2019 04 14 Anche la tomba di Kapu è piena di penne

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Maschere .

Teatro, musica, danza, cinema, televisione

Sulla strada

di Davide Francioli

Il film Esce nelle sale italiane «Ancora un giorno», pellicola che unisce animazione e documentario dal vero, tratto dall’omonimo libro di Ryszard Kapuscinski dedicato al periodo trascorso in Angola e alla sua drammatica «confusão»

DOMENICA 14 APRILE 2019

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Maniche, fascia e pace

Formato da una corta giacca e un’ampia gonna, l’hanbok è il vestito tradizionale della Corea. Tuttora indossato in occasioni formali, l’abito risale ai primi secoli dopo Cristo: il colore delle maniche e della fascia all’altezza del seno indicava lo stato sociale di chi lo portava. Dato il suo significato di unità, lo street artist coreano Royyal Dog lo ha riprodotto in un murale ad Ashkelon (Israele): messaggio di pace per gli abitanti del luogo.

Il reporter Alla vigilia del film lo scrittore Angelo Ferracuti è andato in Polonia per percorrere le prime strade della sua vita. Qui ha incontrato la vedova e la figlia, che gli hanno aperto la porta di casa, e i suoi amici. E qui ha scoperto che...

Anche la tomba di Kapu è piena di penne «È potente, questa “confusão”, ruba nei nostri cuori. Non puoi abbatterla, puoi solo attraversarla». «Confusão» è «la parola chiave, la parola sintesi, la parola quintessenziale» per descrivere il caos dell’Angola nel 1975. Il reporter polacco Ryszard Kapuscinski (19322007) la ripete più volte nel reportagecapolavoro scritto nel 1976 dopo i tre mesi trascorsi in Angola: «Ancora un giorno» (pubblicato in Italia da Feltrinelli). Ora, per la prima volta, il libro è stato tradotto per lo schermo in un film omonimo in arrivo nei cinema italiani il 24 aprile. A dirigerlo sono il documentarista spagnolo Raúl de la Fuente

da Varsavia ANGELO FERRACUTI

Animazione In questa pagina due fotogrammi di Ancora un giorno diretto da Raúl de la Fuente e Damian Nenow, che ritraggono la versione animata del reporter polacco Ryszard Kapuscinski. Il film esce il 24 aprile distribuito da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection

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e il regista di animazione polacco Damian Nenow. Un documentarista e un esperto di animazione 3D per un film che mescola i linguaggi: la ricostruzione animata (realizzata a partire dalla recitazione di attori in carne e ossa) dei fatti e delle atmosfere si uniscono alle interviste dal vero realizzate per l’occasione. Così, sullo schermo, troviamo Ryszard Kapuscinski a Luanda, la capitale, immerso nella «confusão» della città. Il Paese si avvia verso l’indipendenza e i cittadini portoghesi si danno alla fuga; mentre le diverse fazioni del movimento per la liberazione, sostenute da Urss e Stati Uniti, sono coinvolte

entre cammino stretto nel mio giaccone per raggiungere il parco di Pole Mokotowskie, se qualcuno in questa mattina ancora invernale mi chiedesse perché sono qui a Varsavia, all’Istituto italiano di Cultura, risponderei che ieri ho discusso di futuro davanti a un pubblico d’italianisti curiosi, ma in realtà sono qui anche per un altro motivo, l’intima curiosità nei confronti dell’Erodoto polacco Ryszard Kapuscinski, il principe dei reporter, di cui sono stato un lettore smanioso, che veniva qui a passeggiare tutte le mattine. Fa freddo, il vento sparpaglia i tappeti di foglie, scende qualche timido fiocco di neve mentre continuo a camminare svelto ed emozionato, seguendo filologicamente i percorsi della sua camminata rituale, taglio via Wawelska, entro in quello che lui chiamava «Campo di Mokotow», e adesso anch’io da lontano vedo il possente edificio bianco della Biblioteka Narodowa. Quando Kapu arrivò da Pinsk (oggi in Bielorussia), venne a vivere proprio qui, come racconta in Passeggiata mattutina (uscito in Italia sulla rivista «Il Reportage»): «All’angolo tra via Wawelska e viale Niepodleglosci nel 1945 hanno costruito un isolato di piccole case finniche unifamiliari di legno», scrive nel breve memoir pubblicato in Polonia nel 2007, due giorni dopo la sua morte. Le cerco, vagando a vuoto, continuando a camminare lungo i piccoli sentieri, sopra i prati, dove svolazzano grandi corvi goffi, e corrono contro il vento rari sportivi indomiti. Piuttosto scoraggiato, fermo una ra-

