delle due “record bale” ne dovrà restare soltanto una, la più sottile in assoluto, la più fine del pianeta. «E allora abbiamo inventato una specie di gran premio, di sfida tra australiani e neozelandesi, la Loro Piana World Wool Record Challenge Cup». Pier Luigi sembra un moschettiere, ha baffi e lunghi riccioli (di cashmere?) ed è perfettamente complementare al fratello Sergio (alto, affilato, abito gessato e sigaro avana) tra fabbriche, fattorie e finanza. «Alla fine premiamo la migliore balla di lana dell’anno, pagandola 1.500 dollari al chilo, più altrettanti per aggiudicarci l’asta. In totale fanno 300mila dollari per cento chili». Undici millesimi di millimetro virgola sei: è questo il numero magico, cioè 11.6 mi-

cron, ultimo primato della lana merino 2006. Acquistata nel dicembre scorso a Tumbarumba, Australia, sembra un paese da cartone animato ma esiste davvero. Ha vinto la fattoria Highlander, però quella lana non si tocca: «Il lotto verrà messo in produzione solo quando sarà disponibile una balla di merino ancora più sottile». A partire da questo mese sarà pronta l’annata 2005, come se fosse un Barolo o un Brunello. E infatti i tessuti sono etichettati in modo speciale, bottiglie di lana per pochissimi eletti. Visto che da una balla da record mondiale si ricavano centocinquanta metri di tessuto, fanno più o meno cinquanta abiti. Ma il costo, signor Pier Luigi? «Circa duemila euro il metro, dunque seimila euro per abito. Con la confezione da parte della nostra sartoria (anche se ovviamente si può acquistare solo il tessuto) si arriva a circa diecimila euro per un abito finito». Ma questo non è il Rolex dello sceicco, tempestato di diamanti, è la storia di un pochissimo, di un rarissimo e di un lontanissimo. Per accaparrarsi la lana migliore occorrono anni di relazioni con gli allevatori, e un controllo di qualità assoluto dall’inizio alla fine del viaggio, dalla pecora alla boutique. Bisogna mantenere le posizioni. «E bisogna chiedersi: chi vogliamo fare contento?» dice Sergio Loro Piana, che in ufficio ha giocattoli d’epoca e sulla scrivania tabelle, grafici, indagini di mercato. «In tanti garantiscono l’esclusività del prodotto, qualcuno solo a parole, qualcun altro davvero. Ecco, noi siamo il “davvero”».

GLI ARGONAUTI Una scena dalla Storia degli Argonauti. È Circe a indicare agli Argonauti la via per la Colchide Giasone muove verso il suo regno, ma per averlo deve impossessarsi del vello d’oro, dono di Ermes Particolare del dipinto di Geoffrey

FOTO CORBIS

MAURIZIO CROSETTI

L’idea dell’asta per la super lana venne a Pier Luigi alla fine degli anni Settanta, quando in Australia vide in azione un compratore inglese, mister Lamb (cioè agnello, sarà mica un caso). Telefonò al fratello Sergio in piena notte e gli disse: «Noi compriamo la torta, ma qui c’è un tizio che si prende sempre la ciliegina. Facciamolo noi al posto suo». Ancora non esisteva la balla campione del mondo. «Ne comprai venti, tutte di altissima qualità, e mi accorsi che così la migliore si confondeva nel mucchio. Allora pensai al gran premio, un gioco da qualche centinaio di migliaia di dollari ma anche un modo per trainare il resto della produzione sempre più in alto». È un equilibrismo scientifico, perché i micron della fibra di lana si abbassano incrociando le pecore giuste. «Credo che siamo ormai vicini al limite, però non è detto. In appena un decennio siamo passati da 13.60 a 11.60 micron: non l’avrei mai ritenuto possibile», spiega Pier Luigi entrando nello stabilimento di Roccapietra, Valsesia, ai piedi della collina, l’ultimo dei nove (cinque in Italia, tre negli Usa, uno in Mongolia), una fabbrica tutta vetrate circondata da siepi di rose rugose, con un parquet di rovere sul pavimento e la sala mensa che dà su una specie di giardino giapponese. Ciliegi in fiore ai primi di marzo, con i dipendenti che mangiano e guardano, in apparenza molto rilassati, nelle loro magliette verdi da club sportivo col marchio sul petto. «Cerchiamo di stare attenti all’ambiente: grazie ai sistemi di risparmio energetico spendiamo appena seimila euro di ri-

scaldamento all’anno per ventiseimila metri quadrati». L’impianto di depurazione dell’acqua finisce la sua corsa con un allegro zampillo nella vasca dei pesci rossi. «Se avessimo costruito una fabbrica tradizionale, il solito capannone di cemento, nel ‘92 avremmo speso diciannove miliardi. Ne abbiamo investiti venti, però adesso abbiamo uno stabilimento modello». Qui Penelope è diventata un robot, perché molta parte della produzione è automatizzata. Però gli operai non hanno perso il posto, anzi sono saliti dai quattrocento del ‘75 ai milleduecento di oggi, più altri settecento nella distribuzione. L’artigianalità resta un valore portante del made in Italy. Nel mondo, novantatré negozi eppure otto anni fa ce n’era uno soltanto. Un fatturato di 384,3 milioni di euro (più 15,2 per cento in dodici mesi), e quattro anni fa i ricavi erano poco più di 252 milioni. Possibile che sia tutto così morbido? Neanche una pecora nera? «Ma certo, eccola!» dice Pier Luigi toccandosi la giacca. La palpa, come aveva palpato i plaid nello show room aziendale, come si dice facciano i vecchi produttori di tessuto del Biellese quando incontrano qualcuno: con la mano destra stringono la tua, con la sinistra ti accarezzano la giacca per pettinarla con le dita e tastarne la morbidezza, la qualità, insomma ti assaggiano il vestito. «Il mio abito è fatto con la lana merino delle pecore nere: nessuno le voleva, noi sappiamo che sono uniche al mondo perché non hanno bisogno di essere tinte, il vello è scuro, la lucentezza unica». E c’è anche qualcosa di simbolico nel redimere la pecora nera, rovesciandone il senso per farne una rarità. La rivincita di Calimero. «Mi trovavo alla consueta festa annuale degli allevatori a Elisabeth Town, in Nuova Zelanda, si faceva il barbecue sul lago, una meraviglia, quando si avvicina una

RACCOLTA

CERNITA

EGIARRATURA

ASTA

LAVORAZIONE

All’animale viene praticata la tosatura (o pettinatura se è giovane) durante la muta

Si effettua una cernita manuale per separare i peli grossolani. Quindi, il lavaggio

Questa lavorazione elimina le materie vegetali, la forfora e i peli setolosi esterni

Da gennaio a giugno per la lana merino in Australia e Nuova Zelanda

Si separano le fibre (cardatura) e si scartano quelle corte (pettinatura)

Il gomitolo del tempo dalle Parche ad Alice DARIA GALATERIA a come mai sotto alla ghigliottina lavorano a maglia le tricoteuses, vecchie avide di sangue? I sanculotti presumibilmente non sapevano delle Moire o Parche, le vecchie figlie della Notte che traevano il fato — tiravano il filo sottile di lana che figurava la vita umana, e a un tratto lo recidevano con «lucide cesoie». Ma evidentemente anche nella furia ideologica della Rivoluzione francese — quando motivatamente si tagliavano le teste aristocratiche sotto il culto della Ragione e dell’erigenda Repubblica — la morte restava un enigma. Le Parche così resuscitavano a vegliare, accanto alla Giustizia repubblicana, il monito del tempo destinato a ciascuno, immotivato e inconoscibile, filato dalla conocchia al ritmo cantante del fuso, come un battito d’orologio. «I nostri termini sono simili per corta durata», dice nella favola di La Fontaine (XI, 8) l’ottuagenario che sta piantando un albero a tre ragazzi che lo deridono: chi può conoscere il gesto delle par-

M

Vicuña

Capra Hyrcus

Questo piccolo lama peruviano produce solo 250 grammi di pelo ogni due anni La sua lana ha fibre di 12-13 micron

Vive soprattutto in Mongolia Produce 150-200 grammi di sottovello (di 14-15 micron) ogni anno

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31

11,6 IL DIAMETRO RECORD, IN MICRON, DELLA LANA MERINO 2006

100 LA LUNGHEZZA IN KM DI UN CHILO DI FILO DI TESSUTO TASMANIAN

384,3 IL FATTURATO IN MILIONI DI EURO DELL’AZIENDA LORO PIANA

clienti, è come se li conoscessimo uno per uno, in fondo fanno parte di un club», risponde Sergio Loro Piana tra un orsacchiotto e una trottola. «Ma non è snobismo, è esclusività. Le statistiche ci dicono che nel mondo vivono otto milioni e duecentomila persone con oltre un milione di dollari cash a testa. In Europa e in America, per lo più, ma anche in Asia. Potremmo definirli i super ricchi. Eppure i soldi non bastano ancora: serve una cultura del gusto, un’abitudine al bello radicata, a volte, in generazioni. Così scendiamo a non più di qualche decina di migliaia di persone». Gli esperti la chiamano “curva di esperienza di ricchezza”. «Quando parliamo di qualità che meglio non si può, non possiamo usare concetti astratti, dev’essere qualcosa di misurabile. La sottigliezza di una fibra di lana lo è. Il problema è arrivarci». Anche per l’allevatrice della Mongolia, che porta dentro il grembiule il suo pregiato cashmere da vendere, il problema è arrivarci. Anche per il lama bonsai, che saltella a quattromila metri di altitudine senza nessuna voglia di farsi acchiappare. Perché i miti si fabbricano così, sono come i tartufi, preziosi perché rari, costosi perché rari, e ogni tanto c’è una pepita di lana che non dipende solo dalla fantasia della natura ma dall’uomo, e alla fine costa come un diamante. Color bianco pecora, però quella nera è meglio.

signora, Fiona, e mi parla delle sue pecore nere che non vuole nessuno. È scoccata la scintilla. Ora, lei alleva e incrocia solo pecore nere con il carattere genetico recessivo o secondario, ne avrà quattromila. E poi è una produzione altamente biologica, tutta naturale». Pier Luigi prende il suo cappotto, blu: «Ha quindici anni». È quello nuovo. «L’altro, il vecchio, di anni ne ha trenta». Per arrivare al rarissimo, si parte sempre dal pochissimo. Per ottenere un cappotto di vicuña, animale peruviano allo stato brado che era quasi estinto (è un piccolo camelide, una specie di grazioso lama in miniatura: il suo pelo era considerato “la fibra degli dei” e solo i sovrani inca potevano indossarlo), occorre il vello di trenta bestie, e ognuna scorrazza per un ettaro di pampa: l’animale adulto produce la miseria di duecento grammi di pelo ogni due anni, che dopo lo scarto delle fibre più grossolane si riducono a cento grammi. Peggio ancora il baby cashmere, altra invenzione del marchio Loro Piana: si ottiene dal sottovello dei cuccioli di capra Hyrcus che vivono nell’Asia centrale, tosati — anzi “pettinati” — tra i tre e i dodici mesi di vita. Una capretta produce, una sola volta nella vita, non più di ottanta grammi di morbidissimo sottovello; dopo la pulitura scendono a trenta-quaranta grammi. Però è come toccare una nuvola. Pecore d’annata, pesci rossi innaffiati con limpida acqua di fabbrica, graziosi cuccioli di capra da pettinare, giardino dei ciliegi, cappotti da sedicimila euro il colpo, moquette di cashmere, giacche a vento di lana però a prova di tempesta, farcite con membrane super tecniche. Ma perché? E per chi? «Noi sappiamo tutto dei nostri

Non solo Australia. La ricerca dei materiali più pregiati si spinge anche sulle Ande, habitat del vicuña, e nell’Asia centrale dove pascolano la capra hyrcus e i suoi cuccioli, fornitori del baby cashmere Ma la scoperta più straordinaria è stata in Nuova Zelanda:

un branco di pecore nere con un vello di lucentezza unica

IN NEGOZIO

FILATURA

TESSITURA

La fibra viene arrotolata per ricavare il filo e il suo rapporto tra lunghezza e peso

Il procedimento che, intrecciando i fili (ordito e trama) origina il tessuto

Il risultato finale può essere questo baby cashmere bomber-gilet staccabile in visone, venduto in uno dei 93 negozi Loro Piana nel mondo. Oppure si può acquistare il tessuto, costa duemila euro al metro Per un abito ne servono almeno tre metri

che dalle «mani smorte»? Sono le donne naturalmente, che sorvegliano il passaggio dal nulla alla vita, e dalla vita alla morte, a filare la lana del tempo; la maga Circe inversamente, che può donare l’immortalità, e tutto il nugolo delle sue Nereidi in Ovidio «vellera motis / nulla trahunt digitis nec fila sequentia ducunt», non cardano e non filano la lana (Metamorfosi XIV, 264). È Circe a indicare agli Argonauti la via per la Colchide. Giasone, sulla prima delle navi di tutti i tempi, Argo, muove verso il suo regno, ma per ottenerlo deve impossessarsi del vello d’oro, dono di Ermes, nascosto in un bosco. Lo aiuterà Medea, madre tragica. L’atroce mito trae le umili origini dai mercanti e marinai proto-greci, e dai pastori cercatori d’oro delle zone montuose della Colchide che utilizzavano un setaccio ricavato dal vello d’ariete, tra le cui fibre restavano impigliate le pagliuzze d’oro. Ma il filo di lana perlopiù indica il tempo («Fila la lana, / fila i tuoi giorni, / illuditi ancora / che lui ritorni», Fabrizio De André), e si può esorcizzare solo con la violenza giocosa dei colori (il gomitolo di Andy Warhol). Una volta, con Arianna, rappresenta il tracciato della ragione. Il bel Teseo giunge a Creta per uccidere nel suo labirinto il Minotauro — il mostro uomo e toro, concentrato degli istinti ferini; Arianna si innamora dell’eroe, e gli offre un gomitolo di lana per ritrovare al ritorno la via d’uscita dal labirinto, che è il dedalo in cui ci si perde con le bestiali passioni. Grazie a Arianna, figlia del legislatore Minosse, Teseo torna al mondo della civiltà e del diritto, ma solo per innamorarsi altrove, e abbandonarla a Nasso. Dal mito alle fiabe, la lana disegna il passaggio dalla delusione d’amore alla sua attesa. Quanto deve dormire una fanciulla per dimenticare il padre e farsi baciare dal Principe Azzurro? «Trascorsi cent’anni», arriva «il figlio del re che regnava a quel tempo, e che appar-

teneva», precisa Perrault, «a una famiglia diversa da quella della principessa dormiente». La bella addormentata si è punta col fuso di una vecchina, «che se ne stava tutta sola a filare la sua conocchia». La latenza che precede il risveglio dei sensi ha coperto di sonno e di rovi l’intero castello. Basile, nel Cunto de li cunti («essenno Talia grannecella e stanno a la fenestra, vedde passare na vecchia che filava; e, perché n’aveva visto mai conocchia né fuso e piacennole assai chello rocioliare che faceva, la fece saglire ‘ncoppa») ha già profittato di quel letargo incantato per realizzare una fantasia; il re che, seguendo il suo falcone, scopre la fanciulla addormentata, la possiede nel sonno («pigliato de caudo de chelle bellezze, ne couze li frutte d’ammore e, lassatola corcata, se ne tornaie a lo regno suio; la quale, dapo’ nove mise, scarricaie na cocchia de criature»): ecco la donna ingravidata senza coscienza e senza piacere — tornerà nella Marquise von O… svenuta di Kleist, e nella giovane in coma di Hable con ella di Almodovar. Invano comunque i re, per ritardare la maturità sessuale dei figli, bandiscono dal regno per editto i fusi e altri strumenti per filare la lana; verrà il giorno che la principessa si pungerà; e anche se l’attesa è sembrata un secolo, è bellissima: ma chi avrà il cuore di dirlo a dei ragazzi? Perrault no di certo: «Je n’en ai pas la force ni le coeur». Anche Alice, di ritorno dal Paese delle Meraviglie, sonnecchia su una poltrona; i gattini giocano col gomitolo che ha pazientemente arrotolato da una matassa di lana. Un micino nero — non quello bianco, che sta apparentemente soddisfatto a fare le fusa — ha ingaggiato col gomitolo «una partita di salti», finché non lo ha completamente «ingarbugliato»; il filo di lana giace, tutto nodi e grovigli, sul tappeto. «Ah brutto micio», lo sgrida Alice, ignara che grazie al gattino nero il reverendo Dogson — Lewis Carroll — ha di nuovo ingarbugliato il tempo, e trattiene la piccola e adorata bambina al di qua dello specchio.

