il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano
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FOCUS - I NUOVI MAGIC
Viaggio attraverso le cifre della formazione della Florida per scoprire se e perchè Orlando può tornare in Finale
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L’ANA LISI 12 2 LO C K O U T OR N O T LO C K O U T 1 FIVE MAN ROTATION I D ENVE R NU GG E TS
LA RUBRICA YOU CAN’T C ME
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Fonte foto: http://myteamrivals.typepad.com
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‘Vincredible’ è l’arma giusta per tornare in finale? FOCUS
DI
V INCENZO
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G UIDA
“Quando assapori l’atmosfera delle finali Nba, vuoi ritornarci, non t’interessa altro”. Parole e musica di Dwight Howard. Location: Training camp degli Orlando Magic. Data. settembre 2009. Una squadra con una missione: il titolo, LeBron James permettendo. Si, perché nel destino degli Orlando Magic sembra esserci sempre di mezzo l’uomo con il numero 23 (dall’anno prossimo si passa al #6). Facciamo un passo indietro. Finale della Eastern Conference ’09. I favoritissimi Cavs affrontano col vantaggio del fattore del campo i Magic. L’Nba, il mondo, sono pronti a celebrare il trionfo di King James e a gustarsi lo scontro con Kobe in finale, in una riedizione di Achille contro Ettore. Un duello epico. Niente affatto. Nel ruolo di guastafeste ecco comparire, Howard Dwight, Lewis Rashard e soprattutto Turkoglu Hidayet, detto
Hedo, brillantemente condotti da Stan Van Gundy, che oltre che essere il sosia della star a luci rosse Ron Jeremy, è anche uno dei migliori allenatori della lega a trenta squadre che chiamiamo Nba. I Cavs piegano la testa 4-2. Orlando torna a competere per l’anello. Sono passati 14 anni dall’ultima apparizione targata Shaq-Penny. In quella serie contro i Rockets ci fu lo sweep (4-0). I Lakers ne lasciano per strada una, e Orlando cede 4-1. Dalla sconfitta in finale contro i losangelini riprende il cammino dei Magici. L’obiettivo è uno solo, tornare su quel palcoscenico. I MAGIC 2009/2010. Una squadra che arriva a giocarsi l’anello in sede di mercato dovrebbe solo puntellare la panchina, o al
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co.uk Fonte foto: http://static.guim.
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massimo inserire un giocatore di qualità. Invece in casa Magic arriva una mezza rivoluzione. Per la serie non è oro tutto quello che luccica, vengono alla ribalta i dissapori caratteriali tra Van Gundy (tipino mica facile) e il Turko. Il giocatore che con la sua efficacia nel quarto periodo aveva permesso alla franchigia della Florida di compiere il definitivo salto di qualità, è in scadenza di contratto e decide di esplorare il mercato. Orlando non prova neanche a trattenerlo. La corsa è tra Portland e Toronto. Sappiamo già come è andata a finire. La dirigenza dei Magic punta su Vince Carter. Nella città di Topolino arriva Vinsanity insieme a Ryan Anderson dai Nets, in cambio sostanzialmente di Courtney Lee. Dal mercato dei free agent ecco il
redivivo Jason Williams (inattivo nella stagione precedente), Matt Barnes e Brandon Bass. Van Gundy sceglie di operare un cambio radicale nel supporting cast. Basterà per arrivare al titolo? IL SISTEMA DEI MAGIC. Innanzitutto diamo un’occhiata al record. Al momento in cui scriviamo Orlando viaggia con un ottimo 42v-20p, che tradotto significa primo posto Southeast Division, secondo posto nella Eastern Conference alle spalle di Cleveland. Il saldo nel mese di Febbraio dice 8v-4p. Nulla da obiettare. Siamo in linea con le aspettative. Orlando è 10° per punti segnati (101.7) e 5° per punti subiti (95.6). Un dato fondamentale per i Magic è la percentuale nel tiro da tre punti.
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Orlando è una delle squadre che prende più conclusioni da oltre l’arco con una percentuale di trasformazione del 36%. In questa speciale graduatoria sono al 5° posto. Il punto fondamentale non è quanto segnano da tre, ma quel che fanno per arrivare a prendere questo tipo di tiro. Due riferimenti: spazio e tempo. Il sistema dei Magic si esplica su alcuni principi base. 1) Pick and roll d’ ingresso Nelson-Howard. In base alle scelte della difesa Orlando esplora diverse soluzioni. Le prime due prevedono una ricezione dinamica di Howard (scrivete pure due punti), o un jump shot dalla media di Nelson. La terza soluzione è quella che definisce meglio il sistema. In base alle situazioni di vantaggio che si creano dal pick and roll, i Magic con tre giocatori oltre l’arco dei tre punti possono punire le scelte della difesa. Chi sono i tre giocatori? Carter, Barnes (o Redick) e Lewis. Chi è il giocatore fondamentale? Ovviamente Rashard Lewis, un 4 perimetrale che apre il campo costringendo il difensore ad onorare il suo tiro, e di conseguenza permettendo a Howard di godere di ampi spazi nel pitturato. I Magic quando sono spaziati bene diventano assolutamente mortiferi. 2) Ricezione in post basso di Howard. Quattro giocatori dietro l’arco dei tre punti, e Howard in mezzo. Qui è il fattore tempo a divenire importantissimo. La palla in post deve arrivare con i tempi giusti e con l’angolo giusto. Lewis è un clamoroso passatore in queste situazioni. Nelle serate nelle quali Dwight è “unstoppable”, la difesa ad un certo punto deve gioco forza raddoppiare. Dal raddoppio in post s’innesca il sistema dei Magic. Nei primi anni “Superman” Howard era uno dei peggiori passatori in situazioni di raddoppio. In questo fondamentale adesso è miglioratissimo grazie anche al lavoro di Patrick Ewing. La palla esce bene dal raddoppio (spesso operato in single-double, ovvero con un esterno che va a raddoppiare su Howard) e si muove sul perimetro in modo da poter effettuare
il tiro che vuole l’attacco. Come si vede non è un mero discorso di percentuali, ma di cosa si fa all’interno di un sistema. Ecco perchè i Magic non sono classificabili come un semplice jump shooting team. Il discorso è reso più complesso dalla presenza di un giocatore dominante in vernice come Howard, e da un sistema predicato su determinati concetti che intendono premiare un certo tipo di scelta offensiva. CARTER VS TURKOGLU. La variabile all’interno del sistema. Due giocatori diversi rendono il sistema diverso. Carter: 16.3 punti, 4.2 rimbalzi, 2.9 assist con il 43% dal campo e il 34% da tre. Turkoglu (cifre relative alla stagione 2008/2009): 16.8 punti, 5.3 rimbalzi, 4.9 assist con il 41% dal campo e il 35% da tre. Ancora una volta non è solo una questione di cifre (migliori in assoluto quelle del Turco rispetto a Vinsanity). L’impatto di Turkoglu sulla squadra era diverso (molto diverso da quello che Hedo sta avendo a Toronto…). Il Turco si spaziava alla grande con gli altri quattro rendendo il sistema più fluido, in quanto miglior passatore e tiratore di Carter. Ma quel che ha fatto la differenza nella passata stagione è stata la sua capacità di prendere per mano la squadra nei momenti decisivi, diventando di fatto l’uomo dell’ultimo tiro e Lebron ne sa qualcosa. Per emettere un giudizio definitivo su Carter bisognerà attendere l’esame dei playoff. Di certo c’è un dato incontrovertibile. Carter per essere efficace ha bisogno di avere molto il pallone tra le mani, di attaccare dal palleggio venendo isolato uno contro uno. Il ritmo d’attacco dei Magic ne risente. L’efficacia diminuisce e le difese possono esporsi meno all’efficacia del tiro da tre punti di Orlando e alla fisicità di Howard in post. Sembra paradossale ma è così. Dopo un inizio difficile il prodotto di North Carolina ha mostrato sprazzi del vero Vincredible (memorabile la prova da 48 punti contro New Orleans), ma i giudizi sono ancora in camera di consiglio.