in un sanguinoso conflitto che assume presto caratteri internazionali. Kapuscinski, «Ricardo» come lo chiamano i locali, grande «esploratore» dell’Africa (nella pagina a destra la cartina con i suoi spostamenti sul continente conservata nella casa di Varsavia), continua a mandare telegrammi all’agenzia di stampa polacca con aggiornamenti quotidiani e decide di intraprendere un viaggio «attraverso l’inferno» che lo conduce ai più estremi confini del conflitto. Nel film il racconto della guerra civile si intreccia con la riflessione sul ruolo del reporter quando Kapuscinski sceglie di non divulgare la notizia della

gazza, le chiedo dove si trova la casa di Kapuscinski, il grande reporter, ripeto più volte il cognome, ma quella scuote la testa, dice che non lo sa prima di riprendere la corsa. Un uomo serioso cammina tagliando il parco, in mano una ventiquattr’ore nera, anche lui cade dalle nuvole, poi mi indica alcuni edifici in lontananza, coperti da fronde di pioppi.

È proprio in questo momento che scorgo due piccole case di legno. Nella prima riconosco il cottage abitato dalla famiglia dello scrittore: compariva in una foto sul sito del quotidiano polacco «Gazeta Wiborcza», con sopra la scritta della strada Leszczowa, una volta «nera e catramosa». Erano il regalo dell’Urss dopo la rovina di Varsavia, riparazione di guerra dalla Finlandia. «Subito

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La figlia Zojka «Papà diceva che ci sono molte cose che accadono intorno a noi, ma soltanto alcune ce le ricordiamo per sempre. Quelle che ricordiamo, concludeva, vale la pena scriverle»

presenza delle truppe cubane in Angola per sostenere la causa civile. Per realizzare il film, Raúl de la Fuente si è recato in Angola dove ha ritrovato i protagonisti di quella storia: i giornalisti Artur Queiroz e Luis Alberto Ferreira e Joaquim António Lopes Farrusco, comandante di una piccola unità di combattimento sul fronte meridionale, che vengono intervistati e appaiono sullo schermo. Mentre gli altri, come la giovane guerrigliera Carlota, rivivono nel ricordo, nelle fotografie, nel racconto del reporter spinto dall’imperativo: «Fai in modo che non ci dimentichino». (c. br.)

dopo la guerra ci hanno assegnato una casa del genere — scrive l’autore di Giungla polacca — perché mio padre lavorava in un’impresa di edilizia popolare. Quella piccola casa senza bagno e senza riscaldamento centralizzato era un lusso, era la felicità, perché fino ad allora eravamo accampati (una famiglia di quattro persone) in una piccola cucina tra le rovine sul terreno dei magazzini del cemento e dei mattoni vicino alla via Srebrna, non lontano dallo scalo chiamato Siberia (da qua un tempo deportavano la gente in Siberia)». Il tetto è sfondato, le pareti marciscono, dalle finestre rotte si scorgono macerie. In quella vicina l’entrata è diventata un giaciglio per senzatetto, un barbone molto dignitoso, il giaccone giallo logoro con il cappuccio serrato intorno alla testa e uno zainetto rovinato, vaga stordito lungo una collinetta di terra, un cane nero dal pelo folto corre furioso contro il vento. Kapuscinski arrivava in questo parco ogni mattina, qui dove c’era il suo presente ma anche il suo passato, dove era stato bambino, e la storia, la tragedia di un’epoca e la sofferenza di Varsavia, avevano lasciato in lui tracce di dolore: «Oggi questo è un bel prato, ma allora, dopo la guerra, qui c’erano le fosse d’argilla e dentro spuntavano quattro listelli legati con filo di ferro. Questo significava che lì era interrata una mina. (…) Ricordo che vado a scuola mezzo addormentato e mezzo congelato e vedo un bambino seduto su questi listelli e prima di destarmi vedo il bagliore del fuoco, e sento il secco e acuto fragore. (…) Il bambino era già morto in una pozza di sangue».


