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IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO

Rimandato il ‘canto’ del Gallo N C A A M A R C H M A D N E S S «Nessun rimpianto, rifarei tutto»

Fuori Usc, le parole di Hackett LOUISVILLE CARDINALS

PHILADELPHIA ‘76ERS

T-Wills è in missione: divertirsi per divertire

Il Phila Old Syle funziona Sixers outsider nella Eastern

ROAD TO MVP

IL PERSONAGGIO

Sfida a due per il titolo di miglior giocatore della stagione:

James Posey: agli Hornets con un ‘anello’ da difendere


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Dopo tante sgomitate, dopo tante lotte spalla a spalla la corsa al titolo di migliore giocatore della stagione è tra D-Wade e Lebron

Road to Mvp: è sfida a due Non capitava dal 1953. Cosa? Che sul conto della fine della regular season ci fossero poco più di una decina di partite da giocare e la statuetta dell’Mvp ancora prova di un indirizzo o di un numero civico ben preciso. Anche allora furono settanta le partite giocate senza che il nome del vincitore nonostante la lotta era riservata a pochi, anzi pochissimi o meglio facciamo due: Neil Johnston (miglior realizzatore con circa 1564 punti) e George Mikan (miglior rimbalzista con 1007 carambole catturate sotto i tabelloni). Due anche il numero dei principali candidati a mettere le mani su quella statuetta: Lebron James e Dwayne Wade. Certo ci potrebbe essere il terzo incomodo in modo tale da rendere effettivo il classico detto tra i due litiganti il terzo gode, ma per il momento Kobe Bryant, che lo ha vinto per la prima volta lo scorso anno, sembra essere qualche spanna dietro rispetto agli altri due. Insomma dopo quella della scorso anno, si potrebbe riverificare la ‘prima volta’ di un Mvp. Sarebbe infatti la prima volta per King James, anche se va detto che The Chosen One c’è andato vicino anche l’anno scorso, cosi come sarebbe al prima volta per Dwayne Wade che al momento può gongolarsi si di un titolo di Mvp, ma delle Finali. Tra l’altro un bell’accontentarsi, dal momento che se entri nel tuo studio personale e girando gli occhi vedi nella bacheca quel trofeo molto simile al Larry O’Brien Trophy, significa che nel cassetto della tua scrivania, chiuso rigorosamente a chiave, ci trovi l’anello con sopra l’effige della squadra campione Nba. Certo ci sarebbe qualcuno che potrebbe anche pensare che quest’ultimo significherebbe anche molto di più, ma allo stesso tempo ci poterebbe essere qualcun pronto a scommettere che ormai si tratta una sorta di sfida personale e di status simbol. Vincere il titolo di Mvp della stagione vorrebbe dire mettersi sul piedistallo principale non solo di questa stagione ma anche del futuro. Un futuro dove di sicuro non mancherà il nome di ‘Flash’ e molto probabile non ancora per molto tempo quello di Bryant che farebbe cambio ad occhi chiusi con il trofeo nella vetrinetta e l’anello nel cassetto (il primo senza Shaquille O’Neal) di cui sopra. Insomma la corsa è partita, traguardo manca ormai pochissimo e dando uno sguardo ai percorsi che i due pretendenti devono effettuare per arrivare con le mani alzate al cielo sotto lo striscione di arrivo, quello di

King James sembra essere quello molto più agevole: 12 ancora da giocare di cui 8 al Quiken Loans Arena dove quel record di vittorie e sconfitte di 32-1 (40-1 il record dei Boston

Celtics nel 1986) incide e non poco su quell’aggettivo ‘agevole’. Dodici anche le partite restanti per Wade e Miami, ma solo 5 in casa e con due back-to-back in trasferta.

E intanto The Chosen One sembra aver trovato la sua ispirazione: yoga nella routine di allenamenti «Lo yoga non è solo una tecnica per il corpo, ma anche e soprattutto una tecnica per la mente. Una tecnica che ad essere sincero mi sta dal punto di vista della concentrazione, dal momento che ci sono alcune posizione che ne richiedono una grande quantità». Questa la dichiarazione e la spiegazione di The Chosen One sulla sua nuova ‘arma’, se proprio cosi vogliamo chiamarla, e il suo modo di preparare le partite: lo Yoga. Una scelta e una decisione che lo stesso James ha intrapreso ormai da un paio di stagioni e a quanto pare LBJ sembra intenzionato a portare avanti non solo fino a fine stagione, ma ancora

più avanti. Una tecnica e che la star dei Cleveland Cavs esercita e svolge insieme all'assistent trainer Mike Mancias che interrogato al riguardo afferma: «Prova a concentrarsi su quello che lo aiuto di più a livello e su quello di cui il corpo ha bisogno, specialmente per bilanciare e rafforzare il suo ‘core’ (il suo io interiore ndr). Lo yoga è un’attività che comprende e racchiude tutto questo sia dal punto di vista mentale che dal punto di vista corporale. La flessibilità per un giocatore come Lebron è molto importante, e allora stiamo cercando di inserire questa tecnica all’interno della routine dei suoi allenamenti».

Dwane Wade sembra in vantaggio su Lebron

NBA REPORT NEWS

Wizards, tutti pronti per Totoallenatore: Tom Izzo StanVan Gaundy si coccola il ritornio di ‘Agent Zero’ da ‘Spartano’ a ‘lupo’? Patrick Ewing, ma ai Magic Beh ormai sembra ufficiale. anche gradevoli per i Wizards Dopo tanto parlare, dopo tanti entrambe le volte con il presiuno contro d e n t e uno in alleB a r a k namento o O b a m a se vogliamo seduto in anche due p r i m a contro due, l i n e a il grande a n c h e momento contro i nella capitas u o i le a stelle e Chicago strisce semBulls ndr), bra arrivato. e quindi il Quello di tutto si ospitare il sposta sul presidente? ritorno in Non proattività e Gilbert ‘Agent 0’ Arenas prio, ma quindi in solo perchè canotta e g i à a v v e n u t o ( c o n r i s u l t a t i pantaloncini di Gilbert Arenas.

Da Spartano a lupo? Proprio gli ‘lupi)che magari per la sua funzione spartani che nelle loro usanze da di coach a tempo pieno vorrebbe guerrieri erano avvezzi ad utilizzare aspettare ancora un po’. In occasiol’animale come prova iniziale per e ne del secondo turno del torneo di iniziazione alla vita di guerriero. Ncaa lo stesso Tom Izzo ha chiesto Beh a quanto a chi questa pare il passtrada l’ha saggio semvissuta tempo bra essere fa quando si nelle corde e sedette sulla nelle possibipanchina dei lità dell’attuaChicago Bulls le coach degli provenendo Spartans di dal mondo Michigan collegiale: State cortegTim Floyd. I Tom Izzo di Michigan State giato da parte due si sono d e i parlati a Minnesota lungo e Timberwolves o quanto meno da durante quest’estate scopriremo Kevin McHale (l’attuale coach dei anche il consiglio del coach di Usc.

