il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano IL CASO - ‘GUNS N ZEROS’
LO STUDIO - CHRISTMAS NUMBER L’ANALISI: MCGRADY, E ORA? L’EVENTO - 723 VOLTE ‘Z’
ROOKIE TIME - OMAR CASSPI LA RUBRICA: UP&DOWN
He got power
All’interno FOCUS
Kevin Garnett A SPASSO NEL TEMPO...
Harold ‘Baby Jordan’ Miner MADE IN ITALY
Lo ‘show stopper’ della Tercas, Bobby Jones, e la Cimberio Varese
Y O U C A N ’ T C M E La rubrica irriverente di SNS DESAPARECIDOS
Desmond Mason
OCCHI PUNTATI SU...
‘Nba T eam By Tea m’
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Boston Celtics: rewind to 2008 FOCUS
DI
N ICOLÒ F IUMI
Quanto può incidere un singolo giocatore sui destini di una squadra? Domanda che abbiamo sentito diverse volte sicuramente. Gli Stati Uniti sono il paese delle statistiche, e non mancano certo i numeri per andare a conteggiare quanto le giocate di un singolo individuo incidano sull’andamento del collettivo. La percentuale dei punti segnati, o dei rimbalzi catturati, magari statistiche anche dotate di un certo grado di accura-
tezza per avere un dato ancora più incontrovertibile, magari parametrando la statistica stessa sul numero di possessi. Ma se si sta parlando di Kevin Garnett, allora può essere benissimo che tutte queste diavolerie lascino il tempo che trovano. Perché è innegabile che KG sia il giocatore che cambia il destino dei Boston Celtics, e i playoff 2009 sono lì che lo dimostrano, sebbene i numeri non sembrino quelli del giocatore che
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logs.com Fonte foto: http://www.goerieb
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Fonte foto: http://upload.wikimedia.org modifica gli equilibri in modo così radicale. 15 punti, 7.6 rimbalzi, 2.5 assists e meno di una stoppata a partita. Intendiamoci, sono numeri buoni, molto buoni, che tantissimi giocatori vorrebbero avere, ma non fanno certo impressione come i 30 punti a gara di Kobe, o le cifre paurose di LBJ. Però. Però resta il fatto che quando Garnett è in campo i Boston Celtics sono la squadra che fa più paura in tutta la Lega,
anche se non lo sentirete mai ammettere da Garnett in persona: “Sono solo un pezzo del puzzle. Da quando sono qui ho cercato di elevare ulteriormente il mio livello di gioco difensivo. So di essere più di un buon difensore, so di poter fare altro, ma è necessario che io dia il massimo in difesa. Cerco di essere perfettamente sincronizzato con quello che vuole il coach”. E se vogliamo qui c’è già una prima spiegazione a statisti-
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che offensive non di livello eccelso. La realtà è che è proprio la mentalità di Garnett quella che fa la differenza con il resto del mondo, la voglia di vincere, di primeggiare, che lo porta ad essere un arma illegale su un campo da basket. Cominciando proprio dalla difesa. L’ex T’Wolves è l’epitome vivente del motto “L’attacco vende i biglietti, ma è la difesa che ti fa vincere gli anelli”. A ben vedere, viste le sue caratteristiche e le sue capacità, Garnett potrebbe segnare 25/30 punti e prendere giù 10/12 rimbalzi a partita senza nessun problema. E’ ben oltre i 2.10, ha gioco spalle a canestro, tiro dalla media, velocità di piedi inusuale per un giocatore dalle lunghe leve come lui. Ma è la difesa quella viene prima di tutto, specie ora che gioca assieme ad altri attaccanti di primissimo livello. Guardare una partita di Boston e concentrarsi su quello che fa KG in una singola azione difensiva può lasciare davvero sorpresi. Intanto, partiamo dal presupposto che siamo ancora in regular season. E, come è normale che sia in una stagione di 82 partite (che per i Celtics diventeranno circa 100 contando i playoffs), l’intensità talvolta latita. Non per Garnett. Che è sempre attivo. Sempre attento al proprio uomo, ma anche a quello del compagno di squadra che necessità di un aiuto. E l’aiuto arriva puntuale, senza mai costringerlo a cercare la stoppata in ritardo dal lato debole. Segno che il livello di applicazione difensiva è vicino alla perfezione, e anche nel caso limite dovesse commettere un fallo, state pur tranquilli che non arriverà un “and-one”, per dirlo all’americana. Lo si può vedere difendere sul centro avversario, poi aiutare su un pick and roll e magari cambiare per mettere pressione sull’esterno avversario. Che difficilmente riuscirà a batterlo dal palleggio e, anche nel caso ci
riuscisse, sa perfettamente che può vedere il suo tiro seriamente disturbato dalle lunghe leve del ragazzo da Farragout Accademy. La sua immagine nei playoffs 2008 in difesa contro Joe Johnson degli Hawks, piegato sulle gambe quasi a toccare il campo con le ginocchia, mentre batte le mani sul parquet in segno di sfida, con lo sguardo tarantolato, è una foto che rimarrà per sempre nella storia della NBA. Così come le lacrime in mezzo al campo una volta riuscito a vincere il tanto agognato titolo in finale contro i Lakers. Perché Garnett è fatto così. E’ un giocatore che vive ogni partita come una sfida, ogni incontro come se fosse una finale e non risparmia mai una stilla di energia. Non lo sentirete mai trovare una scusa. R ecentemente Boston ha perso in casa contro Philadelphia interrompendo una striscia di 11 vittorie consecutive. Una sconfitta inattesa, ma certo non disastrosa. Ma Kevin è stato severissimo a riguardo: “Hanno avuto più energia di noi. Dovevamo aspettarcelo, ma non siamo stati pronti. Non abbiamo fatto quello che dovevamo.” Mai un riferimento al fatto che Philadelphia avesse segnato qualche canestro fortunoso, o che i Celtics fossero un po’ stanchi e non esattamente nella loro serata migliore. No, semplicemente non era stato eseguito il piano per vincere la partita. Perché per Garnett, e per la sua concezione della vita e del basket, se uno fa il suo dovere, ottiene il risultato prefissato. Che è poi il Titolo Nba, arrivato nel 2008 e mancato l’anno scorso, complice (verrebbe da dire primo colpevole) l’infortunio che ha tenuto fuori dai giochi KG e che anche quest’anno gli sta dando fastidi. Ma anche qui, non infastiditelo troppo con domande sulla sua salute.
LE STATISTICHE DI KEVIN GARNETT
...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
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Fonte foto: http://online.wsj.com
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The Big Ticket
Garnett, non certo un tipino facile per i giornalisti, in maniera piccata: “Continuate a infastidirmi con quepotrebbe alterarsi. Tanto che poco tempo fa all’ennesi- ste domande sul mio ginocchio. Insomma, mi vedete ma domanda sulla salute del suo ginocchio ha risposto andare in campo o no? Se gioco vuole dire che il pro-
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blema non c’è. Vado in campo e faccio il mio dovere, quindi sto bene. E adesso passiamo alla prossima domanda.” Così, tanto per rafforzare il concetto di quanto sia duro mentalmente e fisicamente. A allora passiamo ad analizzare quello che, dal profilo indicato finora del giocatore, sembra essere l’ultima parte del gioco cui Garnett pone attenzione, ma che è, probabilmente, la più affascinante. L’attacco. D’altronde, se amate la pallacanestro, vedere evoluire un giocatore delle sembianze di KG sul parquet è un piacere per gli
occhi. A partire dalla coordinazione con cui muove un fisico che non dovrebbe, normalmente, avere quella mobilità, continuando con l’intelligenza con cui sta in campo. Se in difesa Garnett è una belva feroce, che si muove alla velocità della luce su qualsiasi cosa si muova, in attacco, invece, è un metronomo. Non lo vedrete mai affrettare una conclusione, una penetrazione o scegliere di passare la palla in maniera avventata (1.6 palle perse a partita sono un inezia per un giocatore che, come vedremo, tocca la palla tantissimo durante un incontro). Non a caso si dice che il vero playmaker della squadra sia lui, e a vedere giocare i C’s se ne ha la conferma. Garnett entra sostanzialmente in ogni attacco della squadra, a meno che non ci sia occasione di pren-
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ATLANTIC DIVISION
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TEAM
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BOSTON TORONTO NEW YORK PHILADELPHIA NEW JERSEY
W L PCT
24 8 .750 17 18 .486 14 20 .412 10 23 .303 3 30 .091
GB
8½ 11 14 ½ 21 ½
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dere un tiro veloce in contropiede. L’impostazione classica dell’attacco bianco-verde vede Rondo portare la palla oltre la metà campo, con il primo passaggio che avviene proprio in favore di Garnett, o in punta fuori dall’arco, o con un ricezione al gomito dell’area. Nella prima occasione ci sono innumerevoli opzioni per l’attacco. Dall’uscita dai blocchi di Ray Allen, al consegnato a Paul Pierce per il pick and roll con lo stesso Garnett, alla palla per Kendrick Perkins spalle a canestro in posizione profonda. Nella seconda ipotesi, il numero 5 bostoniano può essere pericoloso col tiro dalla media, mettere palla per terra, sempre che non decida di giocare la palla per i propri compagni. In sostanza, però, il dato fondamentale delle situazione è che Garnett ha il compito di fare la scelta migliore per l’attacco. Avere quella lettura che attiva la migliore dell’opzione per la squadra di Doc Rivers. Quindi saper sfruttare il momento positivo di Ray Allen se necessario, o affidarsi alle sagge mani di Pierce, quando non dare libero sfogo alla gioventù di Rondo o Perkins. E questa è un'altra situazione in cui si vede l’altissimo IQ cestistico di cui è in possesso questo giocatore. Tra le possibili soluzioni dell’attacco, l’opzione del gioco a due col capitano, Paul Pierce, è una della armi più letali di tutta la Lega, come sottolinea lo stesso Pierce: “Il pick and roll tra me è Kevin è davvero difficile da difendere. C’è un big man che porta il blocco e poi può sia avvicinarsi a canestro che segnare dalla media. Io, a mia volta, posso attaccare il canestro o tirare da fuori. Quindi indipendentemente da quale sia la scelta della difesa, c’è un opzione pericolosa. Se raddoppiano su di me, segna Kevin, se aiutano su di lui segno io.” Ed effettivamente da questa soluzio-
ne Boston trova sempre buone conclusioni. Anche perché Garnett servito in ritmo dai 4/5 metri è in pratica automatico e con un tiro da quella distanza ha già vinto una partita al supplementare contro i Knicks quest’anno. Abbiamo quindi ribadito come il playmaker oscuro di Boston sia Garnett, ma nessuno pensi che questo porti alla delegittimazione del ruolo di Rajon Rondo, che è ufficialmente il compagno di squadra preferito da Big Ticket (che non risparmia cazziate, ma anche consigli paterni e incoraggiamenti ai giocatori più giovani), che lo ha più volte lodato, anche recentemente: “ Parte tutto dal nostro playmaker. Quando detta il ritmo, manda in confusione il play avversario e mette in partita tutta la squadra. Non solo me, ma anche Ray, Paul, Perk, Rasheed. Tra me e lui poi c’è un feeling particolare e lui lo controlla dall’inizio alla fine della partita con delle giocate dove ci basta incrociare lo sguardo per capirci.” Con quello che si è detto fino ad adesso non è difficile capire la stima di Garnett per un giocatore come Rondo, che probabilmente non ha il talento di Nash o Chris Paul, ma è un giocatore che va in campo, lotta, ringhia contro gli avversari e va anche a strapparsi i rimbalzi in mezzo ai giganti, rendendo felice per primo proprio KG che attorno a lui vorrebbe solo giocatori di questo tipo. E che comunque al momento può certamente essere soddisfatto di quello che lo circonda. Ma lasciateci dire che, rispettando al massimo la classe di Ray Allen, la leadership e il talento di Paul Pierce e la versatilità di Rasheed Wallace, il giocatore che cambia per davvero gli equilibri in campo con la maglia con su ricamato il trifoglio è Kevin “The Big Ticket” Garnett.
LA SITUAZIONE SALRIALE DEL TEAM DEL MASSACHUSETTS NO.
PLAYER
POS
AGE
HT
WT
COLLEGE
20 42 7 11 5 4 50 26 43 34 9 44 45 12 30 13
Ray Allen Tony Allen M.Daniels Glen Davis Kevin Garnett J.R. Giddens Eddie House L.Hudson K.Perkins Paul Pierce Rajon Rondo B.Scalabrine M.Sweetney Bill Walker R.Wallace S.Williams
SG SG SG PF PF SG PG G C SF PG PF PF SG FC PF
34 27 28 23 33 24 31 25 24 32 23 31 26 22 35 25
6-5 6-4 6-6 6-9 6-11 6-5 6-1 6-3 6-10 6-7 6-1 6-9 6-8 6-6 6-11 6-9
205 213 200 289 253 215 175 190 280 235 171 235 270 220 230 250
Connecticut Oklahoma S. Auburn LSU
SALARY
$18,776,860 $2,500,000 $1,990,000 $3,000,004 $16,417,044 New Mexico $1,028,880 Arizona State $2,862,000 Tennessee-Martin $4,750,000 Kansas $19,795,712 Kentucky $2,094,923 USC $3,413,793 Georgetown Kansas State $736,420 N.Carolina $5,854,000 Duke $825,497
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B os to n C e lti cs de p th ch ar t
PF
C K .P er ki ns
K .G ar ne tt
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S. W il l i am s
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PF
PF R . Wa l l a c e
PF
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IL CASO
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A LESSANDRO
DI
DELLI
PAOLI
Fonte foto: http://api.ning.com
‘Guns and Zeros’ «E' un episodio che non ha precedenti nella storia dello sport». Parole di Billy Hunter, direttore esecutivo dell'associazione giocatori NBA. L’episodio in questione è quello che ha coinvolto ‘Agent Zero’, vale a dire Gilbert Arenas e il suo compagno di squadra ai Wizard Javaris
Crittenton. Un intreccio di basket, armi e gioco d’azzardo tutto da scoprire. «Conosco le regole, dopo che è nato mio figlio ho deciso che non dovevano più girare pistole per casa e quindi le avevo portate momentaneamente nello spogliatoio per poi consegnarle alla polizia».
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Tutto ha inizio quando la compagna di Arenas da alla luce il piccolo Gilbert junior. Responsabilizzato dall’evento, il numero ‘0’ di Washington decide di disfarsi delle armi di cui era in possesso e di ‘nasconderle’ all’interno del suo armadietto al Verizon Center. E’ il 10 dicembre e, una settimana più tardi, Arenas consegnerà le pistole automatiche alla ‘Security’ affermando di non volerle vedere più. «Non sono il tuo schiavetto». In questo strano processo, la parola passa all’accusa. E’ il Washingotn Post a rivelare, attraverso alcune dichiarazioni di Kendrick Long, amico di Crittenton, quanto capitato la vigilia di Natale all’interno dello spogliatoio dei ‘maghi’. Un’atmosfera pesante, un duello degno di un film di Sergio Leone. Nessun carillon a scandire il tempo che manca alla sfida ma solo parole e gesti ‘pesanti’. Arenas, si presenta a muso duro nei confronti di Crittenton ordinandogli di azzerare un debito di gioco. Il play ex Georgia Tech risponde altrettanto duramente con le parole che avete letto poco sopra, in versione ‘clean’ così come riportate dal ‘Post’. Gilbert, ovviamente, non ci sta e tira fuori la pistola puntandola contro il compagno. La risposta non tarda ad arrivare e anche Javaris punta la sua arma. Si presenta così uno scenario da far west. L’arringa accusatoria si conclude con le parole di Kendrick Long: «Arenas ci stava andando pesante, Javaris si è solo difes». «L'unico a cui le ho mostrate all'interno dello spogliatoio è l'addetto alla sicurezza a cui le ho date perché le consegnasse alla polizia. In realtà tutte quelle pistole mi servivano per rapinare banche nel fine settimana». E’ questa la difesa dell’imputato principe Arenas. Una difesa sfrontata e sicura, sarcastica ma sufficiente? Già una volta Glbert fu fermato per possesso illegale di arma da fuoco. Era il 2003 e vestiva i colori dei Warriors. Si trovava a San Francisco e la sua pistola era stata registrata in Arizona, quindi, la licenza non era valida per la California. “La legge è uguale per tutti”... L’esatto svolgimento dei fatti è tutto da verificare. Le pene, quindi, non sono ancora definibili con certezza. Arenas e Crittenton potrebbero essere multati e squalificati per un numero imprecisato di partite, visto che il regolamento proibisce ai giocatori di portare armi sia all'interno delle arene che nelle trasferte di squadra. Le indagini sono ancora aperte. A lavorare sul caso c’è la polizia metropolitana di Washington. Secondo le leggi dello Stato, infatti, il trasporto di armi è concesso solo in alcune limitate ipotesti, quali la registrazione delle stesse oppure l’esercitazione ad un poligono di tiro. Anche l’Fbi e la Nba hanno aperto delle inchieste, volte principalmente ad accertare la causa della rissa, la presunta scommessa, in un momento in cui il ricordo dello scandalo-scommesse Donaghy è ancora troppo forte e vicino. Insomma, sarà anche cambiato il nome del team, da Bullets si è passati ad un più politically correct Wizards, ma il rapporto tra pallottole e giocatori è rimasto intat-
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to. D’altronde la storia recente della Nba è ricca di episodi che legano players & guns. Proprio a Washington, l’ex Montepaschi Siena, Lonny Baxter dovette scontare 60 giorni di prigione per aver estratto una pistola calibro 40 a pochi isolati dalla Casa Bianca. Stephan Jackson e Jamal Tinsley non sono soltanto accomunati dal fatto di aver indossato la maglia dei Pacers ma anche dall’essere stati protagonisti di due diverse sparatorie ma entrambe nello stesso Club. Del Mariachi Delonte West lo sanno anche i muri ormai; beccato, a bordo della sua moto, con la custodia della chitarra piena di pistole e fucili. Nascondiglio diverso ma stesso risultato per Sebastian Telfair. L’ex Portaland Trail Blazers nascose la pistola della fidanzata nel proprio borsone da gara. Qualche
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tempo dopo, anche lui decise di far fuoco. Motivo del contendere una collana preziosa strappata dal suo amico, o forse sarebbe il caso di definirlo ex amico, il rapper newyorchese ‘Fabolous’, a sua volta armato. Arenas e Crittenton sono in ottima compagnia, dunque. Dai giocatori a centinaia di persone comuni vittime della mentalità del ghetto e della facilità di armarsi propria degli USA. E’ un problema degli ‘States, quello della diffusione delle armi, che è sempre più forte ed esplode a tutti livelli, anche nel dorato mondo della Nba; e allora noi scomodiamo Sheryl Crow che, nel lontano 1996 sensibilizzava gli americani sulla questione della vendita delle armi e suggeriamo l’ascolto di “Love is a good thing”. Magari non servirà ad Arenas e Crittenton, ma agli altri forse si.