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Le immagini Qui a sinistra: la prima casa della famiglia Kapuscinski; sopra: Alicja Kapuscinska e, dietro, la figlia Zojka; qui sotto, da sinistra: la tomba di Kapuscinski al cimitero militare Powazki, a Varsavia, e la scrivania dello scrittore piena di penne

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Più tardi, dopo aver portato una rosa rossa sulla sua tomba, al cimitero militare Powazki, raggiungo Rynek Starego Miasta 20. Al Museo della Letteratura mi aspetta Jarosław Mikołajewski, poeta e traduttore di Dante, che ha vissuto a Roma tanti anni e parla un perfetto italiano. Il primo incontro con Kapu fu quando gli consegnò una lettera del regista Andrzej Wajda, «ma è stato un momento» dice questo sessantenne con lo spirito di un ragazzo, che si accende e si commuove quando parla. Poi un giorno Kapu lo chiamò perché voleva incontrarlo. Pensava fosse uno scherzo, perché un suo amico scrittore imitava le voci. Invece era proprio Kapuscinski all’altro capo del filo, aveva letto i suoi versi, apprezzandoli moltissimo. Fu l’inizio di un’intensa amicizia durata dieci anni. «Aveva questo grande sogno di essere poeta — confessa Mikołajewski — leggeva molta poesia anche quando scriveva, per esempio In viaggio con Erodoto, diceva che lo faceva uscire dalle frasi fatte del giornalismo, gli faceva rinnovare la lingua, rompere schemi, stilemi». La poesia la portava anche nel racconto dal vero, «un dettaglio della realtà diventava metaforico, simbolico, era uno spazio di libertà». Mikołajewski ha avuto la fortuna di conoscere persone importanti quando erano allo «stoppino», dice divertito, alla fine della loro vita, come la poetessa Premio Nobel Wisława Szymborska. «Ryszard era dolcissimo, magnetico, buono, aveva gli occhi buoni», dice non senza tradire una piccola commozione. Kapu andava a trovarlo a Roma, all’Istituto polacco di Cultura, «non sopportava di esse-

re considerato un oracolo e si sentiva derubato dal tempo. Lo vedevo stanco, sofferente, non riusciva più a camminare perché aveva dolore, e per non farsene accorgere si fermava nei negozi più diversi, dove vendevano reggiseni oppure orsacchiotti di peluche».

Come ogni vero autore, e autentico intellettuale, Kapuscinsk ha avuto rapporti conflittuali con il potere, a cominciare con la nomenklatura comunista polacca. Quando sono andati al governo i nazionalisti di Jaroslaw Kaczynski si è schierato con i liberaldemocratici. «Vedrai, mi diceva, adesso cominceranno a fare i conti con me, con Wajda, con la Szymborska; c’è un’atmosfera di odio. Hanno indagato nel suo passato, l’hanno accusato di essere una spia al servizio dell’agenzia sovietica Tass — dice con durezza —. Abbiamo il più grande intellettuale nell’approccio verso l’Altro e la Polonia se ne frega, la destra odia la cultura che rappresenta Kapuscinski, e per non ammetterlo apertamente sostengono che è comunista». Dice anche che qualche giorno prima che morisse andò a trovarlo all’ospedale Banacha. «Il suo vicino di letto infilava le monete sulla tv a gettone e poi si metteva dormire. Lui non capiva, lo riteneva insensato, diceva angosciato: ci siamo distaccati troppo dal popolo, non riusciamo più a capirlo». Magdalena Szymków, che l’ha conosciuto quattro anni prima della morte e sta lavorando a un documenta-