LE STATISTICHE DI VINCE CARTER ...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
GLI ORLANDO MAGIC IN CIFRE
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m.br Fonte foto: http://www.utahjazz.co
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Van Gundy ‘VS’ ‘Super’ Howard
H O W A R D E V A N G U N D Y . La stagione di Orlando è posta in alto, tanto che Dwight può permettersi passa anche dal rapporto amore/odio tra Superman e il davanti alle telecamere spassosissime imitazioni del coach. Chimica variabile. Si va su è giù. Ora la freccetta suo coach, che un po’ a denti stretti la prende sul ride-
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re. Nei playoff della passata stagione le cose non sono sempre andate così bene. Howard s’inacidì di fronte alle critiche esposte da Van Gundy sull’efficacia del suo centro nel quarto decisivo, stante la mano quadrata ai liberi. Le incomprensioni caratteriali nascondono una problematica tecnica. Le statistiche di Howard sono notevoli: 18.7 punti, 13.1 rimbalzi (primo assoluto), 2.7 stoppate (primo), 60% dal campo (secondo dietro al sorprendete Perkins), 61% ai liberi. Rispetto alla passata stagione Howard è sensibilmente migliorato nella percentuale ai liberi e dal campo, ma segna meno (20.6 l’anno scorso) e prende meno rimbalzi (13.8). Un decremento spiegato con un leggero calo in termini di utilizzo (35.7 minuti contro gli attuali 35.1). Howard non riesce ad avere lo stesso impatto offensivo nei quarti decisivi, come lo ha in difesa. Lo abbiamo visto nelle Finals ’09. I Lakers erano equipaggiati con Gasol e Bynum per contrastare il suo strapotere fisico. Gasol soprattutto ne ha evidenziato gli attuali limiti, che sorprendentemente non riguardano solo la capacità di trasformare i liberi dopo aver subito fallo. Il più grande limite di Howard è il gioco in post basso. Come tutti i grandi centri Dwight vuole la palla in post da fermo. Siamo lontani però dai livelli espressi da Olajuwon e O’Neal. Howard dà il meglio su ricezioni dinamiche e quando può fronteggiare l’avversario per attaccarlo in verticale. Nelle ultime due stagioni ha sviluppato anche un semigancio affidabile con entrambe le mani. Eppure, se Superman riceve da fermo diventa molto meno pericoloso. Il giro dorsale sulla spalla forte (che rendeva grande Shaq), o il gioco di piede perno (nel quale eccelleva Olajuwon) non ci sono ancora. Il salto di qualità definitivo per Howard passa da questi miglioramenti e forse, aver avuto come maestro Pat Ewing (assistant coach dei Magic), che faceva la differenza con il tiro in sospensione e attaccando frontalmente l’avversario, ma che non aveva un grande gioco di post nel senso classico, non lo ha certo aiutato. LA CORSA AL TITOLO. L’efficacia del sistema, la capacità di essere decisivo di Carter, la chimica e i miglioramenti di Howard sono le chiavi della corsa al titolo dei Magic. Ne abbiamo dimenticato una. Gli avversari: i Cleveland Cavaliers. Secondo voi perchè Lebron ha voluto a tutti i costi che Danny Ferry prendesse uno come Antawn Jamison? Se la vostra risposta è: “ per contrastare Rashard Lewis”, avete fatto centro.
SOUTHEAST DIVISION
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M.Almond R.Anderson Matt Barnes B.Bass V.Carter Adonal Foyle M.Gortat D.Howard A.Johnson L.Johnson R.Lewis J.Nelson M.Pietrus J.J. Redick J.Williams
SG PF SF PF SG C C C PG PF PF PG SF SG PG
24 21 29 24 32 34 25 23 35 29 30 27 27 25 33
6-6 6-10 6-7 6-8 6-6 6-10 6-11 6-11 6-3 6-8 6-10 6-0 6-6 6-4 6-1
225 240 226 250 220 270 240 265 195 205 230 190 215 190 180
Rice California UCLA LSU N.Carolina Colgate
Tulane Saint Joseph's Duke Florida
SALARY
$1,317,120 $1,600,000 $4,000,000 $16,123,250 $825,497 $5,854,000 $15,202,590 $2,062,800 $1,033,342 $18,010,791 $8,100,000 $5,300,000 $2,839,408 $825,497
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L’ANALISI
S TAR S ‘N’ STR I PES
DI
N ICOLÒ F IUMI
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Lockout or not lockout ...This is the problem... I l b r ac c i o di f e r r o t r a Le g a e a ss o c i a zi o n i g i o ca t o r i r i s c h ia d i f i n i r e co me n e l 1 9 9 9
Crisi. Quante volte abbiamo sentito questa parola negli ultimi anni? Figuriamoci negli Stati Uniti, dove la situazione è ancora più grave che a italiche latitudini. Crisi. Recessione. Due termini che definire inflazionati per il loro
uso è riduttivo. Eppure è quello che accade. Costi in aumento, guadagni in diminuzione, conti che non tornano e conseguenti aziende in difficoltà costrette a tirare la cinghia, quando non a chiudere. E la NBA, oltre ad essere
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fonte di intrattenimento per milioni di persone, è prima di tutto un azienda. E come tale non viene risparmiata dalla Crisi (rigorosamente con la C maiuscola). Il problema, ulteriore, è che ci si avvicina al rinnovo del CBA, Collective Bargaining Agreement, ovverosia il contratto collettivo di lavoro che disciplina i vari aspetti dei contratti che vengono stipulati tra la NBA e i suoi dipendenti. Che per il grande pubblico assumono le sembianze dei giocatori che ogni sera vestono pantaloncini e canottiere e sudano sul parquet. Come ormai si vocifera da tempo l’ombra scura del lock out si appresta sempre più minacciosa e quasi inevitabile all’orizzonte. Orizzonte bene individuato nella stagione 2011, che molto probabilmente partirà in netto ritardo, proprio come accadde nel 1998, quando Lega e Associazione Giocatori si sedettero al tavolo, salvo accorgersi di volere cose molto diverse. Ne scaturì un campionato di sole 50 partite, giocato in tutta fretta, dove le squadre più volte si trovarono nelle condizioni di andare in campo anche per tre giorni consecutivi. Alla faccia dei tanto vituperati back to back. Alla fine vinsero gli Spurs, e Phil Jackson, a quel titolo, affiancò il famigerato asterisco. La situazione oggi è molto diversa. L’economia và peggio, i giocatori e i proprietari vogliono cose diverse. E allora proviamo un po’ ad analizzare la situazione per capire meglio cosa sta succedendo e che cosa ci attende in futuro. Partendo proprio dal 1998. "All'epoca dell'ultimo lock out c'erano giocatori che avevano ottimi contratti e giocatori che, in sostanza, erano stati journeyman con contratti
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minimi per anni. Quindi erano più determinati e ottenemmo quelle che all’epoca furono delle vere conquiste. Come la mid level exception”. Parole e musica di Grant Hill, uno dei 41 reduci dalla stagione ‘98/’99 oggi ancora in attività. Parole che spiegano il concetto di base che portò alla rottura fra giocatori e proprietari. In sostanza si voleva dare maggiore tutela ai giocatori di livello medio-basso, che in quel momento storico si trovavano ogni anno a dover sudare per ottenere un contratto minimo e spesso non garantito. La mid level exception figlia di quelle contrattazioni,ad esempio, portò il salario percepito da un giocatore che accettava l’eccezione salariale ad alzarsi da 1 milione di dollari a 5. L’economia all’epoca l’incubo odierno nemmeno lo immaginava. Tutto girava alla perfezione, Jordan aveva appena terminato la sua epica carriera, gli introiti erano altissimi, Kevin Garnett firmava un contratto da 126 milioni di dollari spalmati su 6 anni. Venne cavalcata l’onda positiva. E i giocatori ottennero buona parte di ciò che volevano. Le superstar avrebbero continuato a non doversi preoccupare per il proprio futuro, mentre i comprimari vedevano la loro condizione migliorare sensibilmente. Perché questo tuffo nel passato? Soprattutto per spiegare le motivazioni di base che hanno portato e che porteranno allo nuovo scontro frontale. Intanto, la stagione ‘98/’99 fù un duro colpo per la reputazione della NBA. Il dopo Jordan cominciò malissimo. I giocatori arrivarono fuori forma dopo 3 mesi di inattività, il gioco in generale ne risentì. Per riprendersi in termini di immagine ci sarebbero voluti
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anni. Più o meno 4, quando nel 2003 arrivarono nella Lega i vari LeBron James, Dwyane Wade e Carmelo Anthony a portare una ventata di aria fresca. Nel frattempo cominciavano a manifestarsi gli effetti del contratto collettivo. Giocatori di livello medio, talvolta basso, ricevevano contratti spropositati, decisamente troppo alti se confrontati con il valore effettivo del giocatore. Tanti soldi e tanti anni di contratto (il massimo era, ed è tutt’ora, fissato a 6) in caso di rendimento inadeguato del giocatore erano una pugnalata dolorosissima per le casse dei club che si trovavano così nell’impossibilità di muoversi sul mercato a causa di uno o più errori di valutazione, continuando per questo a mandare in campo squadre poco competitive, con conseguenti perdite al botteghino e in tutti gli ambiti di merchandising che sono legati a una franchigia NBA e che a livello pecuniario fanno parecchia differenza. Cominciarono così a nascere e a moltiplicarsi le speculazioni sui contratti dei giocatori, con scambi che vedevano contropartite tecniche totalmente sbilanciate nel solo intento di cedere contratti pesanti e alleggerire il salary cap. I New York Knicks divennero l’emblema di come una franchigia NBA non dovrebbe essere gestita, firmando un serie impressionante di giocatori di dubbio valore e impegnando quantità assurde di dollari. Giocatori che li hanno resi schiavi della situazione che solo dalla prossima estate tornerà alla normalità. Ma gli scricchiolii derivati dalla sopravvalutazione di molti giocatori divennero vere e proprie scosse di terremoto quando la situazione economica mondiale raggiunse lo stato di allarme rosso. Il basket, così