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L’ANALISI
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DI
S TEFANO PANZA
M c G r a d y, e o r a ?
Chiuso – forse – il caso Iverson, nel mondo NBA un’altra star ha attirato i titoli dei giornali. Tracy McGrady, talento pressoché infinito, sarebbe potuto diventare uno dei giocatori più dominanti della storia del gioco se solo la sfortuna non lo avesse perseguitato. Ma davvero si è trattato soltanto di sfortuna?
Ormai non più giovanissimo – compirà 31 anni il prossimo 24 maggio – McGrady non ha sfruttato le numerose occasioni che gli si sono presentate dinanzi per entrare definitivamente nell’Olimpo dell’NBA. Curioso, ovviamente, il suo record negativo di sette partecipazioni ai playoff con altrettante eliminazioni al primo turno. T-Mac rischia dunque di
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entrare nella storia come uno dei giocatori più perdenti di sempre, specialmente in rapporto alla classe sopraffina di cui Madre Natura l’ha dotato. Prima del suo clamoroso trasferimento a Houston, dove avrebbe formato una coppia devastante con Yao Ming, McGrady aveva vinto per due stagioni consecutive la classifica dei cannonieri: 32,1 punti di media nel 2003, 28 nel 2004. In entrambe le post-season segnò circa 31 punti di media, ma non bastarono per assicurare ai suoi Magic il passaggio del turno. A Houston la presenza di un altro big come Yao gli avrebbe finalmente permesso di superare perlomeno il primo turno dei playoff e, perché no, puntare anche a qualcosa di più. Ma le cose non sono andate come lui e la dirigenza speravano. Trafitti dagli infortuni, specialmente alle due superstar, i Rockets si sono sempre fermati ancora al primo turno. Nel 2005 e nel 2007 Houston è arrivata anche a gara 7, ma non è riuscita a spuntarla. La carriera di T-mac rischiava dunque di diventare emblematica. Come se non bastasse, gli infortuni hanno condizionato la sua carriera, in modo particolare gli anni in Texas. Nella stagione 2005/06 ha disputato soltanto 47 gare di stagione regolare. Nel 2007/08 solo 66 match, mentre nella stagione scorsa addirittura 35. I problemi alla schiena hanno purtroppo martoriato questo ragazzo, che si ritrova adesso in una situazione alquanto bizzarra, specialmente per un atleta che percepisce circa 20 milioni di dollari annui: McGrady si riteneva in grado di giocare già un mese e mezzo fa, ma la dirigenza, coach Adelman in testa, esitava a mandarlo in campo, predicando calma e prudenza in quanto la salute dell’ex Magic poteva essere messa nuovamente a repentaglio in caso di affrettato riutilizzo. Ma era davvero questo il motivo? I maligni sostengono che i Rockets, privi ormai di
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Yao che tornerà (se tornerà) non prima del 2011, vogliano puntare tutto sulla linea verde, che già sta dando risultati superiori alle attese. L’inserimento di McGrady potrebbe non giovare ad una squadra che difficilmente potrebbe auspicare qualcosa di più di un ennesimo primo turno di playoff, con o senza T-Mac. La situazione ha del paradossale, ma nell’NBA si può vedere questo e molto altro. Finchè un bel giorno, il 15 dicembre, Tracy MacGrady torna in campo contro i Pistons davanti al pubblico amico. Grande ovazione per lui ovviamente, ma coach Adelman gli offre soltanto 8 minuti in cui realizzerà comunque una tripla. Le gare disputate diventano 6 il 23 dicembre nella sconfitta di Orlando, ma per T-Mac si tratta dell’ultima apparizione in maglia Rockets, perché per i soliti problemi interni la dirigenza ha deciso di metterlo da parte, magari sul piatto della bilancia per qualche scambio. Circolavano le voci di un interessamente di Washington che poteva offrire nientemeno che Gilbert Arenas, prima però che quest’ultimo andasse a disintegrare la sua dignità puntando la pistola contro il suo compagno Crittenton. Lo scambio, ovviamente, non s’ha da fare. E intanto ogni mese McGrady va a riscuotere il suo oneroso stipendio, pur non facendo parte dei progetti presenti e futuri della società. Di lui rimangono imprese storiche, come i 13 punti in 35 secondi con cui Houston si sbarazzò degli attoniti Spurs. Momenti di grande basket, di grande McGrady. Il bilancio della sua stagione finora narra di 4 W e 2 L con lui in campo, di un triste 3,2 nella casella dei punti segnati di media, frutto però dei soli 8 minuti a gara nei quali è stato impiegato. Spiccano i 10 punti con 3 assist nella vittoria con i Clippers, che però non sono bastati a rinnovare la fiducia della dirigenza verso di lui.
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Desmond Mason... Who? DESAPARECIDOS
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V INCENZO
DI
G UIDA
Se la notte del 10 febbraio 2001 aveste chiesto a Desmond Mason, dove pensasse di essere tra nove anni, lui avrebbe risposto: “Nella Nba, magari con un anello al dito”. Il futuro è così luminoso che per vederlo devo mettere gli occhiali da sole. Una massima d’oltreoceano, che allora a Desmond calzava a pennello. Il 2001, è il suo anno da rokiee, 17esima scelta al draft 2000 per i Seattle Supersonics, dopo il quadriennio (quattro anni al College, adesso sono roba da lacrime agli occhi) a Oklahoma State. Corpo (196 cm) scolpito da Fidia, doti atletiche da far aprire un’indagine per manipolazione genetica. Un saltatore ammorbante. Difensore di vaglia, in attacco c’è da lavorare al tiro per renderlo una shooting guard d’alto profilo, ma il materiale non manca. Piccola digressione. Nei Sonics d’annata parte dal pino per dare una scossa d’adrenalina cambiando Brant Barry o Ruben Patterson. E’ la
squadra post Shawn Kemp, ancora di Gary Payton, con un Rashard Lewis in rampa di lancio e un Pat Ewing al ballo di commiato. Il coach è Paul Westphal (ora a Sacramento) che verrà spesato dopo 15 partire (6-9), come capo allenatore viene promosso Nate McMillan. A roster autentici oggetti di culto come Vin Baker, giocatore clamoroso a Milwaukee, ma poco splendente nella “Città della pioggia” a causa di un rapporto complicato con la bottiglia. Nella categoria inarrivabili, David Wingate, che da anni nella Lega non combinava una mazza, ma che un posto lo trovava sempre grazie ai buoni uffici del suo grande amico “The Glove”. In testa con il secondo distante anni luce, c’è Pervis “Never Nervous” Ellison. Prima scelta al draft del 1989 da parte dei Sacramento King. Definibile con un eufemistico “ non ha mantenuto le attese”. Tradotto, in lizza con Kwame Brown e Michael Olowokandi per peggior prima scelta della storia. In squadra anche Olumide Oyedeji, nigeriano di 208, che diciamo così a quei tempi imparava l’arte del centro. A gente del genere non daresti tanto credito e invece di partite ne vincono 44 (merito soprattutto di Payton), che oggi basterebbero per andare ai playoff in qualunque Conference. Non allora. Quinto posto nella Pacific e tanti saluti. Torniamo a Mason. Gioca e bene per i Sonics nella prima parte di stagione facendo scattare così la convocazione all’All Star Game dei Rookie, partecipando al raggelante match Rookie e Sophomore. Difesa zero, talento tantissimo, schiacciate pure. Ecco schiacciate. Mason fa domanda per lo Slam Dunk Contest. Accolta. Alla gara partecipano Baron Davis, Corey Maggete, DeShawn Stevenson, Jonathan Bender, Stromile
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Swift. Messi in fila, tutti. Il titolo è suo. Il futuro è roseo. Eì il Re delle schiacciate succedendo nell’albo a Vince Carter. L’anno dopo si ripresenta, ma c’è Jason Richardosn e non se ne fa niente. La prima stagione con i Sonics la chiude a 5.9 punti in 19 minuti di utilizzo medio. L’anno successivo i miglioramenti sono evidenti: 12,4 e 4.7 rimbalzi in 32 minuti. Record 45-37, si va ai playoff. Primo turno di fuoco contro i San Antonio Spurs. Una serie bellissima, finisce 3-2 per i texani. Mason fa progressi significativi in attacco, dove alla penetrazione e al gioco in campo aperto aggiunge anche un jumper dalla media interessante. In difesa sale di livello, prendendosi cura dei big avversari. La terza stagione è quella decisiva. Parte in quintetto in ala piccola. Le cifre migliorano ancora (14.1), ma il salto di qualità tanto atteso non arriva. Mason resta troppo dipendente dalla sue doti atletiche. Il tiro non migliora, così come la lettura a difesa, mentre il trattamento di palla sembra ancora quella di un rokiee. In più a Seattle c’è aria di rinnovamento e il mercato da la possibilità di mettere le mani su un certo Ray Allen. A febbraio del 2003, i Sonics impachettano lui e l’uomo franchigia Gary Payton verso Milwaukee in cambio di “He Got Game”. Con i Bucks Mason non delude. Chiude la stagione a 14.8 punti e 3.2 rimbalzi con il 47% dal campo e il 29% da tre (career high), mostrando lampi di atletismo debordante. Milwaukee esce al primo turno con i Nets. Nel 2003-2004 scende complice qualche infortunio a 14.2. Primo turno di playoff con Detroit. Fuori. Passiamo al 2004-2005, che sarà a tutti gli effetti il suo anno. Desmond (che di secondo nome fa Tremaine), viaggia a 17.2 punti di media. Ovvero a un passo da ruolo di stella nel firmamento Nba. Peccato che come stella nella sua stessa squadra si consacra un certo Michael Redd che conferma i progressi dell’anno precedente issandosi a 23.4 punti. In estate si cambia indirizzo. Con i New Orleans Hornets dell’astro nascente Chris Paul le cose vanno bene ma non benissimo. Ruolo da comprimario (10.8 punti il primo anno, 13.7 il
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secondo), non da stella. E vai con l’operazione nostalgia. Nel 2007-2008 si torna a Milwaukee. Inizia il declino. Da secondoterzo violino, si passa a specialista difensivo con rara licenza di tirare (9.7 punti). La squadra è un disastro (26v-56p), e la parte del leone la recitano Redd, Villanueva, Mo Williams e Bogut. Meglio andare via. Si fanno avanti gli Oklahoma City Thunder. Doppio revival. Mason torna in Oklahoma dove ha giocato all’’università. Per giunta ai Thunder, ovvero la reincarnazione dei defunti Seattle Sonics. Ricordate Milwaukee?. Fate peggio. Solo 39 partite giocate, di cui 19 in quintetto. Domina tale Kevin Durant, che sfiga gioca nello stesso ruolo. Per Mason si viaggia a 7.5 punti di media in 27 minuti. Poi arriva l’infortunio al ginocchio e la stagione va a farsi benedire. Contratto in scadenza, nell’estate passata. Si fanno avanti solo i Sacramento Kings del suo primo allenatore Nba, Paul Westpaul. La firma arriva su un contratto annuale non garantito al minimo salariale (1.8 milioni di dollari). Westpaul lo recluta per le sue doti difensive la capacità di ricoprire più di un ruolo. Per il 32enne texano siamo al canto del cigno. I Kings esercitano la clausola del “non garantito” e lo tagliano dopo sole 5 gare (2,6 punti in 13.2 minuti), o meglio comparsate. Westpaul dirà che non è più il giocatore di una volta. Il nuovo millennio per Mason si era aperto con grandi aspettative. Il decennio si è chiuso da desaparecido. Le ragioni? Tante. Mason è un 1.96 iperatletico che non si è mai trasformato compiutamente in una guardia o in un’ala piccola, ma è sempre rimasto a metà tra i due ruoli. E quando le gambe inizia a perdere colpi, comincia l’inevitabile discesa. Limiti tecnici e caratteriali lo hanno portato fuori dalla Lega. Una Lega nella quale credeva di poter recitare un ruolo diverso. Un buon giocatore come tanti, un grande atleta come pochi, ma non una stella. E in campionato che premia superstar e specialisti, la via di mezzo non è consigliata. Almeno di non trovare un mentore in panchina che riconosca il tuo indiscutibile talento, e che massimizzi le tue qualità all’interno di un sistema. Incompiuto un aggettivo per definirlo. Eppure è difficile pensare che nessuna squadra abbia bisogno di Desmond Mason. Il suo esilio in questo momento sembra più volontario che forzato. Lontano dal basket per ritrovare gli stimoli e lo spirito di una volta. Lontano per tornare di nuovo a volare come in quella notte di Febbraio del 2001.