Deve aver sentito, forse, una piccola L’attuale allenatore e mentore dei puzza di bruciato Stan Van Gundy. centri o per meglio dire di Dwight Howard ai Quella tipiMagic sta ca puzza facendo un che geneo t t i m o ralmente si lavoro sul intende suo pupillo quando da ed allora qualche ecco che il altra parte c o a c h si cerca di parte alla far breccia carica. nel cuore «Non riedi una vecsco a capichia star e re perchè uomo franL’ex stella dei Knicks Pat Ewing non l’abchigia. b i a n o Quale altra assunto p a r t e ? Quale uomo franchigia? New York subito dopo che si è ritirato, non Knicks e Pat Ewing le risposte giu- credo che lo abbiano apprezzato tanto da questo punto di vista». ste in questione.


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Carriera inziata a Denver, ha trovato la sua vera identià con la maglia dei MIami Heat durante le Finals del 2006, fino al titolo dei Boston Celtics del Big Three: James Posey

L’erede di ‘Big Shot Rob’ Alla fine lo sceneggiatore ha avuto ragione e James Posey è finito dall’altra parte del paese indossando la maglia ed i colori di una franchigia che avevano appunto bisogno di un giocatore del genere: quello da mettere al fianco o subito dopo le tue stelle, quello da piazzare in campo nel momento del bisogno, ma soprattutto da spedire nel radar e sulle tracce, come un segugio sui funghi porcini, della stella avversaria. Perché questo è quello che è attualmente il talento di Xavier University, uno specialista. Eppure non è stato sempre cosi. Non è stato sempre cosi all’entrata nella Lega professionistica americana, e non è stato certo cosi per tanti e tanti anni, fino a che il suo alter ego non l’ha portato a capire che per essere importante in questo gioco non serve essere per forza la ‘Star’ di punta, quella sulla quale la franchigia tutta, punta gran parte dei ‘presidenti spirati’ a disposizione, per avere soddisfazioni e qualche gioiello da conservare o da tenere in bella vista (la stessa che per altro tutti i media di New Orleans hanno potuto ammirare nel giorno in cui Posey ha proferito le parole di cui sopra con mani conserte ed un qualcosa che brillava di luce riflessa ad ogni scatto di flash). Insomma una consapevolezza dei propri mezzi e del modo in cui sfruttarli per avere da essi il massimo risultato che generalmente risponde al nome di maturità: maturità cestistica, maturità personale, la stessa che forse non aveva immediatamente dopo aver messo piede in campo per la prima volta nel 1999 con la maglia dei Denver Nuggets. Già ma quale giocatore a stelle e strisce, afroamericano e con un briciolo di talento entra nella Nba e pensa di essere uno specialista e basta senza nemmeno che l’idea di essere la stella assoluta del firmamento gli abbia quanto meno sfiorato qualche parte del cervello, anche la più recondita? Forse la risposta sarebbe molto simile a quella seguente alla domanda di quante persone afroamericane potrebbero accettare un minimo di dialogo con membri del KKK: nessuno. Lo stesso per ‘Pose’, lo stesso per un ragazzo che in Colorado per la sua prima esperienza questa idea l’ha cullata e come per tanti anni. L’exploit definitivo come attaccante arriva tra il 2002 ed il 2004, quando nella Denver delle sconfitte e della ricostruzione segnare era più un modo per mettersi in mostra, in vetrina che farlo per portare magari a vincere qualche partita in più (14 abbondanti i punti segnati). In mezzo ai Nuggets e alla stagione dei Memphis Grizzlies quella agli Houston Rockets dove qualcosina del Posey d’oggi lo si poteva anche intravedere. Il trasferimento nella terra di Elvis Presley però frena tale procedimento e lo cela dietro una stagione da protagonista, anche se non proprio assoluta, nella qualificazione dei Grizzlies di Gasol, di Miller, di Bonzi Wells, di Jason Williams, di Shane Battier alla post season con l’ultimo pass utile per i playoff e per due anni di fila. I 12,9 ed i 9,5 di media durante la primavera valgono la prima vera chiamata da parte di una squadra decente, di una squadra di vertice, di una squadra che con l’arrivo di Shaquille O’Neal al fianco di Dwyane Wade puntava dritta ai piani altissimi della Lega. Qui la trasformazione, il cambiamento radicale. Di fronte e all’interno di una situazione dove tra veterani (Gary Payton, Jason Williams), giocatori emergenti (Wade) e stelle a caccia di rivincita (The Big Diesel) quello di Posey non poteva essere che un ruolo defilato, da strumento accompagnatore piuttosto che solista o anche da secondo violino negli assoli più lunghi degli spartiti. Durante tutta la prima stagione in Florida la sceneggiatura non fece una piega: Miami vincente, ‘Flash’ lodato da Shaq e Posey nella

LE STATISTICHE 2008/2009 PPG

9,0

RPG

5,0

APG

1,1 Data di nascita: 13-gen-1977

James Posey al tiro con la maglia dei New Orleans Hornets di

Venti di luglio 2008: «Sono eccitato dall’idea di essere un Hornets e non vedo l’ora di giocare al fianco di giocatori con Chris Paul David West, Tyson Chandler e un sacco di altro buon giocatori». Passo indietro e tutti al 15 giugno 2008. Nell’ombra per tutto il dopo vittoria del 17esimo titolo della franchigia del Massachusetts. Sopraffatto dalla voglia e dalla irrefrenabile corsa da parte di tutti i media di agguantare parole e fotografie di coloro che assaggiavano per la prima volta il dolce sapore di finire sul ‘tetto del mondo’, lui che invece su quel tetto c’era già stato si è defilato, ha lasciato il proscenio a chi di competenza, quasi come se già sapesse che dopo tutto da li a qualche mese, anzi facciamo settimane, avrebbe lasciato baracca e burattini, avrebbe fatto le valigie con dentro un’altra missione, un’altra città e perché no un altro anello da vincere.