come lo sport in generale, è un intrattenimento per il pubblico. Dunque, quando i tempi per chi deve mandare avanti una famiglia si fanno duri, i primi costi che si tagliano sono quelli superflui. E l’intrattenimento rientra decisamente fra quelli. Le franchigie NBA si ritrovarono così ad avere meno contratti, meno sponsor, meno biglietti venduti. Nella stagione passata 20 squadre su 30 hanno chiuso in perdita. Gli Orlando Magic, squadra finalista NBA, hanno registrato passivi tra i 15 e i 20 milioni di dollari. I Sacramento Kings sono arrivati a quota 25 milioni. E’ stato stimato che i Memphis Grizzlies incassino per ogni partita casalinga una cifra attorno ai 300.000 dollari, considerando biglietti venduti e tutto quello che viene venduto all’interno del palazzo. Una somma irrisoria. Moltiplicati per le 41 partite casalinghe che una squadra gioca in stagione regolare danno una cifra che non si avvicina nemmeno a quella necessaria per rinnovare Rudy Gay. Ancora, i Clippers hanno chiuso la metà degli stand che normalmente tenevano aperti per vendere merchandising all’interno dello Staples Center. Insomma, tutto ciò ha portato a una situazione dove il costo del lavoro cresce più di quanto crescano i guadagni di chi quei costi li deve sostenere, cioè le franchigie. Come si intuisce, dunque, chi vuole ricontrattare l’accordo questa volta sono i proprietari. “Il lock out ci sarà – spiega l’ex guardia dei Kings Bobby Jackson – perché i proprietari spingeranno per tagliare i costi, mentre i giocatori per mantenere le cose così come stanno”. Ossia con il 57% degli introiti totali della NBA che và speso nei salari dei giocatori. Ma, a sentire David Falk, niente meno che l’agente di Michael Jordan, il manico del coltello sembra essere dalla parte dei proprietari: “I proprietari possono anche fermare tutto per due anni fino a che non trovano nuove buone condizioni. I giocatori non hanno i mezzi per stare fermi anche solo 12 mesi.” Dichiarazione che può sembrare forzata se si pensa ai soldi che guadagna un’atle-
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ta NBA, ma che in realtà ha parecchio fondamento, visto che, come disse Patrick Ewing all’epoca dell’ultimo lockout: “Guadagniamo molto, ma spendiamo anche in proporzione”. Da quanto è trapelato finora sembra che le richieste dei proprietari siano quelle di abbassare la durata massima dei contratti da 5/6 anni a 4, probabilmente con solo i primi due garantiti e il terzo e il quarto assicurati unicamente dietro a un determinato rendimento nei primi 24 mesi, assieme a un ulteriore abbassamento del salary cap, così da forzare un livellamento verso il basso della portata dei prossimi contratti, evitando, o perlomeno attutendo, il problema prima accennato di restare “schiavi” di un giocatore e del suo contratto. Per rendere l’idea, un proprietario, restando nell’anonimato, ha dichiarato che: “con il nuovo contratto, Amarè Stoudemire (il cui contratto, in scadenza, quest’anno comanda 16,378,325 dollari) finirà per guadagnare circa 5/6 milioni a stagione. Il concetto di base che deve passare è che ci sarà un cambio radicale.” Tesi confermata da Brad Miller, dei Chicago Bulls: “"I proprietari, con la loro prima offerta, hanno dimostrato di voler apportare grandi cambiamenti, specialmente per quello che riguarda la free agency. Hanno adottato un linea molto dura." Non si vedranno più contratti da 23 milioni all’anno come quelli di McGrady, Kobe Bryant o Jermaine O’Neal. Il massimo contrattuale probabilmente verrà portato attorno ai 16/18 milioni e con l’abbassamento del salary cap il resto si sistemerà di conseguenza. La situazione, insomma, è davvero pesante. La Lega, in teoria,
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avrebbe l’opzione per rinnovare l’attuale CBA fino alla fine della stagione 2011/2012 entro il 15 dicembre di quest’anno, ma è fuori discussione che questo accada, e così il contratto terminerà il 30 giugno del prossimo anno. Tra i giocatori pare esserci abbastanza insicurezza, perché, se i proprietari sembrano uniti nei loro intenti, lo stesso discorso non sembra valere per chi deve andare in campo. “Oggi nella Lega la maggior parte dei giocatori hanno contratti figli della negoziazione del 1998 – dice ancora Grant Hill quindi non sono passati attraverso le difficoltà di chi arrivò a determinare quell’accordo. Molti dei giocatori di oggi probabilmente non si rendono conto della portata negativa che avrebbe un lock out.” Come diceva, infatti, Ewing i giocatori NBA con i loro guadagni spropositati vivono una vita al di sopra delle possibilità di quasi tutti gli altri esseri umani, e sono abituati ad avere spese a loro volta molto superiori alla media. Ritrovarsi improvvisamente senza uno stipendio potrebbe essere una situazione di difficile gestione, specie per i più giovani. Senza contare i danni che uno stop di più mesi avrebbe per quel che riguarda la condizione fisica. Il discorso qui, invece, potrebbe valere più per giocatori avanti con gli anni, che quindi necessitano una preparazione fisica più adeguata. Fino a quest’estate e probabilmente fino al giugno del 2011, insomma, godiamoci più che possiamo lo spettacolo della NBA, perché la off season di quella stagione potrebbe essere molto più lunga del solito.
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L’ANALISI -2
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DI
D OMENICO P EZZELLA
Five Man Rotation: I Denver Nuggets Dieci su tredici. Praticamente la stessa squadra dalla Finale di Conference della passata stagione che solo per un ciuffo d’erba non è arrivata ad una memorabile e spettacolare Gara7. Dieci su tredici di impiego e forse la formazione che utilizza meno giocatori di
tutta la Nba, ma questo non è certo un problema per un allenatore che nella sua carriera non è certo abituato al ‘platoon system’ o a girandole di cambi o una panchina lunga come avrebbe invece preferito il buon Oronzo Cacnà per la sua Longobarda. Dieci su tredici
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e quindi ovviamente si fa prima a parlare di chi dalle non tremende rotazioni dell’ex coach dei mitici Seattle Supersonics (una delle squadre, insieme agli Utah Jazz, che hanno avuto la sfortuna di vivere nel momento di ‘Regno’ di Michael Jordan e che altrimenti avrebbero avuto certo un anello e storia diversa ndr) entra poco e niente o quanto meno non il tempo necessario per finire in statistiche di un certo rilievo come quelle del ‘Five man rotation’. Renaldo Balkman, Johan Petro e Malik Allen. Questi i nomi raramente pronunciati dal direttore d’orchestra del Colorado e che in generale scendono in campo solo quando strettamente necessario o quando una ‘moria delle vacche’, ci scuserà per la citazione il grandissimo Principe della risata Antonio De Curtis, impedisce Karl di girarsi intorno e non vedere quelli che potremmo tranquillamente chiamare come i suoi fidi scudieri. Ed allora tutto ruota intorno a chi questa squadra da metà, o quasi, della passata stagione l’ha portata in auge, l’ha portata ad un passo da una storica Finals e ad un passo dal rovinare la stagione da predestinato di Kobe Bryant. Chauncey Billups, Carmelo Anthony, Kenyon Martin, Nenè Hilario, The Birdman Chris Andersen, Anthony Carter e Jr Smith. Un gruppone al fianco del quale sono poi cambiati gli attori non protagonisti da Afflalo a Lawson fino ad arrivare a Joey Graham. E proprio l’ex Detroit Pistons, arrivato tra le innevate montagne di Denver nella trade che ha spedito Allen Iverson nella motor city in cambio proprio dell’ex Ucla e logicamente la pedina spregiata Chauncey Billups, il nome che più sta sorprendendo da qualche tempo a questa parte. Il suo nome finalmente finisce in quasi tutti i quintetti schierati da Karl a dimostrazione che
il ragazzo con il lavoro e la dedizione ha saputo scalfire il cuore a prima vista di ghiaccio e gelido del suo allenatore. Il suo nome compare tra i cinque che attualmente hanno giocato la maggior parte dei minuti a disposizione nei 48 di una partita. Inserito in corsa nello starting five, insieme a Billups, ‘Melo, Martin e Nenè, Afflalo è parte dello schieramento che conta al momento di scrivere 397,1 minuti di media ovvero il più alto minutaggio della squadra. Una dimostrazione di come coach George Karl inizi, prosegui e tenti a finire le partite con gli stessi uomini fondamentali. Un quintetto che paradossalmente, però, non è quello più vincente (ma essendo quello più utilizzato nella buona e cattiva sorte ci può stare che siano presenti nelle vittorie e nelle sconfitte ndr) con 16 successi e 10 sconfitte (per un 61,5% totale) ma anche un +91 di plus/minus ed un rapporto di punti segnati e subiti niente male: 1,11 per minuti giocato la statistica offensiva, poco sopra il punto subito quella difensiva con 1,01 punti concessi agli avversari, tanto per esser precisi. La dimostrazione di quanto Karl si fidi cecamente dei cinque sopra indicati e la differenza di impiego tra quello che, nella casella dei minuti giocati, è il primo ed il secondo quintetto. Oltre i 290 giri di lancette circa, la differenza in questione. E con l’unica differenza rispetto a quello di partenza della sostituzione di Graham al posto di Anthony. Una sostituzione che ha preso piede, tra le altre cose, specialmente nel periodo in cui l’ex Syracuse è stato costretto a dare forfait per alcune partite causa problemi fisici. Senza contare che far riposare colui che a lungo (gli infortuni di cui sopra hanno permesso a Durant di Scavalcare Anthony al momento di scrivere nella classifica dei
TUTTI I QUINTETTI MIGLIORI DI COACH GEORGE KARL PLAYER
Min Off