Hyrcus baby

Merino bianca

Merino nera

Il cucciolo della capra Hyrcus è “pettinato” tra i tre e i dodici mesi Le sue fibre (13 micron) servono per il cashmere baby

La pecora australiana o neozelandese dalla quale si ricava la Record Bale venduta all’asta per 300mila dollari

Una varietà di Merino neozelandese la cui lana di grande lucentezza non deve subire alcun procedimento di tintura

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

la scienza Pagine-gioiello

DOMENICA 4 MARZO 2007

A Milano dal 16 al 18 marzo, alla Mostra del libro antico, verrà esposta parte della più importante Collezione Galileiana privata del mondo: 139 opere valutate dieci

milioni di euro. Alcune risolvono piccoli gialli storici e fanno scoprire, ad esempio, che il grande scienziato mentì negando di aver usato le teorie di Keplero per potenziare il telescopio

Il bibliofilo e la bugia di Galileo O PIERGIORGIO ODIFREDDI

gni tecnologia è per sua natura un mezzo, e non un fine: cioè, dovrebbe servire senza asservire o, se si preferisce, dovrebbe essere lei a servire noi, invece che noi a servire lei. Eppure, sappiamo tutti benissimo (e non possiamo non saperlo, perché la pubblicità non perde occasione per ripetercelo costantemente) che gli oggetti sono in realtà gli idoli di un culto che, ormai, è diventato l’unica vera religione dell’Occidente: quella del Prodotto, che ha sostituito nell’adorazione i Cristi e le Madonne con le automobili e i telefonini. Di tutti questi idoli e dei, quelli meno falsi e bugiardi sono sicuramente i libri: nel senso che, nel supermercato planetario dei prodotti più o meno benefici o malefici sfornati dalla tecnologia, essi costituiscono sicuramente gli oggetti più degni di venerazione e rispetto: anche se ne ottengono in pratica molto meno delle opere d’arte o dei gioielli, ad esempio, benché in teoria valgano spesso molto di più. Il culto dei libri ha naturalmente un suo nome: la bibliofilia. E ha i suoi templi: i negozi antiquari nei quali si possono trovare copie rare di testi antichi, magari autografate dall’autore o annotate dal lettore, a volte letteralmente a beneficio dell’umanità intera. È il caso delle Osservazioni su Diofanto del matematico dilettante Pierre de Fermat (Bollati Boringhieri, 2006), scritte a metà del Seicento sui margini di un libro, appunto, e dalle quali sono scaturiti problemi che hanno assillato i matematici per tre secoli e mezzo: primo fra tutti il famoso Ultimo Teorema di Fermat, dimostrato da Andrew Wiles soltanto nel 1995. Naturalmente, i matematici badano al sodo e si accontentano di ciò che sta scritto sui margini, ma i collezionisti darebbero chissà che pur di avere l’unico autografo delle osservazioni di Fermat. O, per rimanere alla storia della scienza, per mettere ad esempio le mani sulla copia del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo appartenuta a Urbano VIII, nella quale il papa trovò le proprie idee messe in bocca da Galileo a un ingenuo chiamato Simplicio, e si vendicò scatenando sul povero scienziato il processo del Santo Uffizio che lo stritolò. Chi si accontentasse di poter mettere gli occhi addosso a un tal libro, invece che le mani, potrà semplicemente visitare la Mostra del Libro Antico che si terrà a Milano dal 16 al 18 marzo al Palazzo della Permanente. Lì e allora troverà non solo il libro citato, ma anche una nutrita scelta della Collezione Galileiana: la più importante e completa

raccolta privata di libri di, su e attorno a Galileo, messa insieme all’estero in mezzo secolo di acquisti, e ora in attesa di compratori italiani che possano e vogliano sborsare una cifra che si aggira sui dieci milioni di euro. Delle 139 opere che costituiscono la Collezione, sette sono i manoscritti, novanta le prime edizioni e quattordici i volumi che riportano annotazioni, correzioni e dediche autografe di Galileo e altri autori. Alcuni dei libri provengono dalla biblioteca privata di Urbano VIII, e altri da quella del principe Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei e grande amico e sostenitore di Galileo. E il tutto verrà descritto e illustrato in un Catalogo in due volumi, stampato in edizione limitata, che naturalmente andrà a sua volta ad allungare la lista delle brame dei collezionisti. Ma anche coloro che sono interessati solo a ciò che i libri dicono intellettualmente, e non a ciò che essi sono fisicamente, possono trovare motivi di interesse nella Collezione: ad esempio, nel fatto che uno dei volumi, la Diottrica di Keplero del 1611, contiene annotazioni autografe e sottolineature di Galileo, in particolare nella sezione dedicata al funzionamento del telescopio a lenti convesse. Ora, l’interesse non sta tanto nel fatto che questo sia l’unico volume conosciuto al mondo postillato da Galileo, quanto piuttosto nel fatto che le annotazioni smentiscono le sue stesse dichiarazioni: lo scienziato, infatti, accusato di aver utilizzato i princípi di Keplero per potenziare il telescopio, negò sempre di aver letto il libro del collega e rivale, come invece evidentemente aveva fatto. D’altronde, allora come ora, le polemiche e le dispute di priorità scientifica erano all’ordine del giorno: tanto più in un periodo in cui non esistevano i brevetti, e bisognava dunque convincere direttamente i committenti e il pubblico, invece che le università e gli uffici. Ad esempio, una delle invenzioni del giovane Galileo fu una versione primordiale di ciò che poi divenne il regolo calcolatore, ed egli ne descrisse il funziona-

Di volume in volume viene ripercorsa tutta la vita dell’autore del “Dialogo”: liti,

scoperte, piaggerie, processo e abiura mento nel suo primo libro: Le operazioni del compasso geometrico e militare, tirato nel 1606 in sole sessanta copie, di cui la mostra presenta un esemplare con correzioni autografe dell’autore. Pochi mesi dopo la sua uscita, un tal Baldassarre Capra rivendicò la paternità dello strumento e Galileo lo citò in giudizio: il tribunale gli diede ragione e condannò l’avversario per plagio e alla

distruzione di tutte le copie del proprio trattato. Galileo non fu soddisfatto, però, e scrisse nel 1607 una Difesa contro le calunnie e imposture di Baldessar Capra milanese, anch’essa presente alla mostra, nella quale ricorda fra l’altro che al processo il contendente aveva dimostrato di essere completamente digiuno di matematica: ovvero, sotto la panca del tribunale il Capra crepò. Pochi anni dopo, nel 1610, uscì la prima grande opera di Galileo: il Sidereus Nuncius, o Messaggero Stellare, nel quale lo scienziato annunciò al mondo le prime scoperte fatte col telescopio. Egli racconta di aver saputo della sua invenzione in Belgio, di averne costruito subito uno personalmente, di averlo puntato in cielo e di aver visto coi propri occhi che la superficie della Luna è costituita di monti, valli e crateri, esattamente come quella della Terra, e che le stelle sono in numero molto maggiore di quello visibile a occhio nudo. Ma la scoperta più sorprendente fu l’esistenza dei quattro satelliti di Giove: essa confutava definitivamente la centralità della Terra per i moti celesti, e avrebbe potuto e dovuto aprire la via all’accettazione del sistema copernicano. Galileo capì l’importanza della scoperta e la dedicò al Granduca di Toscana, chiamando i quattro corpi celesti “Medicea Sidera”, “Stelle Medicee”, e ricevendone in cambio la nomina a matematico primario senza obbligo di insegnamento (il sogno di ogni ricercatore!) e filosofo granducale. L’aspetto interessante della copia del libro presente nella Collezione è che in essa i satelliti erano dapprima chiamati “Cosmica Sidera”, “Stelle di Cosimo”, e in seguito fu applicata sulla dicitura a stampa un’etichetta con l’altro nome, voluto dal Granduca per onorare la famiglia intera, invece che solo lui. Nel 1623 uscì la seconda grande opera di Galileo: Il Saggiatore, il cui titolo stava a indicare che in esso «con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose». Nonostante questa autocelebrazione preventiva, la teoria proposta nel libro era completamente sbagliata: essa affermava infatti che le comete non erano corpi reali, come sostenevano giu-

stamente Tycho Brahe e i Gesuiti, bensì illusioni ottiche prodotte dalla luce solare sul materiale esalato dalla Terra verso la Luna, e oltre. Il volume conteneva però almeno una pagina memorabile, di alta letteratura: quella in cui la Natura viene paragonata a un grande libro, che non si può leggere se prima non si impara il linguaggio in cui è scritto, che altro non è se non la matematica. Quanto al piccolo libro di Galileo, la copia messa in mostra è una delle rarissime otto che furono tirate su carta speciale, per gli amici e i sostenitori: più precisamente, quella che andò al principe Cesi. Naturalmente, però, il libro più famoso dello scienziato è il già citato Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. In origine l’opera doveva intitolarsi Del flusso e riflusso, perché la teoria delle maree esposta nella Quarta Giornata avrebbe dovuto costituire il colpo di grazia inferto al sistema tolemaico: peccato che fosse sbagliata, invece, come già lo era stata quella delle comete. E in origine l’opera doveva essere appoggiata dal papa Urbano VIII, che nel passato era stato amico e sostenitore di Galileo: peccato che all’ultimo momento egli abbia ritirato il supporto, invece, dando questa volta lui il colpo di grazia allo scienziato. Nel 1633 questi fu dunque processato, il suo Dialogofu messo all’Indice e lui fu condannato agli arresti domiciliari a vita. Nei cinque anni seguenti Galileo, piegato ma non spezzato, riuscì comunque a scrivere il suo capolavoro scientifico: i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, pubblicati clandestinamente a Leida nel 1638. Qualche copia fu riportata altrettanto clandestinamente in Italia, e quella esibita nella mostra finì sorprendentemente nella biblioteca privata del papa: a dimostrazione del fatto che, forse, la decisione politica del pontefice Urbano VIII, di abbandonare il vecchio amico al proprio destino, non aveva comunque spento l’interesse intellettuale dell’uomo Maffeo Barberini per il suo lavoro. Nel 1656, quattordici anni dopo la morte di Galileo, fu pubblicata la prima edizione delle sue Opere, seguita nel 1718 dalla seconda: entrambe, naturalmente, senza il Dialogo. Questo fu ristampato senza “imprimatur” nel 1710 e tornò ufficialmente in commercio solo nel 1744, nella terza edizione delle Opere: con qualche sberleffo, però, dalla subdola manipolazione delle affermazioni a favore dell’eliocentrismo, all’aperta inclusione fra le “opere” dell’imbarazzante testo dell’abiura. Il tutto documentato alla mostra da preziose edizioni, che costituiscono i gioielli della corona di questa singolare Collezione Galileiana.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33

L’ESPOSIZIONE Opere fondamentali che hanno contribuito a scrivere la storia della scienza e del pensiero occidentale, testi autografi di Galileo, volumi a lui appartenuti e da lui annotati: dal 16 al 18 marzo, in occasione della Mostra del libro antico di Milano, sarà esposta parte di una collezione di libri e manoscritti unica (Palazzo della Permanente, via Turati 34) La collezione è riconosciuta dai massimi esperti come la più importante e completa al mondo di proprietà privata, seconda solo a quella della Biblioteca nazionale di Firenze: manoscritti, esemplari unici o rarissimi, novanta prime edizioni, quattordici volumi con annotazioni e dediche autografe, opere di astronomia, matematica e geometria. Della collezione galileiana verrà presentato, in occasione della mostra milanese, un catalogo in due volumi in tiratura limitata, dal quale sono tratte le immagini che pubblichiamo in queste pagine. Il catalogo è prenotabile presso il distributore, Casa Editrice Pecorini (www.pecorini.it)

MANOSCRITTI In questa pagina, in senso orario, da in alto a destra: frontespizio del Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632); le Dioptricae di Keplero annotate da Galileo; manoscritti della Lettera a Madama Cristina (1615) e del Dialogo; frontespizio della copia del Saggiatore (1623) appartenuta al principe Federico Cesi ed ex libris di Cesi Nella pagina di sinistra, schema celeste dal De revolutionibus di Copernico (1566)

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la memoria

Esattamente sessant’anni fa, il 4 marzo, furono fucilati tre siciliani, condannati a morte per la “strage di Villarbasse”: dieci persone ammazzate a bastonate e nascoste nella cisterna di una cascina piemontese. Un mese e mezzo dopo la Costituente cancellerà la pena capitale

Gialli storici

Oggi un cronista testimone della fucilazione racconta...

Pena di morte quell’ultima volta nell’Italia ’47

GIORGIO BOCCA ieci persone assassinate in una cascina di Villarbasse da quattro banditi siciliani. Ne danno notizia La Nuova Gazzetta del Popolo e La Nuova Stampa, il 30 novembre del 1945. Due cronisti, uno per giornale, sono stati accompagnati in auto sul posto dai carabinieri, nessun fotografo, resoconti stringati, freddi: i giornali non hanno spazio, i lettori sono stanchi di lutti, di orrori, di sangue, qui in Val Sangone sono avvenuti gli eccidi della X Mas del principe Valerio Borghese, il principe nero. Villarbasse è uno di quei villaggi della campagna torinese che sono immersi nella storia, ma ancora fuori dalla modernità. Rivoli con il suo castello è a cinque chilometri e in cinque chilometri si sale alla Sagra di San Michele, l’abbazia dei Longobardi dalle mura alte, e ai precipizi che non riuscirono a fermare Carlo Magno. Dentro la storia e dentro le leggende, che fanno da sfondo come le nebbioline delle colline di Giaveno che diedero i natali al corridore ciclista Martano. Ma sì, scriviamolo: perché le guerre si dimenticano, ma le memorie del Giro d’Italia restano. E resta la bagna caoda, la salsa di acciughe olio e aglio che continua a cuocere nei fornelletti per condire, ardente, le verdure freschissime. La bagna caoda è presente in tutte le fasi della strage di Villarbasse. Sul tavolo dell’osteria torinese di via Cibrario, dove i siciliani progettano il delitto, arrivati al Nord con la guerra, uniti dal mercato nero. E c’è la bagna caoda la sera dell’eccidio alla cascina Simonetto, dove il proprietario, l’avvocato Massimo Gianoli, ha riunito una bella tavolata con il fattore Antonio Ferrero, sua moglie, il genero Renato Morra, le domestiche Teresa Delfino, Rosa Martinoli e Rosina Maffiotto, più un bimbo di due anni e il nuovo lavorante Marcellino Gastaldi, venuto su per festeggiare l’assunzione. I banditi fanno irruzione verso le otto di sera. Sono i tre che hanno progettato il delitto, Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti; e poi c’è Francesco Saporito detto Lala, che ha lavorato per alcuni mesi nella cascina. Si sono mascherati con dei tovaglioli, sono armati di due pistole. L’operazione è preordinata, a catena. Puleo scende nella cantina, si piazza sull’orlo della cisterna con un randello grande e nodoso, gli portano le vittime una ad una. Puleo è un gigante, lascia che la vittima si avvicini alla cisterna e l’accoppa con un solo colpo micidiale di randello: si salverà solo il bambino, abbandonato in una stanza. Saranno uccisi anche i mariti di due delle domestiche, saliti alla cascina per cercare le mogli. Quando tutti gli amici dell’avvocato sono morti, i siciliani risalgono in casa per raccogliere il bottino: duecentomila lire, quattro salami, tre paia di calze, dieci fazzoletti. Delitti così, senza senso, senza pietà, sono frequenti in quel dopoguerra: una donna di Correggio, la Cianciulli, uccide le sue vecchie amiche e poi le saponifica tenendo i pezzi in un ripostiglio della cucina; figlio e marito non se ne accorgono. La Rina Fort ha ammazzato con una sbarra i figli di un suo amante che l’ha abbandonata. E la politica è spesso un alibi per continuare ad uccidere. Noi, che raccontiamo sui giornali ciò che accade, viviamo ubriachi di gioventù fra i delitti e le macerie dei bombardamenti, nelle tane urbane lasciate libere dagli sconfitti, noi giornalisti della Gazzetta, di GLe dell’Unitàapprodati in casa Protani, il questore repubblichino Protani, fucilato al “rondo d’la forca” dove prima impiccavano i ladri, e i buoni torinesi venivano a godersi lo spettacolo. Gli assassini di Villarbasse stanno con il loro misero bottino nello sperduto borgo piemontese e non sanno che fare, che cosa attendere, ma i dieci che stanno nella cisterna non li trova nessuno e