D OMENICO P EZZELLA

Altezza: 6-8 / 2,03 Peso: 217 lbs. / 98,4 kg. College: Xavier (Ohio) Anni da Professionista: 9

penombra a mettere in tasca piccole soddisfazioni. Piccole soddisfazioni di chi poi avrebbe trovato nel momento più importante del campionato, le Finals, la sua consacrazione: Dallas domina le prime due partite, Nowitzki e Howard fanno a fette la difesa degli Heat e sul finire di gara2 scatta la molla, si accende la lampadina tra i capelli gelatinati di coach Pat Riley. Pronti via in gara3 e l’allenatore dello show time mostra a tutti la luce di cui sopra. Posey si attacca alle caviglie di Howard prima e nei momenti tattici del match anche a quelle del tedesco in maglia 41. I due vanno in debito di ossigeno e Dallas crolla, ma sulla copertina ci va ancora Wade. La storia si ripete nelle tre gare successive, Miami porta a casa il titolo, Wade quello di Mvp e Pat Riley che avrà dovuto mandare biglietti di ringraziamento con destinatario tale signor James Posey per aver tarpato le ali agli ‘altri’ dall’altra parte della barricata. Da quella finale il destino del ragazzo dell’Ohio non è stato più lo stesso. Smessi i panni di voler essere attaccante e super star a tutti i costi Posey pone le basi per la costruzione di uno dei paragoni più significativi della sua carriera: quello con Robert Horry (altro che quando arrivava il momento in cui si dovevano decidere le partite il proprio allenatore chiedeva e chiede di fare la differenza anche in età pienamente pensionabile dal punto di vista sportivo) e la conquista del titolo di: The Specialist. Un titolo che rafforzato e affermato nella scorsa stagione; ancora una volta una squadra da titolo, ancora una volta sesto uomo di lusso, ancora una volta su di un palcoscenico in cui di attori protagonisti ce ne erano più di uno, ma ancora una volta dietro tutto ciò che fa vendere copertine e pagine di giornali (il Big Three, la prima volta in assoluto di Pierce, Garnett ed Allen) c’è ancora lui, c’è ancora la sua difesa asfissiante su Kobe Bryant, ci sono le triple sganciate in gara5 che una serie ipoteca sul discorso Finals e una stagione passata a lavorare ‘dietro le quinte’ affinché lo spettacolo Celtics avesse una riuscita trionfante come tutti si aspettavano. Poi a capolavoro ultimato a missione compiuta ancora una partenza, destinazione New Orleans, ancora sotto un cielo che quanto a stelle non scherza. Il perché ora potrebbe anche risultare una sorta di segreto di pulcinella, dal momento che gli Hornets hanno puntato dritto sul free agent che avrebbe potuto fare la differenza, quello che nella corsa ad Ovest prima e magari nell’atto finale poi, potrebbe scrivere un altro capitolo della sua carriera iscrivendosi cosi di diritto all’esclusivo club degli ‘specialisti’ il cui presidente onorario è colui che tiene i sette preziosissimi anelli vinti con tre squadre differenti nel cassetto dell’armadietto, non della cassaforte…ma del bagno; lo stesso che è conosciuto a tutto il mondo cestistico con il nome di ‘Big Shot Rob’.


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di

D OMENICO P EZZELLA

In estate l’arrivo di Elton Brand direttamente dai Los Angeles Clippers come free agent il salto di qualità necessario per continuare quanto di buono Philadelphia aveva fatto

Il ‘Phila Old Style’ funziona Si stava meglio quando si stava peggio? Mai cambiare la via vecchia con quella nuova? E ce ne sarebbero anche degli altri di proverbi che in un certo senso potrebbero spiegare quanto sta accadendo nella ‘City of the brotherly love’. Salire di colpi, salire di giri, salire di vittorie, ma soprattutto salire a livello di gioco e di qualità da una data ben precisa, dal momento in cui i Sixers sono tornati ad essere quelli della scorsa stagione, quelli che hanno impressionato il mondo cestistico a stelle e strisce mettendo in difficoltà al primo turno della passata edizione dei playoff niente di meno che i Detroit Pistons, quelli che sembravano essere sulla strada giusta per

creare una sorta di seconda Portland, una seconda isola felice basata su tantissimo talento giovane e qualche veterano a fare da collante tra la vecchia e la nuova generazione. E poi? E poi il mercato, i movimenti, l’esborso in termini di presidenti spirati per portare a Phila un giocatore che arrivava da una stagione di inattività, da una stagione passata a curarsi il tendine d’Achille prima di poter tornare a mettere piede in campo dopo aver accarezzato il sogno di portarne un altro del calibro di Josh Smith. Un giocatore che però dalla sua aveva un curriculum personale (non certo di palmares tranne se non se ne vuole fare una questione di università

Andre Iguodale il leader dei Sixers

ndr) niente male, un curriculum che parlava e parla tutt’ora di un giocatore d’area, non un albatross per intenderci, un lungo tutto fare stile Carlos Boozer con punti nelle mani, con qualche movimento in post basso e tanta energia e senso della posizione specie per quanto riguarda i rimbalzi di attacco dove prima di entrare a tempo prolungato all’interno della injured list dei Clippers, era uno dei migliori interpreti non della seconda squadra losangelina, ma dell’intera Lega. Insomma il nome è quello che tutti gli allenatori avrebbero accettato e non solo per il comportamento del ragazzo da Peekskill all’interno dei ventotto metri di campo, ma anche per quel-

lo che è nella Nba un modello di comportamento anche al di fuori dal campo. Alla fine il veto l’ha posto anche Maurice Cheeks ed Elton Brand ha fatto le proprie valige, ha svuotato l’armadietto californiano e trasferitosi dal sole della costa Ovest al freddo di Philadelphia solo per prendere parte ad un progetto che sembrava molto più di un qualcosa di molto interessante. Clamore, tanto parlare di un’aggiunta che ad Est avrebbe smosso più di un equilibrio se solo l’ex Duke avesse ripreso una condizione fisica quanto meno simile a quella dei suoi primi tre anni in questa Lega. Clamore e tanto parlare, che però non ha avuto nient’altro

che il ruolo e lo scopo di fungere da fumo negli occhi. Anzi forse meglio dire tanto fumo negli occhi. L’arrivo di Brand ha portato si un giocatore capace di mettere la doppia cifra a livello di punti e non soli ad allacciata di scarpe, ma ha improvvisamente rallentato il ritmo della squadra. Un ritmo che prima del suo arrivo era quello dei velocisti, era quello di gente che scattavano sulle corsie laterali per prendere al volo i vari ‘cioccolatini’ loro serviti da un giocatore che quando può esprimersi nel servire i compagni in campo aperto ha pochi rivali ed invece…Ed invece Andre Miller ha dovuto scalare di marcia, ha dovuto scendere di ritmo, Lou Williams ed Andre