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A SPASSO NEL TEMPO... DI
V INCENZO D I G UIDA Negli anni 90 l’America era invasa da diverse manie. I Rollerblade, le serie Tv (Twin Peaks e X-Files su tutti, Beverly Hills 90210), Blockbusters, McDonald, Bill Clinton. I visionari della Silycon Valley stavano perfezionando quella cosina chiamata Internet, e ovviamente anche la Nba doveva avere la sua. Nel 1991 inizia per ciò che concerne il discorso Titolo Nba, l’era Jordan. L’ascesa dell’uomo che cambiò per sempre l’Nba e il basket dal punto di vista socioculturale e sportivo, poneva anche un problema. Come avremmo fatto dopo di lui? Bisognava assolutamente trovare il nuovo Michael Jordan. Era questa la mania dei primi anni 90 nella Nba. E come si sa le manie generano sviste clamorose. Il draft del 1992 portò alla Lega un’infornata di talento come se ne vedranno poche in futuro. Shaquille O’Neal alla uno, poi Zo Mourning, Christian Lettner, Jim Jackson, LaPhonso Ellis, Tom Gugliotta, tutti nelle prime sei. Tra gli altri, Robert Horry all’undicesima, Latrell Sprewell alla 24esima. Subito dopo Horry viene chiamato da USC (University of Southern California), Harold Miner, nato a Ingelwood il 5 maggio del 1971. La scelta è dei Miami Heat, che avevano la necessità di abbinare agli immensi Glen Rice e Steve Smith, un giocatore da campo aperto con la dinamite al posto delle gambe. Identikit perfetto. Nei tre anni con i Trojans questa shooting guard di 193 cm di voli e di schiacciate ne aveva fatte di memorabili. Come quelle che piazzava al Roger Park a Inglewood, sfruttando anche il fatto che i canestri fossero più bassi del normale. Ma a 3.00 o 3.05 per Miner non faceva differenza. Nelle partite degli Heat il livello di spettacolarità cresce a dismisura ogni volte che mette piede in campo. Lo Slam Dunk Contest dell’All Star Game 1993 è suo. Il numero 32 mette in riga nell’ordine: Clarence Weatherspoon, Cedric Ceballos, David Benoit, Kenny Smith, Mahmoud AbdulRauf, Tim Perry, Shawn Kemp. Qualche buontempone conia il soprannome “Baby Jordan”, e non perchè al College portasse il 23 in onore del suo idolo. C’era chi in lui vedeva il potenziale del campione. L’anno da rookie a 10.3 punti, nutrendosi delle briciole lasciate da Rice e Smith non era affatto male. Del Jordan prima maniera c’erano le schiacciate e la poca confidenza con il tiro da tre punti (3/9 in 72 partite del 2002-2003), nulla più. I paragoni sono pericoli. Le etichette di più. Se sei Bay Jordan, devi fare il Jordan, non devi essere solo bravo a schiacciare. Su Miner e in Miner si creano delle aspettative esagerate. I primi demoni saltano fuori nella seconda stagione in maglia Heat: 10.5 punti in regular season, 8.0 nella serie del primo turno di playoff perso da Miami 2-3 contro Atlanta. I miglioramenti sono impalbabili. La terza stagione è quella del crac, ma in senso negativo. Baby Jordan viene criticato
Harold ‘Baby Jordan’ Miner
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...OPMET LEN OSSAPS A
per il suo modo di giocare, particolarmente per la difesa. La media punti scende a 7.6. Si parla di lui anche per una persona incapace di essere continua nei suoi risultati. Dopo molte discussioni con coach Kevin Loughery, prima e con Alvin Gentry poi, in estate viene ceduto ai Cleveland Cavaliers insieme alla seconda scelta di Miami del draft 1995, Donny Marshall (da non confondere con Donyell Marshall), in cambio della seconda scelta dei Cavs, che si materializzerà in George Banks. L’unica consolazione arriva ancora dallo Slam Dunk Contest del 1995, dove si ripresenta per rilanciarsi. Ovviamente vince con maggioranza bulgareggiante davanti a Shawn Kemp. L’anno con i Cavs è da incubo. Gioca 19 partite (3.2 punti di media), litiga in continuazione con Mike Fratello, tanto da essere ceduto a stagione in corso ai Toronto Raptors in cambio di Victor Alexander, ma lo scambio non si concretizza a causa di un malore di Alexander. Miner rimane quindi ai Cavaliers. Nella off season prova a strappare un contratto con i Raptors ma viene tagliato durante la preseason. Senza squadra, giù di morale, si ritira nel 1996 a soli 25 anni. La celebrità e la fama che un Baby Jordan dovrebbe avere sono solo un lontano miraggio. Quell’immarcabile uno contro uno è rintracciabile solo nelle videocassette d’annata, così come le schiacciate per il quale è diventato famoso. Recentemente Brian Shaw (oggi assistente allenatore ai Lakers, in passato compagno di squadra di Miner), intervistato sull’argomento ha fornito una spiegazione illuminante. “ Se isolato su un quarto di campo uno contro uno, Harold era praticamente inarrestabile, con il suo stile da playground ti batteva sempre. Lui era solo un grandissimo talento individuale”. Forse se Miner avesse incontrato il D’Antoni dell’epoca Suns, con un sistema “Run and Gun” adesso ne parleremmo diversamente. Ma non è così. Quando si dice entrare nella storia della parte sbagliata. Sentite Jay-Z nel suo pezzo Jump it. “I’m the Mike Jordan of the mic recordin’ Hovi, baby you Kobe, maybe Tracy McGrady, Matter fact you Harold Miner, JR Rider, washed up on marijuana, Even worse you a Pervis Ellison, You worthless fella, You aint no athlete, you Shawn Bradley”. Jigga Man per dimostrare la sua grandezza al microfono, usa queste metafore defininendosi il Michael Jordan del microfono. Il suo rivale può essere al massimo Kobe (la cosa più vicina a Jordan ancora oggi), forse Tracy McGrady, o peggio Harold Miner, chiaro segno di non rispetto, fino a scendere a Ellison e Bradley, ovvero il peggio del peggio per lo stile del maschio afroamericano. Il giorno in cui lo chiamarono Baby Jordan fu quello della sua fine. Povero Miner.
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L’EVENTO
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‘ 7 24 a n d m o r e ’ Z ydrunas Illgauskas
D OMENICO P EZZELLA
Ventimila persone che non attendevano altro. Ventimila persone che fino a che non hanno visto alzare la ‘pelata’ del lituano dalla panchina per dirigersi verso quello che da questa parte dell’oceano chiameremmo cubi dei cambi, non hanno smesso di inneggiare il suo nome, non hanno smesso di pronunciare quella consonante, ‘Z’ che ormai da anni è sinonimo di un solo giocatore: Zydrunas Illgauskas. Non avrà mai vinto nulla, non sarà mai stato il centro più devastante di questa Lega, ma il senso di appartenenza ed il senso di attaccamento alla maglia, altra cosa che si vede - anche se sempre più di rado - principalmente nel Vecchio Continente, non sfuggono certo ad un pubblico come quello dei Cavs e di Cleveland che ormai a quel nome e a quel cognome ci sono cresciuti (se potete passateci il termine) vista la lunga militanza. Sono tredici, infatti, le primavere dall’ingresso o meglio dalla scelta di quel ragazzone altro e grosso che a Kentucky viaggiava con cifre ‘gastronomiche’ per dirla alla Nino Frassica stratosferiche per essere più professionali, fatte di 26 punti e 19 rimbalzi a partita. Cifre che da quella scelta numero 20 del Draft del 1996 non si sono mai più avvicinate al ventello se non nella stagione 2002/2003 quando i 17 e passa punti di media hanno rappresentato il punto più altro a livello realizzativo. Ma i punti realizzati, non sono mai stati un problema, anche perché nessuno si aspettava che un giocatore uscito alla numero venti dovesse essere l’uomo franchigia o quanto meno quello al quale affidarsi per portare avanti l’intera squadra. Un comprimario ed un compagno di squadra di grande fattura questo si, ed è sempre stato cosi. Tredici anni di lavoro, di allenamenti di sofferenza per colpa di ginocchia che di anno in anno lo hanno limitato dal punto di vista dell’esplosività e pure mai un lamento, mai una parola fuori posto o una richiesta diversa da quella di poter negoziare la sua permanenza nell’Ohio. Certo non è rimasto a pochi spiccioli (11 milioni di presidenti spirati il conto pagato dalla dirigenza dei Cavs nelle tasche del lungo natio di Kaunas ndr), ma il talento, nonostante l’età che avanzava di campionato in campionato, era sotto gli occhi di tutti. Quest’anno però ‘The Big Z’ ha avuto il suo momento di gloria, il suo momento per inserire il suo nome definitivamente all’interno degli annali della storia dei Cavaliers come franchigia professionista. Il destino ha voluto che uno dei momento più importanti della carriera di Illgauskas sia arrivato nell’anno della relegazione alla panchina per l’arrivo di Shaq per tentare l’ultimo assalto alla corona della Nba e porla sulla testa di Lebron James. Nell’anno in cui un giocatore dal carisma e dalla presenza di Illgauskas si alza a comando del coach per fare quello per cui in questi 13 anni era chiamato a fare partendo dallo starting five. Insomma era dall’inizio di questo campionato che nell’aria c’era il sentore che quel record, quello legato al numero delle presenze potesse essere definitivamente raggiunto ed essere magari la ciliegina sulla torta di un’annata che tutti sperano si possa concludere con il Larry O’Brien Trophy tra la mani proprio del lituano. Dopo la delusione e primo momento di puro ‘sbotto’ del lungo lituano per non essere entrato in una sfida contro i Mavericks, suscitando anche la non contentezza di Lebron che non le mandò a dire al suo coach, pochi giorni dopo o meglio il 3 dicembre scorso il fatidico giorno è arrivato. E qui si torna alle tante ‘Z’ pronunciate dai 20.000 della Quiken Loans Arenas che hanno smesso quando a circa 3’ dalla fine del primo quarto si sono alzati in piedi per rendere omaggio e la giusta standing ovation per il leader in presenza in maglia Cavaliers: 724 presenze e record precedente superato appartenente all’attuale Giemme di Cleveland Danny Ferry fermo a quota 723. «Ero davvero contrariato al termine della partita contro Dallas per non aver messo piede in campo e raggiunto, quindi, prima il traguardo in questione – commenta Illgauskas – So di essere un ottimo giocatore e che posso ancora fare e dare delle cose a questo gioco e a questa squadra. Ma non voglio andare nei dettagli, anche perché quando la notte vado a letto so di avere la coscienza a posto per quello che ho fatto in questi anni. Io amo questa città, amo i miei compagni di squadra e li considero come la mia famiglia. Tutti i giorni scendiamo in campo e ci alleniamo per arrivare a vincere quel titolo che questa città e questi tifosi meritano e per i quali sono orgoglioso di aver giocato». Parole di stima sono arrivate anche dal patron dei Cavaliers, Gilbert, che ha definito lo stesso Illgauskas come un giocatore ed un modello da ammirare. Dulcis in fundo a dare il giusto tributo alla cosa ecco anche le parole della causa principale del passo indietro di ‘Z’, Shaq O’Neal: «Non lo considero il mio cambio, ma solo un mio compagno di squadra».
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Christmas... ...Nu mbers LO STUDIO
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D OMENICO P EZZELLA Il punto più alto della prima parte della stagione. Se proprio dovessimo fare un paragone potremmo definire il giorno di Natale come l’All Star Game dei primi tre mesi di stagione regolare, solo che a differenza del weekend di metà febbraio in campo ci sono le normali squadre e non selezioni di ‘stelle’. Insomma il palcoscenico che consacra agli spettatori e ai tifosi l’anno che sta per terminare per poi aspettare due mesi per dare inizio al periodo più caldo della stagione. Da febbraio in poi ci si prepara per i playoff, a dicembre ci si prepara per dare dei segnali, per mettere in mostra le rivalità e perché no, portare a casa qualche milione di spettatori in tutto il mondo che tutto si vogliono perdere tranne la super sfida natalizia. Già perché sempre di super sfida si tratta, è sempre stato cosi sin da quando la partita di Natale ha avuto un seguito più dignitoso. Che poi negli ultimi dieci anni sia diventato una sorta di Lakers contro il meglio che c’era in circolazione questo è un altro paio di maniche. Sono dieci, infatti, le sfide del 25 dicembre per i gialloviola che però non sempre hanno brillato con sei sfide perse e solo 4 acuti. Dieci edizioni in cui general-
mente la LA del basket è stata messa contro rivali dell’anno successivo, contro i possibili rivali oppure contro squadre con le quali non c’era nessuna rivalità, ma per il semplice gusto di vedere Shaq e Kobe l’uno contro l’altro. Una tradizione, quest’ultima, interrotta solo due volte ovvero quando lo Shaq alla ricerca di un anello in giro della Nba era passato da Miami a Phoenix e nell’anno della rivalità storica con i Celtics dello scorso anno dopo che i biancoverdi avevano spazzato via Kobe e compagni nelle Finali Nba. Gli spostamenti dell’estate e la presenza di Shaq al fianco di Lebron, però non potevano non far pendere la bilancia ancora dalla parte di The Big Diesel che sfida il numero 24 con ancora una super star al fianco che prova a salire sul trono con il suo aiuto. Insomma Kobe Vs Lebron o ancora Kobe VS Sahq? Alla fine è stato un po’ di entrambi per quella che resterà, ancor di più se i Cleveland dovesse poi vincere l’anello, una delle più memorabili partite di Natale della storia, anche se non come quella del 2008 sempre allo Staples Center contro Garnett e compagni, ma purtroppo non si può avere tutto della vita. ‘Chi si accontenta gode’ cantava Ligabue ed allora accontentiamoci di quanto ammirato il 25 dicembre scorso e di tutta una serie di numeri con i record di questa partita nella partita. 11 Le apparizioni di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal che sono I giocatori con più partite di Natale giocate tra I giocatori ancora in attività. 13 Il record in termini di numeri di apparizioni in assoluto detenuto da Dolph Schayes e Eael Monroe. 60 Il massimo a livello di punti segnati all’interno di una partita di Natale detenuto da Bernard King nel 1984 con la maglia dei Knicks contro i Nets. 377 Il massimo di punti complessivi all’interno di più partite di Natale detenuto da Oscar Robertson, segue Bryant a quota 269, terzo O’Neal con 259. 4 4 Il record di apparizioni per una squadra tenuto dai Knicks con i Lakers che seguono a ruota con 35; 29 per Philadelphia e Kings, 25 per i Celtics.
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ROOKIE TIME
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Il primo israeliano in Nba: Omar Casspi
G UGLIELMO B IFULCO
Chissà cosa avrebbe detto il signor Naismith, o come avrebbe reagito un qualunque appassionato di basket NBA di vecchia data , se, anche solo dieci anni fa, gli avessero detto che nel primo decennio del ventunesimo secolo ci sarebbero state prime scelte assolute al draft NBA di nazionalità cinese, australiana o italiana, che una ventisettesima scelta assoluta proveniente dalla Francia avrebbe vinto un titolo di MVP in una finale NBA , che un lungo spagnolo avrebbe dominato una stella emergente del tonnellaggio di Dwight Howard nelle ultime Finals e soprattutto che una giovane ala proveniente dal medio Oriente, dalla città di Yavne, Israele, avrebbe incantato la lega pro di Kobe e LeBron, a discapito di coetanei ben più quotati e di nazionalità a stelle e strisce..probabilmente il profeta del gioco, o chi per lui, avrebbe osservato l’interlocutore con sguardo attonito e nel giro di pochi secondi avrebbe iniziato a sbellicarsi dal ridere fino a non fermarsi più..ma la realtà attuale è questa, il basket ha allargato i propri confini a dismisura, estendendosi per lande fino a pochi anni fa irragiungibili anche solo col pensiero, accogliendo a sé una promiscuità di identità e culture che, almeno nell’ambito sportivo, fondendosi, portano ad un allargamento degli orizzonti gustativi del telespettatore . Omri Casspi, ventitreesima scelta al primo giro del draft 2009, rappresenta l’ulteriore prova di quanto questo sport sia globalizzato e di quanto le barriere sportive americane, notoriamente ostraciste verso le scelte “esotiche”, siano definitivamente crollate..e sinceramente non potrebbe essere altrimenti, considerato il valore attuale, non solo potenziale, dei giovincelli in questione. Casspi rappresenta infatti il continuum naturale di una serie di giocatori che ,partendo dal leggendario Drazen Petrovic, fino ad arrivare ai vari Stojakovic, Turkoglu e , consentitemelo, Danilo Gallinari, stanno completamente rivoluzionando le regole non scritte di questo gioco..giocatori in primis bianchi, di matrice cultural-cestistica non americana, non propriamente atleti olimpionici né per atletismo né tantomeno per compattezza fisica, in grado di prendere letteralmente la squadra sulle spalle nei momenti clou e trascinarla alla vittoria, come non sono in grado di fare, di contro, i numerosi superatleti tutto muscoli e niente cervello (parliamo sempre di quoziente intellettivo cestistico, non altro) ultima generazione.
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Può sembrare avventato l’inserimento dell’ex Maccabi Tel Haviv in questo contesto argomentativo, tenendo in conto che siamo solo ai primi 3 mesi dell’avventura , e di ostacoli, chiamati rookie wall o checchessia, ve ne saranno e anche parecchi; ma l’occhio vede, e comunica come nemmeno una mente arguta e razionale può fare; chi ha visto giocare l’ “israeliano” sa di cosa è capace il ragazzo e sa che l’elite e lo standard dei campioni europei poc’anzi citati è assolutamente alla portata. Ventuno anni compiuti il 22 giugno, 2,03 cm per 102 kg, il numero 18 dei Sacramento Kings ha letteralmente preso per mano la propria franchigia, insieme al coetaneo Tyreke Evans, inizialmente data per spacciata da addetti ai lavori ( e dal sottoscritto) portandola in zona playoff e proponendola impetuosamente come autentica rivelazione della stagione sin qui disputata. Medie di tutto rispetto per un rookie (12,1 punti, 4,3 rimbalzi e 1,2 assist a gara, in 26 minuti di impiego medio con percentuali che girano intorno al 50% dal campo e piu del 40% dall’arco dei 3 punti), un carisma alquanto atipico per uno della sua età e un’ intelligenza cestistica oltre la media sono gli ingredienti del background di Casspi, il cui nome già da un paio di stagioni figurava sulle liste degli scout NBA. Nato nella città di Holon, ma cresciuto in quel di Yavne, il 22 giugno del 1988, il giovane Omri inizia la propria carriera nelle giovanili del Maccabi, con le quali vincerà un titolo statale giovanile (dividendo gli impegni con la squadra del proprio liceo), fino ad esordire in prima squadra nel 2006-07, ottenendo il premio di “rivelazione” dell’anno prima e, a distanza di 2 anni il
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quarto posto nella FIBA Europe Young Men’s Player of the Year Award (premio al miglior giovane europeo), preceduto solo da Gallinari, Rubio e Kouros..in mezzo a tutto ciò un premio di sesto uomo dell’anno del campionato israeliano del 2008, le finali dell’Eurolega sempre in quell’anno, e il titolo statale l’anno successivo, fino ad arrivare ai giorni nostri, con la scelta dei Kings. Dal punto di vista tecnico parliamo di un’ ala molto piu simile ad un Gallinari che ad uno Stojakovic, considerando non solo l’ottima attitudine al tiro dalla media e lunga distanza, ma anche delle indiscutibili capacità di attaccare il canestro con una fulminante partenza in palleggio, supportata da un’ ottima tenuta atletica e capacità di chiudere l’azione anche sotto la pressione difensiva del marcatore, che lo porta spesso a concludere le proprie entrate con canestro e libero aggiuntivo. Attivo a rimbalzo (in doppia cifra già 2 volte in regular season), dotato di buone mani e di una visibile tempra caratteriale, Casspi può potenzialmente diventare un giocatore all around come non lo sono stati i pur ottimi Turkoglu e Stojakovic nel corso di questi anni. Considerando che in casa Kings crescono simultaneamente fior di talenti come il probabile rookie of the year Tyreke Evans, il talentuoso Kevin Martin, l’atletico Donte Green e i già solidi Spencer Hawes e Jason Thompson, possiamo già immaginare come nel giro di qualche anno l’Arco Arena tornerà finalmente ad infuocarsi come ai bei tempi di zio Vlade, C-Webb e Stojakovic, a suon di campanellini, pick ‘n roll e vittorie..