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‘cannonieri’ ndr) è stato il miglior realizzatore della Lega è sempre cosa buona e giusta, dal momento che la sua condizione fisica è quella più importante per fare quel passo in più rispetto alla passata stagione. Una scelta che però non entusiasma molto lo stesso Karl visto che il record complessivo dello schieramento è nettamente negativo con 2 sole vittorie e 7 sconfitte (22%), un -33 di plus/minus e una differenza tra punti subiti e quelli segnati tutta a favore di quelli concessi agli avversari con 1,03 per minuto giocato in attacco e 1,18 per minuto giocato nella propria metà campo. Numeri che portano quindi a quella che è la terza opzione anche in momenti cruciali quella che rispetto al line up della palla a due vede solo il veteranissimo Anthony Carter (si proprio quello visto a Scafati qualche stagione fa!) prendere il posto di Afflalo, togliere l’incombenza a Billups di portare palla e fungere da collante tra l’attacco e la difesa per lui che in questo sistema è l’esperto difensivo. Non a caso il rapporto punti subiti/minuti giocati è uno dei più bassi, ma non il più basso, con 1,05al quale corrisponde un 1,21 in attacco spiegabile con tanti tiri in più per i vari Billups ed Anthony con un giocatore/tiratore in meno (5-3 il record delle vittorie e delle sconfitte e +33 il valore del plus/minus). Da qui in poi iniziano tutti quelli che potremmo definire come gli ‘special team’ del football americano. Quintetti particolari con caratteristiche particolari. Non potrebbe essere altrimenti, visto che al di sotto dei cento minuti giocati complessivamente è il tempo dei vari JR Smith e Chris Andersen. Due giocatori che per peculiarità e tecnica possono rivoltare la gara come un calzino per poi riconsegnare tutto a chi di dovere. Un ruolo accettato con serenità dall’idolo della folla ‘The Birdman’ che scende in campo, corre, difende, incendia l’arena per poi portare la sua ‘cresta volante’ di nuovo in panc hina. Poco meno il nuovo ‘Trasformers’ (per chiarimenti dare un’occhiata alla rubrica You Can’t
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C M e d e l n u m er o s co r so n d r ) d e l C o l or a d o . L’inserimento di Afflalo nel quintetto è stato un piccolo, ma duro, colpo all’ego di un giocatore che se fosse per lui toglierebbe palla anche a Billups e Melo per fare tutto da solo. Una situazione di odio/amore con il suo coach dovuta all’esuberanza, all’eccessivo strafare e anche a qualche piccola libertà in difesa che non certo fanno piacere all’ex Sonics. Dall’altra parte però l’atletismo ed il tiro dalla lunga distanza, a volte anche lunghissima, sono elementi fondamentali per questa squadra oltre a fare di Smith uno dei talenti più ammorbanti di questa Lega. Trasformers e The Birdman entrambi presenti nei due quintetti al di sopra del 90% di utilizzo per Karl con entrambi un record positivo. Di 59%, con 13 vittorie e 9 sconfitte quello che vede tutti assieme appassionatamente sul rettangolo di gioco Billups, Smith, Anthony, Martin ed Andersen e che vale un 1,18 in attacco e 1,02 (ancora una volta basso rapporto ma non il più basso!) in difesa. L’assenza del Figliuol Prodigo di Denver, all’epoca Chauncey Billups, incide sul rapporto offensivo in quello che vede impegnati a reggere l’onda d’urto in campo, con Lawson a dirigere l’orchestra, Smith ed Anthony a dividersi gli oneri e gli onori dell’attacco (l’1,08 nel rapporto punti segnati per minuti giocati ne è la nitida dimostrazione ndr) e Martin e Andersen a dividersi quelli in difesa (1,04 la statistica nella propria metà campo per un record complessivo di poco al di sopra del 50% e record fatto di 11-10 ndr). Altro giro altra corsa, altro quintetto ed altra caduta in termini di minuti offerti all’inserimento di JR Smith tra i fedelissimi dello stesso Karl (Billups, Anthony, Martin e N e n è ) : 9 v i t t o r i e, 5 s c o n f i t t e ( 6 4 , 2 % ) , + 1 4 d i plus/minus e differenza di 0,11 tra punti segnati e subiti in circa 78 minuti di impiego. Di qui in poi solo una serie di combinazioni, solo una serie di rotazioni per necessità con sempre almeno due/tre degli scudieri a fare al guardia al tutto fino ad arrivare a quello che però è il dato tanto accennato e forse più rilevante: quello che potremmo definire il quintetto difensivo per eccellenza dei Nuggets. Meno di un punto al minuto, la statistica lasciata agli avversari quando in campo ci sono Lawson, Afflalo, Smith, Andersen e Nenè Hilario. Per la precisione i numeri dicono 0,92 con un +61 di plus/minus e 75% di vittorie con 15 ‘W’ e 5 ‘L’. T u tt o q u e st o p o t r e b b e b a st a r e p e r s b al o r d iv i ? Assolutamente no, visto che sempre lo stesso quintetto, in poco più di 71 minuti, è anche quello che ha il più alto valore di punti segnati per minuti giocati con 1,32 segnature a giro di lancette. Un mistero? Forse si, ma soprattutto la spiegazione del perché nonostante qualche acciacco di troppo, e qualche mancanza strutturale di troppo (sono in tanti gli addetti ai lavori a considerare Denver una squadra troppo leggere nella front line, oltre che povera in numero, per arrivare fino in fondo e vincere il titolo ndr) i Nuggets sono ancora una delle prime formazioni di tutta la Western Conference.
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IL PERSONAGGIO
Chi ha inca st rato ... Larr y HUghe s
Nel mondo sportivo esistono due diverse concezioni del concetto di fallimento: una riguarda sicuramente quegli atleti che potenzialmente potrebbero ribaltare il mondo, ma che purtroppo finiscono con l’autoribaltarsi a causa delle avversità del Fato: parlando cestisticamente, possiamo includere in questa categoria Tracy McGrady per tutta l’arco della sua carriera o anche il Grant Hill di Orlando: giocatori talentuosi, potenzialmente devastanti, che non hanno, tuttavia, avuto modo di esprimersi a causa di infortuni di ogni sorta, che ne hanno ostacolato una prevedibile ascesa nell’Olimpo di Naismith. Esiste poi un’altra categoria, più affascinante e irritante allo stesso tempo, che comprende coloro che, pur avendo avuto il dono dell’ atletismo e del talento, non sono mai riusciti a farlo fruttare, maggiormente per demeriti personali piutto-
DI
G UGLIELMO B IFULCO
sto che a cause di forza maggiore: ed è proprio nella forza maggiore che si concentra un po’ quello che è il “savoir vivre” di ciascun uomo, perché è vero che qualunque individuo è vittima del Caos o della tùke Tucididea, ma, entro certi limiti, sono gli uomini stessi a indirizzare il loro destino e il ricordo che di loro si avrà, relazionato al momento in cui abbandoneranno la scena (in senso sportivo, sia chiaro). Larry Hughes, combo guard attualmente “in cerca di impiego” rientra perfettamente nella suddetta categoria: atleta a dir poco superbo, talento offensivo superiore alla media delle guardie NBA, talento difensivo da assoluto èlite, aveva tutti i mezzi a disposizione per riuscire a sbarcare il lunario e dire la sua in un mondo ovattato e luccicante come quello della NBA. Occasioni per affermarsi ne ha avute e anche parecchie. Situazioni tecniche in cui poteva ergersi ve ne sono state (e ci mancherebbe con le caratteristiche di cui dispone), vedi l’opportunità di giocare accanto a giocatori assolutamente dominanti, tra i quali l’Allen Iverson versione Belle Epoque di fine anni 90-inizio 2000, o il LeBron James designato da tutti come il prossimo monarca (tiranno?) di questo gioco, o ancora il Gilbert Arenas versione pre-infortunio e pre-ClintEastwood, e last but not at least il treno D’Antoni (che ha dato un senso alla carriera di gente del calibro di Quentin Richardson e Tim Thomas, non esattamente discendenti di Stakanov).L’esito è sempre stato drammatico. Di occasioni, dunque, ne ha avute per affermarsi l’oramai 31enne treccinato da St.Louis, ma la sorte ha voluto che i suoi fortissimi limiti caratteriali ne impedis-
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sero anche una soltanto minima e parziale crescita. È ancora presto per dire se siamo arrivati al Game Over, quindi cerchiamo di capire quali possono essere stati i motivi di questo flop: arrivato nella Lega nel 1999, anno del celeberrimo Lock-out alla corte di Allen Iverson, Larry Hughes ha da subito mostrato il suo indiscutibile bagaglio fisico atletico e un certo caratterino, che di certo stonava non poco con il regime totalitario che vigeva all’epoca in Pennsylvania. La necessità di costruire un progetto solido attorno a AI3 impattava fortemente sulle velleità cestistiche del buon Larry che, tra tanti pregi, ha, di contro, sempre mostrato costanti limiti nelle scelte di gioco, riflesse dalle perenni percentuali pietose dal campo. Se a 20 anni tutto è concesso, causa immaturità, era effettivamente presto per dare giudizi avventati sul giovane e la credibilità di certo non difettava, in giro nella Lega, riguardo al suo conto, motivo per il quale una franchigia perennemente disastrata, ma sempre attenta ai giovani talenti, come i Golden State Warriors, decise di acquisirlo per rilanciare le sue quotazioni e ritrovarsi in casa un futuro all star: arrivato a metà stagione, nel 2000 Larry mise a referto, in quel di Oakland, 23 punti a sera con 6 rimbalzi, 4 assist e 2 steals di media: premesse più che promettenti e indici di buon augurio per l’avvenire. Le stagioni seguenti, tuttavia, videro un rendimento costante di Hughes, statistiche buone , ma al contempo emergeva la sensazione che il meglio di quello che il ragazzo potesse esprimere fosse già stato visto: furono questi i motivi che spinsero la dirigenza della California a spedirlo nella Capitale assieme a Gilbert Arenas (ancora lungi dall’esplosione); ed è proprio in maglia Wizards che Larry