D

Il bottino dei banditi:

duecentomila lire, quattro salami, dieci fazzoletti e tre paia di calze

ESECUZIONE Qui sopra, la fucilazione dei tre condannati al poligono delle Basse di Stura A destra, padre Ruggero Cipolla con una sedia “da fucilazione”, e la cascina Simonetto a Villarbasse dove avvenne la strage di dieci persone

Il plotone di esecuzione di trentasei agenti si schiera sul pendio di fronte ai tre uomini legati alle loro sedie

son già passati dieci giorni. Solo Saporito, che è un bandito vero di professione, capisce che bisogna fuggire, prende il primo treno per Palermo, torna a Mezzojuso, il paese dove sono nati e cresciuti tutti e quattro, a farsi uccidere dalla Mafia: non per Villarbasse, ma per altri suoi assassinii o sgarbi. Sono trascorsi, dicevo, dieci giorni e sulla collina di Villarbasse nulla si muove. Porte finestre della cascina sono chiuse. I cadaveri delle dieci vittime stanno nella cisterna, i carabinieri sono passati un pomeriggio e i siciliani gli hanno detto che l’avvocato è partito, non sanno per dove. Eppure le tracce del delitto sono numerose, visibili: un contadino ha trovato nel prato un cappello macchiato di sangue, poi un vicino ha notato altre macchie di sangue nella cantina e una giacca sul cui bavero è rimasto appuntato un biglietto con scritta la parola Caltanissetta, che vuol dire? Il capo partigiano Fasola setaccia la zona con i suoi amici e, finalmente, si ricorda della cantina. L’ingresso è coperto da uno strato di foglie, le rastrellano, entrano e arrivano alla cisterna. Fasola prende una pertica e cerca nella cisterna, i cadaveri sono al fondo uno accanto all’altro. Questa volta i carabinieri possono fare il loro mestiere, ricercano e arrestano i siciliani, pronti alla confessione. Sono degli assassini, ma non si direbbe che sappiano quello che hanno fatto. Un giorno il francescano Ruggero Cipolla, che assiste i prigionieri alle Nuove di Torino, entra nella cella di Puleo e lo trova steso a terra sotto un lenzuolo sopra il quale ne ha appeso un altro come un catafalco. E dice al monaco: «Ho deciso di piangere la mia morte, tanto nessuno lo farà per me». Quando arriva la notizia che la Cassazione ha respinto la domanda di mutare la sentenza di morte, ululano come lupi per tutta la notte. Ho una memoria incerta e nebbiosa di quella tetra fucilazione del 4 marzo del 1947, l’ultima condanna a morte eseguita in Italia. Un maresciallo dei carabinieri mi porta al poligono delle basse di Stura dove, nei tempi felici dei Savoia, c’era una delle riserve di caccia più vicine alla reggia. I lugubri preparativi sembrano ultimati: il plotone di esecuzione di trentasei uomini è schierato sul pendio che sta di fronte al muro dei condannati. C’è il frate che va da una sedia all’altra, cui i condannati sono legati, e mormora parole consolatri-

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PULEO

LA BARBERA

D’IGNOTI

CIPOLLA

Qui sotto, foto di gruppo con i killer di Villarbasse in catene e padre Cipolla che li assistette fino all’ultimo Nel particolare qui a sinistra, un primo piano di Giovanni Puleo

A sinistra, Francesco La Barbera A Villarbasse le dieci vittime, furono finite a colpi di bastone e gettate in una cisterna Solo un bimbo di due anni fu risparmiato

A sinistra, Giovanni D’Ignoti Gli assassini erano quattro ma il quarto, Francesco Saporito, tornò a Mezzojuso, il paese dove tutti erano cresciuti, e morì in vicende di mafia

A sinistra, padre Ruggero Cipolla, il frate francescano che dal ’44 al ‘47 fu incaricato di confortare i condannati a morte nelle carceri torinesi Ne assisterà 72

Una storia nella storia, la vita di padre Ruggero Cipolla

Da Villarbasse a Frate Mitra il confessore dei dead men walking ETTORE BOFFANO i può essere diversi, anche davanti al boia. E ci si può chiamare Perry Edward Smith oppure Richard Eugene Hickock e affidare la memoria della propria esecuzione a Truman Capote, in un romanzo-verità intitolato A sangue freddo. Invece, si può partire dalla Sicilia, negli ultimi mesi della guerra contro il nazifascismo, chiamarsi Giovanni D’Ignoti o Francesco La Barbera o Giovanni Puleo e morire fucilati a Torino, in una mattina di marzo ovattata dalla nebbia, tra le sterpaglie delle Basse di Stura. Trentasei agenti della Celere, altrettanti fucili e poi diciotto pallottole vere e altre diciotto a salve; tre sedie fabbricate apposta dal falegname per legare i condannati e far appoggiare loro il mento su una mensola; tre ciotole di brandy, le bende nere; i fotografi con i flash al magnesio, i giudici e il pubblico ministero con cappotti scuri e lunghi e la lobbia in testa. E un frate, i piedi nudi nei sandali semplici e marroni, le lenti da miope, «vigoroso, con i capelli neri e lisci e un volto infantilmente paffuto», come lo descrissero i cronisti di allora nel gelo di quel 4 marzo di sessant’anni or sono. Si chiamava padre Ruggero Cipolla, era un francescano e se n’è andato il primo dicembre scorso, a novantaquattro anni. Fu l’ultimo confessore degli ultimi condannati a morte d’Italia, quelli della “strage di Villarbasse”; e fu anche il loro piccolo Truman Capote, di certo infinitamente meno bravo a raccontare, di sicuro meno cinico e forse più umano. Capote, quando il New Yorker pubblicò l’ultima puntata, quella dell’esecuzione dei due killer di Holcomb nel Kansas, diede una grande festa al Plaza Hotel che scandalizzò l’America. Alle Basse di Stura, invece, il frate guardò per alcuni minuti i cadaveri dei tre assassini insaccati sulle sedie: «Rimasi ancora un poco lassù per aiutare i becchini a ricomporre i loro corpi nelle bare. Poi, poiché tutte le auto erano già tornate in città, chiesi un posto sul furgone che li portava al cimitero generale. Detti un’ultima benedizione alle fosse nel “Campo 1” e celebrai una messa in loro suffragio nella cappella del camposanto. Saranno state le nove, le nove e mezza. Era spuntato anche un po’ di sole…». Non sarebbe più accaduto. Un mese e quindici giorni dopo, l’Assemblea Costituente avrebbe cancellato per sempre la pena capitale e, con essa, una storia antica fatta di dolore e di spirito di vendetta nella quale il francescano dai piedi nudi e dai calzari marroni era entrato nel 1944, per volontà del cardinale di Torino Maurilio Fossati, come cappellano delle Carceri Nuove. La sua vita non cambierà mai più, e per i tre anni successivi padre Ruggero sarà l’estremo compagno di settantadue giustiziati: partigiani e antifascisti uccisi dai tedeschi e dalle bande nere, infine i criminali di guerra nazifascisti inviati davanti al plotone di esecuzione dalla Corte d’Assise straordinaria. Sino a quei tre assassini comuni della “strage di Villarbasse”. Un “record” macabro, capace di scavalcare persino quello del beato Giuseppe Cafasso, il santo sociale torinese che aveva accompagnato alla forca sessantotto condannati. Una vendetta umana che, nel 1889, il codice Zanardelli aveva cancellato dalla legislazione italiana, ma che Mussolini e il guardasigilli Rocco avrebbero reintrodotto nel 1926 e poi nel 1935, prima per i reati “politici” e poi per quelli “comuni”. Che infine, il 10 maggio 1945, nell’Italia già liberata, un decreto luogotenenziale aveva sancito per chi si macchiava di «omicidio, banda armata, rapina con uso di violenza e a scopo di estorsione». Come era accaduto alla Cascina Simonetto di Villarbasse e come racconterà padre Ruggero, sempre con lo stesso tono uguale della sofferenza, nel suo libro autobiografico intitolato I miei condannati a morte. Dai membri del Cln piemontese, fucilati dai fascisti nel poligono di tiro del Martinetto, all’ultima esecuzione alle Basse di Stura, la landa fredda e nebbiosa scelta in fretta e furia la vigilia di quel 4 marzo proprio per non disonorare, con la presenza di tre assassini comuni, il luogo che aveva ospitato la fine dei martiri della Resistenza. Il problema della pena capitale fa discutere molto e divide, quasi dilania in quei giorni l’opinione pubblica e i partiti. Quando il presidente provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, nega la grazia a D’Ignoti, Puleo e La Barbera, tutti san-

FOTO FOTOTECA GILARDI

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ci che loro non ascoltano rannicchiati come orsi dietro il legno delle sedie, l’ultima illusoria protezione. Un signore in abito scuro, il questore suppongo, fa dei segni perché si affretti l’esecuzione e finisca questa maledetta grana. I soldati del plotone sono nervosi, a uno cade il fucile di mano: allora accorre l’ufficiale comandante con la sciarpa azzurra. Parte la scarica che, nel vuoto della campagna, è appena un crepitio, tanto che neanche i passeri si spaventano. Due dei condannati si af-

flosciano sulle sedie, Puleo non so come, torcendosi è riuscito a sollevarsi e a gridare qualcosa. Ma cosa? Un collega ha preso appunti. «Che cosa ha gridato?». «Viva la Sicilia indipendente e libera». Passano alcuni anni e mi telefona da Torino, dalla Fiat Mirafiori, un siciliano: «Sono del comitato Sicilia libera, le chiediamo di smentire i suoi scritti su Giovanni Puleo e i compagni uccisi nel complotto anti-siciliano di Villarbasse». «Va bene — dico —, mandatemi del materiale». Non si sono più fatti vivi.

no che la Costituzione si prepara ad abrogarla, ma l’esecuzione è decisa subito, perché i dieci morti di Villarbasse non possono lasciare spazio alla clemenza. Dopo l’approvazione della Costituzione invece, e in attesa della sua definitiva entrata in vigore, tutte le altre condanne a morte saranno sospese e poi cancellate. A Torino, quando i tre siciliani compiono la strage, esce anche un quotidiano gestito dagli ex partigiani del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà. Si chiama GL e ci scrivono Giorgio Bocca, Carlo Casalegno, Giovanni Trovati, Franco Venturi, Ferruccio Borio e Alessandro Galante Garrone. Chiuderà poco prima del 4 marzo 1947, ma le sue pagine fanno in tempo a narrare sia la sentenza di condanna a morte di Giovanni Cera, ex comandante della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò, sia quella degli assassini della Cascina Simonetto. Nella prima cronaca la fermezza ma anche la retorica danno il segno di che tempra sono fatti quei giornalisti giunti in redazione direttamente dalle bande partigiane, nella seconda comincia a farsi strada un linguaggio scarno e asciutto, assieme ai dubbi e ai contrasti morali. La sera prima della condanna di D’Ignoti, Puleo e La Barbera, invece, alla redazione torinese dell’Unità arriva una telefonata di Palmiro Togliatti che da lì a nove giorni avrebbe lasciato il ministero di Grazia e Giustizia. Gli risponde Davide Lajolo, “Ulisse”: «Mi parlò con voce incerta: “Non so, è necessario fucilare altra gente?”. Io gli risposi: “Questi non sono politici, compagno. Vanno fucilati due volte: la gente li vuole morti e i partigiani anche”. Dopo, avrei voluto richiamare Togliatti e dirgli che ci avevo ripensato. Non lo feci: un gesto di viltà». Padre Ruggero, in quelle stesse ore, non si tormenta e non discute. Continua la missione affidatagli dal cardinale e non smetterà nemmeno dopo che la pena di morte è stata cancellata. Ai partigiani e agli ebrei, confortati prima del plotone di esecuzione o al momento di salire sui treni destinati ad Auschwitz, si sono sostituiti i capi e i manovali della mala piemontese poi soppiantata dai clan siciliani e calabresi, gli uomini e le donne delle Brigate rosse e di Prima linea, che seguirà nei giorni della rabbia e della violenza ma anche in quelli della dissociazione dal terrorismo, infine le avvisaglie della nuova criminalità dell’immigrazione extracomunitaria. Tra le celle e i corridoi delle Nuove, anche durante le rivolte dei detenuti dei primi anni Sessanta, in mezzo alle quali, facendo da “ambasciatore”, incontrerà l’altra grande storia della sua vita. La interpreta un malvivente delle barriere operaie ed ex legionario in Francia: Silvano Girotto, “Frate Mitra”. Sembra un miracolo vero: il rapinatore che si pente e si converte, che diventa frate e poi sacerdote, con la prima messa concelebrata in carcere assieme a padre Ruggero. Andrà a combattere da guerrigliero in Sud America sulle orme di Camillo Torres, in un’avventura in parte vera e in parte inventata: gli dedicano anche un libro famoso e gli scattano una foto sulle Ande che diventerà una «cartolina della rivoluzione». Rispunterà a Santiago del Cile nei giorni del golpe di Pinochet e rientrerà in Italia dove sarà soprattutto un “traditore”: infiltrato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nelle Br, farà arrestare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini. Forse la maggiore delusione per il francescano delle Nuove che, però, non cesserà mai di credere nel suo compito: «Come non ricordare che il primo santo accolto in paradiso fu proprio il ladrone pentito?». Sempre pronto a rievocare e a narrare di quell’ultima esecuzione che segnò anche la fine di una ferocia barbarica: con un’intervista, un discorso ufficiale o un libro di memorie. Il suo piccolo e personale A sangue freddo, del quale rivelò solo nel 1982, allo scrittore Gian Franco Venè, l’ultimo segreto: «Lassù, nel massacro della cascina, fu risparmiato un bimbo di due anni, Pierino. L’anno scorso, un detenuto per dei reati finanziari legati a un fallimento di due macellerie sale nel mio ufficio e mi dice: Padre, io so chi è lei e lei sa chi sono io. Tutti e due lo sappiamo benissimo, eppure non ci siamo mai incontrati. Questa è l’occasione: io sono Pierino, quel Pierino».