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TRIANGLE OFFENSE
L’ANGOLO TECNICO
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C OACH A NTONIO M EROLA
SETTE PRINCIPI DELL’ATTACCO 1. Penetrazione nella difesa (palleggio o passaggio al post) 2. Spacing tra i giocatori 3. Movimento di uomini e palla 4. Possibilità per chi ha la palla di poterla passare a tutti i compagni 5. giusto posizionamento per il rimbalzo d’attacco e per la copertura del contropiede 6. possibilità per tutti i giocatori di poter giocare in ogni posizione indipendentemente dal ruolo 7. Massimizzare il talento individuale
SPACING E POSIZIONI SUL CAMPO Il giusto spazio tra i giocatori è di circa 4 metri o più tra ognuno di loro. Ciò permette a chi ha la palla di poter giocare senza facili aiuti o raddoppi. Il triangolo si può formare su entrambi i lati del campo (diagr. 1). ALLINEAMENTO COL POST (LINE OF DEPLOYMENT) Uno degli obiettivi dell’attacco è isolare il post per attaccare il proprio difensore. Il concetto chiave al riguardo è arrivare ad avere la giusta linea di passaggio tra l’ala ed il post. Con il termine line of deployment intendiamo una linea immaginaria tracciata tra il passatore, il post ed il canestro (diagr. 2). Il post deve possedere la tecnica necessaria per poter sempre offrire al compagno una linea pulita di passaggio (diagr. 3).
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METODI PER FORMARE IL TRIANGOLO LATERALE
gio si forma il triangolo:
Passaggio “n. 1”
• dai e vai della guardia (diagr. 4); • inizio in palleggio (diagr. 5); • taglio dell’altra guardia (diagr. 6).
Lo chiamiamo passaggio numero 1 perché dopo questo passag-
Passaggio “n. 2” Dopo aver formato il triangolo l’ala che ha la palla può effettuare 4 potenziali passaggi che chiamiamo passaggi numero 2. L’ala deve rispettare questa sequenza (diagr. 7): • passaggio al post • passaggio alla punta • passaggio al post sul lato debole che fa flash verso il centro (backdoor step) • passaggio in angolo
PASSAGGIO AL POST
tagli split:
Dopo il passaggio al post è il passatore che ha la priorità nella scelta, quindi taglierà per primo. Gli altri si muoveranno di conseguenza. Questi tagli li chiamiamo
• incrocio (diagr. 8) • blocco alto (diagr. 9) • blocco basso (diagr. 10)
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PASSAGGIO ALLA PUNTA Se il post è marcato l’ala può passare alla punta che sarà un metro (o più) oltre la linea del tiro da tre punti (per allargare lo spazio). Le opzioni per la punta saranno: THREE-MEN GAME
TWO-MEN GAME
• passaggio al post –alto/basso- (diagr. 11) • passaggio in ala dopo il blocco (diagr. 12) • palla consegnata in ala dopo il blocco –dribble wave- (diagr. 13)
• passaggio backdoor per il post sul lato debole (diagr. 14) • passaggio sul gomito per il post sul lato debole e letture della difesa (diagr. 15) • passaggio in ala se il post è marcato sul gomito (diagr. 16)
PASSAGGIO AL POST SUL LATO DEBOLE (backdoor step) Se la punta è anticipata il post sul lato debole fa un taglio flash verso la palla. Appena riceve dall’ala la punta fa un taglio backdoor per ricevere consegnato (diagr. 17).
Se dopo il taglio flash il post è anticipato la punta taglia lo stesso scambiandosi di posto (diagr. 18). Il post può anche fintare il passaggio consegnato e continuare per il consegnato all’ala che sale dal three-men game (diagr. 19).
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PASSAGGIO IN ANGOLO Infine l’ala può passare all’esterno in angolo per poi tagliare in dai e vai con un banana cut mentre il post crea lo spazio per il taglio (diagr. 20). Subito dopo il post corre a fare pick and roll con l’angolo con gli altri che spaziano (diagr. 21 e 22).
OPZIONI SUL PASSAGGIO NUMERO 1
Dopo il passaggio numero 1 all’ala la guardia può non tagliare in angolo sul lato forte, ma scegliere di uscire dall’altro lato (diagr. 23). L’ala cercherà di passare la palla al
Se l’ala non può passare la palla al post può ribaltare alla punta e poi sfruttare un blocco cieco del post che dopo il blocco salterà verso il gomito per un two-men game (diagr. 26).
post per poi effettuare un taglio detto solo cut e/o giocare a due con qualsiasi tipo di collaborazione col post (diagr. 24). Se non riceve va a bloccare per il post sul lato debole o per la punta -tagli split- (diagr. 25).
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ATTACCARE IL PRESSING
I problemi iniziali con questo attacco riguardano le letture da fare contro difese aggressive. A tal riguardo è importante analizzare 2 concetti chiave: • la linea della verità (line of truth) • il momento della verità (moment of truth) La linea della verità è la linea orizzontale immaginaria del difensore sulla guardia con la palla, mentre il momento della verità si verifica quando la guardia in palleggio
arriva a circa un metro dal proprio difensore (diagr. 27). In questo momento tutti i compagni devono lavorare per ricevere la palla coordinando il proprio movimento con l’arresto in palleggio della guardia. Altro concetto chiave è il lag principle: l’altra guardia deve stare circa un metro dietro la guardia con la palla e fungere da “valvola di sicurezza” nel caso l’ala sia anticipata così da formare il triangolo sul lato opposto con un blocco cieco per l’ala anticipata (diagr. 28).
Nel caso anche la guardia sia anticipata si applicherà il blind pig principle con l’ala sul lato debole che effettuerà un taglio flash verso il centro per il
backdoor della guardia e poi con un three-men game (diagr. 29 e 30).
Stesso principio si potrà applicare sul lato forte con la ricezione dopo il flash
del post e poi incrocio o solo cut dopo il backdoor dell’ala (diagr. 31, 32 e 33).
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SPECIAL PLAYS
All’interno di questo sistema d’attacco basato solo su principi e letture possono crearsi dei movimenti preordinati finalizzati alla conclusione o perlomeno alla for-
TAGLIO UCLA, per il pick and roll laterale (diagr. 36 e 37)
DOPPIA USCITA – single/double -, per un tiratore (diagr. 38, 39 e 40)
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mazione del triangolo sul lato forte: 5 FUORI, da usare per azioni a fine quarto o per mis-match sul portatore di palla (diagr. 34 e 35)
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N b a ‘ Te a m
OCCHI PUNTATI SU...
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...US ITATNUP IHCCO
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Atlanta Hawks
DI
S TEFANO C OLAVECCHIA
Nba ‘Team by Team’
Gli Hawks (21-11) di coach Woodson continuano a mantenere la seconda posizione di Division nonostante tre sconfitte consecutive nelle ultime tre gare giocate, prima contro Cleveland (due sconfitte) e soprattutto quella patita davanti al pubblico amico della Philips Arena contro i New York Knicks all'overtime. Grande differenza di rendimento tra quanto mostrato in casa da Atlanta con 12 vittorie e soli 4 stop, ed in trasferta dove le vittorie sono 9 ma le sconfitte ben 7. Fa ancora discutere la controversa sconfitta contro i Cavaliers, patita anche a causa di un evidente errore di
valutazione arbitrale. Il miglior realizzatore degli Hawks nonostante la flessione dicembrina resta Joe Johnson che viaggia a 21.8 punti di media cui somma anche 5 assist a partita, sotto canestro brilla sempre il dominicano Al Horford con 10.1 rebounds catturati. Fino al 13 gennaio calendario fittissimo con 6 partite in programma, si inizia con la trasferta di Miami, poi doppia in casa con Nets e Boston Celtics, ancora fuori contro Orlando e di nuovo Celtics, infine Washington Wizards in casa.
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Miami Heat
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Gli Heat di quest’anno sono una squadra davvero particolari. Soprattutto nel mese di dicembre, si è potuto notare come questo roster abbia chiaro potenziale, ma che troppo spesso questo venga sprecato malamente. La pesantissima sconfitta con la quale gli uomini di Spolestra hanno chiuso l’anno (30 contro gli Spurs), addizionata a quella subita in quel di New Orleans qualche ora prima, mostra la prima faccia degli Heat; troppo Wade-dipendenti, pieni di problemi difensivi e con un’organizzazione offensiva mediocre. La larga vittoria sugli Indiana Pacers del 27 dicembre e le precedenti prestazioni positive contro New York, Utah e, soprattutto Orlando nel derby della Florida evidenziano, invece, una squadra organizzata, non molto competitiva, ma capace di sopperire alle chiare lacune che il roster propone con ordine e disciplina cestistica. A questo punto, la domanda sorge spontanea; quali sono i veri Miami Heat? La risposta è decisamente molto meno immediata. Come detto il potenziale c’è, la squadra ha un vero leader nella quale riconoscersi, Wade, autore sin qui dell’ennesima imperiale stagione; teoricamente, il roster ha pure un secondo violino all’altezza, Beasley che nonostante la discontinuità, comunque ha presentato, rispetto alla stagione passata, parecchi miglioramenti sotto tutti gli aspetti del gioco. Manca comunque qualcosa e questo qualcosa sarà da ricercare, probabilmente, nel mercato dei free-agent, prima della dead-line; attendendo la fine del primo mese dell’anno, che potrà dare delle risposte, specie al termine del tour ad Ovest, sei partite da disputare tra l’8 e il 16 di febbraio.
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DAVIDE M AMONE
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Orlando Magic
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Contro tutti e tutto. Questo verrebbe da dire guardando la formazione della Florida o meglio quello che sta capitando alla formazione della Florida a livello di infermeria. Praticamente i Magic hanno sempre almeno un giocatore presente all’interno della Injured List per qualche giorno, cosi è stato nel corso del mese di dicembre cosi è stato nel corso del mese di gennaio. Il nuovo anno, infatti, non è stato per nulla clemente nei confronti di Orlando, dal momento che negli ultimi quattro giorni di gennaio sono ben tre i giocatori che hanno avuto qualche noia di troppo a livello fisico. Tra quelli che il gennaio del 2010 l’hanno inaugurato non certo con il massimo della salute, ci sono Vince Carter, Rashard Lewis e Matt Barnes. Due su tre, poi, sarebbero anche giocatori da quintetto o meglio quelli che dovrebbero fare la differenza e guidare la squadra alla vittoria in concorso con altri. Senza contare che poi i Magic e Stan Van Gundy hanno dovuto fare a meno di Jameer Nelson per periodi di tempo sparsi qua e la da quando si è alzata la prima palla a due sella stagione, eppure dai un’occhiata al record, dai un’occhiata alla sezione ‘standings’ della Nba o anche quella del sito della città della Florida e leggi 24 vittorie e 9 sconfitte. Un record che fanno dei Magic una delle migliori squadra della Lega con un bottino nel mese di dicembre da fare davvero impressione: quattro solo sconfitte a fronte di ben nove vitto-
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D OMENICO P EZZELLA
rie e tutto tenendo presente la situazione infortuni precedentemente indicata. Cos’altro aggiungere? Beh ovviamente (come se questa fosse la cosa più normale del mondo ndr) la controtendenza al fatto che il ‘Superman’ biancoblù, l’uomo franchigia di Orlando non sia più il primo realizzatore della squadra, visto che per numero di possessi e di tiri il neo arrivato Vince Carter gli è davanti di qualche segnatura. Diciotto e passa la statistica dell’ex New Jersey Nets con 4,9 rimbalzi e 3,2 assist, a fronte dei 16,9
e 13,3 carambola catturate dal Superman della Florida. Nell’uno nel l’altro, però continuano ad essere il vero ago della bilancia di questa squadra, visto che tale ruolo continua a spettare a Rashard Lewis con l’ex Sonics che rivolta come un calzino la storia tattica di Van Gundy. Dulcis in fundo sorprendente la stagione fino a questo momento di Ryan Anderson, arrivato ad Orlando con il chiaro ruolo di specialista dall’arco, con il bianco tiratore che sta viaggiando con 9,7 punti, 3,7 rimbalzi ma soprattutto con il 38% da tre.
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Charlotte Bobcats
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DAVIDE M AMONE
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Ci eravamo lasciati, nello scorso numero, parlando di una squadra discontinua, con una buona base difensiva, ma ancora troppo acerba per raggiungere dei risultati. Ebbene, ad un mese di distanza, circa, la situazione non è cambiata per nulla. I Bobcats di Brown continuano ad alternare ottime prestazioni a sconfitte cocenti. Non si tratta, comunque, di nette vittorie o di L pesanti, visto che lo scarto medio non è mai oltre i 10 punti; semplicemente, molto spesso manca lucidità nei possessi decisivi e i vari Wallace, Felton, Jackson, i 3 leader della squadra, prendono decisioni sbagliate che incidono, decisamente, sul saldo finale W/L. Il gruppo è sicuramente giovane, ma non così tanto da spiegare una tale discontinuità; vi sono comunque dei giocatori presenti già da tempo nell’ambiente NBA, che dovrebbero ritrovarsi in certe situazioni e trascinare, con la propria maturità, gli altri. Parliamo di Boris Diaw e dei tre giocatori già citati sopra; e a questi aggiungiamo Larry Brown, un allenatore che ha sicuramente dato un’importante impronta difensiva, ma che ancora non è riuscito ad infondere una certa mentalità. Il mese di dicembre si è chiuso, manco a dirlo, con una vittoria e una sconfitta; il 28, infatti, i Bobcats si sono imposti sui Milwaukee Bucks, al termine di una partita brillante, 94-84, per poi cadere due giorni più tardi in quel di Toronto, piegati da una tripla di Bargnani a pochi secondi dalla fine. Il mese di gennaio, per Charlotte, sarà sicuramente decisivo per capire quanto questa squadra possa lottare per un posto nei Playoffs; le 6 partite casalinghe consecutive di metà mese, addizionate al primo vero tour ad Ovest, mostreranno parte del carattere del gruppo.
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Washington Wizards
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S TEFANO C OLAVECCHIA
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Più che per i risultati, invero scadenti, i Wizards (10-21) reduci peraltro da quattro sconfitte di fila, fanno notizia per la locker room letteralmente infuocata. Gilbert Arenas e Javaris Crittenton sarebbero persino arrivati a puntarsi contro armi da fuoco nello
spogliatoio dopo una lite, episodio sotto indagine non solo dalla polizia del distretto di Columbia ma anche dalla Nba stessa, che ha precauzionalmente bloccato ogni trade riguardante la franchigia di Washington. Tornando a vicende propriamente sportive, Washington paga la mancanza di amalgama del roster, fotografata dalle 12 sconfitte casalinghe sino a questo punto della regular season. Il ritorno di
Arenas (22.7 punti a partita più 6.9 assist ai compagni) non ha coinciso con un salto di qualità dei Wizards che non hanno, con ogni evidenza, trovato neppure una pacifica convivenza tra loro. Nelle prossime sei partite in programma doppio impegno esterno a Philadelphia e Cleveland, poi Orlando Magic, New Orleans Hornets e Detroit Pistons in casa, infine trasferta in Georgia per sfidare gli Atlanta Hawks.