Iguodala hanno corso di meno e tutto il sistema di Sixers ne ha risentito. In questo sport i numeri a volte contano più di quanto il nome o il passato possa incidere a livello virtuale ed i numeri in questo momento ‘condannano’ ed hanno condannato Elton Brand promuovendo il ‘Phila Old Style’ con gente che corre su per il campo, segna, diverta, ma soprattutto e questa resta la cosa più importante, vince. Sei vinte e 9 perse nel mese di Novembre con quasi 93 di media. Le cose non vanno certo come dovevano andare o come tutti si sarebbero immaginato nemmeno agli inizi del mese di dicembre, le sconfitte continuano ad arrivare (9-14 il record totale) e allora ecco la prima testa rotolare per le terre e come spesso accade in questo caso per dare una scossa a tutto l’ambiente a pagare per le ‘pene’ e le difficoltà di espressione della squadra è colui che era considerato, dopo l’esperienza da giocatore e da aiuto allenatore proprio ai Sixers, come il figliol prodigo dopo aver guidato egregiamente qualche stagione la prima forma acerba degli attuali Portland Trail Blazers: Maurice Cheecks e siamo al 14 di dicembre. La squadra viene affidata a Tony Di Leo con l’incarico di traghettarla fino alla fine della stagione. Il 17 di dicembre arriva poi il giorno dell’infortunio dell’ex Clippers (15,9 punti e 9,8 rimbalzi a partita fino a quel momento), Philadelphia torna ad essere quanto meno quella della passata stagione e qualche parvenza di cambiamento sembra anche esservi. I numeri nella parte finale di Dicembre, però, non sembrano proprio ancora aiutare i Sixers, 2 vittorie e quattro sconfitte per chiudere il periodo di Natale con 6 vinte ed otto perse, ma poi la svolta (95,5 punti a sera). Coach Di Leo decide che è arrivato il momento di rispolverare lo stile della passata stagione, di rimettere in piedi quella che era la ‘vecchia guardia’ con Evans prima e Thaddeus Young di nuovo in quintetto al fianco di Dalembert, Iguodala nello spot preferito di ala piccola ed in campo tanti specialisti come Ivey, tanti velocisti come Lou Williams. Il mese di gennaio si apre con la doppia sconfitta texana contro Dallas prima e San Antonio poi, alla quale seguono poi quattro vittorie in fila in cui si ritorna al passato e Philadelphia torna ad essere quella di una volta. Cambiano i numeri si passa dai 95 abbondanti di dicembre agli oltre 101 di gennaio con


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sembrava poter essere quello giusto per far fare al team della città dell’amore fraterno vedere nella scorsa stagione ed invece...mai cambiare la strada vecchia per la nuova

i Sixers tornano a volare 51,6% da due (oscillante tra il 43 ed il 46 la percentuale dal campo da due nei mesi di Ottobre, Novembre e Dicembre) e 43,8 da tre (34% a Novembre e 23% abbondante a Dicembre). Come per magia è paradossalmente aumentato anche il numero dei rimbalzi che in sole sei uscite di questo 2009 le cifre di ‘spalding’ catturati sfiorano quasi quelle messe assieme nelle 14 partite del mese scorso: 11,2 di media in attacco, 27,5 in difesa e 38,7 totale a

fronte degli 11,5 in attacco di dicembre, dei 29 in difesa e 40,5 totali. Insomma quelle di squadra sarebbero anche potuti bastare, per rendere l’idea di quanto al suo ritorno Elton Brand avrebbe avuto più di qualche semplice problema nell’inserire la sua non condizione ottimale all’interno di un gruppo e di una squadra che ha dimostrato che ama correre e dare spettacolo. Spettacolo in cui non appena è uscito fuori di scena l’ex Duke, Andre

Iguodala ne è diventato uno dei protagonisti assoluti. Il numero 9 non si è fatto pregare nel prendersi la squadra in mano e guidarla con prestazioni che fanno più che riflettere, ed allora il tutto torna a fare i conti con i numeri e le cifre. Tutte in aumento, tutte in crescita e tutte a partire dall’assenza di Brand: il tour parte dai punti e quindi 13,1 a novembre, 19 a dicembre (con numeri toccati in aumento a partire da quel fatidico 17 di dicem-

bre con rispettivamente 18, 26, 14, 26, 24, 17, 28) e addirittura 22,3 nelle sei di gennaio con più del 55,6% da due e 40% dalla lunga distanza (40,7% e 47,5% e 29,7% e 17,9% le cifre in precedenza rispettivamente da due e da tre ndr). Con più libertà di ‘movimento’ sono aumentati anche gli assist che dai 4,5 dell’ultimo mese del 2008 sono passati ai 6,5 del nuovo anno. Il tassametro ha continuato a correre, le vittorie sono continuate ad arrivare

cosi come è giunto anche il momento del secondo ritorno, del secondo ‘came back’. Questa volta Brand parte dalla panchina, parte da dietro come sui suol dire in gergo come arma tattica utilizzata da Di Leo con quindi la possibilità e la scelta di rallentare il ritmo, giocare a metà campo prima di re ingranare le marce alte e riprendere la 500miglia di Indianapolis. Il resto è storia recente. Due mesi (febbraio con 6 vittorie e 6 sconfitte e marzo ancora

in corso con 5 e 2) in cui i Sixers si conquistati il secondo posto della Atlantic Division, con un record al di sopra del 50% (34-31), Brand ancora alle prese con guai fisici e fuori per il resto della stagione (ultima uscita il 3 di febbraio contro i Boston Celtics) e Phila al momento con il sesto posto in tasca e con du partite di distanza dal quinto e dai Miami Heat il che vorrebbe dire primo turno molto più agevole di quello della passata stagione.

LE STATISTICHE DEI PHILADELPHIA ‘76ERS Player

G

GS

MPG

FG%

3p%

FT%

OFF

DEF

TOT

APG

SPG

BPG

TO

PF

PPG

Andre Iguodala Andre Miller Thaddeus Young

69 69

69 69

39.4 36.0

.471 .483

.304 .311

.728 .824

1.00 1.50

4.80 3.00

5.80 4.50

5.3 6.5

1.64 1.35

.45 .19

2.74 2.36

1.90 2.40

18.3 16.3

69 29

65 23

34.6 31.7

.488 .447

.348 .000

.747 .676

1.90 2.70

3.20 6.10

5.00 8.80

1.1 1.3

1.26 .59

.33 1.55

1.59 2.34

2.20 2.70

14.9 13.8

68 68

0 47

23.2 22.1

.390 .431

.284 .296

.774 .711

.40 .40

1.60 1.30

2.00 1.60

3.1 2.0

.99 .65

.16 .15

1.96 .81

1.60 1.90

12.4 8.4

66 69

2 69

15.3 25.4

.526 .495

.400 .000

.750 .730

1.60 2.70

2.20 6.20

3.70 8.90

.4 .2

.39 .41

.76 1.81

.65 1.42

2.30 3.00

7.8 6.4

17 58

0 0

7.9 12.2

.500 .318

.524 .333

.500 .784

.30 .30

1.30 .80

1.60 1.10

.6 .7

.24 .57

.24 .12

.18 .34

1.00 1.00

4.7 3.0

66 23

0 1

13.2 8.0

.430 .370

.000 .333

2.70 .60

4.30 .60

.3 .6

.47 .22

.12 .04

.80 .35

1.90 .40

2.8 2.3

33 69

0 0

11.0 .553 240.7 .459

.000 .320

.590 1.60 1.000 .00 .583 .80

1.70 29.2

2.50 41.9

.2 20.4

.30 8.1

.97 5.2

.27 14.4

1.60 20.1

1.7 97.6

Elton Brand Louis Williams Willie Green M arreese Speights Samuel Dalembert Donyell Marshall Royal Ivey Reggie Evans Kareem Rush Theo Ratliff Team Averages