fornisce le migliori prestazioni della propria carriera, terminando l’annata con 23 punti, 6.3 rimbalzi, 4.7 assists e ben 3 palle rubate a partita.. al di là degli ottimi numeri, in quell’annata si vide un difensore spietato, dalle mani supersoniche, abile a leggere gli attacchi e astutissimo lungo le linee di passaggio: reduce da queste strepitose prestazioni arriva il corteggiamento dei Cleveland Cavs, che vedono in lui la spalla ideale per la crescita di LeBron James: sulla carta l’innesto è superlativo e più che mai azzeccato, considerando il potenziale stile all-around di Hughes, che incarnava nell’immaginario collettivo la figura della spalla versione Pippen accanto al Prescelto: tra infortuni (uno che gli ha negato tre quarti di regular season su tutti) e guerre interiori, Larry non è riuscito a collocarsi nel sistema di Silas ed è paurosamente rimasto schiacciato dal peso della pressione esercitatagli attorno. È cosi che si è dissolta la sua credibilità nella lega, e le ultime stagioni disputate a girovagare varie franchigie sono l’inconfutabile e intangibile sintesi del pensiero che ricorre nell’immaginario dell’appassionato medio della NBA su di lui, descrivibile con una sola parola: delusione. L’agonia di una carriera volta al continuo tentativo di trovare una collocazione ed un’identità precisa nella geografia della palla a spicchi sembra essere stata archiviata irreversibilmente l’ultimo 18 febbraio, data in cui LH ha abbandonato New York per Milwaukee, per essere poi tagliato di li a poco dalla franchigia del Wisconsin. Un vero peccato vedere tanta grandezza implodere esclusivamente per autolesionismo caratteriale. Il fato ci ha messo il suo, Larry è sempre capitato nei posti sbagliati e nei momenti sbagliati, ma considerando potenzialità e talento avrebbe potuto e dovuto fare qualcosa in più. La speranza è quella di rivederlo, magari da specialista difensivo, in una contender nel giro delle prossime stagioni per rivendicare un degno crepuscolo sportivo, la paura è che , sportivamente parlando, non ci sia più un domani cestistico per lui.
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di
S TEFANO PANZA
ROOKIE TIME Fonte foto: http://ladiesdotdotdot.files.wordpress.com
Race to ‘Rookie of The year’
Nonostante le due primissime scelte dell’ultimo draft sono state, per motivi differenti, fuori uso, l’annata delle matricole 2009 può considerarsi di ottimo livello. Bisogna infatti ricordare che Blake Griffin, prima scelta assoluta, dopo aver fatto vedere ottime cose in pre-season non ha disputato neanche un minuto con la maglia dei Clippers a causa di una serie di infortuni, mentre Hasheem Thabeet, chiamato al numero 2, è ancora lontanissimo da quello che può considerarsi un giocatore NBA. Mentre l’anno scorso il premio di Rookie of The Year è stato assegnato a Derrick Rose con una certa omogeneità di giudizio, quest’anno l’ambito trofeo non ha un destinatario certo, e a circa un mese dallo scadere della regular season almeno cinque giocatori possono aspirare al premio di migliore matricola dell’anno. Ciò che caratterizza l’ultimo draft è senz’altro la presenza di giocatori molto interessanti nelle posizioni di scelta meno nobili, come ad esempio DeJuan Blair alla n.37 per i San Antonio Spurs, Jonas Jerebko alla n.39 per i Detroit Pistons, Marcus Thornton alla n.43, scelto da Miami e girato subito agli Hornets, Chase Budinger alla scelta successiva, la n.44, effettuata dagli Houston Rockets. È difficilmente ipotizzabile, però, che uno di questi possa ambire alle posizio-
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LE STATISTICHE DI BRANDON JENNINGS
...COSI’ NELLE ULTIME 5 PARTITE...
ni altissime della classifica dei migliori rookie, eccetto forse Thornton, messo però in ombra proprio da un suo collega a New Orleans Darren Collison, di cui parleremo più avanti. Collison è infatti uno dei papabili contendenti al successo finale, così come Tyreke Evans, Brandon Jennings, Stephen Curry e Ty Lawson. Partiamo, in ordine di chiamata, dal fenomenale playmaker dei Sacramento Kings, quel Tyreke Evans scelto con la n.4, che ha convinto la dirigenza al punto da farle intraprendere uno scambio per allontanare dalla California Kevin Martin, fino all’anno scorso il leader indiscusso dei Kings e perno per un’eventuale ricostruzione. Evans sta viaggiando a 20.3 punti a partita, 4.8 rimbalzi (dato interessante per un playmaker) e 5.4 assist. Eclatanti i 34 punti segnati ai Bobcats il 18 gennaio scorso, ma purtroppo per lui le sue probabilità di vittoria sono fortemente frenate dal pessimo rendimento dei suoi Kings, che con un record di 21-42 sono già fuori dalla corsa playoff da almeno un mese. Stando alle cifre e al rendimento individuale, però, è senz’altro la matricola che ha maggiormente impressionato. Scendiamo fino alla chiamata n.7, dove troviamo Stephan Curry, giocatore che sembrava destinato ai New York Knicks, che avrebbero scelto con la chiamata n.8, la seguente, ma che sono stati invece bruciati dai Warriors che faranno di lui l’uomo della riscossa. Curry è un talento straordinario, agile e rapido come forse soltanto Allen Iverson prima di lui, e dotato anche di un tiro micidiale. Offre il meglio senza un altro (finto) playmaker come Ellis, e non è da escludere dunque un’e-
ventuale cessione di quest’ultimo, un po’ come è accaduto ai Kings. Curry finora ha confezionato 16 punti di media, ma le sue cifre sono condizionate da un inizio di stagione in cui ha riscontrato qualche difficoltà di troppo, anche per la presenza troppo ingombrante proprio di Monta Ellis. Per lui comunque c’è un massimo di 36 punti nella gara contro i Clippers del 10 febbraio. Come Evans, pagherà certamente la pessima annata di Golden State, che con sole 17 vittorie in 63 incontri difficilmente potrà festeggiare un premio per un suo giocatore. Scendendo fino alla chiamata n.10 troviamo Brandon Jennins, giocatore che fin dal momento in cui è stato annunciato il suo nome il giorno del draft ha iniziato a far parlare di sé: aspettandosi una chiamata più alta, infatti, il giocatore non si trovava insieme a tutte le altre possibili matricole, lasciando dunque il commissioner David Stern con un palmo di naso. Situazione singolare per un giocatore singolare, il quale dopo una stagione in Italia alla Lottomatica Roma con un rendimento decisamente mediocre, si è presentato in NBA con 55 punti infilati nel canestro dei poveri Warriors, sconcertando tutti gli appassionati e mettendo in bilico il futuro dei nove gm che avevano guardato altrove invece di sceglierlo. Col tempo Jennings ha ripreso sembianze umane, attestandosi su 15.8 punti a partita. Ha però attraversato un periodo molto negativo, con l’inizio del nuovo anno solare. È andato incontro come nessun altro a quello che si suole denominare “Rookie Wall”. Ma la trade che ha portato a Milwaukee John Salmons ha giovato molto anche a lui oltre che ai suoi Bucks, sali-
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ti fino al quinto posto ad est trascinati dal loro giovane rookie. Attualmente, se Milwaukee dovesse confermare i progressi evidenziati nelle ultime settimane, l’ex Lottomatica Roma avrebbe notevoli chance di aggiudicarsi il premio di miglior rookie. Al n.18 Minnesota ha scelto, prima di girarlo a Denver, Ty Lawson, piccolo playmaker in grado di coprire alla perfezione anche lo spot di guardia. Eccellente il suo contributo quando è stato chiamato in causa per sostituire l’infortunato Billups. Attualmente è Lawson ad essere lontano dai campi di gioco da diverso tempo, e forse proprio questa recente inattività potrebbe privarlo di qualche voto. I suoi 9 punti di media non sono eccezionali, ma va considerato che ha giocato soltanto 21 minuti a partita, per giunta in
una delle squadre più forti di tutta la lega senza far rimpiangere minimamente un campione come Billups. I giudici che daranno maggior risalto alla personalità e alla leadership di una matricola, vedranno certamente in Lawson il loro prediletto. Torniamo dunque a Darren Collison, scelto alla n.21 dai New Orleans Hornets. Collison ha trascorso la prima parte della stagione in panchina a seguire le imprese dei suoi compagni, che a dire la verità non si stavano comportando molto bene. Con l’arrivo in panchina di coach Bower e l’infortunio di Chris Paul, l’impiego dell’ex UCLA è notevolmente cresciuto senza deludere minimamente le aspettative, anzi. Paul è arrivato a dire nientemeno che la squadra giocasse meglio con Collison che con lui. Gli 11 punti a partita sono signi-
LE STATISTICHE DI STEPHEN CURRY
...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
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LE STATISTICHE DI TYREKE EVANS
...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
ficativi soltanto se accostati ai soli 24 minuti d’impiego, così come i 5 assist confezionati a gara. Se New Orleans ha ancora qualche residua chance di playoff, lo deve soprattutto al piccolo playmaker al primo anno nella lega, oltre che al già citato Marcus Thornton. Ma a nostro modesto parere Collison ha minori possibilità di trionfare rispetto ai quattro colleghi appena descritti. Da notare che dal draft 2009 è uscita una grandissima quantità di talentuosi play-
maker, al punto che tutti i candidati al ROY occupano quella posizione in campo. Del resto Griffin e Thabeet, come detto, non hanno potuto offrire il loro contributo. Tra i pochi lunghi emersi segnaliamo Taj Gibson, leggerino ma estremamente aggressivo, e Hansbrough, che ha però avuto diverse noie fisiche. Buoni giocatori che avranno un futuro assicurato nella lega, ma che in questo anno da matricole non hanno espresso ancora tutto il loro potenziale.