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Detroit Pistons
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D OMENICO L ANDOLFO
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Mese di dicembre da dimenticare per tutte le partite e inguaia la propria Detroit che fatta eccezione per il match situazione di record, ora sceso a 11-20. con Golden State (pur sofferto) perde I Pistons pagano la carestia di vittorie lontani da casa e una squadra che progettata sulla carta questa estate solo adesso può ricominciare a carburare a pieno organico. Ben Wallace almeno per il fattore rimbalzi sta tornando, Rip Hamilton viaggia a 18 di media e Ben Gordon ha ricominciato a scaldare la mano. In più Jerebko e Villanueva danno sostanza a un reparto lunghi tra i migliori e promettenti, Con questa battuta d'arresto la speranza playoff si allontana e quella che era la sorpresa dell'est adesso mostra effettivamente la sua annata di transizione, ma niente è perduto. Il talento di Rodney Stuckey
guida i compagni con lampi di classe cristallina e sicuramente trovare coraggio per la giovane shooting guard dei Pistons è importante, dato che con 19 punti e quasi 5 assist di media può rivelarsi come un giocatore completo, che ha mezzi importanti anche per la fase difensiva. Da verificare ancora sarà Will Bynum, l'ex Virtus, dal rendimento altalenante ma tutto sommato positivo. Il ritorno di Tayshun Prince darà un altro giocatore di sostanza nelle rotazioni e curioso sarà da vedere quale posizione occuperà sul parquet, dopo i tanti anni tra 2-3 e la passata stagione dove era (con Iverson al fianco) il play della squadra. Acque melmose Pistons, saprete uscirne?
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Philadelphia 76’ers
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La bisbetica domata. Squadra tosta se ce ne è una, ma che se non è in serata perde anche con i derelitti Clippers. Record di 9-22 con ben 5 vittorie arrivate in trasferta, e pensare che di queste nove, ben 4 sono arrivate nelle ultime 10 partite. Inversione di marcia?. L'arrivo di the Answer ha dato maggiore frenesia al gioco, maggiore imprevedibilità, e sono arrivate vittorie prestigiose, come quella al garden contro i Celtics dopo aver preso anche 17 punti di scarto, grazie al super Brand del finale. Oppure la bella vittoriacon Portland e Sacramento, due squadre dell'Ovest in una situazione di back to back, e sicuro due clienti non facili per nessuno (chiedere ai Lakers). Iguodala è il leader di punti e di numeri in questa squadra, il go to guy che risolve le partite
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D OMENICO L ANDOLFO
e fa pentole e coperchi. Thadeus Young è un grande giocatore, forse anche troppo convinto dei suoi mezzi, ma se ha voglia e se gli viene concesso spazio fa sempre la cosa giusta e porta a casa il bottino personale. The Answer si insinua tra i due con 16 di media e 4 assist a notte, un ritorno importante e anche con numeri importanti, che voglia togliersi qualche altro sassolino dalla scarpa? In più quel gran pezzo di giocatore che è Elton Brand,
capace di dominare il verniciato, fare punti e dare concretezza al roster che sul suo totem si costruisce anche per il futuro e per i suoi giovani. Delusione dell'anno è Jason Kapono, incapace di inserirsi e di fare alcunchè. Dovrebbe essere il tiratore principe dei momenti decisivi, invece puntualmente se ci si affida a lui la palla tocca il ferro ed esce e la partita di solito è persa. Cara vecchia e dolce Phila, ma hai ancora un asso nella manica?
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Toronto Raptors
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Dottor Jekyll e Mister Hide della Nba se ce ne una. Una formazione che dovrebbe essere sulla carta una delle prime della classe o quanto meno direttamente dietro a quelle che poi a metà maggio si contenderanno l’accesso all’atto finale e che invece arranca con un record al di sotto del 50%. Alti e bassi per tutta la stagione, alti e bassi per gran parte del tracciato di questa nuova avventura con impossibilità di capire se i Raptors di quest’anno sono o meno la formazione outsider che tutti si aspettavano. Quattro vittorie in 10 partite appena per aprire il mese di dicembre con numeri non certamente e propriamente da outsider per poi mostrare l’altra faccia della medaglia. Sono 5 le vittorie inanellate dai canadesi per chiudere un altalenante mese di dicembre. Cinque exploit che hanno almeno fatto tirare un sospiro di sollievo a coach Triano al quale, anche se non esplicitamente (ma l’11-17 con il quale ha iniziato la striscia non era per niente tranquillizzante ndr) la panca iniziava a surriscaldarsi. Certo guardando il calendario delle ultime cinque partite verrebbe da storcere un po’ il naso ed essere ancora al quanto diffidenti dal dire che Toronto abbia trovato la strada giusta, visto che gli avversari diretti non sono certo stati formazioni di alto vertice se si esclude il valore assoluto dei New Orleans Hornets tra l’altro battuti all’Air Canada Center. Quello contro Chris Paul e compagni, infatti, è stato solo ed esclusivamente uno dei quattro successi casalinghi dei canadesi che hanno giocato tra il 18 ed il 30 di dicembre una sola volta in trasferta ed in casa dei Detroit Pistons guidati da un ottimo Andrea Bargnani. Una striscia, quindi, da prendere con le molle e con non molto entusiasmo, anche se si sale vittorie sono sempre la miglior cura dei mali sportivi. Cinque vittorie in fila che hanno consegnato alla ribalta dei media canadesi anche Chris Bosh. Colui che per anni è stato l’uomo franchigia e che al termine di questa stagione potrebbe anche non esserlo più, è stato il miglior marcatore in tre delle cinque vittorie (con il massimo proprio il 30 dicembre contro Charlotte a quota 33) e miglior rimbalzista in quattro delle stesse 5 affermazioni (13 il massimo di palloni recuperati sotto le plance) per un fatturato di 19,5 e 11 carambole catturate nello stesso periodo di riferimento. In totale per l’ex Georgia Tech sono 23,8 e 11,3 rimbalzi totali. Però il problema sembra essere sempre lo stesso e cioè nella propria di metà campo. Già perché con esclusione della disfatta più per demeriti degli altri, i Pistons, che per meriti dei Raptors con 65 punti subiti, la truppa di coach Triano ha continuato a concedere almeno 90 punti agli avversari. Bene quando riesci a mettere il classico tiro in più in pieno stile Don Nelson, ma quando non ci riesci i punti subiti iniziano a pesare ed anche un bel po’ sul groppone di Bosh e compagni. ANDRE A BARGNANI . Non il migliore mese per il Mago Andrea Bargnani tanto per usare un eufemismo. Il 2009 si chiude con numeri non certamente paragonabili a quelli a cui il romano ex Benetton aveva abituato i suoi tifosi in Canada e nel Belpaese. Quale la causa? Beh una mano al quanto fredda da dietro l’arco dei tre punti. Ventotto per cento la statistica da lontano per la prima scelta assoluta del 2006 che con qualche canestro sbagliato di troppo ha visto scendere a 15 la media in tutto il mese di dicembre, che a quanto pare non sembra essere in assoluto il mese preferito dall’ita-
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liano (di 16,9 la statistica del solo mese di novembre ndr). In calo anche il numero di rimbalzi catturati e piccolo passo indietro dopo che l’italiano con gli oltre 6 carambole catturate di media nel mese di novembre, aveva dimostrato di essere migliorato e non poco in questo fondamentale. Attualmente il computo è sceso a quota 5,8 per allacciata di scarpa nel 2009. Ormai si va verso il nuovo anno inoltrato e la speranza è che il ‘Mago’ possa ritrovare mano dalla distanza e smalto sotto i cristalli. MARCO BELINELLI. Continua regolare su quello che è il filo condutture dall’inizio di stagione, la corsa di Marco Belinelli alla prima vera occasione da giocatore fondamentale nella Nba. Coach Triano continua ad impiegarlo come rimpiazzo, come partente dalla panchina e come giocatore di nicchia, come specialista invece che allaround come lo stesso ex Fortitudo si sente dentro
e fuori. Non per fare i soliti italiani, ma le dichiarazioni di inizio stagione di ‘Beli’ («Sono un giocatore che rende ad alto livello quando ha la palla in mano») non hanno ancora trovato una piena affermazione e non solo per fatto riconducibile al talento di San Giovanni in Persiceto. I numeri continuano ad essere quelli di sempre ovvero una ventina di minuti a partita, 7,3 punti (cifre che tra la fine del mese di dicembre e l’inizio di gennaio sono state mantenute solo grazie alla enorme precisione dalla charity line del bolognese che invece ha litigato con il ferro in più di qualche occasione spadellando un 5/22 dal campo nelle ultime tre partite), 2 rimbalzi e 1,6 assist che restano in alcune occasioni delle gemme rare da gustare a tutte le ore. Insomma tutto normale, in attesa che il 2010 sia un anno migliore specialmente per l’esterno della nazionale italiana.
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N e w Yo r k K n i c k s
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Natale negativo per i Knicks di D'Antoni, che giocano male, fanno tutto male e regalano solo dispiaceri ai loro tifosi. Ciliegina sulla torta di fine anno la sconfitta contro i Nets il che è tutto dire. Squadra abulica, cinica, involuta, spesso affidata all'egoismo di Harrington, e con il folletto Robinson ancora in punizione. Il gallo non canta più come ad inizio stagione va a serate e spesso una sua prestazione positiva coincide con la vittoria. Giù il cappello invece di fronte a sua maestà David Lee che piazza doppie-doppie a ripetizione e guida i suoi con costanza e talento. E' la vera anima di una squadra capace di raccogliere vittorie solo con squadre in crisi come Chicago e Clippers (tra l'altro senza non soffrire) o contro franchigie falcidiate dagli infortuni e
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ridotte all'osso (charlotte e Portland). La filosofia di D'Antoni si è imposta a questo gruppo e il 5-5 nelle ultime 10 forse dice anche qualcosa, ma c'è ancora da lavorare perchè con un 12-20 di record non c'è troppo per gioire. Detto di Lee e del suo onnipresente contributo, cresce un po' anche Duhon specie in cabina di regia, che regala assist e sa anche trovare la via del ferro se è in serata. Stabile il duo di Wilson Chandler e Jered Jeffries, in cre-
scita, ma destinato probabilmente a cambiare aria nella prossima estate. Gallinari invece continua a essere il tiratore da tre che solo a tratti fa vedere quelle doti dal palleggio che incantavano in Italia. Nell'occhio del ciclone, sperando nella vena di gente come Hughes e Harrington , non certo gli ultimi arrivati, si attende la fine della tempesta del 2010, per arrivare nella prossima stagione a lottare con le big.
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New Jersey Nets
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- Parlare di questa squadra diviene sempre più complesso. La pochezza tecnica, fisica, psicologica, atletica e mentale dei New Jersey Nets si fa, via via, sempre più imbarazzante. Nonostante tutto ciò, una piccola soddisfazione è riuscita a prendersela anche la squadra peggiore della Lega, con la vittoria ai danni dei cugini dei New York Knicks; un’imposizione sofferta, arrivata il 30 dicembre, 104-95. Un successo che ha spezzato l’incantesimo di sconfitte che stava continuando ad incombere sulla testa di New Jersey, arrivato a quota 8 consecutive anche nel mese di dicembre. D’altro canto, però, il 2010 è iniziato seguendo l’impronta del precedente anno solare; si è trattata di sconfitta, infatti, 94-85, contro la regina ad Est
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dei Clevelans Cavs. Molto altro non si può dire, di un roster che si dimostra, match dopo match, sempre più inadatto al livello in cui gioca, nonostante la presenza di giocatori di valore come Devin Harris e Lopez; specie il secondo, che sta disputando una stagione assolutamente mostruosa. Cosa propone, dunque, il mese di gennaio?Beh, parlare di calendario più o meno facile mi pare inutile,
visto anche l’approccio, quasi sconsolato, con cui entrano in campo i giocatori dei Nets; senza dimenticare, ovviamente, che la strategia piuttosto affermata dalla dirigenza di New Jersey, oramai, è quella del tanking. Una scelta piuttosto logica per una stagione d’inferno, sinora inconcludente (ben 30 sconfitte) e che non potrà dare alcun tipo di soddisfazione, nonostante il basso livello ad Est.
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Cleveland Cavaliers
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In assoluto la miglior formazione in questo momento di tutta la Nba. Al di la dell’oceano sono tanti gli addetti ai lavori, tanti i media che si sbizzarriscono a mettere assieme classifiche o se vogliamo i classici ‘power ranking’ ed altrettanti fino a questo momento, per questa stagione, nessuno aveva mai messo il nome della franchigia dell’Ohio al di sopra del quarto posto e dietro a quelle che sono le rivali più fondate per arrivare fino alla fine tra Est ed Ovest. A quanto pare, però, Lebron ha ancora una volta girato la ruota e non della fortuna, e grazie ad una scorpacciata di vittorie nelle ultime 10 partite finalmente il primato assoluto nelle varie liste tanto amate in America è arrivato inesorabile. Certo è solo questione di giudizi di addetti ai lavori o solo un tantino di gloria di essere considerati la formazione numero uno in quel determinato momento, ma il tutto ha avuto una svolta di un certo valore proprio nel giorno di Natale.
Allo Staples Center i Cavs e Lebron James hanno dimostrato che questa considerazione, al momento, non è solo frutto di numeri e di sette vittorie in 10 partite, ma dimostrazione di un gruppo che centimetro dopo centimetro, che passo dopo passo, sta dimostrando di trovare quella chimica giusta per arrivare fino in fondo. Come Greg Popovich, suo maestro e mentore, è abitudine anche di Brown mischiare le carte, provare a vedere nella prima parte di stagione, quella che generalmente si chiude alla pausa dell’All Star Game, per poi puntare su quello che è stato l’assetto migliore nei primi quattro mesi di regular season. Il primo esempio lampante? Ovviamente l’inserimento in quintetto di JJ Hickson che era un po’ sparito sia di rendimento che di minuti per qualche tempo e rispolverato anche dal punto di vista psicologico dal timoniere dei Cavs. Ovvio che l’impiego di Hickson va preso con le molli sia perché è una mossa tattica che dura poco più che una manciata di minuti ed in secondo
luogo perché nella seconda parte ci sarebbe da inserire pur sempre Leon Powe proveniente dai box. Ma il gran parte del lavoro sembra essere già stato fatto con i cambiamenti di quintetti ed adeguamenti alle avversarie cosi come è accaduto con i Lakers a Natale. Allo stato attuale è Shaquille O’Neal il termine di paragone principale. Due diverse squadre con lui e senza di lui in campo. Due diverse Cleveland con quella da corsa che al momento sembra essere quella più devastante per poi alternare quella di potenza con The Big Diesel chiamato in Ohio appunto per questo. Per i numeri che hanno determinato gran parte delle 24 vittorie e forse anche delle 8 sconfitte, bussare alla porta del 23 che gira al momento con 28,9 punti, 7,1 rimbalzi e 7,9 assist per un giocatore che sembra aver ‘rubato’ il talento di altri giocatori dei tempi addietro cosi come accadeva nel film di Michael Jordan, Space Jam.
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Chicago Bulls
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E’ stato un mese di dicembre particolare per gli uomini di Winny Del Negro. Le ultime 2 vittorie del 2009, contro Indiana il 29 dicembre (104-95) e Detroit il 31 (98-87), di certo non salvano una prima parte di stagione giocata in maniera mediocre, con molti alti&bassi, nella quale il leader del gruppo, Derrick Rose, non ha fatto quell’upgrade che tutti si aspettavano. I Bulls saranno probabili protagonisti dell’ultimo mese e mezzo, visto che, a causa della discontinuità di gran parte degli interpreti principali, probabilmente si butteranno sul mercato; ci riferiamo a Kirk Hinrich, l’ex Kings Salmons e Luol Deng. Come detto precedentemente, inoltre, lo stesso Rose, imperioso protagonista dei Playoffs 2009, non ha mostrato
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quella costanza di rendimento che tutti, nello staff tecnico dei Bulls, si a s p e t t a v a n o . Il record di 13-17 con il quale è terminato un anno 2009 iniziato male, proseguito con uno spiraglio di speranza a maggio e finito con una pacata rassegnazione alla poca competitività, per ora pone i Bulls in zona Playoffs; una parziale soddisfazione per un ambiente che forse potrà essere protagonista
verso aprile-maggio solamente a causa della bassa concorrenza ad Est. Anche per Chicago, gennaio è un mese fondamentale, di mezzo tra la prima parte di transizione e quella che immette nel periodo più importante della stagione; anche gli uomini di Del Negro saranno impegnati in un tour di trasferte importante, che darà indicazioni fondamentali sul carattere di questo roster.
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Milwaukee Bucks
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Una squadra, quella di coach Skiles che aveva iniziato così bene e che, in questo momento, sta attraversando un periodo di transizione, nel quale sia i risultati, sia il gioco offensivo espresso sono decisamente al di sotto della sufficienza. Le 4 sconfitte con le quali Milwaukee ha chiuso il mese di dicembre sono la chiara dimostrazione di tutto ciò; i cali di Jennings e di Bogut, la discontinuità di Michael Redd hanno complicato le cose ai Bucks, che sono usciti sconfitti dal campo sempre in maniera netta e, talvolta, pesante (vedi, ad esempio, il 117-92
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contro gli Orlando Magic). Vista la bassa competitività della Eastern Conference, però, i Bucks possono permettersi comunque questi cali, senza compromettere la lotta per i Playoffs; pur avendo un record molto al di sotto del .500, infatti, Milwaukee ha dimostrato di saper stare nella zona calda in griglia e l’attuale ottavo/nono posto permette a questo roster di sognare di giocare fino a fine aprile, cosa
che non accade da troppo tempo ormai. Crocevia del mese di gennaio, il tour ad Ovest di ben 6 partite e, guardando anche a febbraio, si può notare come il giocare in trasferta sarà un fattore assolutamente fondamentale; ancor di più se si considera la pochezza di questa squadra lontano dalle mura amiche (i Bucks hanno chiuso il 2009 con 3 vittorie in 14 partite disputate lontano dalle mura amiche, infatti).