Il protagonista Ryszard Kapuscinski (Pinsk, Polonia, oggi Bielorussia, 4 marzo 1932 – Varsavia, 23 gennaio 2007: qui sopra) è stato uno dei più importanti e noti reporter al mondo. Fino al 1981 fu corrispondente estero dell’agenzia di stampa polacca Pap. Le sue testimonianze di 47 anni di viaggi in oltre cento Paesi del mondo, dall’Asia all’Africa, dall’America Latina all’ex impero sovietico, sono raccolte in una ventina di libri tradotti in oltre 30 lingue. Tra gli altri: Cristo con il fucile in spalla, Ancora un giorno, La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Shah-in-shah, Ebano, Imperium, Lapidarium, editi in Italia da Feltrinelli Al cinema Esce nelle sale il 24 aprile (preceduto da un’anteprima martedì 16 all’Anteo Palazzo del Cinema di Milano, ore 19.40), Ancora un giorno, diretto da Raúl de la Fuente e Damian Nenow, tratto dal libro omonimo di Kapuscinski. Il film, che unisce animazione e documentario dal vero, lo scorso maggio è stato presentato a Cannes e ha vinto come miglior film d’animazione gli European Film Awards 2018. Coprodotto tra Spagna, Polonia, Germania, Ungheria e Belgio, è distribuito in Italia da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection. Nei titoli di coda, la versione distribuita in Italia è accompagnata dal brano originale Ancora un giorno di The Bluebeaters e Willie Peyote

rio, un grande racconto dove lui parla del suo lavoro, simile a un mosaico come il Lapidarium, lo ricorda «umile e gentile, riservato, sorprendeva che il personaggio dei suoi libri, che tutti immaginavano come un supereroe, fosse un uomo così umanamente disponibile. Ma non amava le interviste, e si arrabbiava quando arrivavano i giornalisti impreparati, a meno che non fossero giovani, con i giovani era sempre disponibile». Francesco Cataluccio, che fu anche il suo editor da Feltrinelli (senza l’aiuto del quale non sarei riuscito a scrivere questo reportage) e lo frequentò parecchio, lo ritrae così : «Era un uomo molto inquieto: non riusciva mai a stare fermo. Dopo pochi giorni nella sua bella casa zeppa di libri trovava un pretesto per ripartire. Ho sempre pensato che sua moglie Alicja fosse una santa. Le prime volte che lo cercai al telefono, mi rispondeva che non sapeva bene dove fosse e che, forse, lo avrebbe sentito tra un paio di settimane. Si perdeva nel mondo».