.742

12.8


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La schiena non gli da Prima stagione da dimenticare per Danilo Gallinari che non è mai riuscito a scendere in campo in perfette lo bloccasse definitivamente con il fantasma dell’operazione che tornava ad aleggiare. Intervento, scongiurato

DI

«Abbiamo sempre saputo che tra le ipotesi e le possibilità ci sarebbe stata anche quella di un possibile intervento, ma fino a questo momento i dottori ci avevano anche indicato tutto quello che dovevamo fare e che abbiamo fatto per avere buone possibilità di curarlo e di evitare l’intervento chirurgico. Ora però la domanda principale che mi faccio è questa: giusto continuare con questa cura o l’intervento può essere la risposta giusta?». E l’interrogativo amletico di Donnie Walsh sulla situazione della ‘sua’ chiamata numero 6 allo scorso Draft, di sicuro sarà anche lo stesso interrogativo che Danilo starà rivolgendo ai dottori, ai medici, ospedali e quant’altro qui in Italia prima di ritornare negli States e discuterne con altri per poi alla fine prendere una decisione. Una decisione che andrebbe presa subito, immediatamente per cancellare eventuali riflessi e conseguenze sulla prossima stagione. Perchè? Molto semplice. I tempi di recupero dell’intervento alla schiena che il ‘Gallo’ dovrebbe sostenere non sono pronosticabili se non entro i due-tre mesi. Un periodo abbastanza lungo se la decisione arrivasse quando all’orizzonte ci saranno i nastri di partenza della nuova stagione, molto meno se il tutto verrebbe preso in considerazione adesso. Due-tre messi vorrebbe dire tornare a disposizione di un preparatore atletico e dello staff dei Knicks entro il periodo di fine maggio o comunque nel mese di giugno. Non una tragedia, quindi, dal momento che di li in poi ce ne sarebbero altre tre per cercare di rimetterlo quanto meno in una forma decente per affrontare l’ultima parte della pre-season per poi iniziare gradualmente la sua stagione da sophomore, cosi come ha fatto in questa da rookie: attardato ma con il gruppo ben in vista. In meno, però, l’incombenza di non pensare alla cyclette, agli esercizi di riscaldamento tra una pausa e l’altra o tra i vari momenti in cui è chiamato in campo e non, ma

D OMENICO P EZZELLA

soprattutto senza l’incombenza di un problema che lo ha martoriato per una stagione intera. «Danilo è una giocatore molto importante per la nostra squadra, ma soprattutto per il futuro della nostra squadra e quindi è nostro compito cercare di riaverlo al pieno delle forze» le parole in merito di coach Mike D’Antoni che chiudono se non definitivamente, ma quasi, la prima esperienza a stelle e strisce del ‘Gallo’ (6,1 punti, 2,5 rimbalzi, 44,6% dalla distanza, 96 abbondante ai liberi, due volte in quintetto in 14,1 minuti di media). Eppure negli sprazzi che Gallinari (anche con il 70% della ‘birra’ in corpo e schiena permettendo) ha messo piede in campo l’ex Milano ha mostrato il motivo per cui la nuova coppia newyorkese, Walsh-D’Antoni, ha puntato su un giocatore proveniente dal Bel Paese. Non il primo, vista la presenza di Bargnani e Belinelli, ma primo in assoluto in un ruolo, quello sostanzialmente della small forward (anche se Gallinari potrebbe facilmente ricoprire quello di guardia e in situazioni tattiche ben precise quello di power forward atipica ndr), ricco di talento e abbondante nei vari scenari del College Basketball. E quei mormorii dopo la quinta chiamata, e i fischi al momento in cui David Stern ha pronunciato il nome di Danilo, in sala con papà Vittorio, sono ormai solo un brutto ricordo e un qualcosa di cui magari in molti nella ‘Grande Mela’ si staranno pentendo. Pentimento avvenuto non appena Gallinari ha avuto la possibilità di giocare più di qualche scampolo di partita, anzi nelle due partite di ottobre prima che la schiena lo costringesse a sedere in borghese dietro il ‘pino’ a sostenere i compagni. Pentimento avvenuto a partire da quel 17 di gennaio al Madison Square Garden contro i Sixers, ma soprattutto a partire dal 19 dello stesso mese quando la prima doppia cifra statunitense di Danilo (nella quale sono comprese tutta una serie di cose dal punto di vista tecnico come per


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tregua, il ‘Gallo’ è out condizioni fisiche. Il 15 marzo la data della sua ultima apparizione, prima che il problema alla schiena lo dalle visite che il Gallo ha sostenuto sia in Italia che negli Stati Uniti. «Il parere dei medici è stato unanime» esempio la stoppata alla prima scelta assoluta Derrick Rose, dal punto di vista delle energie e della personalità) dà il via alla striscia di cinque vittorie in fila tutte casalinghe dove i tifosi hanno addirittura iniziato ad applaudirlo e invocarlo. Fra i motivi principali una stoppata rifilata niente di meno che al ‘signore dell’area’ Shaquille O’Neal (10 contro Phoenix e 11 contro Memphis ed in generale 7,3 di media nel mese di gennaio). Lampi di luce abbagliante, lampi di genio, ma soprattutto lampi di una personalità che sera dopo sera veniva fuori e che forse in pochissimi (solo Walsh e D’Antoni ndr) si potevano aspettare da un ragazzi che ha pur sempre 21 anni. Bagliori, che però, sono venuti fuori ad intermittenza. Bagliori che si facevano largo nel cielo nuvoloso della sua prima stagione, ma stroncati sempre da quella schiena maledetta. Sistematicamente fuori nei back-to-back, per consentirgli di riprendere le forze, sempre costretto a pedalare nei momenti di pausa delle partite, ma nonostante tutto il mese di febbraio resta quello più continuo di questa regular season. Dodici partite chiuse con una media di 5,5 a partita, più del 40% da tre ed in generale 44% dal campo; solo due le notti in doppia cifra, il 2 di febbraio la prima nella sfida che lo metteva davanti Kobe Bryant con 10, e quella nell’Italian Heritage Night del Madison Square Garden contro Andrea Bargnani ed i Toronto Raptors. A marzo le due migliori prestazioni da quando indossa la maglia dei Knicks: 17 con 4/5 da tre e 6/11 totale dal campo contro le ‘aquile’ di Atlanta, 15 nel derby perso contro