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OCCHI PUNTATI SU...
Nba Team By Team: Eastern Conference
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Miami Heat
Nba ‘Team by Team’
Florida is on fire... Dwyane Wade prende le gare e le fa venire da sè, guida i compagni con leadership e con grande dose di attributi, rilancia i Miami Heat in zona playoff, arrivati adesso al settimo gettone della roulette russa ad est, anche se con qualche partita n più. Tre vittorie di fila le ultime due importanti, contro i Lakers e gli Hawks. Partiamo dal supplementare con i losangelini. Kobe pensava di poter ripetere anche in terra orientale la sua grande prestazione dello Staples Center, e iniziava forte, coadiuvato da un super Artest che annullava il numero 3 da Chicago da dietro per numerose volte. Ma Wade non si faceva scoraggiare dal punteggio in negativo all'intervallo, nè dal suo 2/10, si metteva al servizio dei suoi compagni e prima con l'energia di Beaseley, e poi mettendo in ritmo il vecchio Quentin Richardson che con tre triple scava il solco. Le magie di DWade fanno il resto, ma Kobe dal gomito sulla sirena manda tutti all'overtime e lì poi la classe di Miami ha il sopravvento e il buon vecchio Haslem col piazzato dai due metri porta alla vittoria i suoi. 48ore dopo e anche gli Hawks cadono sotto i colpi dei ragazzi di Spoelstra che possono ancora sperare di classificarsi al 5^ posto. La crescita dalla panca di un collettivo buono, l'esperienza che Chalmers sta facendo, quella di Beaseley anche da numero 5, l'esperienza del vecchio Haslem, nonchè la forma di O'Neal fanno ben sperare, che Spolestra possa fare un altro miracolo? Bisognerà stare attenti al rush finale di quelle che dietro inseguono e azzannano i Rossi di Miami
DI
D OMENICO L ANDOLFO
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Atlanta Hawks
Per lo spauracchio dell'est , l'unica squadra tosta a parte le Big three, quella che nessuno vorrebbe ritrovarsi l playoff, periodo di transizione. Josh Smith e compagni, usciti indenni dalla raffica di trade di Gennaio e Febbraio, proseguono sulla loro strada, e sfruttando un piccolo calo da parte di Orlando si sono riportati sotto grazie a una serie di 4 vittorie consecutive, di cui l'ultima, anche ad alto punteggio, contro i Warriors di Don Nelson, che per una squadra tutta difesa come quella Georgiana è qualcosa di importante. peccato che nel quinto incontro
DI
D OMENICO L ANDOLFO
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sia arrivata una sconfitta dolorosa contro i Miami Heat che ha fermato il Magic moment e ha provocato qualche maretta. Josh Smith è un giocatore completo e che sta trovando la sua consacrazione non solo come grandissimo difensore ma anche come realizzatore e i 29 punti alla Oracle Arena lo dimostrano. Se riuscirà a superare la paura del "long two" e inizierà a colpire anche dall'arco potrebbe guidare i suoi a una storica semifinale. I falchi di Atlanta, se riusciranno a fare arrivare Joe Johnson in forma al rush finale playoff, se al primo turno riusciranno a risparmiare energie evitando una gara 7, e se potranno contare sui kili e rimbalzi di Horford, nonché sulla versatilità dalla pan-
china di Jamal Crawford, che la 99,9% vincerà il premio di miglior sesto uomo, potranno essere la mina vagante della griglia in cui Cleveland vuole dominare. Bibby è un ottimo playmaker dobbiamo vedere se ce la farà a resistere col peso degli anni, e creare un nuovo miracolo Sacramento anche nella cittadina affollata della Georgia. Qualcosina in più può arrivare anche dalla panchina con Williams e anche il buon Zaza Pachiulia, che molto sottovalutato, gara dopo gara, si sta costruendo un bel curriculum di eccellenti prestazioni. quindi, attento King James, prima di impossessarti della Casa Bianca e dell'anello, devi giurare sotto la testa di un'aquila, e attento che non ti becchi...
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Boston Celtics
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La sconfitta contro i New Jersey Nets è la fotografia di come la compagine del Massachusetts non stia attraversando proprio un periodo florido cosi come l’aver dovuto per forza di cose cambiare qualcosa in termini di squadra. Beh ormai è cosa nota anche alle pietre dell’arrivo alla corte di Doc Rivers e di una squadra che fa sul serio e non una che attende solo ed esclusivamente di trovare il momento giusto per rituffarsi nei fasti del passato, sia stata la mossa che più ha lasciato a bocca aperta nonostante i tanti scambi interessanti prima del termine
DI
D OMENICO P EZZELLA
finale del mercato. Da quel 18 di febbraio in poi mister Nate Robinson ha avuto anche modo di griffare partite, nel bene o nel male, da Nate Robinson e dimostrarsi quanto meno un giocatore che per adesso sa stare al suo posto, per adesso. Gli infortuni, la stagione tribolata, il non apporto che forse tutti si aspettavano di Rasheed Wallace (9 punti e 4 rimbalzi circa di media) o per esempio Marquis Daniels, anche se l’ex Pacers nelle ultime settimane ha un po’ schiacciato il piede syull’acceleratore giustificando la scelta fatta in estate dal front office biancoverde di portarlo a Boston con un ruolo tattico ben preciso ovvero quello di all-around capace anche di portare, in situazioni particolari, anche palla dall’altra parte. Sul capitolo Sheed poi potremmo aprire un’intera sezione, ma forse è troppo presto per dare giudizi. La regular season non è mai stato il punto forte dell’ex Pistons. Il letargo dovrebbe finire a primavera inoltrata, quando il profumo di grandi imprese, quando il profumo di
grandi sfide lo sveglierà dal semi letargo e porterà sul parquet il giocatore che in estate ha trasformato i Big Three in Fab Four. I playoff. E’ opinione ormai comune dall’altra parte dell’oceano che la stagione dei Celtics inizierà proprio al termine della regular season; quando l’esperienza ed il talento della squadra guidata da Rivers mostrerà le unghie ed i denti. D’altronde lo scorso anno senza il leader ormai indiscusso della truppa bostoniana, Kevin Garnett, i Celtics hanno saputo elevare il proprio rendimento arrendendosi solo ed esclusivamente ai Magic che però per la post season che avevano inanellato avevano gli Dei del Basket dalla loro parte. Per adesso cancellare l’onta della sconfitta contro i Nets, provare ad alzare il volume della radio, provare a dare qualche segnale importante da qui all’inizio delle vere ostilità, sarà il liet motive della truppa di coach Doc Rivers. Poi si sa i playoff sono una stagione a parte e li Boston potrebbe sorprendere tutti…nel bene o nel male.