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Indiana Pacers
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Il finale del 2009, per i Pacers, è stato assolutamente da dimenticare. Sono state ben otto le sconfitte consecutive che hanno chiuso il mese del dicembre (dal 18, ndr) e per la maggiore contro squadre dal livello mediocre. Il 2010 è iniziato già in maniera migliore, vista la vittoria del 2 gennaio ai danni dei Minnesota T’Wolves (122111 il finale), giunta grazie ad un’ottima prova di squadra. Ma si tratta di una W che non cambia la vita ad un roster che prometteva tanto bene, ma che ha incredibilmente deluso le aspettative; nella striscia di 8L conse-
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cutive si è potuto notare uno scarso impegno da parte dei giocatori, che affrontavano i match con troppa leggerezza, specie in fase difensiva. Questo si è decisamente ripercosso sui risultati, come i numeri affermano. Il record di 10-22, con il quale è stato chiuso l’anno e che vale l’ultimo posto della Central Division ad Est, è chiaro segno di come la stagione dei Pacers abbia solcato una falsariga
molto diversa da quella che sarebbe potuta essere, visto il potenziale della maggior parte degli elementi presenti e vista la qualità di alcuni dei giocatori. Gennaio rappresenta un mese difficile ma non così improponibile, tuttavia; certo è che il piglio con il quale questa squadra entra in campo dovrà necessariamente cambiare, per ottenere risultati concreti.
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Por tland Trailblazers
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La buona stagione dei Blazers (22-13 con quinta posizione in Conference) non smette di essere bersagliata dalla sfortuna. A fermarsi stavolta sono Lamarcus Aldridge (che finora ha tirato con il 71%
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da tre punti) con un problema alla caviglia accusato durante la vittoriosa performance contro i Clippers, e Steve Blake, che è finito in ospedale nei giorni di Capodanno per una sospetta polmonite. Sfortuna a parte Portland continua a sorprendere per la capacità di bypassare ogni assenza e trovare nuove energie: negli ultimi sei incontri disputati 5 successi ed un'unica sconfitta a Philadelphia.
Se l'infermeria non accenna minimamente a svuotarsi, il calendario sembra poter essere favorevole ai Blazers, che dopo la trasferta allo Staples Center per affrontare i Clippers giocheranno cinque partite consecutive in casa contro Memphis, Lakers, Cavaliers, Milwaukee Bucks e Orlando Magic. Leader indiscusso della squadra sempre Brandon Roy con 23.3 punti e 5 assist di media a partita.
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Dallas Mavericks
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Buon momento per i Dallas Mavericks (23-10) che con quattro successi nelle ultime sei gare disputate hanno conquistato il
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secondo posto nella Western Conference preceduti solo dai Lakers detentori dell'anello. Dirk Nowitzki, dato da troppi commentatori come un atleta già in parabola discendente alla fine degli scorsi playoff, sta trascinando i suoi con 25 punti di media a serata, rilevante anche il dato dell'altro vecchietto dei Mavs, Jason Kidd, che sforna 8.9 assist a partita. L'ingresso di Barea in quintetto base ha portato benefici alla circolazione di palla di Dallas e tutto
lascia presagire che, nonostante il ritorno dall'infortunio di Josh Howard, coach Carlisle non cambierà per ora la composizione dello starting five. Smentite anche le voci che volevano i texani interessati a rafforzare il roster con l' acquisizione di Tracy McGrady dai Rockets. Prossime 5 gare particolarmente impegnative con un doppio impegno contro i Lakers inframezzato dalle partite con Pistons, San Antonio Spurs ed Utah Jazz.
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Houston Rockets
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Questi Houston Rockets sorprendono sempre di più; si, perché gli uomini di Adelman venivano considerati, ad inizio stagione, come una squadra da lottery. Falcidiata per l’ennesima volta dagli infortuni di Yao Ming e Tracy McGrady (ora ripresosi lentamente ma in dichiarata partenza), Houston sta giocando ugualmente un basket pulito, lineare, semplice ed efficace. Il record di 20-13, con il quale i razzi hanno chiuso il 2009 è più che soddisfacente per tutto l’ambiente; si tratta di una squadra che sa giocare a basket insieme, che non si arrende davvero mai e che disputa ogni partita con attributi e voglia. Un mix di puro talento
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(Aaron Brooks e e Lowry su tutti), atletismo (Trevor Ariza e Landry) e QI cestistico elevato (Battier e Scola), che sta dando ottimi risultati, anche se non con le “Big”. Dati alla mano, le ultime sconfitte di Houston sono arrivate con Denver, Orlando e Cleveland; segno di come i Rockets facciano fatica ad imporsi con le grandi. Solo contro i Mavs, attualmente secondi ad Ovest, Houston si esalta sempre. A conferma di ciò, la brillante prestazione con la quale si è concluso l’anno solare 2009; una
W, 97-94, arrivata al termine di una partita perfettamente gestita per tutti i 48’ e che ha visto Brooks grandioso protagonista. Per coach Adelman ed i suoi si prospetta un gennaio importante, non tanto per il quoziente di difficoltà dei match che il calendario propone, quanto per un fatto psicologico; dare continuità di rendimento, per questi Rockets, significherebbe porsi tra le grandi ad Ovest, e quindi, migliorare la già più che discreta settima piazza in griglia Playoffs.
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San Antonio Spurs
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Gli uomini di Gregg Popovich hanno finalmente ingranato la marcia. Quattro vittorie consecutive per chiudere un 2009 troppo privo di soddisfazioni e 7 delle ultime 9 portate a casa. Dopo un lungo e complesso mese di novembre e un dicembre iniziato male, Duncan e compagni hanno dato una svolta alla propria stagione, vincendo con molta serenità e mantenendo un totale controllo mentale e psicologica sulle partite. Insomma, il ritorno dei vecchi Spurs, quelli di una dinastia non ancora completamente chiusa, che vuole provare a vincere in questo 2010. L’inserimento di Richard Jefferson negli schemi e nell’ambiente nero-argento prosegue bene; l’ex Nets pare stia trovando
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DAVIDE M AMONE
una propria dimensione cestistica e sembra abbia capito quando può forzare e prendersi responsabilità e quando no. Tim Duncan, invece, sta proseguendo a marce alterne, amministrandosi quando e dove può, senza mai far mancare, comunque, il proprio contributo alla causa; Manu Ginobili, invece, la cui continuità ed esplosività è chiaramente diminuita a causa degli innumerevoli infortuni degli ultimi anni, sta dando segni di ripresa dopo un
mese di novembre molto difficile e e la tripla-doppia sfiorata nel match vinto contro i Minnesota T’Wolves (vinto 95-78, il 29 dicembre) è uno dei segni della sua ripresa. Gli Spurs stanno fronteggiando un mese di gennaio difficile ma non impossibile; il primo incontro stagionale con i Los Angeles Lakers e le 4 trasferte consecutive tra il 13 e il 18 sono i punti più caldi di una parte della stagione che ci farà capire molto di questa squadra.
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New Orleans Hornets
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S TEFANO C OLAVECCHIA
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Gli Hornets (15-16) si confermano squadra dai due volti: praticamente infallibile in casa con un record di 13-3 e una catastrofe in trasferta dove hanno ottenuto
solamente 2 successi a fronte di 13 sconfitte. Non bastano i numeri strepitosi di Chris Paul (20.4 punti con il 46% da tre punti cui aggiunge 10.5 assist e 2 steals a partita) a dare continuità di rendimento a New Orleans (che naviga appena in undicesima posizione di conference) la cui situazione è aggravata dalla precarietà finanziaria del team. Si fanno sempre più insistenti le voci secondo le quali gli Hornets saranno
costretti entro la scadenza del 18 febbraio a cedere David West in modo da restare al di sotto della soglia della luxury tax, intanto la trade per Devin Brown con i Minnesota Timberwolves pare essersi definitivamente arenata. Prossime cinque gare che si prospettano in salita per gli Hornets dato che ben quattro sono in esterna: Utah ed Oklahoma City, match interno con i New Jersey Nets, poi Wizards e Philadelphia 76ers per chiudere il ciclo di trasferte.
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Memphis Griz zlies
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Tre successi consecutivi (cinque le vittorie negli ultimi sei incontri disputati) in cui spiccano le vittorie in esterna contro i Pacers e il 128-103 rifilato a domicilio ai Phoenix Suns hanno riportato i Grizzlies (16-16) a quota .500 ed
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S TEFANO C OLAVECCHIA
in decima posizione assoluta nella Western Conference appena davanti agli Hornets. Soprendente la solidità mostrata da alcuni elementi del roster Grizzlies, su tutti Zach Randolph che viaggia a 20.2 punti e 11.4 rimbalzi a partita. Dall'infermeria arriva qualche grattacapo per Rudy Gay (20.8 punti di media) costretto a fare i conti con un problema alla caviglia sinistra; sul versante delle trade il team ha negoziato la
risoluzione del contratto con Marko Jaric (mai impiegato sin qui in stagione) che si è accasato al Real Madrid, mentre dopo un iniziale interesse per Von Wafer, la trattativa è stata lasciata cadere dalle parti anche per l'inserimento degli Houston Rockets. Ancora due trasferte a Portland e sul parquet dei Jazz prima di ospitare di nuovo Utah in casa e gli impegni con Bobcats, Clippers e Timberwolves
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Denver Nuggets
Nba ‘Team by Team’
Dieci giorni di fine dicembre che hanno definitivamente messo in chiaro chi è il braccio armato e chi la mente, chi l’ago della bilancia, chi è il giocatore chiave di questi Denver Nuggets. Per il primo la parte dedicata alle ‘Stats’ di qualsiasi tipo di sito che riguardi il mondo della pallacanestro a stelle e strisce e nello specifico dei Denver Nuggets non necessita di troppe indicazioni o di troppe presentazioni. La mano più rovente in Colorado e anche di tutta la Nba resta quella di Carmelo
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D OMENICO P EZZELLA
Anthony. L’ex Syracuse, infatti, continua nel suo momento d’oro dal punto di vista realizzativo restando al di sopra dei 30 punti di media per quella che sembra essere la stagione del primo titolo personale di ‘Melo’ ovvero quello che per tanti anni è stato di Allen Iverson. Ma a quanto apre i 30 a ‘botta’ di Anthony sembrano non bastare o meglio non sono tanto utili alla causa dei Nuggets quanto la presenza in campo di colui che poi dal suo arrivo nella città natale ha girato il tutto come una frittata. Ovviamente anche in questo caso non c’è bisogno di nessuna presentazione e di nessuna indicazione dal momento che il nome ed il cognome è quello di Chauncey Billups. Una sola presenza in dieci giorni, quelli che hanno chiuso il mese di dicembre ed il 2009 della truppa di coach George Karl che hanno incassato un sonoro 1-6 in termini di record che ha fatto accendere più di un campanello di allarme tra le montagne rocciose del Colorado. La vittoria contro gli Hawks, arrivata tra l’altro proprio
senza Billups, sembrava aver gettato acqua sul fuoco, prima però della raffica giunta e coincisa con il mini rientro a Natale nella sconfitta contro i Blazers (10 punti ma 20’ di impiego ndr) e proseguire con le altre due in fila del 27 e del 28 contro Dallas e Sacramento, con quest’ultima che desta più di qualche perplessità. Una mancanza di ossigeno che fanno di Denver una squadra che più che Carmelo dipendente (tra l’altro anche Anthony non è stato esente da qualche giorno ai box per problemi vari ndr) è Billups dipendente. Se poi a tutto questo ci aggiungiamo il discorso lunghi e la mancanza di talento puro e in grado di girare l’inerzia e spostare gli equilibri di una franchigia, come il duo Anthony-Billups, allora il quadro generale e il piccolo momento di defaillance è presto spiegato. Insomma per mantenere inalterato il ruolo di antiLakers i Nuggets hanno bisogno del mosaico al completo, altrimenti i playoff saranno solo vetrina senza nessuna velleità.
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Phoenix Suns
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D OMENICO P EZZELLA
Nba ‘Team by Team’
Un mese di dicembre che definire disastroso e al di sotto delle aspettative è dire veramente poco. Dopo aver brillato come cosi come il sole nella bella stagione in isole tropicali, tra l’altro cosi come dimostra anche il logo della formazione dell’Arizona, il cielo di Phoenix è diventato un ammasso di nubi nere come la notte. Nubi che hanno portato nove sconfitte, nove stop che stridono come la più classica delle unghiate su di una lavagna con il 14-3 di inizio stagione. Sette le vittorie ed un record generale che si è prati-
camente quasi livellato. Un calo di tensione? Un calo fisico? (in tanti nel periodo dell’accelerazione iniziale non avrebbero scommesso che i Suns sarebbero arrivati fino in fondo con quel ritmo ndr). Come al solito nessuno lo saprà mai, quello che invece che si sa è che il mese più pesante di questo campionato è ormai alle spalle cosi come un inizio di stagione che aveva riportato in auge, per un momento, il nome ed il bel gioco della Phoenix di qualche tempo fa.
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Oklahoma Cit y Thunder
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D OMENICO L ANDOLFO
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I Bad boys sono arrivati. Da squadra materasso della passata stagione a squadra che mette paura a chiunque. Una strisci vincente sotto natale impressionante. Arrivano le sconfitte solo fuori casa con Lakers e Rockets, poi solo vittorie, Phoenix, Charlotte, Nets e Washington cadono al cospetto di Durant e soci. Che bella squadra, giovane, dal gioco frizzante che cresce di anno in anno e regala gioie agli ex tifosi dei sonics. Tante le "stelle" sul piatto. KD è probabilmente il giocatore più straordinario: senza un ruolo definito, sa fare tutto, attacco, passaggio e difesa e tutto alla perfezione: 30 punti di media, 7 rimbalzi e 3 assist per un leader dentro e fuori dal campo. Il "35" in maglia biancoazzurra è arrivato finalmente alla sua consacrazione Nba e scriverà ben presto il suo nome nel ristretto circolo dei magnifici. Chissà che con un innesto l'anno prossimo questa squadra non possa arrivare alle grandi. James Harden è sicuramente il rookie più apprezzato di quelli che non si chiamano Jennings o Grant; se leggete i suoi numeri non vi stupiranno, ma se avete l'opportunità di vederlo in partita è qualcosa di assolutamente incredibile. Tutto lavoro oscuro, deflection, aiuti
difensivi, passaggi smarcanti e grande lettura di gioco che per un rookie è cosa difficile: segnatevi questo nome arriverà in alto. E poi che dire del duo Westbrook Green, un mix per i due di genio e sregolatezza, ancora contenuto in un'età molto bassa, che garantisce punti e assist per il piccolo da Ucla, e punti e rimbalzi (nonchè atletismo) per il giocatore al 4^ anno tra i pro. In mezzo alla banda di rookie e sophomore o giù di lì, si insinua Nenad Krstic giocatore dimenticato dai Nets e
che dal suo arrivo ai Thunder ha fatto benissimo guadagnandosi spazio e numeri. Poi completano il roster due giocatori molto bravi, che in una squadra senza ambizioni possono fare bene: Sefolosha, ex Biella, che sa fare buone cose nei minuti concessigli e credeteci, interesserà a molti, e poi il grande Shaun Livingston che ancora alla ricerca della forma perfetta, prova a dare il suo contributo. Il record dice 17-14 (9-7 on the road!) quindi attenti a non essere colpiti dalle saette.
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U Utta ah h JJa az zz z
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UTAH JAZZ – Gli uomini di Jerry Sloan hanno terminato l’anno con uno dei mesi più difficili per loro, calendario alla mano. Sì, perché le 7 trasferte nelle ultime 8 partite rappresentano un importante punto di riferimento per capire che tipo di squadra possono rappresentare gli Utah Jazz versione 2009/10. Ebbene, le indicazioni non sono totalmente positive, perché parlano di una squadra troppo, troppo discontinua, che nella competitiva Western Conference fatica addirittura a raggiungere i Playoffs. Il roster è lo stesso
dei tempi d’oro, nei quali la squadra di Salt Lake City si giocava le WFC contro i San Antonio Spurs; la differenza, però, sta nella mentalità e nell’approccio con cui i Jazz affrontano le partite. Alcune delle sconfitte del mese di dicembre sono stupide per come si sono verificate, perché arrivate contro squadre decisamente mediocri e sicuramente battibili. L’anno 2009 non si è concluso benissimo per gli uomoni di Sloan; il match contro gli Oklahoma City Thunder, infatti, si è conclu-
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so con una sconfitta, molto tirata, decisa da un canestro di Kevin Durant. Si trattava di una partita particolarmente importante, visto che i Jazz, al momento, si contendono proprio con Oklahoma City l’ottava ed ultima piazza ad Ovest per i Playoffs. Il mese di gennaio sarà caratterizzato da innumerevoli match casalinghi, che dovrebbero, in linea di massima, migliorare un po’ il record di questo gruppo, che storicamente, concentra gran parte delle proprie fortune nelle partite giocate tra le mura amiche.