i New Jersey Nets (3/4 da tre). Il 15 di marzo scorso la schiena ha di nuovo fatto crack, ha di nuovo dato problemi: 6 minuti nella sfida contro Lebron e poi la decisione che per il momento non era il caso di continuare. Il momento poi è diventato un qualcosa di più serio ed il resto è storia recente come la dichiarazione di apertura di Donnie Walsh. Media newyorkesi che hanno avuto la loro classica scarica di dichiarazioni, di interviste nel momento in cui nemmeno qualche giorno fa, Gallinari ha rimesso piede negli Stati Uniti dopo la toccata e fuga con i medici italici. A quanto pare ancora una volta l’operazione sembra da scongiurare, anche perchè il parere unanime di tutti i medici al riguardo è stato che abbandonare la stagione in corso per avere poi tanti mesi avanti e a disposizione per lavare sul problema, sia stata la decisione giusta da prendere, specialmente per Danilo che al riguardo ha cosi dichiarato: «Sono contento che il parere dei medici che ho sentito sia stato unanime e tutto volto dalla stessa parte. Se non fosse stato cosi, avrei iniziato a preoccuparmi per davvero. Però cosi non è stato e allora sono contento». Gallo che poi non si è tirato indietro anche per quel che riguarda commenti inerenti alla sua stagione: «Beh pesno che schiena permettendo, partite che non ho giocato, il fatto che sono arrivato qui da una realta completamente differente, penso che alla fine sia stata una stagione quanto meno positiva. Una stagione da cui ripartire per il futuro».

LE STATISTICHE PPG

6,1

RPG

2,00

APG

0,5

EFF+

6,18 Born: 8-ago-1988 Height: 6-10 / 2,08 Weight: 225 lbs. / 102,1 kg. From: Italy Years Pro: R

Danilo Gallinari insieme al compagno di squadra a New York Wilson Chandler


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DI

D OMENICO P EZZELLA

Vincitore con Southern California del titolo universitario della Pac 10, per la Ncaa, il play della nazionale si racconta al termine della sua esperienza

Face to face con il talento Quinto in assoluto nella classifica degli assist della storia dell’università di Southern California; 363 cioccolatini dispensati durante i tre anni di permanenza e di esperienza in maglia Trojans e nome che resterà scolpito nella memoria dei tifosi e degli studenti dell’ateneo insieme a quelli di tanti altri tra cui il più famoso resta Gus Williams. Questo il ricordo indelebile, la traccia indimenticabile che Daniel Hackett lascia in California e specialmente a Usc. Ci è parso giusto iniziare da qui, da un ricordo che il pesarese, e non solo, si porterà dietro per tutta la sua carriera e per tutta la sua vita, lui che al prossimo raduno della squadra, al prossimo taglio dei nastri di partenza della nuova stagione agonistica collegiale sarà di sicuro da qualche altra parte a fare il tifo per i suoi ex compagni, per il suo ex allenatore e per quella che è stata la sua avventura più vincente fino a questo momento. Già perché la decisione che tutti sussurravano, che tutti predicavano come possibilità, alla fine sembra che diventerà realtà: quello che si è da poco concluso è stato l’ultimo anno di Daniel Hackett con la maglia di Usc. E non ci poteva essere stagione migliore per decretarne la fine. Non ci poteva essere stagione migliore per cercare di ‘vendere’ il prodotto che tutti mettono in vetrina quando si al College e ci si ritrova a girare il paese (inteso come gli States ndr) con una palla a spicchi di colore arancione tra le mani. Un prodotto riservato solo ed esclusivamente per un unico compratore, quello tanto sognato, tanto desiderato da ogni giocatore americano e non: gli scout Nba. Scout che durante l’ultima stagione hanno avuto il loro ben da fare. Si sono dovuti mobilitare e volare verso la California, verso la casa dei Trojans, ma non per il solito Demar Derozan (freshman interessante e dalle doti atletiche più che impressionanti), ma per un tale Hackett Daniel from Pesaro Italy. Lo pretendevano i numeri (12,3 punti, 4,2 rimbalzi e 4,7 assist), lo pretendevano tutte le volte in cui il nome del figlio di papà Rudi iscriveva il proprio nome all’interno della particolare voce ‘Mvp’ o migliore in campo se vogliamo dirla all’italiana. Le chiamate dagli uffici e dai piani alti delle varie dirigenze Nba si sono innalzate in maniera anche spropositata, quando sempre quell’italiano delle Marche alzava, indossando i classici vessilli dei vincitori (maglietta e cappellino celebrativi ndr), un trofeo che sapeva di storia per Usc e per lo stesso Hackett (che si prende il lusso anche di infilare, come se avesse fatto questo per tutta la vita, i due tiri liberi della vittoria ndr): quello della Pac 10. Da quel momento in poi è storia recente. E’ storia recente il 666 (punti, rimbalzi ed assist) dell’esordio contro Boston College. E’ storia recente il primo tempo di domenica sera contro i Michigan State. Personalità, grinta, tratti di evidente leadership (sempre qualche parola nei confronti dei compagni anche con toni alti dopo qualche errore in difesa ndr) e coraggio di prendersi le proprie responsabilità nel momento del bisogno. Questi i tratti caratteriali messi in evidenza contro gli Spartans, quelli tecnici li sapranno già a memoria ed allora non ci resta che attendere l’epilogo della questione ed il futuro di un giocatore che ha già un posto da stella in una squadra: quella azzurra della Nazionale del presente e del futuro. Quinto ogni tempo per assist nella


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prima volta nella storia della franchigia e uscito al secondo turno del Torneo al di la dell’oceano: «Rimpianti? Nessuno, rifarei tutto dall’inizio alla fine»