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Washington Wizards
DI
D OMENICO L ANDOLFO
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Capitale anno zero: ancora le scosse e le ripercussioni di Arenas si fanno sentire, lo sconvolgimento della franchigia con la perdita delle stelle Jamison e Butler e l'arrivo di un positivo Howard e di un Zyd Ilgauskas che già è andato via, consegnano alla lega di David Stern una squadra brutta
se ce ne è una, che non ha grandi doti stellari, capace di avere però buoni giovani, o almeno sulla carta è così.... Diciamo che si può dire che il migliore in piazza è il vecchio Boykins che dopo la parentesi italiana ha ritrovato il suo vecchio ruolo di peperino nella lega americana e ci mette sempre grande impegno e costanza. Da verificare Thornton, così come Singleton, qualche speranza per il futuro arriva da Nick Young una guardi molto
talentuosa che sa il fatto suo e potrà diventare una stella nei prossimi anni. In questi frangenti di transizione non si può che essere una squadra perdente e che non può togliersi soddisfazioni, non c'è molto da salvare nell'armadio, ripartire e rifondare tutto per dare alla squadra del presidente Obama una a parte le triple di Miller non c'è altro da dire... I maghi hanno perso le loro formule e avranno bisogno davvero di un miracolo per poter tornare a volare.
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Detroit Pistons
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Poco da salvare anche nell’ultimo periodo per i Detroit Pistons, da tempo ormai concentrati sul riprogettare il proprio futuro e avviati e mettere in archivio la peggior stagione degli ultimi 10 anni. 6 sconfitte consecutive prima di una vittoria contro Houston hanno accelerato il processo e quindi al momento non si può fare altre che guardare ai singoli e cercare di consolarsi con i continui progressi dello svedese Jonas Jerebko. Nelle 12 partite giocate fin qua dopo la kermesse di Dallas l’ex Biella ha collezionato cifre in crescita, con 11 punti 6.7 rimbalzi e il 53,6% dal campo. La sua presenza sul campo, però, non si limita ai numeri.
DI
N ICOLÒ F IUMI
Come molti rookie che arrivano dopo alcuni anni di esperienza europea, Jonas si è dimostrato molto più pronto a giocare di tanti altri coetanei e lo si è visto specialmente nel lato difensivo del suo gioco dove è uno dei più efficaci, se non il più efficace, della propria compagine. Una sua presenza nel primo quintetto dei rookie non è del tutto da escludere. Delusione certa, invece, per quelli che dovevano essere i due colpi del mercato estivo, Villanueva e Gordon. L’ex Bucks ha ormai perso la fiducia dell’ambiente, continua a partite dalla panchina e non incide come dovrebbe. Ormai il suo minutaggio è sceso sensibilmente, e difficilmente sorpassa di molto i 20 minuti a partita accumulando cifre di conseguenza. Il rapporto con coach Kuester non è certo idilliaco. Non tanto diverso il
discorso per il tiratore della nazionale britannica. 8.4 punti e 40,2% al tiro. Questi i numeri che saltano all’occhio nelle sue ultime 12 partite. Ancora una volta le cifre parlano chiaro. Il feeling tra Gordon e i Pistons non è mai sbocciato e vederlo giocare in maniera così inconcludente stona parecchio con il giocatore, specialmente se si pensa a quello di mirabolante che la guardia da UConn fece vedere nel maggio scorso nella spettacolare serie di playoff contro i Celtics. Solo per la cronaca, fino alla fine di marzo rimangono 11 partite da giocare. 6 casalinghe (Utah, Washington, Cavs, Indiana, Chicago e Miami) e 5 esterne (Atlanta, Boston, Indiana, Cleveland e New Jersey), parte delle quali da affrontare senza Ben Wallace, fermato da un problema a un ginocchio.
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Philadelphia 76’ers
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Provare a salvare il salvabile. Provare a chiudere una stagione che definire deludente è un vero eufemismo, soprattutto se ci si guarda indietro e con la memoria si arriva fino a quel passo mancante dal costringere i Magic, poi futuri campioni della Eastern Conference, ad una gara7 davvero memorabile per il team della città dell’Amore Fraterno. Con il senno di poi è facile dire che il proverbio ‘mai cambiare la via vecchia con quella nuova’ è quello più accostabile ai Sixers, ma ad inizio stagione in pochi si sarebbero aspettati, nonostante i tanti dubbi sull’arrivo di Eddie Jordan ed il suo ‘Princeton Offense’ (non certo il sistema più adatto per giocare con una squadra che soprattutto nei lunghi non ha una mole di talento tale da poter eccellere in questo tipo di attacco ndr), una regular season fatta principalmente di bocconi amari e di dispiaceri. L’arrivo o meglio il ritorno a casa di Iverson aveva ringalluzzito tutto l’ambiente sperando magari in una specie di miracolo sportivo con Phila di nuovo in alto con il suo vecchio e indimenticato leader. Gli infortuni e ancora una volta l’incapacità naturale del ‘Little Man’ (cosi come lo chiamava Larry Brown nel periodo di convivenza philadelphiana ndr) di adattarsi ai tanti passaggi, blocchi e rispetto dei tempi dell’attacco preferito dal coach dei Sixers, hanno contribuito ad un record che attualmente dista otto partite dall’ultimo posto della Eastern ed in generale ben al di sotto del 50% con 22 vinte e 39 perse. Eppure l’inizio di febbraio quello in cui il nome dei Sixers è passato alla ribalta per aver infilato consecutivamente ben 5 vittorie
DI
D OMENICO P EZZELLA
mandando al tappeto tra le altre Chicago, New Orleans e Houston, sembrava poter essere una sorta di viatico per una ripresa miracolosa dovuta anche al ritrovato spirito da ‘Star’ di Andre Igoudala paradossalmente rinvigorito dall’assenza di AI e al ritorno all’attività di Lou Williams. Oltre i 17 di media il primo dopo aver abbassato notevolmente il tiro a gennaio (13,4 ad allacciata di scarpa) e 6,8 rimbalzi; 15 ed oltre complessivi per il secondo che da quando è tornato ha sempre aumentato il numero dei punti e dei giri in questione: 12,3 a
gennaio, 16 a febbraio e 21 abbondanti nelle prime tre uscite di marzo. Sempre in tendenza montagne russe l’apporto, invece, dello strapagato Elton Brand che dopo i 15 di gennaio è sceso poco sopra i 12 in tutto febbraio. Diciassette i punti segnati nell’unica sfida di marzo prima di avere problemi al tallone di Achille. Provare la rincorsa all’ultimo posto, detenuto dai Bulls, è l’unico obiettivo, tentare l’impossibile salvando, quindi, il salvabile, altrimenti quella che arriverà sarà un’estate caldina per i Sixers.
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Toronto Raptors
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‘E la lira si impennaaaa’. Questa era una delle frasi della presentazione di un noto comico italiano che in una altrettanto nota trasmissione impersonava CarCarlo Pravettoni. Pin Canada ad impennarsi sono state le vittorie dei Raptors che tra il mese di gennaio e quello di febbraio hanno messo in cascina un numero tale di vittorie da far passare il proprio record personale al di sopra del 50% inserendo di diritto, quindi, il proprio nome alle spalle di quello dei Boston Celtics all’interno dell’Atlantic Division. Un secondo posto ed un record che attualmente vale addirittura il quinto posto in assoluto all’interno della Eastern Conference ed un ipotetico primo turno contro gli Atlanta Hawks. Due mesi che sono valsi addirittura la partecipazione di Chris Bosh all’All Star Game, lo stesso Bosh che poi dopo la partecipazione nella ‘sua’ Dallas o meglio nel ‘suo’ Texas ha dovuto guardare tutto dalla ‘tribuna’ come saremmo abituati a dire se il tutto avesse riguardato un campo e una partita di calcio. Dieci vittorie e cinque sconfitte il bilancio del mese di gennaio (compresa la striscia finale del mese di 5 ‘W’ in fila ndr). Nettamente in parità quello di febbraio che però, nonostante il 50% ha fatto più bene che male ai canadesi. Il tutto per un complessivo 32-28 che porta anche e soprattutto la firma tricolore di Andrea Bargnani. Un Andrea Bargnani che sta salendo sempre più di colpi, sempre più di giri girando a 18 3 6 rimbalzi abbondanti di media nel primo mese dell’anno e salendo addirittura a 19 con 5,8 carambole nel mese scorso per un 17,3 e 6,1 complessivo fino a questo momento. Ma come direbbe qualcuno a questo punto, ‘la domanda nasce spontanea?’: se Bargnani gioca cosi bene, se Bosh è stato di un livello da All Star Game, se tutti i Raptors hanno scalato di marcia anche se di una soltanto, qual è il male dei canadesi diretti da Triano? La risposta è altrettanto spontanea e forse altrettanto scontata: la difesa. Certo che chiamare quella che viene messa in campo dai Raptors sera dopo sera con il nome di difesa è un’offesa bella e buona a chi davvero mette in pratica questo fondamentale nella Nba ed in giro per il mondo. Un qualcosa che Toronto deve ancora registrare o forse addirittura imparare nonostante alla corte dei ‘dinosauri’ del Nord America fossero arrivati gente come Jack, come Amir Johnson e forse, forse anche Turkoglu che un qualcosina nella propria metà campo, a momenti alterni come per esempio il turco che quando ha voglia e nei momenti cruciali ha sempre saputo cavare fuori il meglio di se (ma dell’ex Orlando parleremo tra qualche riga ndr). Segnare 104 punti e passa di media in attacco è un dato più che rilevante nella Nba moderna, non altrettanto subirne addirittura 105 ad allacciata di scarpa. Un dato e cifre che da sole vanificano quello che poi nella metà campo avversaria Bargnani e soci costruiscono possesso dopo possesso
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D OMENICO P EZZELLA
concedendo nella propria un più che abbondantissimo 50% dal campo agli avversari che vanno a bersaglio con un indicatore di 1,24 punti per tiri tentati, come dire più rare le volte che gli altri sbaglino che quelle che la difesa dei Raptors producono una palla recuperata. Dovesse Triano riuscire a convincere i suoi ad applicarsi molto di più e far scendere questo indicatore al di sotto della tripla cifra, allora si che Toronto potrebbe addirittura stupire da qui ai playoff. Le ultime due note sui Raptors riguardano il nostro Marco Belinelli ed il turco in ‘missione’ Hedo Turkoglu. Si parte da quest’ultimo che non sta certo entusiasmando dopo essere arrivato in estate con la fame del ‘big’ della free agency costringendo addirittura Toronto ad uno sforzo in più per sottrarlo a Portland.