L’appuntamento con Alicja Kapuscinska è fissato più tardi, nel primo pomeriggio, al numero 11 di Ulica Procuratorska, nel vecchio quartiere residenziale della città. Alla fine di una piccola via laterale di Aleja Niepodległosci si trova una villetta grigia con un giardino davanti. Suono il campanello e quando il portone si apre appare sulla soglia una donna dai capelli lisci neri, gli occhiali da vista dalla montatura nera, maglia e pantaloni neri. Timidamente mi invita ad entrare: è Zojka, la figlia di Kapu che vive in Canada. Saliamo una piccola scalinata e arriviamo all’appartamento, poi nel soggiorno dove Alicja mi accoglie, abbracciandomi. Sulla stanza attigua mi mostra la grande libreria con le numerose edizioni dei libri del marito tradotte in tutto il mondo, sulla parete alcune foto, tra le quali una molto evocativa di lui che sta viaggiando verso il suo paese natale, Pinsk, e guarda fuori dal finestrino rapito come un bambino. «Non vedeva l’ora di poter rivedere le case, i paesaggi della sua infanzia», dice. La casa ha uno stile sobrio, l’arredo semplice la rende più ospitale, e quando ci sediamo sul divanetto, per rompere il ghiaccio, le chiedo come ha vissuto questa continua inquieta peregrinazione di Kapuscinski, sempre in viaggio, a raccontare guerre e rivoluzioni, mentre lei lo aspettava a Varsavia. Risponde allegra: «Partiva sempre, però era importante che portasse con sé le chiavi di casa, perché sapeva che poteva tornare, era una specie di portafortuna. Ogni volta che tornava non voleva raccontare troppo, diceva che altrimenti non lo avrebbe scritto». Quando nel 1964 contrasse la malaria cerebrale in Kenya, Alicja andò a Nairobi per curarlo fermandosi un anno, e rimase scioccata quando s’accorse che nel dispensario sterilizzavano le siringhe con l’acqua delle uova cotte a colazione. «Quando partiva spegnevo l’immaginazione», dice socchiudendo gli occhi. Poco dopo ci raggiunge l’amico di una vita, il redattore dell’Agenzia Pap Mirosław Ikonowicz, che lo ricorda scrupoloso, curioso di qualsiasi dettaglio: «Ha inventato un modello, dove non raccontava solo il fatto, quello che è successo, ma perché è successo. In poco tempo capiva i meccanismi sociali, economici», quello che lui adesso chiama «colorito sociale». Di ritorno dall’Africa, andava a trovarlo a Madrid. «Lo hanno attaccato perché ha mescolato i fatti con la fabula, ma lui si difendeva dicendo che erano due rive delle stesso fiume. Però il suo carattere non era così facile», aggiunge. Una volta tornò a casa, lo trovò a litigare con la moglie, con le valigie in mano, sul punto di andarsene solo perché lei si era permessa di dire che le mogli e i figli dei reporter soffrono quando questi partono.

Alla mansarda arrivo seguendo Zojka e facendo due rampe di scale. In alto, sul pianerottolo, due porte bianche laccate: quella di sinistra conduce nello studio dove Kapuscinski scriveva, nel silenzio assorto e il clima caldo di un ambiente fatto di scaffalature che coprono ogni parete, al centro della stanza un tavolo ingorgato di libri impilati, quelli che gli servivano per lavorare, e sul lato opposto la scrivania con la macchina per scrivere coperta da un panno chiaro e una lampada con il paralume, le molte penne, sul davanzale della finestra alcuni orologi da polso, di cui era collezionista, e le pietre trovate in tutte le spiagge del mondo. Sul piano della scrivania gli ultimi libri consultati, spia del suo eclettismo, Seneca, un saggio di Paul Ricœur, Goffman. «Le penne erano la sua passione fanciullesca», dice Zojka. Anche sulla sua tomba c’è un contenitore affollato di penne. Prendo in mano alcuni taccuini, osservo la grana della sua calligrafia minuta. «Diceva che il microfono davanti alla bocca intimidisce le persone, preferiva avvicinarsi senza dire chi fosse, si ricordava delle cose che ascoltava — racconta la figlia con ammirazione — diceva che ci sono molte cose che accadono intorno a noi, ma alcune ce le ricorderemo per sempre. Solo quelle che ci ricordiamo vale la pena scriverle». Lei quando legge i libri di suo padre è come se le parlasse, «sento la sua voce, perché scriveva come parlava». Sulle travi della soffittatura, persino sulle fiancate della scala di legno che porta a un soppalco, Ryszard era solito appendere foglietti con citazioni che avevano colpito la sua immaginazione. La più bella è quella di Plinio il Grande della Storia naturale: «Nulla dies, sine linea», riferita al pittore greco Apelle, vissuto nel IV secolo a.C.: mai una giornata senza tracciare almeno una linea. Tradotto nell’attività di uno scrittore può significare solo questo: nessun giorno senza scrivere almeno una riga, quella che Kapuscinski chiamava «storia viva», nell’intento di raggiungere la forma perfetta. © RIPRODUZIONE RISERVATA


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