dei Trojans Daniel Hackett storia di USC con 363 dietro a Gus Williams, che effetto fa lasciare un segno cosi indelebile nella storia della tua università. «Emozionante. Di sicuro significa che il lavoro che è stato fatto e che ho fatto in questi anni sta producendo e ha prodotto dei buoni risultati. Però non lo vedo come un punto di arrivo, ma soprattutto come un punto di partenza, voglio continuare a migliorare. Gus Williams mi ha fatto spesso i suoi complimenti cosi come molto spesso lo vedo alle partite in casa, era un signor giocatore e questo non può che far onore». Di sicuro verrai ricordato come uno dei Trojans che ha storicamente conquistato la Pac 10, come uno dei Trojans arrivato ad un passo dalle sweet sixteen, ma c'è un ricordo diverso da questo che vuoi lasciare a tutti? «La voglia che ho avuto di continuare a giocare lo sport che amo anche quando le cose non andavano bene e gli infortuni mi impedivano di dare il 100%. Quest' anno, un anno storico per noi nel quale è arrivato anche l’anello, abbiamo lavorato tanto in palestra, abbiamo fatto tanti sacrifici e alla fine siamo stati ripagati con il trofeo. Tutto questo è segno di un gruppo compatto e io sono orgoglioso di esserne parte». Cosa vi è mancato per vincere contro Michigan State? «Taj Gibson. Sono riusciti a limitarlo, poi un paio di fischi in più non gli anno permesso di entrare in ritmo partita, ma queste cose capitano nella carriera e nel corso di un giocatore» Nel finale ti sei preso le tue responsabilità, c'è qualcosa che non rifaresti? «Riguardando il video partita si. Sul -4 a 1’ dalla fine era meglio penetrare e andare a cercare due punti facili. Mi è mancata lucidità ma il tiro che ho preso da 3 mi sembrava dentro. Sono situazioni di gioco che poi impari con le esperienze anche sulla tua pelle e questa è la più nitida dimostrazione». Su quell'ultima penetrazione c'era fallo? «No, mi sarebbe piaciuto un fischio. Ma Lucas mi ha sporcato la palla da dietro. Penso che l' abbia appena sfiorata poi mi è scappata dalle mani. Ero furioso con me stesso alla fine». Tenterai la carta Nba: è sicuro?

«Per ora non ho deciso ancora niente. Ho bisogno di tempo per parlare con Floyd e valutare quali sono le voci su di me e la mia annata. Sto vivendo un misto di emozioni. Amarezza per la sconfitta, ma allo stesso tempo orgoglio per essere tornati a LA come campioni. Fra una decina di giorni avrò le idee più chiare». Sei anni in California, tre anni in un mondo del tutto diverso come il college basket, cosi ti hanno dato come giocatore e come uomo? «I 3 alla St. John Bosco sono stati importanti nel mio sviluppo. Il college basket e' una fase della mia vita che ricorderò come un periodo di transizione fra la gioventù e la maturazione. Sto imparando il business di un giocatore professionista in campo e fuori, tra le tante altre responsabilità come lo studio. In più ci si diverte a Los Angeles: viva la California». A chi dedichi questi tre anni? e a chi questo torneo Ncaa? «E' ovvio alla mia famiglia, a tutti gli amici che mi conoscono da quando ero un bambino, e quelli che ho conosciuto ultimamente; a Pesaro e la pallacanestro stile casa nostra, stile campetto. Gli allenatori delle giovanili, le squadre e tutto quello che ha compreso e toccato la marcia di Daniel Hackett e il suo sogno americano. Voglio ringraziare tutti. Ho imparato tanto da tutti loro». Il tuo più grande ricordo, anche non cestistico, e il tuo più grande rimpianto? «Beh il mio più grande ricordo resterà sempre lasciare gli amici di Pesaro e il clima della mia città' a 15 anni per partire per una nuova destinazione. Ho visto la tristezza degli amici che mi conoscevano e con cui ho ricordi indimenticabili. Ce ne sono tanti. Quella fu la svolta della mia carriera. Non volevo deludere nessuno, ero in missione. Rimpianto?? Nessun rimpianto, ho apprezzato tutto quello che mi sta attorno e ho sempre dato il 100%». Ora che USC è fuori dal torneo chi vince il titolo Ncaa? «Pittsburgh». Chiudendo gli occhi e potendo teletrasportarti da qualche altra parte in quale città Nba andresti? «Ovunque, lo giuro, non ci sono scelte».


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March Madness Story - Cammino attraverso i numeri e la storia di Terrence Williams talennto e leader dei Louisville Cardinals, una delle 4 numero uno del tabellone Ncaa

T-Will, l’uomo volante Nome: Terrence. Cognome: Williams. Curriculum: quattro anni sotto coach Rick Pitino a Louisville, di cui l’ultimo ancora da chiudere e con buone chances di farlo col botto. I Cards sono tra i più accreditati per la F4, e T-Will, statene certi, vuole godersi appieno ogni momento di questo suo ultimo frame di carriera collegiale. Dal video della Senior Night alla Freedom Hall, facilmente rintracciabile su youtube, si intuisce subito tutta la sua voglia di divertirsi; osservandolo giocare si può anche rintracciare in lui il piacere di cedere la scena ai compagni ma anche la capacità di prendersi le luci della ribalta con la stessa facilità. Fuori e dentro il campo, Williams non può quindi che essere il leader emotivo di questi Cards che, in attesa del Torneo NCAA, hanno lasciato il segno vincendo la Big East contro Syracuse guidati dagli 11 punti, i 7 rimbalzi, i 6 assist e le 7 palle recuperate del nostro. Un titolo statale a Rainier (dove giocava anche wide receiver) nel 2003, una laurea in Communication, la terza e la quarta tripla doppia della storia di Louisville (le prime due di Samaki Walker ed Ellys Miles), oltre ad una collezione di sneakers che ha già abbondantemente passato quota 300, TWill non è il fenomeno collegiale da one-n-done ma un’atleta intrigante, con ampi margini di crescita e alcune stille di talento puro che non passano certo inosservate. Cominciamo con i ‘piatti caldi’ della casa: di primo, un fisico compatto (6-6, 210 libbre), con la parte alta del corpo decisa-

LE STATISTICHE 2008/2009 PPG

12.7

APG

5

3P%

38,4

RPG

8.7

BPG

0.8

SPG

2.4

Il talento e leader dei Louisville Cardinals Terrence Williams DI

M ICHELE TALAMAZZI I Supersonics non ci sono più, le giocate sopra il ferro di Shawn Kemp sono solamente un indelebile ed emozionante ricordo, e alla Key Arena ci si va

soprattutto per ammirare in tutto il suo splendore (cestistico e non) Lauren Jackson, atletamodella australiana delle Storm. Così, a contribuire alla non sparizione di Seattle dal basket che conta, ci pensano soprattutto i ‘nativi’: Nate

Robinson, Jamal Crawford, anche Martell Webster. E ci penserà anche il prossimo figlio della Rainy City, in piena rampa di lancio, che con i primi due condivide la formazione liceale sotto coach Mike Bethea alla Rainier Beach HS.