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Apre a Milano l’otto marzo una mostra di immagini tratte dal Fondo Riservata Erotica della Biblioteca Nazionale Braidense. Un’“antologia del piacere” e, insieme, l’archivio storico di un’ossessione, di una “malattia” che corre lungo le pagine dell’editoria licenziosa soprattutto italiana e francese dal Cinquecento ai nostri giorni. Il tutto sempre in bilico tra il registro erotico-galante e quello libertino-pornografico perché, come aveva capito Marinetti, “il chiaro di luna romantico bagna la facciata del bordello”

Eros

Nell’Enfer dei libri maledetti sfilano le porno-eroine di carta FRANCESCO MERLO inutilepresentarsi qui con il sorriso d’ordinanza o fingere la spensieratezza in questa mostra del libro erotico che si apre a Milano l’otto marzo (l’otto marzo!) e non è, come vorrebbero i dotti curatori della Biblioteca Nazionale Braidense, «un’antologia del piacere», ma la documentazione di una malattia, l’archivio storico di un’ossessione, anche se nessuno di questi libri può spiegare e contenere quell’Eros-Priapo che neppure gli dei dell’Olimpo volevano tra di loro perché non si fidavano di una divinità infantile che non vuole crescere, di una smania che disarticola ogni calcolo di equilibrata, misurata armonia. Insomma Eros-Priapo non è divinamente corretto. Dunque gli dei cercarono di confinarlo in un’appartata dimora di licenziosa e scurrile promiscuità, un ghetto senza barriere interne di alcun tipo: la pornografia. E benché, ancora oggi, molti fingano di non sapere nulla di quel ghetto, in realtà non c’è uomo che non abbia affrontato con un libro «la guerra dei cinque contro uno», delle cinque dita contro il sesso, per dirla con le parole della Réligeuse in chemise. Intanto, proprio come lo scrivere, la masturbazione è attività solitaria, un piacere individuale e una prova di autonomia, «il pericoloso supplemento» della penna diceva Rousseau, perché ogni lettera vergata è «carezza che resuscita i morti» aggiungeva Baudelaire, e il gioco di parole «mi sfrucuglia / mi gorgoglia / e al salame fa venir voglia» cantava l’anonimo, e le iperboli letterarie producono «un’erezione da cosacco», e tutta l’arte della retorica serve a dar sollievo, secondo Apollinaire, «al ritmo ferroviario dell’Orient Express». È la tecnica delle parole che incontrano parole, membro, affare, aggeggio, toccatina, self-pollution, semen extra vas, masturbazione, stupro, manustrupazione, fatica viziosa, funesto tornaconto, nell’universo nascosto e tuttavia ben frequentato della pornografia, un po’ come i locali degli anni del proibizionismo americano gestiti da delinquenti ma riempiti da tutti, da uomini con ghette e da donne di classe, da donnine e da omuncoli. E non di lettura qui si tratta perché pochissimi leggono per intero Ciò che piace alle donne, Le fellatores e La sega degli dei. Sono infatti libri necessari solo a quell’«affilo per stasera il mio coltello» del racconto di La Fontaine, che è la parte “in chiaro” dell’oscenità. Mentre l’uomo, che con una mano dialoga con la sua anima e con l’altra regge La Papessa di Giovambattista Casti o Il contadino pervertito di Rétif de La Bretonne, ne è la parte oscura che non può essere messa in mostra neppure in questa bella Mostra denominata Enfer che la Biblioteca Braidense apre a Brera appunto l’otto marzo. L’otto marzo? Sembra uno sberleffo, un cattivo gusto festeggiare la donna con un carnevale, un rodeo di immagini, di associazioni psicologiche, di realtà dissociate e improbabili, una palestra di acrobazie linguistiche, affabulatorie orientate al riso sguaiato, liberatorio solo nel senso dello svuotamento di sé. Ma forse l’otto marzo merita questo sberleffo della Braidense, perché la retorica delle

È

Non c’è spensieratezza, né rivolta e rivoluzione nel libro erotico In realtà si parla di maschi e di maschi soli, ben lontani dalla donna concreta mimose ha reso grottesca anche l’utopia del sesso liberato, con questa idea che il sesso sia l’identità di una persona, per cui liberando il sesso si libera la persona, come se si potesse vivere con il ginocchio liberato, o gli occhi liberati e la testa frastornata e confusa, la testa tradita. Come può la testa consegnare l’anima al ginocchio, ai testicoli, alla vulva? E come può l’erotismo consegnarsi al libro erotico? Come si può credere che Eros-Priapo abbia accettato la ghettizzazione? Chi, tanto per fare un esempio, volesse davvero mettere in mostra l’erotismo settecentesco italiano più che al Batacchi e al Casti, che spiccano nella collezione della Braidense, dovrebbe ripartire dalla dimenticata letteratura, anche giuridica ed ecclesiastica, sul cicisbeo, curioso fenomeno che proprio nel paese della gelosia religiosamente supportata dalla mo-

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NINFE DISSOLUTE Nell’altra pagina, da sinistra, la prima parte dei Ragionamenti di Pietro Aretino (1584); frontespizi di Histoire d’O di Pauline Réage (1965) e de L’antivergine di Emmanuelle Arsan (1968). L’immagine grande è tratta da Aphrodite: mœurs antiques di Pierre Louÿs, illustrazioni di Antonin Calbet (Parigi, 1896). In questa pagina, sopra da sinistra, Femmina di Umberto Notari; Si vive d’amore (Milano, 1887); una stampa dell’Erotische Werk di Felicien Rops (1905); qui a destra, illustrazione tratta da Les bijoux indiscrets di Diderot

nogamia, dalla santità del matrimonio, dall’idea dell’onore, santifica, legalizza e arricchisce di modernità per più di un secolo la pratica dell’adulterio. Piuttosto che nell’Ortolano delle monacheo ne L’ossessa, l’erotismo di quel secolo sta nelle figura del cavalier servente, che diventa un membro della famiglia, assiste e partecipa al risveglio e ai lavacri della signora, alle operazioni cosmetiche, dall’acconciatura al ritocco dei nei, e partecipa alla tavola familiare, sempre in mezzo tra moglie e marito, sbriga commissioni, ed è sempre presente alle feste, abilissimo nel conversare, nello spendere e consumare, in un trionfo della futilità e dell’effimero, fra tazze di cioccolato e nuvole di cipria, ma con considerazioni keynesiane ante litteram da parte degli economisti illuminati come Pietro Verri, acuto intellettuale e cicisbeo instancabile che per anni servì la sorella di Cesare Beccaria, Maddalena, anche dopo il matrimonio di lei con il marchese Giulio Cesare Isimbardi al quale strappò persino il diritto ad esercitare i piaceri maritali, «il pane del cicisbeo», il concubinato. Ed è interessante notare che al marchese Isimbardi, che opponeva una resistenza passiva non all’adulterio ma al suo riconoscimento ufficiale, Pietro Verri nelle lettere al fratello Alessandro indirettamente risponda dandogli non del cornuto ma dell’imbecille che non capiva i vantaggi dell’essere cornuto. Ma facciamo un esempio più vicino. È vero che in questa Mostra si sfiora appena il Novecento, ma insomma c’è molto meno erotismo in Emmanuelle Arsan e in Melissa P, che pure sono state aggiunte al catalogo, di quanto ce n’è in Alberto Moravia che è forse il solo ad avere svelato di che sangue grondi il sesso d’Italia. Se Machiavelli capì il potere italiano, Moravia capì il sesso, che è lo squallore degli Indifferenti, la morbosità di Agostino, la ferocia animalesca della Ciociara. La letteratura italiana del secondo Novecento è un florilegio di amori infelici nel casino. Da Vittorini a Pavese a Buzzati è tutto un innamorarsi «come un babbeo» della puttana, un’oscillazione fra grazia e disgrazia che fa impazzire d’amore per sublimi sgualdrine che, nello scorrere delle pagine, diventano sempre più sublimi e sempre meno sgualdrine, perché come cantava De André «in via del Campo ci va un illuso / a pregarla di maritare / a vederla salir le scale / fino a quando il balcone ha chiuso». Dolcistilnovisti e dermosifilopatici, gli uomini italiani sono pieni di pathos e di blenorragia perché, come aveva capito Marinetti, «il gran chiaro di luna romantico bagna la facciata del bordello». Altro che spensieratezza, rivolta e rivoluzione del libro erotico! In realtà parla solo di maschi, e di maschi soli, questa mostra di Milano, del loro rifugiarsi nel libro di genere, ben lontano dalla donna concreta, dal suo erotismo reale, dalla banalità del suo mistero. È vero che alla fine valgono, questi scrittori di genere erotico, galante, libertino e pornografico, quanto i cardinali e i preti che immaginano le donne come costolette da friggere sulla graticola biblica dei luoghi comuni maschili, e quanto i poeti romantici dell’altra metà del cielo, o i campioni di Sanremo, o i sociologi femministi e le sociologhe femministe delle quote riservate, o i politici marpioni che demagogizzano sulla fecondazione assistita, ma davvero non ci sarebbe

LA MOSTRA E IL CATALOGO Si intitola L’Enfer della Braidense, i libri del Fondo Riservata Erotica la mostra che aprirà giovedì 8 marzo alla Biblioteca Nazionale Braidense diretta da Roberto Di Carlo L’inaugurazione, alle 18, in via Brera 28 a Milano. La mostra (aperta fino al 21 marzo) raccoglie una scelta di testi erotici del fondo del collezionista Camillo Bianchi, che contiene un migliaio di titoli dal Cinquecento fino al Novecento Tra gli autori, l’Aretino, Casanova, De Sade e Diderot. La casa editrice Franco Angeli pubblica nella collana Storia dell’editoria il catalogo del fondo a cura di Anna Rita Zanobi e Giovanna Valenti (222 pagine, 20 euro) che sarà presentato all’inaugurazione. Le immagini di queste pagine provengono dal Fondo della Braidense e alcune di esse saranno esposte alla mostra

Il confino di queste pagine in un ghetto librario accompagna la crociata e la furia repressiva

di preti, medici e genitori contro la masturbazione alcun motivo di festeggiare la faticosa banalità di essere donna cantando la donna-fantasma della pornografia che, nelle sue varie versioni, di sottomessa, autoritaria, fatale, infernale, educanda, sino alla «macchina da fottere» di Bukowski e alla «liberata» delle femministe, è l’eguale contrario di quella raccontata da Borgese (Le belle, Sellerio), la donna che, un attimo prima di suicidarsi gettandosi dalla finestra, si aggiusta pudicamente la gonna sulle gambe. La donna di cui si parla nella mostra di Milano è soprattutto la peccatrice che va a finire nel taccuino delle tariffe, la Berta, la Turca, l’alternativa, sui divani del Grottino, ai «surrogati snervanti», che sono la verità di questi libri, la ragione per la quale sono stati scritti e poi avidamente letti e scrupolosamente collezionati. La masturbazione, insomma, è la regina assoluta del libro di genere erotico, della pornografia, di Internet, ma anche, udite udite, del bordello e della prostituzione femminile. E di fatti masturbatio, che è latino, deriva probabilmente da mastropeuein che è greco e significa procacciare prostitute: amore mercenario e «mano amica», la «puttana del mancino» secondo Marziale, sono le sequenze di una medesima deformazione, della stessa impasse, entrambi rimedi autocentrati, con la masturbazione nel ruolo di protagonista, e non solo perché è più diffusa e più antica come scrisse Freud: «Sono arrivato a pensare che è l’unica grande abitudine, il bisogno primitivo». Non esiste fenomeno che, nella storia dell’umanità, abbia subito la stessa prolungata furia repressiva, ben più del libro proibito che pure le è “compare”, sino alla morte, alla galera, al taglio dell’arto, alla ferocia del manicomio, alla persecuzione collettiva, a partire dalla scoperta scientifica, da parte di Leeuwenhoek nel 1677, di quelli che sulle prime chiamò animalculi: ogni goccia un oceano di uomini preformati, e tra i quali inizialmente persino distinse il maschio e la femmina. Insomma partì, come spesso accade, dalla scienza la crociata contro la masturbazione — «falso godimento» «nervosismo immaginativo» «suicidio e omicidio» — con la partecipazione fanatica del prete, del pastore, del ministro del culto, del medico, dei genitori, degli educatori, dei precettori e dei maestri, dell’intera opinione pubblica, con una violenza che arriva sino a oggi visto che non c’è nulla di più sprezzante dell’insulto «segaiolo», parola alla quale dovrebbe obliquamente associarsi anche il significato di raffinato

lettore di libri, quelli appunto in mostra a Brera. E basta entrare, fosse pure una volta, in un bordello di Parigi o di New York per scoprire che la prostituzione femminile è fondata sulla masturbazione maschile. I famosi sex shop, le case di piacere, i bordelli dei quartieri a luci rosse d’Europa alternano, infatti, spettacoli dal vivo e saloni privati dove si esercita la prostituzione a lunghi corridoi in più piani dove, con casualità strategica, si aprono cabine singole nelle quali ci si rinchiude per masturbarsi in santa pace, non più con uno dei libri in mostra a Milano, ma davanti a un televisore che proietta filmini classificati per genere, e il cliente può sceglierne uno o abbandonarsi a un furibondo zapping. Sono corridoi affollati, come la Rinascente a Milano, di varia umanità, di quegli stessi uomini che frequentano gli uffici postali e i supermarket o le redazioni dei giornali, ma non hanno la semplicità del ragazzino sincero che non si vergogna; loro temono il contagio e non dicono apertamente la verità che è la seguente: «Quando non ho la ragazza mi smanetto, spesso con l’aiuto di un libro o di un film». E, in quei corridoi, tra la folla dei clienti si aggirano numerosi inservienti, uomini di colore, immigrati, con i guanti e la mascherina sul viso, una scopa e un secchio. Hanno il compito di pulire per terra, tra un cliente e l’altro. Una bella rivista francese, Nova, qualche tempo fa, ne raccontò e ne fece parlare uno. In Francia li chiamano clinér, deformando la parola inglese, negli Stati Uniti sono i bus-boys. Fanno probabilmente il lavoro più infimo del mondo, e oggi forse dovrebbero essere proprio loro i protagonisti inconsapevoli, i testimoni della riedizione di una di quelle famose indagini sul sesso degli anni Sessanta, e dunque di un nuovo, amaro Rapporto Master e Johnson (ricordate?) sulla libertà sessuale, sul bisogno primitivo di libri o di filmini erotici. E un giorno anche questi filmini finiranno nel Fondo “Riservata Erotica” della Braidense, ma è bene non credere all’allegria, o al presunto ruolo ribelle, di chi colleziona queste opere che, come i libri che le hanno precedute, non sono mai state opere spensierate e neppure eversive o rivoluzionarie, né tanto meno libere, libertine o, figuriamoci!, liberate. Meriterebbe un settore della storiografia il collezionismo, e varrebbe la pena lavorare sulle biografie oltre che sulle biblioteche. Il collezionista più famoso fu certamente sir Henry Spencer Ashbee, e basta qui ricordare che lo schifiltoso British Museum non avrebbe mai accettato la raccolta più vasta e preziosa di “libri infami” se tra essi non vi fossero state anche tutte le prime edizioni e traduzioni del Don Chisciotte. Pochissimo invece si sa di Camillo Bianchi che nel 1902 lasciò alla Braidense i libri ora in mostra a Milano. Si sa solo che abitava in via Montenapoleone ed era certamente un uomo raffinato. Ma i collezionisti di libri erotici, specie se italiani, sono in genere uomini tristi, che hanno avuto un rapporto tragico con il sesso, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, sulla soglia di un collasso psichico e affettivo, di una catastrofe emotiva, di quello splash che ciascun uomo si porta dentro nella sua personale zona proibita, ciascuno con il suo carico di mistero e di normalità.

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la lettura Fermo immagine

Avevano le copertine strappate per i troppi passaggi di mano, erano l’alternativa per chi non poteva andare al cinema o un’occasione per rivedere, su una rivista, scene che avevano fatto sognare. Una mostra e un libro celebrano il cineromanzo. E un grande regista lo ricorda

Tutti i film che ho sfogliato «N GIANNI AMELIO

on sono attori veri. Non fanno i film», diceva mia madre. A lei non piacevano i fotoromanzi, quelli di Sogno, Bolero, Grand Hôtel. Non aveva la pazienza di aspettare ogni settimana per vedere «come continua» e di tenere a mente quelle storie lunghe che duravano mesi. È vero che si poteva consultare il riassunto all’inizio di ogni puntata, ma era tutto scritto, e a mia madre piaceva di più guardare le figure, le facce. Proprio le facce, secondo lei, facevano la differenza: nei fotoromanzi erano belle ma «esagerate», mentre gli attori del cinema erano «sinceri», per esempio Amedeo Nazzari, il suo preferito. Forse per non farlo ingelosire aggiungeva solo nomi di attrici, anche se non li sapeva pronunciare. Per anni anch’io ho detto Ava Garner, Rita Evort, Barbara Stanvic... Poi Silvana Mangano le ha sbaragliate tutte: non in Riso amaro dove mostrava le cosce, ma nel Lupo della Sila e nel Brigante Musolino, che erano stati girati dalle nostre parti. Si diceva pure che aveva

Rivedere inquadrature e foto di scena fisse sulla pagina è stato il solo mezzo per scoprire un dettaglio

che mi era sfuggito dormito vicino a casa nostra, a Villaggio Mancuso, nell’Albergo delle Fate... A mia madre piacevano i film. Ma siccome in paese il cinema non c’era, si accontentava dei «film-romanzi» (così li chiamava) e se un’amica gliene prestava uno non lo restituiva più e lo conservava. Li teneva nel cassetto della credenza, dove stavano «le carte», cioè la ricetta del dottore, le bollette della luce, un conto vecchio di pasta e pane. I primi film-romanzi che ho trovato in casa nostra erano senza copertina: l’avevano perduta passando per troppe mani, e c’era qualche macchia d’unto sulla prima pagina. I titoli non m’invitavano molto: Maria Walewska, Il caso Paradine, nomi difficili pure questi.