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Minnesota T’Wolves
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Almeno in chiusura di 2009 un piccolissimo sorriso ed una piccolissima soddisfazione è quanto meno arrivata. Cinque vittorie nel mese di dicembre dopo averne messo assieme appena due dall’opening day contro i New Jersey Nets (tra l’altro proprio i Timberwolves furono la formazione che diede il là alla striscia più lunga di sconfitte della franchigia del New Jersey ndr). Quattro successi di cui due contro gli Utah Jazz in quelli che potremmo definire dei veri e propri exploit. Sacramento, ancora i Nets e l’ultima in termini temporali, quella del giorno di Santo Stefano con i controversi Washington Wizards. Alla fine il computo totale ed il record dei ‘lupi’ del freddo stato del Minnesota dice appena sette successi e 26 sconfitte e all’orizzonte ancora una stagione deludente e quanto meno fallimentare dopo i brevi momenti di fasto del ‘regno’ Garnett. La peggior stagione della franchigia, la scorsa, a quanto pare non è riuscita a portare quel pizzico di sprint e talento in più per rovesciare la questione cosi come per esempio è capitato ad altre formazioni. Johnny Flynn, infatti, l’unico rookie di un certo valore e di un certo spessore (l’altro Ricky Rubio è in Europa a spiegar ‘baloncesto’ in maglia blaugrana ndr). Tra l’altro per l’ex Syracuse non è mai stato un problema mettere punti a bersaglio cosi come ha sempre dimostrato nella sua carriera universitaria. E a Minnesota, dove certo nessuno si aspettava che potesse rivoltare la squadra come un calzino immediatamente e subito (anche perché non è certo suo il ruolo di uomo franchigia ndr) il piccolo grande uomo ex ‘Orange’ sta viaggiando a cifre niente male con 14,2 punti, 4 assist e 2 rimbalzi di media piazzando il suo nome immediatamente
dietro alle due colonne portanti di questa squadra in senso tattico e dal punto di vista societario anche della franchigia: Al Jefferson e Kevin Love. L’ex Boston è il miglior realizzatore della squadra ed il secondo miglior rimbalzista con 17,3 punti segnati e 9 spaulding tondi catturati nelle tonnare dei vari campi Nba. Meglio di lui solo il figlio d’arte, altro pezzo pregiato proveniente dal Draft non di quest’anno ma di due anni fa. Sono 12,7 i palloni recuperati dalla spazzatura per Kevin Love che uniti ai 15 di una mano fatata dalla media e vicino a canestro, ne fanno uno dei migliori giocatori di
doppia-doppia dell’intera Nba. Terzetto, quest’ultimo, dietro al quale ci sono solo altri due giocatori in doppia cifra e cioè Corey Brewer (12,1 e 4 assist e una delle note positive di tutta la baracca ndr) e Ryan Gomes che scollina al di sopra degli 11 a sera con 5 rimbalzi. Dopo di che una sorta di terreno altalenante che va dagli 8,1 e 2,9 assist di un deludente Ramon Session che dopo la vetrina ai Bucks e dopo il contratto trovato in Minnesota, sembra aver rimesso in faretra arco e frecce, fino ad arrivare ai 3,8 di Nathan Jawai per quanto riguarda giocatori con minimo 24 partite.
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Los Angeles Lakers
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I Campioni NBA in carica hanno concluso l’anno in maniera traballante e iniziato il 2010 seguendo la medesima falsariga. Sino al match di Natale, la stagione gialloviola proseguiva con una qual certa tranquillità; 10 vittorie su 11 partite disputate nel mese di dicembre. Ma la cocente e meritata sconfitta contro i Cleveland Cavaliers del 25 dicembre ha dato inizio ad un momento difficile, il primo stagionale; da allora, tre vittorie lottate fino alla fine e una pesante sconfitta in quel di Phoenix. La fortuna dei Lakers, però, si chiama, come sempre, Kobe Bryant; sì, perché il n° 24 gialloviola è stato decisivo sia nella vittoria a Sacramento del 26 dicembre (secondo Overtime spaziale per lui), sia nell’ultimo match dell’anno 2009 contro i Warriors (44 punti e 11 assist); senza dimenticare che, piccolo particolare, nella prima partita del nuovo anno solare, con un incredibile buzzer beater, il terzo in un mese (dopo Miami e Milwaukee), ha deciso il
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match casalingo contro Sacramento (W 109108, l’1 gennaio). Un giocatore che ha mostrato di aver raggiunto una maturità cestistica, una serenità e un’incredibile consapevolezza nei propri mezzi che mai aveva avuto prima. Un leader che ha dovuto guidare una squadra priva di Ron Artest nelle ultime 4 partite, a causa di una lieve commozione cerebrale. Oltre a Kobe, il periodo fatto di alti&bassi, non propone tanti altri nomi da ricordare, vista la discontinuità di Gasol, i
peggioramenti di Bynum, l’apatia di Odom e la poca incisività di una panchina che dovrà, necessariamente, essere rafforzata prima dead-line. della Gennaio rappresenta per i Lakers, il mese crocevia della Regular Season 2009/2010; a testimoniarlo, il re-make delle ultime Finals, contro i Magic, il giorno 18 ma, soprattutto, il lungo tour ad est, nel quale i gialloviola incontreranno Cleveland e Boston e con il quale si chiuderà il mese.
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Los Angeles Clippers
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D OMENICO L ANDOLFO
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Miracolo di Natale allo Staples Center: quando a pochi secondi dalla fine del match con i Celtics, avanti di due, Rajon Rondo andava in lunetta, in molti sugli spalti pensavano che era stata solo una grande partita dei losangelini, una grande prestazione contro una franchigia di valore indiscusso; ma lo 0/2 del playmaker in maglia verde e la magia di Baron Davis sulla sirena, hanno regalato una insperata vittoria alla squadra più sfortunata della città degli angeli. E' un periodo tutto sommato buono per i Clippers che con il loro record di 13-18 li colloca a metà della Western Conference, in mezzo a tutte quelle buone squadre che vogliono farsi notare. Il valore assoluto Kaman, che ne piazza 20 a serata, l'efficienza a rimbalzo di Camby, e l'estro del "Barone" sono le armi tattiche di un gruppo che ha in Gordon e Thornton le speranze per il futuro e ancora vuole aspettare il suo rookie Blake Griffin da tempo ai box per infortunio. Difficile trovare una collocazione per questa squadra, che in casa fa conto pari (8-8) mentre fuori spesso non riesce a trovare il bandolo della matassa. Le belle vittorie con Washington e
Philadelphia fanno sperare in positivo, e se dovesse arrivare qualche altro colpaccio inaspettato contro una delle Big allora la situazione per i rossoblu potrebbe diventare interessante. Molto dipenderà anche dalle percentuali di chi completa questo roster, come i vari Rasual Butler e Ricky Davis. Sarà sicuramente la leadership di Baron Davis a dover guidare questa squadra, con l'ex playmaker di Golden State che sta in questa stagione mettendo da parte le questioni personali e sta ini-
ziando a smanazzare assist per far salire di colpi questa squadra. Probabilmente con soli 7/8 giocatori questa squadra non potrà reggere le 82 partite e potrebbe risentire con l'incedere della stagione e soprattutto nei BAck to Back. Innanzitutto poi alle spalle del citato Davis non è che ci sia grande scelta in cabina di regia, con il "buon" Telfair che mai ha raggiunto high in carriera. Attendendo Blake, questi Clippers, per ora ci vogliono ancora credere.
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Sacramento Kings
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A quanto pare la fortuna sembra girare anche dalla parte della franchigia della capitale della California. Dopo gli anni d’oro dell’era Maloof, quelli per intenderci dei primi anni del nuovo millennio e la sfida diretta con i Lakers di Bryant ed O’Neal, sembra che i Kings potrebbero tornare ad essere anche un qualcosa di interessante all’interno del panorama Nba. Nell’immediato? Assolutamente no (anche se persino questa dichiarazione va presa con tutte le dovute cautele del caso, vedi la sfida persa solo ed esclusivamente al supplementare con i Cleveland Cavaliers e la sfida vinta contro i campioni in carica dei Los Angeles Lakers alle quali si aggiunge un record appena sotto il 50% di vittorie al momento di scrivere con 13 vittorie e 16 sconfitte ndr). Se la lente di ingrandimento, però, si sposta un tantino più avanti e con il piano temporale della ‘Delorian’ dei Maloof spostato in avanti e nella Nba del futuro allora tutto cambia prospettiva e cambia visione. L’età è il primo elemento importante di tutto quello di cui stiamo parlando, anche se non l’unico ingrediente della ricette speciale Kings. Il talento. Ecco questo si che è l’ingrediente segreto, questo si che è un qualcosa che di il giemme Petrie di volta in volta ha messo in tasca sfruttando al meglio quelle che erano le opportunità che l’urna con le palline di luglio gli ha offerto nel vorso degli anni. Non ultima, anzi, quella dello scorso luglio quando la sorte ha permesso ai californiani di mettere le mani su di un giocatore del calibro di Tyrek Evans. E’ lui al momento l’uomo simbolo di Sacramento senza l’infortunato Kevin Martin. E’ lui che di punto in bianco senza il leader del gruppo ha deciso che era giunto il momento di mettere qualche puntino sulle ‘i’ in casa Kings prendendosi responsabilità e posto in squadra. Al momento di mettere nero su bianco sono 20,3 ad allacciata di scarpa per l’ex Memphis. Venti punti a partita che ne fanno il miglior marcatore della formazione della
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D OMENICO P EZZELLA
California anche se poi virtualmente i 30 a sere nelle 5 uscite di Martin non gli permettono di festeggiare il primato assoluto in termini pratici ma solo virtuali. Una mano docile come un pianista e qualcuno potrebbe anche pensare che il tutto potrebbe anche bastare per farne il primissimo candidato al trofeo ‘Rookie Of The Year’ ed invece no. Lo scout del ragazzone proveniente dal Tennessee dice ancora: 5,1 rimbalzi (cosa che con quel fisico che si ritrova e senso anche della posizione è un qualcosa che forse abbiamo visto fare solo a Kidd, ma con qualche chilo e centimetro in meno ndr) e 4,9 assist. Numeri e giocate che da
sole potrebbero già far tirare un bel sospiro di sollievo se non fosse per il fatto che c’è dell’altro sintetizzato in numeri, nomi e provenienza: Jason Thompson, Ben Udrih e Omar Casspi: 15,3 punti e 9,2 rimbalzi il primo, 14 e 4 assist il secondo (Yugoslavia ndr) e dulcis in fundo 12,1 e 4,3rimbalzi per un israeliano che ha dimostrato che qualcosa a questo gioco lo può sicuramente dire. Cosa vuoi di più recitava il noto spot di un amaro, la risposta in questo caso non è la marca della bevanda stessa, ma di sicuro nel cuore degli addetti ai lavori dei Kings sarebbe quella di ripercorrere la strada intrapresa qualche anno fa dai Portland Trailblazers.
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Golden State Warriors
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Nba ‘Team by Team’
Per la squadra più pazza della lega, senza difesa (ovviamente la peggiore delle trenta Nba), con tanti ( e tanti) tiri in attacco, le gare che precedono l'anno nuovo la vedevano opposta alle migliori della piazza: New Orleans (in crescita) e poi il trittico Phoenix, Boston e Lakers. Ecco i bookmakers davano scarti pesanti ai gialloblù che smentiscono tutti, e strappano il successo ai Phoenix Suns, guidati da un super Corey Maggette da 33 punti e 8 rimbalzi, col punteggio di 132-127 (due squadre che adorano correre) e poi due sere dopo sempre alla Oracle Arena una vittoria a dir poco incredibile contro i Celtics, che cadono 103-99 affossati dal trentello di Ellis. Beh il back to back contro i Lakers di un Kobe arrabbiato e mezzo infortuno (che ne piazza ben 44) non poteva che concludersi con una sconfitta, ma Don Nelson ha chiuso l'anno togliendosi qualche sassolino dalla scarpa. Sta di fatto che le due gare vinte sono le uniche nelle ultime 10 che i Warriors
hanno vinto e la 5^ posizione nella Pacific con un record generale di 9-22 non è incoraggiante. La squadra che qualche anno fa arrivava ottava ad Ovest e si prendeva il lusso di eliminare i Dallas Mavericks non c'è più, ma nuovi leader sono nati in questa franchigia. Primo tra tutti Monta Ellis 25 punti e 5 assist di media faro di questa squadra che perde subito il neo arrivo Raja Bell (via Charlotte) ma che si consola con
Radmanovic che in una squadra senza troppe pretese può esprimersi. Maggette è sulla via del tramonto, va a serate, e poco può contribuire a questa squadra, Biedrins (che pur avendo giocato solo sei partite, di media è il miglior rimbalzista della squadra) è out da tempo, Morrow non è lo stesso giocatore che l'anno passato toglieva il posto a Belinelli, solo curry si salva, ma è poca cosa. Si deve lavorare e forse in modo diverso...
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S TAR S ‘N’ STR I PES
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Y Yo ou u c ca an n’’tt c c m me e
LA RUBRICA
A LESSANDRO
DELLI
DI
PAOLI
Cresce sempre di più la popolarità di Joakim Noah. Stella al college e, ora, protagonista in NBA. Personaggio sopra le righe, proprio come il padre, il celebre tennista francese Yannick Noah che incantava la scena degli anni ’80 con le sue giocate di classe e gli eccessi da showman. ‘Stix’, il soprannome sta a significare ‘bastone’ in francese, è il protagonista di una serie a fumetti che sta raccogliendo consensi tra gli appassionati e non solo. L’iniziativa è frutto della collaborazione tra Le Coq Sportif, famoso marchio di abbagliamento sportivo, ed i Chicago Bulls e si avvale dei più abili disegnatori francesi di manga in circolazione (Tardjah, Richard e Digard). La storia racconta, in tono scherzoso ed ironico, le vicende di Joakim. Si intrecciano, dunque, i racconti sulle origini multietniche del giocatore, frutto del-
l’incrocio di 4 nazionalità diverse grazie ai suoi genitori (svedese, camerunense, americano e francese) e di situazioni di tutti i giorni. Tra i protagonisti che affiancano Noah, Corey Brewer di Harlem, i suoi amici di New York, simpatici ed imprevedibili, Bobo l’autista bosniaco, il suo vecchio allenatore e mentore Tyrone Green. E non può mancare la famiglia: la sorella Yéléna, Cécilia sua madre, Zacharie il nonno. Inizialmente disponibili sul sito lecoqsportif.com, i fumetti di Joakim approdano anche sulla carta. Il ricavato della vendita sarà destinato all’associazione benefica di Tyrone Greene, “For The Good Of the Neighbourhood”, che si occupa dei ragazzi disagiati di New York ‘Stix’, insomma, nel pieno rispetto del suo soprannome, sta bastonando tutti, dal campo (fotografi a bordo campo inclusi) agli altri colleghi, privi di una popolarità che cresce quasi come i capelli che Noah mostrava il giorno del draft.
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F U NK Y G A L L O Per colpa di chi? Chiedetelo ad Al Harrington, piuttosto che a Zucchero. Magari il buon Harrington è a conoscenza delle ragioni che hanno indotto il suo compagno di squadra, Danilo Gallinari, a sfoggiare la sua ugola d’oro. Il nostro ‘Gallo’ ha cantato, non sappiamo se per tre volte,
STEVE “WONDER” NASH
No, tranquilli, Nash non si prestato a nessuna esibizione canora come i suoi colleghi. Il play canadese, però, ha realizzato un simpatico videopromo per la sua candidatura all’All Star Game 2010 che si giocherà nella sua ex Dallas. Nash invita gli appassionati a votarlo e, nel frat-
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la celebre canzone di Beyoncè, “Halo”, assistito da un divertito e quanto mai sorridente Al Harrington. Ma il responsabile merchandising dei Knicks non ci ha pensato a creare una sveglia con le sembianze di Danilo che canta il più classico dei ‘chicchirichì’?
tempo, scorrono immagini di gioco in cui dà il ‘peggio’ di sé. Assist sparati al pubblico, palle perse ingenuamente e schiacciate poderose in cui è ‘posterizzato’ dai diretti avversari. Steve si definisce ‘awesome’, fantastico. Visti il sarcasmo e l’ironia, accoppiati al talento naturale, non c’è altro da fare: votarlo!