Luogo di nascita Altezza Peso Position Esperienza al College Classe

Seattle, WA 6-6 220 lbs. Forward 4 years Senior

mente più pronta di quella di altri coetanei, cui abbina un esplosività atletica da Slam Dunk Contest (Pitino, al suo arrivo a Lousville, lo paragonò nientemeno che a ‘Nique in questo senso). Ciò gli permette di essere il classico slasher, quello che sa andare fino in fondo, più di potenza che di tecnica, visto che il controllo del corpo è ancora da affinare in certe situazioni, oltre che consentirgli, da tre anni a questa parte, di esser rimbalzista da oltre sette a sera. La seconda portata la potrebbe servire direttamente lui, visto come sa giocare per i compagni: le doti di assist-man sarebbero infatti notevoli per una point guard di 1.70, figuriamoci per uno con sto corpaccione. Intendiamoci: non è Jason Williams, ma le fucilate ad una mano dal palleggio, la morbidezza e precisione con cui serve i lob ai lunghi e alcune intuizioni donategli da una superba visione del gioco si lasciano più che guardare. Di contorno, se vi aggrada, c’è un tiro da fuori che, pur ancora non sicurissimo, è in netta crescita: tralasciando l’apprendistato da freshman, negli ultimi tre anni è salito dal 26% al 37% nelle triple, passando dal 36% al 42% dal campo. Oltre alla conclusione dall’arco sta sviluppando anche il jumper dai cinque metri, particolare non di poco conto visto che con quelle doti fisiche può prenderlo pressoché sempre. Siccome frutta, dolce e caffè si possono anche saltare, ma l’amaro arriva sempre, andiamoci direttamente: la mobilità di piedi è buona, però in difesa tende ancora a fidarsi troppo del suo gioco (pur ottimo) sulle linee di passaggio; il ball-handling è buono ma non eccezionale, e come detto la sua dimensione offensiva è ancora tutta in divenire, anche perché in lunetta non è che sia esattamente Mark Price (59% nel quadrienno collegiale). Ecco, la cosa bella è che nei Mock Draft naviga la tra la fine del primo giro e l’inizio del secondo. Il che significa che il salto in NBA potrebbe collocarlo in una squadra di vertice, situazione che al momento ci pare più adatta per far sì che uno come lui migliori passo dopo passo ma dando subito un fattivo contributo. Ma c’è da scommettere che nelle prossime due settimane T-Will farà di tutto per portare i Cards al gran ballo di Detroit e far ricredere i suoi (tanti) detrattori ancor di più dopo il titolo della Big East. Si parte stasera, contro Morehead State; ma, comunque vada a finire il Torneo di Lousville, per noi uno che gioca con quella voglia di divertirsi e divertire, sempre col sorriso sulle labbra e con un’emozionalità pazzesca, vince in partenza.


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TarHeels nelle mani di ‘Psycho’ DI

A LESSANDRO Il College Basketball è un mondo particolare, difficile da raccontare e difficilmente paragonabile agli altri ambienti cestistici planetari, siano essi i campionati europei o la NBA. Racchiude in sé una serie di emozioni, sia di gioco che di vita, che un giocatore-ragazzo non proverà mai in nessun’altra dimensione, sportiva ed umana. La rivalità tra gli atenei è un qualcosa che nei professionisti a stelle e strisce incontri di rado, forse solo legata a determinati momenti storici di alcune franchigie, si pensi ad esempio alle sfide infuocate tra i Celtics ed i Lakers degli anni 80, o a quelle tra i Miami Heat ed i New York Knicks di fine anni 90. Nella NCAA queste rivalità sono storiche e non muoiono mai; un’idea di tali rivalità è stata ben fornita dallo spot che gira sulle reti americane in questo periodo e che accompagna le sfide del torneo 2009. Si vedono, ad esempio, una donna vestita con i colori di UCLA che, con il classico “ditone” da palazzetto, blocca la chiusura delle porte dell’ascensore consentendo l’ingresso all’altra donna vestita, però, con i colori della rivale USC; o ancora il tifoso di North Carolina University che, sotto la pioggia battente, offre riparo all’acerrimo rivale tifoso di Duke il quale, inavvertitamente, tocca la mano del “Tar Heel” e questi gli rivolge uno sguardo come a dire “ok, ma a tutto c’è un limite”, e allora la mano del “Blue Devil” si sposta più su, dove il contatto fisico tra i due non c’è più. Chi non ha voluto fare a meno di

LE STATISTICHE 2008/2009

Questa in corsa sarà l’ultima annata di Psyco-T con la maglia dei Tar Heels

PPG

21,1

APG

0,9

3P%

45,0

RPG

8.1

BPG

0.4

SPG

1,1

Luogo di nascita Poplar Bluff, MO Altezza 6-9 Peso 250 lbs. Position Forward Esperienza al College 4 years Classe Senior

DELLI

PAOLI

queste emozioni, rinunciando a dichiararsi eleggibile al draft del 2008 e, quindi, completare il percorso del college con l’ultimo anno da senior, è Tyler Hansbrough. Tyler passerà alla storia come uno dei migliori giocatori nella storia di UNC, miglior realizzatore ogni epoca dell’Atlantic Coast Conference (2.789 punti), viaggia a 21.4 punti e 8.2 rimbalzi di media a partita, un rendimento che gli è valso la candidatura al Naismith Award 2009, vale a dire il massimo riconoscimento individuale a livello di college basketball, titolo che potrebbe aggiungere a quello già conquistato lo scorso anno (è il terzo Tar Heel a vincere il premio dopo Antwan Jamison nel 1998 e Michael Jordan nel 1984). Psycho T, come è stato soprannominato, non tanto perché ricorda Norman Bates, personaggio dal profilo psicologico disturbato nel celebre film di Alfred Hicthcock, quanto per via dell’intensità con cui si allena e gioca, è un giocatore duro, un gladiatore. Alto 2 metri e 04, giocatore da post basso ma che, progressivamente, sta mettendo un buon tiro dalla media, fa della forza fisica e dell’atletismo il suo punto di forza. Da sempre, i giocatori che mettono il cuore in campo, attirano le fantasie e le simpatie dei tifosi; ed ecco allora spuntare delle TShirt con il viso di Tyler urlante e la scritta Psycho T, quasi come se fosse un logo. Hansbrough guida, come leader carismatico, la formazione di Chapel Hill in questa corsa alle Final Four e al titolo NCAA che lo scorso anno è sfuggito in semifinale, al cospetto dei futuri campioni di Kansas University. Al primo turno, contro la piccola Radford, Tyler ne ha messi 22 con percentuali rivedibili (solo 5/16 dal campo), ha catturato 5 rimbalzi ed è stato, in ogni caso, un pericolo per gli avversari che lo hanno mandato in lunetta ben 12 volte (12/12 ai liberi). Il secondo turno prevedeva la sfida contro Louisiana State University e i Tigers hanno creato non poche difficoltà ai Tar Heels. Psycho T ha dominato gli avversari nel verniciato, soprattutto nella prima frazione, concludendo con 15 punti e 8 rimbalzi e trascinando, con il prezioso supporto di Ty Lawson, UNC alle “Sweet Sixteen”. Probabilemente Hansbrough, guardando i vari mock draft, non sarà mai un giocatore NBA di altissimo livello; si prospetta per lui un carriera professionistica da specialista difensivo o, al massimo, una solida carriera europea, ma a noi questo poco interessa, lasciateci vivere il college basketball e tutte le sue emozioni.


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