Allora leggevo il Corriere dei Piccoli, Il Monello e l’Intrepido coi relativi Albi. Un giorno però ho aperto un film-romanzo che la copertina ce l’aveva, bella e invitante, e anche il titolo suonava bene: Non voglio perderti. L’ho cominciato per curiosità e l’ho chiuso col fiato sospeso. La copia di oggi è quella di allora, protetta per mezzo secolo come una reliquia, e ha segnato un incontro fatale. Qualche tempo dopo mi sarei imbattuto nel primo Giallo Mondadori della mia vita (Ho sposato un’ombradi William Irish), scoprendo che raccontava la stessa storia. Ma il film non l’avevo ancora visto: perciò leggevo i capitoli del libro e poi cercavo le immagini nel fascicolo illustrato, mettevo a confronto le descrizioni e i dialoghi, mi segnavo su un quaderno le parole uguali e i brani tagliati. Insomma cominciavo, senza saperlo, a lavorare. Cominciò da lì anche l’amore speciale per quelle pubblicazioni. Intanto scoprii che, tra settimanali, quindicinali, mensili e ristampe, ne uscivano quasi tutti i giorni: il problema era procurarseli. A San Pietro Magisano non c’era il cinema, figuriamoci un’edicola di giornali. E poi costavano: centocinquanta lire erano soldi a quei tempi. Sarebbe troppo lungo spiegare come mi sono arrangiato, ma ce l’ho fatta. Una cosa invece devo confessarla: non ho mai considerato il cineromanzo come un surrogato del film. Anzi, tra il film da vedere in sala e quello da “leggere” sulla carta, finivo, ahimè, per scegliere il secondo: perché lo potevo tenere con me, guardarlo e riguardarlo quando volevo; mentre l’altro, si sa, mentre lo vedi lo perdi. Pare ovvio dire che il cineromanzo di allora era come la videocassetta o il dvd di oggi. Ma c’è una differenza enorme: il cineromanzo non è la riproduzione del film con un mezzo diverso dalla pellicola, è un’altra cosa, una cosa estranea al film stesso: è una sequenza di immagini statiche e parole scritte che del film conserva solo qualche traccia e al massimo può rinfrescare la memoria di chi l’ha già visto. Un grosso limite evidentemente, ma i produttori di cineromanzi non si sono mai sognati di colmarlo perché sarebbe stata un’impresa assurda. È inutile perciò domandarsi se e quanto il cineromanzo rispecchi l’opera di origine, in che misura le sia fedele. Il cineromanzo non ci restituisce il film perché non può farlo, non è nella sua natura. Semmai ne alimenta il mito. Tant’è che ai suoi tempi non veniva visto in concorrenza, ma come supporto al film o addirittura come una sorta di trailer postumo. Si aspettava almeno un anno dall’uscita del film prima di pubblicarlo, ma in alcuni casi usciva in contemporanea e con vantaggio doppio: perché il lettore del cineromanzo era spesso quello che al cinema non ci poteva andare; e quando invece lo spettatore comprava anche il cineromanzo, era come se si staccassero due biglietti in una volta sola. In genere non accadeva mai che qualcuno rinunciasse a vedere il film «perché aveva letto il cineromanzo» ma succedeva il contrario: nasceva la curiosità di vedere “dal vivo” e integralmente (col movimento, il suono, le musiche) quello che sulla pagina sembrava imprigionato. [...] Ma chi era il destinatario privilegiato dei cineromanzi? Anche questa è una domanda difficile. Per alcuni aspetti

era lo stesso dei fotoromanzi, che rischiava però di restare deluso. Il fotoromanzo di allora era un racconto originale di stampo mélo con lieto fine obbligatorio (e una narrazione scandita settimanalmente, come i lunghi serial della tivù di oggi, che ne valorizzava con sapienza i colpi di scena); ma solo una parte della produzione cinematografica, quella più spiccatamente “popolare”, obbediva a queste regole; gli altri film venivano tagliati fuori. Ed erano magari quelli che piacevano al lettore raffinato, il quale però con la puzza sotto il naso vedeva l’operazione come un tradimento o uno scempio dell’opera d’arte. Sembra un cane che si morde la coda, ed è la causa per cui i cineromanzi, al contrario di altre riviste di cinema divulgative o di “piacevole attualità”, sono praticamente spariti dalla circolazione: merce di bassa lega per gli antiquari, persi per strada dai lettori occasionali, buttati nella spazzatura da chi ce li aveva in casa ma se ne vergognava. Eppure ci sono anche film di registi illustri (anche se i loro nomi non compaiono mai in copertina): Antonioni, Fellini, Hitchcock, Kazan, Visconti, Welles, Wilder... Io all’epoca mi lasciavo incantare soprattutto dagli attori e dalle attrici (avevo sedici anni quando l’età d’oro è finita) e mettevo i cineromanzi un gradino più su dell’album delle figurine tipo “Artisti dello schermo”. Li guardavo più che leggerli, anche perché i film me li godevo in sala. Ma rivedere le inquadrature o le foto di scena fisse sulla pagina è stato anche in seguito il solo mezzo per scoprire un dettaglio che mi era sfuggito o per conservare un’immagine bella. Il cineromanzo mi permetteva di “fermare il fotogramma” e studiarlo da vicino, come le cosiddette moviole di oggi bloccano un momento della partita e mostrano se c’è un fallo o un fuorigioco. Perciò li ho tenuti sempre a portata di mano, e mi sono stati utili qualche volta più di un saggio critico. Ma guai a chi mi chiama collezionista: mi sono solo limitato a non tradire le cose che amo.

DIVE DI CARTA Qui accanto Rita Hayworth nel film Cover Girl del 1944 In basso a sinistra la copertina del libro Lo schermo di carta: Sophia Loren nel cineromanzo La donna del fiume (1955). Qui in basso, le prime pagine di Camicie rosse con Anna Magnani (1954) e Il principe e la ballerina con Marilyn Monroe (1957)

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LA MOSTRA E IL FILM Sabrina, Gioventù bruciata e grandi kolossal americani hanno conosciuto una diffusione cartacea sotto forma di cineromanzo, cioè racconto a fumetti, con didascalie e foto degli attori. Il genere spopolò negli anni Cinquanta e morì col successo della televisione. Gianni Amelio ne ha fatto una collezione privata che sarà presentata dal Museo del Cinema di Torino in una mostra dal titolo Lo schermo di carta (8 marzo-19 aprile, all’Archivio di Stato). Con lo stesso titolo, esce il libro con i materiali della collezione di Amelio e, allegato, un documentario-dvd sul cineromanzo (a cura di Emiliano Morreale, Il Castoro, 304 pagine, 55 euro). Dal libro Lo schermo di carta è tratto il testo di Gianni Amelio dal titolo Non voglio perderti pubblicato in queste pagine

Erano lettrici accanite soprattutto donne dalla vita grama

Dal capolavoro al feuilleton nell’Italia povera del fai-da-te NATALIA ASPESI ei: «Tu non appartieni a me ma all’esercito, tu non vuoi sposarmi, ecco la verità!». Lui: «Karen, io ti amo, non voglio che tu torni con lui, di che farnetichi?». È un melodialogo che pare peggio di quelli messi in bocca in questi anni ai personaggi di vari Grandi Fratelli da sceneggiatori furbi e frettolosi. Eppure avviene tra due divi famosi del passato, lei Debora Kerr, lui Burt Lancaster, in uno dei più celebri film americani romantico-bellici del dopoguerra, Da qui all’eternità, regia di Zinnemann, otto Oscar per il 1953. Non proprio nel film, ma nel Cineromanzo Gigante che fu pubblicato mesi dopo in Italia, inquadratura per inquadratura, con le parole adattate da fantasiosi esperti, scritte in stampatello e racchiuse in un fumetto con la freccina che segnalava a chi attribuire il lamento o l’adorazione. Oltre ai dialoghi, c’erano didascalie infuocate che sollecitavano il tumulto del cuore. A pagina 50 del cineromanzo Cronaca di un amore (dal film di Antonioni, non nominato in quanto privo di interesse per il cinelettore), pubblicato intero nella serie SuperStar nel 1950, costo 150 lire, Massimo Girotti e Lucia Bosè, bellissimi, si baciano, e sopra la loro testa la scritta avverte: «I loro baci hanno sempre l’ardore di una febbre mortale. Raramente c’è in loro la tenerezza dolce di chi si ama con l’anima, oltre il cerchio arroventato della passione…». Dal Museo Nazionale del Cinema di Torino arriva una gentile lettera con allegati, superprotetti da carta trasparente sigillata, quattro esemplari di fotoromanzi tratti da film, cioè cineromanzi, pubblicati tra gli anni Quaranta e Cinquanta: Voglio vivere così, La donna del ritratto, L’amore è una meravigliosa estasi e appunto Da qui all’eternità. Si è giustamente pregati di «assicurarne una rapida restituzione»; per forza, si tratta di roba da maneggiare con grande cura, in quanto fragile e ingiallita come un papiro egizio, e da consultare con dotta venerazione, in quanto merce preziosissima, rara, anzi ormai introvabile. Certo quella che è oggi una curiosità archeologica, ai tempi del suo breve e misero fulgore aveva un mercato di qualche milione di invisibili appassionati; e ogni amato fascicolo passava di mano in mano, in famiglia, tra gli amici e magari in tutto il paese, e lo si rileggeva appassionatamente più volte, molto più di quanto si va a rivedere un film. Ridotto a brandelli, si buttava via col cuore sanguinante, oppure veniva eliminato da figli spietati che, emancipandosi dall’innocenza di quel decennio postbellico, già traviati dalla televisione, ne disprezzavano la povertà della carta, il grigiore delle fotografie mal stampate, la melassa dei dialoghi, i ricordi ombrosi di miseria e isolamento che rappresentavano. Ed è proprio a questo horror d’epoca che il museo torinese dedica la mostra Lo schermo di carta (all’Archivio di Stato, 8 marzo-19 aprile), mentre l’editore Il Castoro pubblica un ricco volume pazzamente cinefilo (304 pagine, 275 illustrazioni a colori, 55 euro), corredato da un dvd, regia di Lorenzo d’Amico de Carvalho; il libro è curato da Emiliano Morreale, giovane e inarrestabile studioso di cinema, e contiene numerosi supersaggi superseri, come capita sempre quando ci si occupa di ex spazzatura misteriosamente promossa a cultcultura. Oggi questi reperti appaiono noiosissimi, di difficile lettura, addirittura senza rapporto con il film a cui hanno carpito foto di scena o fotogrammi: con capolavori come Senso di Visconti che ancora splende nella nostra memoria e che sulla carta del cineromanzo è una cosa morta, una stravaganza che solo l’Italia povera ma ingegnosa poteva inventare. Però è banale fare gli schizzinosi: anche perché il massimo, forse il solo (a parte qualche museo o cineteca) a conservare amorosamente cineromanzi, addirittura un migliaio, è Gianni Amelio, uno dei nostri registi più importanti, autore di Il ladro di bambini, Gran premio della giuria a Cannes nel 1992, ma anche di film importanti come Colpire al cuore, 1982, e Le chiavi di casa, 2004. Racconta: «Sono nato a cresciuto a San Pietro Magisano, un paese di cinquecento abitanti in Calabria: non c’era un cinema, non c’era un’edicola, quando qualcuno andava a Catanzaro lo si incaricava di portare in paese fotoromanzi, che a mia madre non piacevano, e cineromanzi, che lei e mia nonna prediligevano. Erano letture femminili, ci fosse stato mio padre me le avrebbe proibite, ma lui era emigrato in Argentina così io ero libero di seguire sulla carta la mia passione per qualcosa che non avevo mai visto, il cinema. Non mi interessava la storia, solitamente strappalacrime, non leggevo le didascalie, guardavo le inquadrature, gli attori, amavo quel surrogato di film che poi mi avrebbe spinto, con l’aiuto di mia madre, ad andare in città, a laurearmi e a realizzare la mia passione, fare cinema». Pubblicare cineromanzi era molto meno costoso che produrre fotoromanzi, con i loro divi del genere, i set, gli sceneggiatori, i costumi. Più romanzo che film, dice Amelio, i cineromanzi erano per molti il solo modo di accostarsi al cinema, ma in generale le cinelettrici, spesso dalla vita grama, li compravano per gli amori fatali che assicuravano, del resto come i fotoromanzi. Però i film di carta parevano anche un tramite con i divi, cui ci si illudeva di poter scrivere; o addirittura un luogo magico che pubblicando le foto, soprattutto di giovanotti dagli occhioni neri (per le ragazze era disdicevole mostrarsi), avrebbe consentito di sfuggire a un destino oscuro e di arrivare alla notorietà e al successo; come oggi succede con la moltitudine di trasmissioni televisive cui si affida il sogno di trasformare lo sconosciuto in vip. Le «magnifiche sette collane», come le chiama lo studioso Morreale in Lo schermo di carta pubblicavano di tutto, anche capolavori che venivano poi comunque trasformati in feuilletton. Sia che si trattasse del kolossal italiano Ulisse, protagonista l’americano Kirk Douglas (che raggiunse una vendita di cinquecentomila copie), o dell’americano Un tram che si chiama desiderio, con Marlon Brando e Vivien Leigh, le copertine mostravano sempre lui e lei avvinghiati, per assicurare che comunque all’interno ci sarebbe stata una bella storia d’amore, possibilmente straziante. E si aggiungevano trappole sapienti, didascalie seducenti: per esempio, non bastando il titolo Perdutamente tua (con Bette Davis, film del ‘42, cineromanzo del ‘54), la copertina strillava «La storia meravigliosa di un amore impossibile» (lui sposato); mentre per Traviata 53 (con Barbara Laage, del ‘53, pubblicato nel ‘54) caso mai non si fosse capito la di lei professione che (allora) non ammetteva futuro, si ribadiva «Una donna perduta che si sacrifica per un vero amore». E ogni cineromanzo, molto più dei film e dei romanzi, confermava alle inquiete lettrici gli inesorabili codici d’epoca: l’uomo sarebbe stato sempre eroico anche se crudele, la donna facile sarebbe morta, quella cattiva sconfitta, la pura dapprima maltrattata avrebbe trionfato, l’amore con un uomo sposato sarebbe stato per sempre impossibilissimo, e il lieto fine avrebbe assicurato il matrimonio alla più meritevole per castità, sacrificio e sottomissione.

L

CELLULOIDE E CELLULOSA In alto da sinistra, copertine di cineromanzi: Ben Hur (1958); Le notti di Cabiria (1958); La finestra sul cortile (1955); Fascino (1955); La signora di Shanghai (1955); La Notte (1961)