S TAR S ‘N’ STR I PES
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T o n y, E v a e l a S u m m e r N i g h t
La realtà supera la fantasia, frase di cui, generalmente, si abusa. Non ci sembra, però, questo il caso. Che lei fosse un’attrice, oltre che meravigliosamente bella, piuttosto brava, non c’erano dubbi. Raggiunta la celebrità, non tanto per le ‘comparsate’ nelle tribune dei palazzotti degli States, quanto per essere tra le protagoniste delle ‘Desperate Housewives’ che imperversano sui teleschermi di mezzo mondo. Lui, invece, aveva una credibilità come giocatore di basket. Vincitore in serie, insieme all’inseparabile duo Duncan – Ginobili, degli anelli più ambiti da chi si ostina a far rimbalzare una sfera su dei pezzi di legno, si è dato allo spet-
tacolo e non certo quello del basket. La coppia dello shobiz americano, insomma, Eva Longoria e Tony Parker, rigorosamente in ordine di importanza, si è resa protagonista di un ‘simpatico’ videoclip in cui rielaborano “Summer Nights”, canzone tratta dal film-musical ‘Grease’. Con tanto di parrucche, abiti in stile anni ’50, giubbotto di pelle, gel e tanta faccia tosta, i due prendono le sembianze di John Travolta e di Olivia Newtown Jones e danno sfoggio della loro ‘arte’. Da Tony Parker a Tony Manero (altro personaggio di John Travolta) il passo, di danza, è breve.
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LA RUBRICA
NBA Up
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A LESSANDR
DELLI
PAOLI
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ATLANTA HAWKS ‘Dove osano le aquile’ è il titolo di un celebre film ma rende bene l’idea di come i ‘rapaci’ della costa est stiano sbranando le carcasse degli avversari. Sorpresa di questo inizio stagione (21 – 11 il record vinte-perse al momento) hanno trovato il miglior Joe Johnson degli ultimi anni (21.8 punti di media). Specie in via d’estinzione. LAKERS & CELTICS L’accostamento cromatico mischia il gialloviola dei ‘lacustri’ al biancoverde dei ‘celtici’. Dominano le rispettive Conference: Boston con 24 – 8 e Los Angeles con 27 – 6. I Celtics han ritrovato Kevin Garnett e i Lakers non hanno mai perso mr. ‘24’ ma, forse, un po’ di smalto colorato è
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andato via nel corso delle feste natalizie grazie all’acetone LeBron. Questi qui ce li ritroveremo in Finale. Colori primari. BRANDON JENNINGS Anche dopo il suo periodo italiano, per tutti noi ‘Brandon’ era solo il Walsh protagonista di un celebre telefilm che ha accompagnato la nostra adolescenza. Approdato tra i giganti, ha fatto capire che c’è anche lui nella mappa del basket. 19.3 punti di media conditi da 6 assist sono cifre che lo proiettano tra i candidati al rookie of the year. Il top sono stati i 55 punti di novembre contro i Warriors. Altro che Milwakee, è degno di Beverly Hills. TYREKE EVANS Se Jennings non vincerà il riconoscimento per la migliore matricola dell’anno, la ‘colpa’ sarà solo ed esclusivamente di Tyreke Evans. Ecco il suo biglietto da visita: 20 punti di media, 5 rimbalzi e 5 assist a uscita. La scelta numero 4 del draft 2009 si appresta ad affrontare il rookie wall con il vento in poppa. King of Sacramento.
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CHICAGO BULLS Cambiano le facce ma non i risultati. L’eterna incompiuta della Eastern Conference conferma il trand e delude anche quest’anno: 14-17 il record. Sinceramente ci si aspettava molto di più. Derrick Rose (18 punti di media) è circondato da ‘spine’ che pungono di tanto in tanto e mai con continuità. Cresce il francese Noah (10.4 punti e 12.2 rimbalzi per allacciata di scarpe) che sfrutta bene la lunga assenza per infortunio di Thomas. Insomma troppi alti e bassi. Toro Loco. ELTON BRAND Money dei Pink Floyd è la giusta colonna sonora per l’ex Bulls. Un mare di soldi, 80 milioni di dollari in cinque anni, in cui Elton non ha saputo nuotarci dentro come Zio Paperone. Lui è affogato tra i ‘dead presidents’ ma a farne le spese, in tutti i sensi, sono i 76ers che languono in un triste 10-23. Le cifre di Brand dicono 13.8 punti e 7 carambole a partita. Svalutation. WASHINGTON WIZARDS D’accordo una serie innumerevole di infortuni, ma il 10-21 di record è piuttosto deludente. Qualcuno dica a coach Saunders che, con gli elementi di cui dispone, non è i caso di provare la ‘Run & Gun” come rimedio alle sconfitte. Qualcuno come Arenas e Crittenton potrebbe fraintendere. Altro che maghi. Apprendisti stregoni. NEW JERSEY NETS De Filippo userebbe queste parole per definire l’annata dei Nets: “Addà passà a nuttat”. Partenza ‘storica’ con 18 sconfitte in fila e record attuale di 3-30. Il povero Devin Harris ‘predica’, si fa per dire, nel deserto: 17 punti e 6.5 assist di media. I tifosi del ‘Garden State’ non vedono l’ora che si materializzi il passaggio a Brooklyn. Sotto un ponte.
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NBA NEWS
Lakers-Gasol: trovato l’accordo Squadra che vince non si cambia. Certo se hai l’opportunità di aggiungere al roster un elemento di spicco come Ron Artest un piccolo strappo alla regola puoi farlo e quindi anche sacrificare un talento in fase di maturazione come Trevor Ariza, ma l’idea di Kupchak era quella di riconfermare il nucleo di giocatori che nelle ultime 2 stagioni ha portato i Lakers a 2 finali, una vinta l’altra persa: quindi sotto con Bynum 2 stagioni fa, sotto con Odom questa estate (rinnovo per 4 anni), è arrivato come regalo di Natale in casa Gasol un rinnovo di impegno alla causa gialloviola triennale sulla base di una somma di … $. Certamente un attestato di stima, sempre che ce ne fosse bisogno per il catalano, che va a confermare quello che resta il target numero 1 del management californiano, ossia la rifirma di Kobe Bryant, per provare a mantenere solido un gruppo che per almeno 4-5 stagioni sembra destinato a comandare la lega o comunque a gravitare costantemente nell’area delle contenders..
Shane Battier il portavoce dei Rockets: «Rick non si tocca»
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Che Rick Adelman fosse un allenatore speciale lo si poteva dedurre anche solo osservando come giocavano ad inizio millennio i suoi Sacramento Kings, massacrati dalla cattiva sorte, ma comunque rimasti nell’immaginario collettivo come la squadra più bella da vedere negli ultimi 10 anni di NBA. Devono essersene accorti anche i suoi attuali giocatori, vista l’unanimità di consensi verificatasi quando è circolata nello spogliatoio dei “razzi” la voce che l’owner Lesile Alexander fosse fermamente intenzionato alla rifirma del coach. Particolarmente entusiasta al riguardo Shane Battier, che ha dichiarato allo Houston Chronicle: «Rick è un gran coach. Sono veramente estasiato all’idea di giocare per lui. Da quando è qui ha sempre fatto grandi cose, e molti altri coach al suo posto non avrebbero sopportato le difficoltà che lui ha incontrato. Sono veramente fortunato di essere allenato da lui: dà una grande fiducia ai giocatori, non impone mai il suo credo severamente ed è in grado di mantenere la calma anche quando le situazioni si fanno complicate. Ha trasmesso a immagine e somiglianza tutte queste caratteristiche ai Rockets».
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NBA RUMORS
Ai Bulls parte il toto-allentore Fonte foto: http://gossiponthis.com
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Stars ‘N’ Stripes
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Davide Mamone
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La stagione al momento alquanto deludente disputata dai Chicago Bulls ha definitivamente destabilizzato la posizione di coach Vinnie Del Negro nei piani del management, del tutto scontento della mancata crescita della squadra dopo la brillante serie con i Celtics della scorsa primavera. Nonostante la squadra si sia chiusa a riccio attorno all’attuale head coach, è inevitabile un intervento da parte della società sulla scelta dell’allenatore che, giocoforza, dovrà rappresentare una polizza di vittoria e competitività ad alti livelli per poter richiamare i migliori free agents la prossima estate. I nomi che circolano più insistentemente sono quelli di Avery Johnson, ex Dallas finalista NBA nel 2006, Byron Scott, Bernie Bickerstaff e Jeff Van Gundy. Da segnalare, tuttavia, l’inversione al trend perdente dei Bulls coinciso con il ritorno in campo del prodigioso per atletismo,ma discutibile per il resto, Tyrus Thomas. Che ciò possa bastare per salvare Del Negro è obiettivamente utopistico, ma quantomeno, considerata la facile accessibilità alle ultime piazze disponibili ad est per i playoff, l’eventuale raggiungimento della post season potrebbe cambiare le carte in gioco.
Nella ‘Baia di Oakland’ c’è aria di...tempesta.. Nessuna calamità naturale, per fortuna. I Golden State Warriors, franchigia senza alcuna ambizione da un po’ di anni a questa parte, vogliono fare pulizia in casa e secondo ESPN.com vogliono assolutamente liberarsi di Corey Maggette, contrattone da 30 milioni di $ per altri 3 anni (ultimo regalo dell’ex gm Chris Mullin). Condizione minima per poter trattare con altre squadre è l’inserimento nell’operazione di uno tra Anthony Randolph, Monta Ellis, Stephen Curry o Anthony Morrow con il primo largamente favorito a lasciare la California. Gli obiettivi dichiarati sono power forwards già sul piede di partenza, vedi David West dei New Orleans Hornets o Carlos Boozer, separato in casa degli Utah Jazz.
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La lente di ingrandimento di Stars N Stripes sulla LegaA
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Lo ‘show stopper’ d i Te r a m o : Bobby Jones MADE IN ITALY -1 IL PERSONAGGIO
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D OMENICO L ANDOLFO
Compton, California, patria di cestisti, regala al campionato italiano un altro dei suoi figli, e che giocatore: Bobby Ray Jones jr, che milita nella Banca Tercas Teramo. Huskies del College di Washington, dove si mette in luce per atletismo e dinamismo, viene chiamato dai Minnesota Timberwolves con il 37 del secondo giro, scelta che però già era stata draftata ai Philadelphia 76 ers, squadra in cui militerà. Inizio difficile, incompreso, da un ruolo poco definito, nè un 3 nè un 4, gioca la suo primo anno 40 partite nella categoria superiore, prima di essere spedito in DLeague dove si fa le ossa per l'anno successivo, forse aspettando che i 76 ers lo aspettino, ma al suo ritorno tra i pro, inizia un calvario e cambia squadra ad ogni possibilità, sballottato prima in quel di Denver, dove forse va dere le cose migliori anche perchè Karl crede un po' in lui e gli da qualche spazio, ma poi anche i Nuggets lo mettono in una trade. Inizierà a raccogliere solo briciole, Memphis, Houston, Miami e infine San Antonio, dove è impalpabile il suo pas-
saggio, e dove i minuti in cui lo si vede sul parquet sono davvero pochini. Quest'estate la chiamata finalmente dio un campionato in cui può esser protagonista, quello Italiano, da parte di una squadra ambiziosa come Teramo. Parte col botto, 27 punti alla 2^ giornata con Varese, si consacra per quel grande talento che è. Poi prestazioni che alternano il fantastico e l'opaco, e quando Bobby Jones va in crisi la sua squadra ne risente. Tira bene dal campo, oltre il 60% da due e il 40% da tre, sta crescendo anche dal punto di vista difensivo in fase di rimbalzo e può solo migliorare con il passare del tempo. Sicuramente l'abilità di un coach importante come Capobianco e la possibilità di un migliore adattamento alla pallacanestro tricolore potranno fargli molto bene e lanciare la Teramo che fa di un lui un santone, molto in alto. La via è lunga, ma Bobby Jones ne ha viste di tutti i colori e vorrà togliersi le sue soddisfazioni, specie con chi dall'altra parte dell'oceano l'ha bistrattato così tanto.
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La rinascita di un ‘mito’: la Cimberio Varese MADE IN ITALY -2 LA SQUADRA
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N ICOLA A RGENZIANO
Quando si pensa alla grande pallacanestro italiana degli ultimi 30 anni non può non venire in mente il nome di Varese. Per anni è stata la rivale storica di Milano, restando ad alti livelli sempre e comunque, sino alla conquista dello storico scudetto della stella nel 1999, con un tim di “bad boys” italiani composto da giocatori come Pozzecco, Galanda, De Pol e Andrea Meneghin,
difficilmente ripetibile nel basket nazionale moderno in un unico roster. Poi una lenta discesa culminata con la retrocessione di 2 stagioni or sono, presto riscattata con una grande stagione in legadue che l'ha riportata li dove meritava di stare nel basket che conta. Oggi però la realtà è un po' diversa per la piazza varesina, da sempre palato fine della palla a spicchi tricolore.
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La famiglia Castiglioni infatti sta tastando con mano quanto sia difficile oggi competere ad alti livelli nella massima serie e aldilà delle valutazioni tecniche non si può immaginare la Varese dei bei tempi subire 2 punti di penalizzazione (in attesa dell'esito del ricorso prontamente consegnato) per errore nelle procedure di regolarizzazione economica. Aldilà delle ripercussioni di
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“immagine” i 2 punti hanno avuto soprattutto peso specifico sulla classifica dei biancorossi che si sono ritrovati piu' vicini alla zona retrocessione di quanto realmente “meritassero”, situazione questa che ha un attimo sovraccaricato di responsabilità un team che oltre allo zoccolo duro ed esperto sta cercando al contempo di lanciare prospetti piu' che interessanti. Con questo però guai a dire che Varese sia un team di poco conto, anzi ad un roster già di tutto rispetto a cui, dopo aver dominato la Legadue, sono state aggiunte pedine di grande esperienza e capacità tecniche utili per una salvezza tranquilla. In cabina di regia il sempreverde e affidabile Childress può contare su un back up di tutto rispetto quale è Marco Passera, finalmente profeta in patria dopo tanta gavetta. Jobey Thomas e Michel Morandais sono 2 facce della stessa medaglia: tiratore affidabile e intelligente il primo, shooter estroverso e istintivo il secondo (a cui a Napoli affibiarono il nickname di AIR FRANCE per le sue doti atletiche), si compensano e hanno seppur con incarichi diversi il compito di scardinare le batterie di esterni avversari. Sotto le plance si era partiti con Jak Galanda, il quale seppur ormai non piu' quello di una volta è ancora un giocatore che sa farsi rispettare sul parquet, e quel Ron Slay presentatosi con un curriculum di quasi 14 punti e 8 rimbalzi a partita l'anno precedente a Caserta (numeri che però non danno l'idea dell'incostanza caratteristica del coloured ex Tennessee). Quest'ultimo dopo non aver convinto e complice l'attesa squalifica dal Tas per il noto ritardo delle procedure antidoping nella scorsa stagione è stato sostituito dal piu' solido e affidabile Marco Tusek, rientrato nel giro dopo le annate romane. In corsa poi per quadrare il cerchio era stato aggiunto anche J.R. Reynolds il quale però si è fermato praticamente da subito per problemi fisici. Ad un quintetto quindi di età media alta e piuttosto esperto Coach Pillastrini (che a Varese sembra aver trovato un progetto a lui confacente) aggiunge una panchina di prospetti molto validi, dando minuti e fiducia sperando nella loro pronta maturazione utile alla squadra. Niccolò Martinoni è la punta di diamante: ala-centro alta poco piu' di 2 metri a 20 anni da poco compiuti può già vantare una Legadue da assoluto protagonista ed un impatto piu' che discreto nella massima serie; un giocatore che non tarderà ad arrivare nel giro della nazionale maggiore affiancato da Zahariev, fromboliere offensivo delle nazionali giovanili bulgare che proprio contro l'Under 18 allenata da Pillastrini realizzò 38 punti e 6 rimbalzi (23.8 fu la media a fine torneo) che fece “innamorare” il suo attuale allenatore in maglia Cimberio. Altro frutto della nidiata è Antonelli che contro Biella è andato anche in doppiacifra, ricambiando la fiducia assegnatagli con l'inserimento costante nelle rotazioni. A questo “manipoli” di giovani rampanti si aggiungono Cotani e Gergati (di Passera abbiamo già parlato), gregari affidabili a cui si chiedono minuti di qualità. Oggi la classifica pone la Cimberio in una situazione in cui non si può pensare di abbassare la guardia: Pesaro è lanciatissima verso la rimonta delle zone della classifica che le compete e presumibilmente lascerà proprio a Varese, Cremona e Ferrara l'unico posto rimasto per la retrocessione. Tra le tre quella meglio attrezzata sembra proprio la squadra con la stella, ma guai a pensare che i giochi siano già chiusi...