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

DOMENICA 4 MARZO 2007

I sogni di provincia, le strade bevute a benzina e lambrusco, il successo arrivato tardi. L’indiano-cowboy apre il baule dei ricordi e li affida a un libro per immagini

l’infanzia

la band

BIMBO TIMIDO

ESPERIMENTI

Nato il 13 marzo 1960 a Correggio Liga vive un’infanzia serena, ma è timido

Le prime canzoni prendono forma con Trico e Pasquali La band si assesta nell’86

GINO CASTALDO

Q

uando ruggisce, il rock gratta nella terra, scrosta la ruggine del tempo, solleva la polvere spargendo nell’aria il polline della memoria. I rocker emiliani lo sanno bene, la loro forza viene dai sogni della provincia, dalle illusioni che la pianura fa viaggiare lungo strade intossicate di benzina e lambrusco. Arterie della fuga, e soprattutto del ritorno a casa. Luciano Ligabue non fa eccezione, anzi. Nessuno come lui è rimasto così avvinghiato alle radici, le spreme come nettare di ruvida poesia, fino all’ultima goccia. Non si è mai staccato da Correggio, rivendica la sua appartenenza come un marchio dell’anima. Suona accordi americani, indossa stivali del Texas, imbraccia chitarre Fender, ma il suo segreto è tutto lì, nell’appartenenza ai suoi luoghi, nell’ostinazione a definire l’identità come un privilegio da non barattare mai, per nessun motivo. Questo gioco di rimandi ce lo racconta bene un libro in uscita il 9 marzo (Sulla sua strada, di Corrado Minervini, con foto di Chico De Luigi), una volta tanto non puramente agiografico, un racconto di parole e immagini che naviga intorno al mito del Liga, in tutti i suoi riverberi, fino all’orizzonte estremo. Luoghi, paesaggi, volti che diventano musica e perfino la descrizione della più venerata bevanda della zona può diventare una metafora appropriata. «Un vino che non può essere conservato troppo a lungo, non accetta di invecchiare e pretende di essere assaporato, consumato, goduto prima che la sua naturale frizzantezza svapori», così nel libro si descrive l’antica qualità del Lambrusco che si ricava dai vitigni dell’uva Salamino, e sembra stia parlando di rock, la frase si adatta perfettamente. Proprio attraverso queste analogie il libro racconta il mondo dell’insolito eroe, nato ai bordi delle grandi città, in una provincia da cui il mondo si può guardare solo da lontano, ma cogliendone grazie a questo il potere fascinatorio, l’incantamento grandioso e truffaldino, la doppia prospettiva del microcosmo e del macrocosmo. Un eroe insolito perché nato dal sudore e dalla terra, temprato dal nomadismo delle anime disperate e ribelli che popolano le sue strade. Un eroe che di fatto il mediano lo faceva davvero, nel calcio paesano, era uno che sgobbava, sudava, lavorava per la squadra e solo a un certo punto ha preso la fuga, come un ciclista che improvvisamente diventa campione e si stacca dal plotone. Liga del resto lo racconta sempre. Lui al successo ci è arrivato tardi, aveva già trent’anni e passa, e prima le ha fatte tutte, in quella stramba e orgogliosa provincia ha navigato come un ribaldo uomo di fatica, cantando nelle balere, osservando e studiando i piccoli eroi come il mitico Little Taver, l’idolo locale, rockabilly sfrenato e goliardico, che racconta: «Quando Luciano è diventato famoso si è ispirato spesso alle mie esibizioni: nel tour del 2000 aveva una macchina sul palco? Beh, io l’avevo fatto anni prima, salendo sul palco alla Festa de l’Unità di Correggio con la mia Talbot Solara. Sai cosa non ha ancora fatto? Arrivare sul palco cavalcando trionfalmente una vacca, come ho fatto io; oppure farsi calare da una gru indossando uno scafandro da palombaro. Se un giorno vedrete qualcosa di simile a un suo concerto, saprete da chi ha copiato…». Grandioso, come sanno esserlo solo i protagonisti delle rotte marginali della panciuta mitologia provinciale. Pare che a Correggio statisticamente nascano più matti e geni di altre parti di Italia: artisti, scrittori e serial killer, Antonio Allegri, il Correggio, Pier Vittorio Tondelli, che a Correggio tornò a vivere alla fine della sua breve, folgorante vita di scrittore. Su ventimila abitanti, il paese contava ben settecento partigiani, tra cui molte donne, e questa fu una delle cause di una vera e propria rivoluzione culturale. Donne forti, indipendenti, miraggi della pianura che Ligabue insegue spesso nelle sue canzoni. Le foto in certi momenti ci raccontano l’opaco orizzonte oltre i boschi, le facce dei contadini orgogliosi, le bande municipali, i palchetti improvvisati dove legioni di cantanti si esercitano a sfidare il pubblico, le lapidi, le radio private che connettono il tessuto della notte, le mura scrostate dei cascinali, la rigorosa saga del parmigiano. Le foto girano intorno a Ligabue, lo raccontano senza quasi volerlo vedere direttamente, piuttosto evocarlo in filigrana, fino all’affondo personale, l’apertura dei cassetti privati, dove possiamo vedere l’eroe da bambino, l’eroe che sparuto imbraccia una chitarra da due soldi su un palchetto da festa paesana, poi l’eroe di mille battaglie da palco, con i suoi simboli, chitarre e stivali, borchie lussureggianti e sfrontate, le giacche alla Elvis, anelli, bracciali, i dettagli minimi ed essenziali della vita di un cantante rock, i manifesti, i primi articoli sbiaditi che segnalavano la nascita del personaggio. Da bravo ragazzo di provincia Ligabue non dimentica mai il suo popolo, quando sul palco affronta il mondo sembra che dietro ci sia una massa di gente, un esercito che gli dà energia, i suoi gruppi sembrano drappelli di combattenti. Uno dei suoi punti di forza sta nel fatto che, nella più sana delle tradizioni del rock, il pubblico avverte perfettamente che il Liga ha bisogno di essere lì, di sbattersi in giro a suonare, di sentire l’urlo della platea, di nutrirsi di quei bagni di folla. Non può farne a meno, come una droga, l’unica del resto della sua più che sana esistenza. E il libro, puntuale, racconta anche il mondo dei fan, fotografa le loro facce, i loro striscioni, viaggia in mezzo a quella luminosa tenebra che è il legame tra un artista e il suo pubblico. Se proprio volessimo scavare tra i personaggi di Ligabue, non solo in quelli delle canzoni, anche in quelli dei libri, dei film, scopriremmo che sono tutti lì, girano per le strade di Correggio, cercano rifugi e ribellioni nelle lunghe notti di pianura, potremmo parlarci, in qualche modo esistono davvero. E ovviamente nessuno lo sa meglio del Liga che per la sua Correggio ha scritto i versi di Piccola città eterna: «Gente persa in una piccola città eterna, piccola città testarda, piccola città con gli occhi chiusi a metà, piccola città che cerchi in giro, e spesso ciò che cerchi è qua. C’è chi la ama, chi la odia e lei rimane piccola». Più chiaro di così…

Ligabue La solitudine del mediano

IN LIBRERIA Nella foto in alto, Ligabue in concerto Le foto di queste pagine sono tratte dal libro di Corrado Minervini, Sulla sua strada. In viaggio con Luciano Ligabue Fotografie Chico De Luigi, edizioni Arcana, collana fotografici, (372 pagine, 25 euro). In libreria da venerdì 9 marzo

Le foto raccontano orizzonti opachi sui boschi, contadini

orgogliosi, bande, lapidi, radio private, la rigorosa saga del parmigiano

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DOMENICA 4 MARZO 2007

il debutto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41

le chitarre

il cinema

SUL PALCOSCENICO

GRETSCH SILVER

DIETRO IL SOGNO

8 febbraio 1987: è il giorno del primo concerto, in un circolo a Correggio

La prima fu una Clarissa con corde in nylon, poi ne ha avute di ogni marca. Sotto: la Gretsch Silver Jet usata nell’Elvis Tour

Il debutto alla regia arriva con Radiofreccia (1998). Si realizza un sogno del Liga che nel 2002 si cimenta ancora con Dazeroadieci: è un successo

Quell’Emilia rock ormai senza West EDMONDO BERSELLI

le passioni MUSICA E CALCIO LA NATIONAL Sopra, la National Dobro usata per tutte le registrazioni in studio della colonna sonora di Radiofreccia e nel Nome e Cognome Tour

Collezionista di biglietti dei vecchi concerti, ex giocatore dilettante, tifoso dell’Inter, per Liga il campo ha rappresentato sempre qualcosa di più che il terreno di gioco: il rispetto etico della fatica

il look DETTAGLI E NO Uno degli immancabili del Ligastyle sono gli stivali, magari texani classici, presenti da sempre nel suo guardaroba. Variano, invece, le camicie: da bowling, western, a fiori, che sostituiscono il gilet indossato a pelle nelle prime apparizioni. Fondamentali i dettagli che definiscono (e cambiano) il look Gli anelli e i bracciali, per esempio, che evidenziano la gestualità e gli occhiali da “duro”

i fan TUTTI INSIEME A LUI Tutti insieme a lui: il popolo dei fan che si è riconosciuto in questi anni nelle parole e nelle note del Liga vive tra la Sicilia e il Friuli ma il quartier generale è a Correggio

i dischi NOTE E... Con Ligabue del 1990 comincia la carriera discografica del rocker che tra un cd e l’altro ha anche regalato alcune “tracce omaggio” ai suoi fan club

l mondo piccolo di Luciano Ligabue è Correggio, un paese al centro della pianura reggiana. Ventimila abitanti, tanta campagna, spazi aperti, una piattezza assoluta incisa dalle file di pioppi; a pochi chilometri il Campovolo, dove si tenne un concerto che divenne un raduno, piuttosto maltrattato dall’acustica ma rimasto nella memoria dei fan come l’appuntamento della vita. Di qua il torrente Crostolo, di là il Tresinaro, ormai sempre più asciutti. A breve distanza, in questa Emilia che sembra immaginaria, dipinta nello stereotipo, c’è Novellara, dove convive con i reggiani una folta, mite e spiazzante comunità sikh: bei turbanti, bellissimi i colori degli abiti, straordinarie fiere bovine dove i sikh accompagnano in passerella la loro bestia migliore, la vacca con i fiocchi e le treccioline colorate del giorno di festa e gli ornamenti per la sfilata; e anche qualche sagra del patrono dove quegli strani asiatici applaudono con partecipazione le dimostrazioni professionali di ballo liscio: polka, mazurca, valzer, ci manca solo l’eco di Secondo Casadei o del maestro Iller Pattacini. Appena più in là, nel cimitero del paese, si può sostare davanti alla tomba di Augusto Daolio, la voce dei Nomadi, «l’Eric Burdon della Bassa», che è la meta di un pellegrinaggio costante, con i visitatori che lasciano un regalino, un biglietto, un ricordo (e l’amministrazione comunale ha sistemato una panchina di fianco alla lapide, così i ragazzi possono suonare la chitarra e fare il coro sulle note di Io vagabondo, tanto ormai le vecchie si sono abituate e non protestano più). In mezzo all’Emilia una rockstar può prendere casa appena fuori dal paese, in un convento ristrutturato. Corse nei viottoli di campagna per la fitness; un pranzo qualche volta al ristorante dell’Hotel dei Medaglioni, dentro il medioevo tipicissimo, schiacciato e forte, della piazza principale, contrappuntato dal cotto rosato del Palazzo dei Principi. Qui d’estate il sole cuoce le teste, come diceva un intenditore, Giovannino Guareschi; le notti, anzi «certe notti», si svolgono davvero «fra cosce e zanzare», quando si sa che la macchina è inevitabilmente calda e ti porta dove decide lei. Sul finire dell’autunno, invece, come tanti altri borghi emiliani Correggio diventa il paese della nebbia, stesa sui campi, le stradine agricole e le strade provinciali; quella nebbia che una volta era impenetrabile, al tempo in cui anche le nevicate erano lunghissime e pesanti, capaci di uniformare in bianco l’intero paesaggio (è il clima di Angelo della nebbia, un pezzo intriso del sentimento emiliano che fa da sfondo a molte sue canzoni). È questo l’ambiente da cui sono usciti i quarantatré racconti di Fuori e dentro il borgo, il primo e fortunato libro di Ligabue, una specie di autobiografia di tutti quelli che sono immersi nel fluido dell’esistenza, «scelti da chissà che mano per essere buttati in mezzo alla nebbia». Un bicchiere di lambrusco correggese

I

a pranzo, celebrato già ai suoi tempi da Pietro Aretino («vino dal chiaro colore e dal mordente sapore»); e subito dopo magari una sambuca, uno di quei liquori antichi da caffè di paese, dove c’è ancora qualcuno che gioca a carte e qualche biliardo con sopra una tela, in attesa dei giocatori della sera. Sono le scene tradizionali di un’Emilia fisica, che reca ancora l’impronta dei suoi matti e dei suoi poeti. Da queste parti, filando verso Guastalla e Gualtieri, un altro Ligabue, Antonio, il pittore, correva con la sua Guzzi ricevendo dal motore a scoppio il tepore che gli altri non volevano dargli. A Suzzara, Cesare Zavattini incontrò un vecchio naïf che scrisse stupende memorie in uno strepitante “quasi-italiano”, Mi richordo ancora: «C’è un uomo nella bassa sui settant’anni che si chiama Pietro Ghizzardi ed è un grande uomo…». Sono storie che uno come il Liga potrà, se vorrà, riprendere in qualche altro libro: «Io lessi le sue memorie quando erano in boccio e dissi: “Corro subito ad abbracciarlo”… Lo incontrai dopo la prima mostra luzzarese dei naïf, al pranzo invernale dopo la mezzanotte, diventato ormai rituale, tutti avevamo trovato il nostro posto a tavola e Ghizzardi no, ricordo ancora che se ne stava in piedi in un angolo con la paura di disturbare, sdentato, il paletò abbottonato male». Ma è chiaro che l’Emilia di oggi non è più quella dei pittori di allora. È venuta l’industria, la modernizzazione, il consumo. Dire come diceva Francesco Guccini «fra la via Emilia e il West» sembra ormai un calco anacronistico. C’è piuttosto l’Emilia «parabolica» dell’ex Cccp Massimo Zamboni, l’antico complice punk di Giovanni Lindo Ferretti, il «reduce» tornato alla fede e al passato. L’Emilia stralunata e notturna di scrittori come Daniele Benati e Ermanno Cavazzoni. Una scheggia di continente in cui Ligabue si aggira come un pesce nell’acqua, anche se qui i pesci sono solo d’acqua dolce. Consapevole comunque che c’è un po’ di verità nell’immagine tutta emiliana della cucina grassa e del lambrusco frizzante, ma che la realtà del «borgo» è data anche, se non soprattutto, dalle fabbriche che sono sorte dappertutto, dai trattori, dalle trebbiatrici, dalle macchine per la raccolta della frutta che hanno industrializzato l’agricoltura. D’altronde, anche lui, il Liga, è un uomo dalla vita almeno doppia. Facilità di rapporti nelle vie di Correggio, dove tutti lo conoscono e nessuno lo importuna. E nello stesso tempo una proiezione vistosa nei circuiti industriali e commerciali dello show contemporaneo, dove tutto è tecnologico e mediatico, in un concentrato impressionante di ultramodernità. Forse il segreto di questa Emilia, il luogo fisico e mentale in cui sono cresciuti anche Zucchero Fornaciari e Pierangelo Bertoli, è proprio nella capacità di stare bene con le proprie radici, nella materialità conosciuta, nella propria terra, ma di abituarsi immediatamente ai processi e ai luoghi della realtà postmateriale. Cittadini del mondo, si diceva una volta: ma forse, per Ligabue, si può dire che è il tipico abitante di un paese-mondo.

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

i sapori Cibi versatili

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Apprezzati già nell’antichità, ricchi di vitamine, enzimi e sali minerali. Gusto intenso e duttilità ne fanno i protagonisti di sofisticate ricette e profumati elisir

LE TIPOLOGIE

Precoce Da Chioggia a Paestum, da Jesi a Catania, molte aree vocate alla produzione vantano anche una varietà con i caratteri della primizia: colore chiaro, brattee più tenere, foglie commestibili. Una combinazione perfetta per le fritture Primo raccolto in autunno

Mammola Dipinto nelle tombe etrusche di Tarquinia, rappresenta la versione gentile, compatta, senza spine e con poca barba interna Due le protezioni Igp: tondo di Paestum e romanesco (o cimarolo). È la verduraprincipe della cucina ebraico-romana

Spinoso Robusto e di gusto deciso, ha forma affusolata e lunghe, rigide spine dalle sommità verdi-violacee La gran parte della produzione totale (oltre il 90%) arriva dalla Sardegna (spinoso sardo). Si raccoglie da settembre a primavera inoltrata

Violetto Comprende le tipologie mammola e spinoso. Colore netto e lunga stagione di fioritura per diverse varietà pregiate tra cui il precoce di Schito, il violetto di Sant’Erasmo, il carciofo della Val di Cornia e il violetto catanese

Bianco All’interno del Parco naziona e del Cilento, sulle terrazze del Comune di Pertosa, tra 300 e 700 metri d’altezza, si coltiva una varietà di colore bianco-verde-argenteo privo di spine. Ha sapore dolce e delicato, perfetto per pinzimoni e sott’olio

Carciofi «F I duri dal cuore tenero

LICIA GRANELLO

22

le calorie in 100 gr di carciofi

90 54%

le varietà coltivate nel mondo

i carciofi italiani sul totale della produzione

iglia dell’acqua e della terra, la sua abbondanza si offre a chi la sospetta chiusa in un castello di avarizia. Sembra, per il suo biancore e per l’inaccessibile rifugio, una vergine greca nascosta in un velo di spade». Mille anni fa, il poeta arabo Ben al-Talla cantava la pudica virtù dell’alcachofa, identità femminile mutuata dalla mitologia greca. Parole incantate per l’ortaggio guerriero. Vecchissimo, amato e consumato — pur con una lunga pausa pre-medievale — da millenni, il carciofo è un duro dal cuore tenero, capace di prosperare da autunno a inverno, per tutto il tempo in cui gran parte degli ortaggi dorme o ha appena cominciato a far capolino sotto forma di gemma. Malgrado l’involucro rude, sa essere gustoso e versatile come pochi altri, a patto di prenderlo dal verso giusto (soprattutto nel caso della tipologia spinosa…). Precoce o tardivo, fa poca differenza in termini di sapore: particolare, intenso, esclusivo, capace di far guerra — soprattutto a crudo — al più accondiscendente dei vini (saporaccio metallico in bocca) ma anche di accompagnare come una perfetta damigella d’onore il più suadente dei gamberi. Apprezzato qui come in nessun altro paese del mondo, se è vero che oltre la metà della produzione mondiale ci appartiene, e che dopo il pomodoro e la patata, quella del carciofo è la coltivazione più diffusa in Italia, con alcune chicche protette da Igp e Slow Food. Una cultura che ci gratifica, in cucina come nei laboratori di erboristeria: infatti, lo sappiamo domare con maestria e confidenza, dalle ricette supertradizionali alle nuovissime preparazioni, dalla storica giudìa alla morbidezza setosa della cottura sottovuoto a bassa temperatura, fino all’alchimia salutistica di elisir e amari digestivi.

Ortaggio slow, il carciofo, è sensibile. Guai a frettolosi e pasticcioni: il rischio è di rovinarlo. Va disarmato in tre mosse, a cominciare dall’asportazione delle brattee esterne. Facile, se si sceglie una mammola, dall’aspetto burbero ma pronta a lasciarsi spogliare. Di ben altra cura necessitano gli spinosi. Non esiste chef che non sia stato trafitto almeno una volta dai loro aculei. Denudato il cuore, l’altra procedura obbligata riguarda l’immersione in acqua acidulata, pena l’annerimento da vitamina C — di cui è ricco — ossidata. E infine la pulitura interna con un coltellino per privarlo della barba. Da lì in poi, il ruvido Cynara Scolymus, disarmato e depilato, è pronto per il più saporito dei pinzimoni (a crudo), cotto in compagnia (la spadellata di carciofi & patate, il fritto misto), ospite graditissimo in una miriade di piatti diversi: frittate, risotti, torte salate, soufflé. Ingrediente da cucina immediata, ma anche principe dei sott’oli. Infatti, se la fioritura è un continuumche va da settembre ad aprile, l’inizio dell’autunno e la fine della primavera coincidono con i momenti delle conserve: carciofini e fondi di carciofo, teneri e golosi, da mettere nei vasetti (meglio se in extravergine). Del resto, il carciofo è una miniera di virtù nutrizionali, dalla punta delle spine (o quasi) all’intero gambo — da utilizzare, foglie comprese, dopo averlo opportunamente spuntato e sbucciato — giù giù fino alle radici. Non solo vitamine (A e C), ma anche fibre, minerali e una serie di enzimi — cinarina, imulina — che stimolano la diuresi, abbassano il colesterolo e attivano la secrezione della bile. Irsuti, ma pur sempre fiori. Impariamo a sceglierli piccoli, sodi, senza macchie, ben chiusi, e a conservarli immersi in acqua. Se siete in buoni rapporti con il vostro colesterolo, regalatevi una fritturina bollente, croccante, appena salata. Un bicchiere di bianco strutturato e morbido sancirà la pace tra i Grandi Nemici.

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DOMENICA 4 MARZO 2007

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43

itinerari

Pier Bussetti è il giovane, talentuoso chef patron della “Locanda Mongreno” sulla collina di Torino. Menù creativo ma grande attenzione alle radici della cucina regionale, come nell’insalata di carciofi con sella di coniglio

Albenga (Sv)

Sant’Erasmo (Ve)

Roma

Isola della laguna grande come metà Venezia, trasformata nel 1500 in un unico grandissimo orto I terreni argillosi e dalla salinità molto alta (un tempo concimati con gusci di granchio) danno verdure saporite, compreso un carnoso violetto

Appoggiata sulla spiaggia della Riviera di Ponente, ospita coltivazioni pregiate: uno spinoso violetto dai petali teneri e croccanti, perfetti per il pinzimonio e per la torta de articiocche

Circondata da coltivazioni pregiate (Sezze, Ladispoli, Campagnano) la capitale celebra il carciofo attraverso le ricette della cucina ebraica, che crea preparazioni golose come giudìa e frittura

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

IL LATO AZZURRO Via Forti 13 Tel. 041-5230642 Camera doppia da 70 euro colazione inclusa

ARTEMISIA B&B Via Ricci 12 Tel. 389-9914076 Camera doppia da 65 euro colazione inclusa

HOTEL MADRID Via Mario de’ Fiori 43 Tel. 06-6991510 Camera doppia da 135 euro colazione inclusa

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

CA’ VIGNOTTO Via Forti 71 Tel. 041-2444000 Aperto a pranzo, cena su prenotazione menù da 30 euro

OSTERIA DEI LEONI Vico Avarenna 1 Tel. 0182-51937 Chiuso martedì menù da 40 euro

EVANGELISTA Via delle Zoccolette 11 Tel. 06-6875810 Chiuso la domenica menù da 50 euro

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

ORTICOLA FINOTELLO Via Boaria Vecia 6 Tel. 041-5282997

L’ORTOFRUTTICOLA Via Dalmazia 169 Tel. 0182-554944

PRIMIZIE & VERDURE PERSIANI Via Flavia 36 Tel. 06-4743726

Ninfa e guerriero un ortaggio bisex MARINO NIOLA

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l carciofo è femmina. Così almeno dice la mitologia che racconta di una fanciulla di nome Cynara, follemente amata da Giove. La bella ninfa, dal carattere decisamente spinoso, osò rifiutare le avances dell’olimpico sciupafemmine che si vendicò trasformando l’oggetto del suo desiderio in un carciofo. La scienza dice invece che il cynara è bisex. Fu lo svedese Carlo Linneo, il padre di tutti i naturalisti, il primo a dargli dell’ermafrodito, catalogandolo nella famiglia delle Composite, la stessa dei cardi e delle margherite. E in effetti il carciofo è pungente e difeso come il cardo, ma al tempo stesso si lascia sfogliare voluttuosamente come una margherita. Sempre in bilico tra il darsi e il negarsi, il carciofo in realtà dona il suo cuore solo a chi non ha fretta e riesce a vincere la sua ispida ritrosia. Il che gli ha fatto guadagnare la fama di cibo afrodisiaco, emblema delle spinose delizie dell’amore. Se la sua data e luogo d’origine sono incerti, il cynara è al centro di una vasta e fitta mitologia, come tutte le cose di cui meno si sa e più si favoleggia. Alcune ipotesi vogliono che i primi a coltivarlo siano stati gli antichi egizi, altri congetturano che la sua vera patria sia l’Oriente. I più eurocentrici assicurano invece che il carciofo è roba nostra. Anzi sarebbe il caso di dire cosa nostra visto che la mafia diede alle sue associazioni proprio il nome della corona di foglie che circonda il cuore del carciofo, che in siciliaMolto più che semplici no si chiama cosca. Un modo per dire che gli affiliati difendono ferocemente il fondo dell’organizzazione sott’oli, i carciofini rappresentano così come la cosca difende tenacemente il fondo del una vera, vesatile golosità. Si possono carciofo. Strano destino quello di certi cibi, che spesso finiscono per diventare simboli a causa delutilizzare le castraure, i primi germogli da la loro forma e del loro sapore: buoni da mangiare tagliare per permettere la nascita multipla di e buoni da pensare, per dirla con il sommo Lévifiori grandi, i carciofi giovanissimi o, extrema Strauss. Che il carciofo fosse buono da mangiare in ratio, i carciofi opportunamente rifilati fino a realtà lo sapevano benissimo gli antichi romani che, Trimalcione in testa, lo consideravano la mi- ricavarne il cuore. Lavati in acqua acidulata, gliore delle entrées. Non diversamente dai Quiriti sbollentati e messi a dimora coperti di dei nostri giorni che cominciano spesso e volenextravergine, sono perfetti per farcire tieri il pasto con un carciofo alla giudía. E se nella barbarica notte del medioevo della cy- sandwich, condire paste e risi in nara si perdono le tracce, l’età moderna ne decreta il insalata, imbottire carni (portafoglio trionfale ritorno. Madrina d’eccezione Caterina de’ alla Rossini). Si gustano Medici, che dalla sua Toscana lo portò in Francia nel 1547 anche sotto aceto quando andò sposa ad Enrico II facendone il cibo più à la page della capitale. Pare che la sovrana abbia addirittura rischiato di passare a miglior vita dopo una pantagruelica spanciata di carciofi ripieni serviti in un pranzo di corte. Oltre che le tavole, il carciofo conquista ben presto anche le tavolozze. La sua sensuale, plastica pienezza sembra fatta apposta per eccitare il barocco virtuosismo dei pittori di nature morte. E la mirabolante gastronomia seicentesca si addice particolarmente al carciofo che proprio allora consolida la sua fama di ortaggio generoso, bello da vedere, buono per tutti gli usi e di cui non si butta via niente. Fritto, in minestra, imbottito, crudo, gratinato, bollito, associato a carne, pesce, uova, selvaggina e frutti di mare. Praticamente come lo cuciniamo ora. Il cynara è dunque una verdura moderna da almeno quattro secoli, proprio perché riesce a coniugare piacere e salute, sfizio e leggerezza, fantasia e sapore. Facile da preparare, veloce da cuocere. Massimo risultato con il minimo sforzo. Il carciofo è un esempio perfetto di ottimizzazione. Il miglior antidoto contro il logorio della vita moderna.

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Italo Calvino Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte un agglutinamento di significati... Da La giornata di uno scrutatore

Carciofini

LE PREPARAZIONI

Fritti

All’inferno

In umido

Alla giudìa

Alla romana

Tagliati in otto parti e privati della barba interna, si passano in farina e uovo sbattuto (senza sale, che attira umidità), oppure in una pastella di acqua fatta con farina e poco olio. Poi vengono cotti in extravergine Carciofi davvero appetitosi e croccanti, fanno parte di moltissimi fritti misti

Il segreto del piatto sta nella farcitura, che prevede un misto di parmigiano, sale, pepe, olio, aglio e prezzemolo tritati finissimi. Riempito l’interno, i carciofi si cuociono ritti in una teglia unta, circondati dai gambi e bagnati da un bicchiere di vino bianco per un’ora a 180 gradi

Ricetta base per lasagne e risotti, con i carciofi tagliati a fette, poi rosolati e cotti a fuoco moderato insieme a cipolla, prezzemolo, olio o burro, brodo oppure vino (che però esalta il gusto metallico). Vengono irrobustiti da sugo di pomodoro per condire la pasta

Si torniscono con un coltellino salendo a spirale e pulendo l’interno, poi vanno allargati schiacciandoli un poco. Cottura in piedi in una padella di ferro con olio extravergine che deve coprirli per metà. Dopo una decina di minuti occorre capovolgerli per dorare anche le punte

Puliti come per la giudìa e rosolati alla base si farciscono con un trito leggero di aglio, prezzemolo, mentuccia Cottura in teglia con metà olio e metà acqua fino a coprirli (capovolti) per un’ora a 160 gradi. Si gustano caldi ma sono perfetti anche a temperatura ambiente

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le tendenze Guardaroba femminile

DOMENICA 4 MARZO 2007

Il tubino nero, la camicia bianca, le ballerine, il twin-set pastello, i pantaloni Capri, l’impermeabile classico, la borsa Kelly, la sottoveste: lo stile ha diktat rigidissimi ma per coniugarlo basta avere nell’armadio una “rosa” di capi intramontabili che le dive hanno reso celebri

LA CAMICIA DI KATHERINE

IL TWIN-SET DI GWYNETH

Un’idea per clonare il look un po’ maschile alla Katherine Hepburn? La camicia bianca di Bagutta. Da indossare sia di giorno che di sera

Lo usava Doris Day una volta e lo indossa Gwyneth Paltrow oggi. Cosa? Il mitico twin-set, rigorosamente di cachemire, come quello rosa ciclamino firmato Malo

LA SOTTOVESTE DI SOPHIA Sophia Loren preferiva quelle di raso bianco Argentovivo propone invece un modello di sottoveste in rosa cipria Da usare anche come camicia da notte

Gli

LE BALLERINE DI BRIGITTE

I PANTALONI DI MARILYN Piacciono ancora i pantaloni alla pescatora (o Capri pants) tanto amati da Marilyn Monroe. Oggi proposti da Benetton in tonalità classiche

Tornano in auge le ballerine preferite da BB. Quelle di vernice rossa di Salvatore Ferragamo, si ispirano a un modello storico

L’IMPERMEABILE DI MARLENE Indimenticabile Marlene Dietrich nel suo impermeabile maschile strizzato in vita dalla cintura Un intramontabile che Burberry ripropone ancora oggi in molte varianti di colore

indispensabili Scacco in dieci mosse al va-e-vieni della moda JACARANDA CARACCIOLO FALCK uando nel 1926 la trasgressiva Coco Chanel lo lanciò non si aspettava certo che, dopo più di ottant’anni, sarebbe stato ancora un simbolo. Invece è accaduto: il little black dress, quell’abitino senza maniche, alto sessanta centimetri da terra, realizzato in un colore, il nero, che all’epoca si utilizzava esclusivamente per i funerali è sopravvissuto a tutto. A dispetto di chi, come Elsa Schiapparelli, eterna rivale di mademoiselle C., lo aveva liquidato schernendolo. Ed eccolo riapparire oggi su decine di passerelle, da Milano a New York, da Parigi a Londra. Più di moda che mai. Tanto che persino Katie Holmes, sensuale neo sposa del super divo Tom Cruise, non ha dubbi. E dalle pagine di una patinata rivista americana ammette che il pezzo forte del suo guardaroba è proprio il famigerato tubino. Quello storico simbolo di eleganza sul quale, nei decenni, si sono cimentati i più grandi designer del pianeta, da Yves Saint Laurent a Balenciaga, da Jil Sander a Miuccia Prada. Perché, proprio per l’innata semplicità che lo contraddistingue, il vestitino più famoso del mondo è uno dei pezzi più difficili da realizzare in modo appropriato. Sarà per questo che, nonostante l’avvicendarsi di mode e tendenze, continua a essere in auge come ai tempi in cui donna Letizia, al secolo Colette Rosselli, dalle pagine di Grazia ne predicava le molte virtù. Ma attenzione perché la petite robe noire non è l’unico classico a non essere tramontato. I capi simbolo, i cosiddetti passe-partout, ovvero quegli indumenti, bijoux o accessori che puoi conservare nell’armadio senza paura di apparire ridicola quando li tiri fuori, sono molti. C’è la famosa camicia bianca, di taglio maschile, lanciata da Katherine Hepburn e riproposta da decine di stilisti come Gianfranco Ferré e Ralph Lauren. C’è il twin set che, dopo aver ingentilito più di una

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bellezza dagli anni Cinquanta in poi, è tornato a brillare indosso alla bionda Nicole Kidman. C’è il trench, ideato all’inizio del secolo scorso come capo militare da Thomas Burberry che richiama l’ambiguo sex appeal di Marlene Dietrich. E poi le ballerine, associate alla nonchalance di Brigitte Bardot. E ancora i pantaloni stile Capri indossati dall’icona Jackie O’ durante una vacanza in Italia. Il filo di perle, vere o meglio false come predicava Chanel. E la Kelly, le borsa ideata da Hermès per rendere omaggio a Grace Kelly, ancora oggi imbattuta come record di vendite. Indumenti che piacciono perché non hanno confini generazionali. Perché li puoi indossare a diciott’anni ma anche a sessanta. Perché nel tempo li abbiamo visti indosso alle donne più famose del mondo, sulla piazzetta di Capri e sul molo di Portofino, sulla spiaggia di St. Tropez come su quella di St. Barth. Ma sui quali al giorno d’oggi si impone una riflessione: possibile che dopo tanti anni di evoluzioni stilistiche il mondo della moda non sia ancora riuscito a sostituirli? «Come dice la parola stessa gli evergreensono e saranno sempre di moda», risponde Roberto Cavalli che alla lista degli indispensabili aggiunge anche i jeans, «si tratta di capi classici che rendono il look delle donne appropriato in ogni occasione e che possono essere attualizzati con piccoli accorgimenti a seconda del momento». Della stessa idea anche Alberta Ferretti. «Si possono continuare ad utilizzare, basta saperli mescolare con pezzi di abbigliamento più contemporanei e renderli attuali con nuove proporzioni», teorizza. Qualche esempio? «Il filo di perle va sdrammatizzato con un top sportivo, la camicia bianca non deve diventare la scusa per la banalità, le scarpe decolletées vanno indossate con i jeans. La mia esortazione alle donne è di mescolare tutto, di non continuare a fare delle composizioni fisse».

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LA COLLANA DI JACKIE Come teorizzava Jackie, il filo di perle è simbolo di eleganza Luminosa la proposta Mikimoto

IL TUBINO DI AUDREY Lanciato da Coco Chanel, il tubino nero ebbe una seconda giovinezza quando de Givenchy ne creò uno per Audrey Hepburn. Oggi a riproporlo è Ralph Lauren

Come fare piazza pulita

L’arte complessa della semplicità

LA BORSA DI GRACE

LAURA LAURENZI

Hermès la inventò a metà degli anni Trenta. Ma fu solo quando Grace Kelly la indossò sulla copertina di Life nel 1956 che la borsa, oggi realizzata in decine di versioni diverse (nella foto il modello Gold) divenne davvero un mito

l segnale è quando l’armadio non si chiude più. È talmente pieno, talmente gonfio che sembra sul punto di esplodere. Soltanto aprirlo e sbirciare dentro ci fa girare la testa. Meglio chiuderlo a chiave e dimenticarlo. Dentro c’è davvero tutto e il contrario di tutto, e ogni cosa fa a cazzotti con quella accanto: rombi, quadri, righe, fiori, quadretti; gonne di ogni lunghezza; pantaloni a vita bassissima ma anche da torero. Borse di ogni misura, foggia, pelle e colore. E poi le scarpe: a punta ma anche super tondeggianti come quelle di Minnie, con la zeppa ma anche superpiatte tipo pantofola cinese. Qualunque cosa ti metti ti senti inadeguata, overdressed, come dicono gli esperti di moda, ma anche underdressed. Per non parlare dell’incubo di quando devi fare la valigia e non hai la più pallida idea di cosa infilarci dentro. Il punto è che più roba possiedi più incarni il luogo comune scriteriato e odioso della donna delle barzellette, meglio se oca. Quella che ha l’armadio strapieno e dice: non ho niente da mettermi. Teorizzava Coco Chanel che «la moda invecchia, solo lo stile rimane sempre uguale». E dunque invecchiano i vestiti, mentre lo stile resta quello che è: una cosa rarissima, non in vendita dunque inaccessibile. Bisognerebbe trovare il coraggio di semplificare, buttare — o meglio regalare — tutto quanto e arroccarsi nei famosi cinque pezzi facili (che poi possono essere dieci, dodici, ma mai di più). «Facili» è un paradosso: così facili che più difficili non potrebbero essere. Il tubino nero, il trench di taglio maschile, una camicia immacolata, le ballerine, un golf a collo alto nero, il semplicissimo filo di perle, un twin set di cachemire tinta pastello stile Alta società. Selezionare pochi capi ma buoni, i famosi evergreen, gli insopportabili passe-partout che non tramontano mai e sono di uno chic assoluto. È una parola. È il gesto saggio di chi non vuole sbagliare. Il gesto di chi coltiva l’illusione segreta di potere somigliare, anche se molto da lontano, a icone di fascino e charme e classe imperitura, vere-signore del calibro di Audrey Hepburn, o di Grace Kelly, o di Jacqueline Kennedy, per non citare che le più citate, le più ammirate, le più invidiate. E le più inarrivabili. La tendenza è quella dello spaceclearing: fare piazza pulita di ciò non si usa e guadagnare in spazio, luminosità mentale, razionalità. Conservare — o acquisire — solo l’indispensabile. Capi talmente basic e classici che pretendono la perfezione, quasi mettono soggezione nella loro aristocratica semplicità. Se è vero che ogni grande cuoco conferma come il piatto più difficile da cucinare è l’uovo al tegamino, di chi sarà l’impeccabile tubino nero perfetto per ogni occasione? Il rischio è che, se sprovviste di classe, se brevilinee mediterranee, se dotate di scarsa personalità, abbigliate in modo tanto sobrio possiamo passare per ordinarie, senza fantasia, noiose. Eppure l’eleganza è un soffio, è una coppia di aggettivi, come quelli usati da Truman Capote per raccontare ciò che ha addosso la protagonista di Colazione da Tiffany, e cioè «un esile, fresco abito nero». Nel film lo aveva disegnato il conte Hubert de Givenchy. «Adoro i piaceri semplici, sono l’ultimo rifugio della complessità» è uno degli aforismi di Oscar Wilde. È davvero complesso, proprio nella sua apparente trasparenza, organizzarsi un guardaroba tanto lineare. Vestirsi con gusto e rigore schivando insidie, tentazioni, trend stagionali, mode passeggere e volubili, tranelli da fashion-victim. Richiede una personalità ben strutturata, idee chiare, una certa forza di volontà. Il pericolo è quello di somigliare a una caricatura della signora bon chic bon gendre, una sorta di maestrina dell’eleganza codificata, una prima della classe col ditino alzato sempre pronta a dare lezioni: questo non si fa!

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LE SCARPE DI NICOLE La scarpa più sexy? La classica decolleté Riproposta da Versace in versione optical black and white con tacco a spillo. Stile Nicole Kidman

L’ABITO DI SHARON Il sogno di ogni donna? Avere un abito da ballo, lungo, avvolgente Come quello in lamè argento di Giorgio Armani Per sentirsi un sex symbol alla Sharon Stone

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l’incontro

Quarantatré anni su un corpo da bambina, è stata una Carmen combattiva e emozionante ma solo adesso si sente pronta per essere Marguerite in “La Dame aux camélias” “Sono in forma splendida dice - ballo come non ho mai ballato in vita mia” Eppure ha deciso di lasciare, ancora pochi mesi e smetterà: “Questa carriera è stata un dono incredibile e non voglio uscirne dalla porta di servizio, voglio uscire dal palcoscenico col bicchiere di champagne in mano”

Passo d’addio

Alessandra Ferri

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può essere la fine. Il corpo non è più lo stesso, i fianchi si allargano, i tendini si allungano, la schiena si indurisce. Mi sono ritrovata in un corpo che non conoscevo. Ho dovuto lavorarci sopra sodo». Finta fragile, è una stacanovista cocciuta. Una quadrata, cresciuta tra una tradizionale famiglia borghese lombarda e la disciplina della danza, che è implacabile: ti fa essere esigente, guardinga, precisa. Alessandra Ferri si abitua presto a «tenere sempre le redini» di sé, e spesso degli altri, già quando, enfant prodige alla Scala di Milano, allieva prediletta di Ljuba Dobrievich, vince una borsa di studio che la catapulta quattordicenne a Londra, al Royal Ballet, dove a soli diciannove anni diventa la principal dancer. «Erano gli anni Settanta, anni in cui alla Scala il balletto era sindacalizzato come non mai. Andare a Londra fu una liberazione, oltre che molto divertente. Londra era bella, io ero timidissima ma avevo il mondo davanti, e lì non ero obbligata a stare in fi-

Matilde e Emma, le mie due piccole, le ho volute con tutte le forze Amo troppo la danza e non potevo permetterle di rendermi infelice,

di fare di me una donna senza figli

FOTO FABRIZIO FERRI

MILANO a scelto di smettere ora, sicura di sé e all’apice della carriera. Di chiudere con la danza subito, prima che il corpo diventi un oggetto alieno e ballare una dolorosa molestia. «No, no, meglio smettere prima. Amo troppo la danza e i miei personaggi. L’idea che ballarli possa diventare una fatica, o semplicemente vedere che non riesco più a interpretarli come so fare… Sarebbe orribile. Questa carriera è stata per me un dono incredibile. Voglio uscirne dal palcoscenico con un grande inchino, non dalla porta di servizio piena di acciacchi. Voglio terminare ora, col bicchiere di champagne in mano, alla Roland Petit». Il prossimo luglio Alessandra Ferri lascerà la danza, dove è stata presente per quasi trent’anni, la più bella Carmen secondo Petit, la Manon per eccellenza nei libri di storia del balletto, l’étoile internazionale che ha girato il mondo, è stata amata dai maggiori coreografi. Ha “solo” quarantatré anni, ha il corpo da bambina ancora perfetto e una serenità, confessa, che non ha mai avuto. In tuta da lavoro, dentro un golfone di felpa, i capelli neri raccolti dietro la nuca, tra una prova in teatro e un massaggio, davanti a un frugale piatto di pastasciutta di un ristorante vicino alla Scala, è qui a ricordarci che le donne sono belle, fulminanti, veloci quando c’è da prendere in mano la propria vita, il groviglio di quello che siamo e non siamo più, dei sogni, delle delusioni, di ciò che si è costruito e ciò che è cambiato. «Oddio: non è stato affatto facile. Ho pensato e ripensato più volte se smettere era la cosa giusta. Ho avuto le mie paure. Un mese fa, quando alla fine della tournée in Argentina ho salutato Julio Bocca, il mio partner di sempre, mi è ve-

nuto il magone. Ce la farò, mi sono detta? Ma a un certo punto, si è come sciolto tutto. Ho sentito dentro di me una sicurezza solida, consapevole. Sarà questa la vecchiaia che avanza? Io una volta ero Carmen, combattiva, strasicura, accesa. Corazze, forse solo corazze per nascondere fragilità e insicurezze, perché adesso che mi accorgo di smussare gli angoli, di lasciar correre, mi sento finalmente solida, serena, matura. E l’effetto è che ho cominciato a sentirmi in una forma fisica splendida, ballo come non ho mai ballato in vita mia. Mi sento come se dovessi sollevare il mondo». Tutta questa energia la concentrerà, intanto, in La Dame aux camélias, lo spettacolo di addio alla Scala, dal prossimo 20 marzo. «Erano anni che sognavo quel ruolo. Avrei dovuto farlo già sei anni fa col Balletto di Amburgo, ma rimasi felicemente incinta di Emma, la mia seconda bambina, e rinunciai. Alla fine sono felice che succeda ora perché Marguerite è una donna complessa, con dei lati oscuri che credo di poter capire solo in questa fase della mia vita. Non è Manon, uno dei miei cavalli di battaglia, la ragazza giovane, bella, dissoluta che crede di poter avere il mondo ai suoi piedi. No, quella di Marguerite è la storia di una solitudine profonda, totale, in un mondo in cui l’umiliazione delle donne era enorme, trattate come corpi, riempite di gioielli, maltrattate nell’intelligenza. Mi sono riletta il romanzo, per capire. È molto oscuro, mi ha turbata, tanto dolore femminile c’è». Dicono che è l’Anna Magnani della danza per i gesti, i movimenti, i lampi segreti che illuminano i suoi personaggi. «Ma è la musica, non io. Io sono ancora la bambina di quattro anni che voleva essere la musica e per questo sognava di ballare. Per me la musica è l’aria, è qualcosa che ci avvolge, ci riempie, ci dà vita. Io ho sempre avuto un rapporto emotivo e profondo con la musica. Le mie interpretazioni vengono fuori da lì, io mi unisco, mi abbandono alla musica e lascio che i personaggi escano, donne gioiose o dolenti, regine o puttane, le poverecriste come Gelsomina, le svolazzanti Manon, le Carmen, le Giulietta, Odette…». Se (quasi) tutte le eroine di Alessandra Ferri alla fine soffrono, lei no. Ha accanto l’entusiasmo di un marito artista e creativo, il fotografo Fabrizio Ferri, e, mentre altre sue colleghe ballerine rifuggono famiglia e maternità come fossero una disgrazia, lei ha voluto due figlie e ha accettato placidamente i doveri della famiglia. «Sono molto presente, mi occupo delle lavatrici, dei compiti, della casa. Penso che sia l’unico modo di vivere la famiglia. Le mie figlie le ho volute con tutte le forze. Amo troppo la danza e non potevo permetterle di rendermi infelice senza figli, la danza deve far respirare, non soffocare. Così sono arrivate Matilde e Emma. Certo, per una ballerina una doppia maternità

la ad aspettare l’anzianità per essere promossa. Io, lo ammetto, ho sempre voluto fare la prima ballerina, stare nel corpo di ballo non mi è mai interessato. Non ho nemmeno mai imparato i passi per stare in fila». È la donna che le ambizioni, la cocciutaggine, i sogni e la disciplina li ha usati come cemento per una carriera spesso anche ingenerosa, selettiva, spietata. New York, per esempio, la città dove oggi ha scelto di vivere con marito e figlie nell’Upper West Side, è stata per lei una lezione di vita. Era l’85, era già Alessandra Ferri: Baryshnikov la vede alla Scala nel Lago dei cigni e la vuole con sé all’American Ballet. «Venivo da Londra, dal Royal dove c’era questa cultura del crescere e accudire i propri fiori. A New York avevo ventuno anni, non conoscevo nessuno, Misha non era l’artista che ti aiutava e gli altri ballerini mi guardavano con diffidenza forse temendo di essere spodestati. Me ne andavo la sera dal Met, e nel percorso dal teatro a casa piangevo. Cenavo sola con la mia minestrina e il giorno dopo gli allenamenti ricominciavano. Per quanto tempo l’ho fatto? Ma niente però mi avrebbe fatto tornare indietro. Nei momenti in cui c’è da mettersi gioco non mi sono mai tirata indietro. E col senno di poi dico che l’American Ballet è una scuola tecnica eccellente per ogni ballerino. Io lì mi sono perfezionata. Ho imparato la tecnica che mi ha dato la libertà di esprimermi come voglio. Ancora oggi in scena vivo di quella sapienza». Se può avere nostalgie è per gli incontri straordinari della sua vita, le meravigliose persone da cui ha imparato l’umanità, il coraggio, la generosità che devi avere se vuoi essere un grande artista. «Appartengo a una generazione che non c’è più, che ha potuto lavorare con monumenti come Balanchine, Petit, Twila Tharp, Robbins, Cranko, Kylian… grandi persone che ti sanno dare innanzitutto i perché del tuo lavoro. Penso ai giovani di oggi che si limitano a ballare… C’è stato un periodo in cui anche io ho ballato solo per il successo, per quello che dicevano gli altri. Per fortuna mi feci male. Mi ingessarono un piede, tornai a Monza a casa dei miei e mi presi un momento per me. Ero caduta nella trappola di ballare per gli altri, per gli applausi, e non ballavo bene. Oggi è diverso: sono molto tecnica in allenamento, curo molto i passi perché quando sono in scena non voglio pensare ora devo alzare la gamba, ora la spalla destra. Imparo in fretta l’alfabeto per liberarmi, per poter improvvisare e giocare. I grandi della danza mi hanno insegnato che la tecnica è fondamentale purché non diventi un fine, che è quello che sta succedendo purtroppo nel balletto classico oggi». Racconta quindi con molta grazia dei suoi adorati maestri: Kenneth Mc Millan, il più importante, apparso in sogno accanto a lei, dice, in platea quando ha

preso la decisione di fermarsi. «Con McMillan c’è stata una vera naturale predisposizione: le sue coreografie, la schiena arcuata, la gamba allungata, mi venivano facili. In più lui ha una sensualità spiccata e una verità che mi piacciono. In scena ci si tocca, ci si bacia, c’è una naturalezza in cui io mi sono sempre riconosciuta. Il suo verismo è stato una svolta per me, un valore che ho tenuto caro e mi ha spogliata di tante finte pantomime che fanno parte di un secolo finito. Poi c’è Roland Petit: un incontro altrettanto meraviglioso ma più difficile. Roland è un genio, come Balanchine. Ma ha uno stile veramente suo che io ho dovuto imparare e fare mio. Lavorare con lui è divertente, perché è creativo, effervescente, un trascinatore». Come fanno spesso gli atleti e quelli che hanno il corpo al centro del loro linguaggio, Alessandra Ferri si allena ancora ogni giorno. «Meno ore rispetto a un tempo, ma più intensamente. Se a vent’anni puoi ballare sei-sette ore, fai una dormita e sei fresca, a quaranta hai un sacco di dolori. Le mie prove durano meno, però so cosa devo fare, quando forzare e quando no, è un lavoro più intelligente. E ancora necessario, perché il mio addio alla danza è lungo. Dopo la Scala, c’è la tournée in Giappone, dove mi hanno voluto ancora, poi New York per una Desdemona, altra donna sola, e il Giulietta e Romeo con Roberto Bolle, un bel partner. Ci tengo molto a fargli da madrina per il suo debutto americano». E poi? «Si vedrà. Farò la viaggiatrice? Una scuola di danza? Mi sento zen. Vedo in quello che ho fatto ieri le radici di oggi, e tutto mi sembra un percorso, uno sviluppo lineare. Sono una donna felice. A tutti, dalle mie bambine agli amici, auguro di avere una passione come l’ho avuta io. Non importa se è la danza o cosa. Ma una passione, per cui battersi. Per cui vivere. Se no, che senso ha?».

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ANNA BANDETTINI

Repubblica Nazionale


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