Fino a questo momento più il primo Turkoglu (quello della Sacramento o dei primi anni di Orlando) che quello che ha infiammato i cuori dei Magic e dei fan dei Magic della scorsa stagione. I 12,8 punti di media sono una sorta di fumo negli occhi visto e frutto principalmente di un mese di febbraio in cui lo stesso giocatore ha messo in mostra il perché è stata una delle chiavi della stagione scorsa dei Magic (con 13 punti abbondanti), 8,8 nel primo scorcio di marzo, e la speranza è che con l’andare del tempo l’investimento possa dare i suoi frutti, magari nei playoff. Per quanto riguarda il ‘Beli’ beh dopo un mese di gennaio fatto almeno di regolarità di presenze in campo quello di febbraio e marzo sono tornati ad essere altalenanti come non mai.
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N e w Yo r k K n i c k s
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I sogni di gloria dei Knicks di raggiungere dei playoff che sarebbero stati se non leggendari, ma un qualcosa di molto simile, si sono infranti tutti nella specie di muro contro il quale New York ha sbattuto letteralmente il muso nel mese di febbraio. Prima e dopo la grande rivoluzione che a conti fatti non ha avuto tutta questa incidenza se non nel clamore dell’arrivo di T-Mac in maglia Knicks insieme ad Eddy House con Robinson trasferito a Boston. Ancora troppo poco il talento a disposizione di Mike D’Antoni la cui speranza, partita, dopo patita, resta sempre quella di terminare tutte le sofferenze e tutte le agonie che lo stanno portando anche ad una vecchiaia precoce (in costante aumento il numero dei capelli bianchi dell’ex giocatore e allenatore di Milano ndr). Il tutto dovrebbe coincidere con la famose a famigerata estate del 2010, quando se non sarà Lebron, New York ha tutte le intenzioni di accaparrarsi uno dei tanti free agent del mercato avendo fatto e disfatto una squadra da due anni a questa parte con questo chiaro intento. L’arrivo di McGrady, infatti, gioverà a NY non solo per una questione di marketing attuale, ma anche di salary cap con il contrattone del quasi rinato ‘Big Sleep’ uscito dal letargo texano in cui era finito, in scadenza prorpio all’ultima sirena di questa stagione cosi come quelli degli altri. Ma per tutto questo bisogna ancora soffrire per un mese e mezzo, bisogna ancora stringere i denti prima di poter finalmente parlare di ricostruzione vera e propria. Il presente dice che New York non riesce più a vincere. Sarà la stanchezza, sarà il talento di una squadra che davvero non riesce ad imporsi nemmeno con la peggior squadra della Lega, i Nets nel derby stracittadino, e che di volta in volta deve ricostruire una amalgama di gruppo che un qualcosa pur conterà nel sistema di insieme voluto da D’Antoni. House, McGrady, Sergio Rodriguez, Bill Walker e compagnia cantante sono del tutto nuovi alla filosofia ‘run and jump’ della New York cestistica. Non un problema per l’ex Celtics che in questa Lega è uno dei pochi ai quali la faccia tosta di prendersi un tiro anche quando non serve, non manca di certo. Ma l’ex Orlando è tornato all’attività effettiva solo da quando ha messo piede ai Knicks in cui è entrato in quintetto in pianta stabile. Attorno gli 8 di media fino a questo momento con la maglia numero 3 della Grande Mela e qualche segno di ruggine al quanto normale. Meno normale la flessione, che invece, ha colpito Danilo Gallinari che addirittura dalla rivoluzione di metà febbraio è passato con l’essere il 2-3 di New York all’essere spostato addirittura nella posizione di
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D OMENICO P EZZELLA
power forward con T-Mac nello spot di shooting guard e Wilson Chandler come point forward. Un febbraio ‘freddo’ se non glaciale a tratti, quello vissuto dal ‘Gallo’ che con ogni probabilità ha accusato qualche piccolo acciacco, come per esempio quello che non gli ha permesso di disputare al meglio lo Shootout a Dallas, ma soprattutto ha assaggiato realmente cosa vuol dire essere in campo ogni sera scontrandosi quindi con il classico ‘Rookie Wall’ per lui che rookie lo è
solo nella realtà e non sulla carta. Undici punti in tutto il mese di febbraio, qualche piccolo interrogativo di presenza e di aggressività nella parte finale e una percentuale dalla lunga ferma al 31,1% a fronte del 38 abbondante di gennaio e di questo primo scorcio di marzo. Numeri, rumors, parole e voci che dimostrano sempre di più che Danilo Gallinari è e sarà, senza mezzi termini, l’ago della bilancia dei Knicks di oggi e del domani ed anche del dopo domani.
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New Jersey Nets
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Battere i Boston Celtics e vincere quella che potremmo definire come la stracittadina con i Knicks, sono le uniche soddisfazioni di una squadra che a questo punto della stagione ha solo ed esclusivamente due imperativi: impedire di iscrivere il proprio nome nel libro dei record della Lega, ma dalla parte sbagliata ovvero quella della squadra con il peggior record di sempre (all’appello mancano tre vittorie per oltre passare quel 9-73 di appartenenza ai Sixers del XX ndr) e quello di immettere nell’urna che selezionerà l’ordine di scelta del prossimo Draft il più ampio numero di palline possibile per avere la prima scelta assoluta che risponde al nome di John Wall di Kentucky. Per il resto ‘adda passà a nuttat’ è il motto di una squadra che a volta fa rabbrividire non tanto per mancanza di talento in maniera assoluta, ma per l’atteggiamento che mette in campo sera dopo sera. E il tutto è comprovato dalla dimostrazione quasi di forza, che tra l’altro ha fatto gridare al miracolo mezza America del basket, contro i Celtics di qualche giorno fa o quella magari con cui hanno in un certo senso tenuto testa ai Cavaliers senza colui che è l’oggetto del desiderio anche dei Nets: Lebron James. Già perchè l’arrivo di Prochorov, una situazione salariale per nulla
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D OMENICO P EZZELLA
male, la presenza di Jay-Z nella proprietà della squadra, il fatto di poter essere l’indiziata numero uno ad aver quel Wall di cui sopra e di poter scambiare magari Harris per un giocatore interessante (compresa poi la presenza di giocatori come Lopez, Lee e compagnia cantante ndr), fanno di New Jersey una tra le tante che fanno la corte al nuovo ‘Re’ della Nba moderna, Kobe Bryant permettendo. Tutto il resto è noia, cantava Califano, quella che la stessa dirigenza sta cercando di combattere con iniziative che
potremmo definire ‘ americane’, per attirare spettatori al Verizon Center del New Jersey. Fiscalisti gratis per la dichiarazione dei redditi, telecronisti per un giorno e chi più ne ha più ne metta, per vedere uno spettacolo che oltre i 19 punti di Brook Lopez (l’ex Stendford si sta guadagnando anni di militanza Nba con questa stagione nettamente al di sopra delle righe ndr) ed i lampi, non sempre frequenti, di un Devin Harris che sembra essere arrivato alla frutta, che piace sempre, sempre di meno.
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Cleveland Cavaliers
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N ICOLÒ F IUMI
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Continua la corsa verso il primo posto dei Cavaliers, ma soprattutto continua il periodo di valutazione dell’esperimento Jamison. Il record dal suo innesto è un positivo 7-3. Dopo le 3 sconfitte consecutive subito dopo la pausa dell’All Star Game (nella prima delle quali però Jamison non era in campo) sono arrivate 7 vittorie nelle successive 8 partite in cui Jamison ha messo assieme cifre non trascurabili (17,6 punti con 7,5 rimbalzi di media e il 39% da 3, che è poi la principale ragione per cui è stato preso). Nell’ultima partita contro gli Spurs ha avuto un minutaggio assai limitato a causa di un problema a un ginocchio che in pratica lo ha tenuto fuori tutto il secondo tempo, ma fino a quel momento aveva fatto
bene, almeno in attacco, con 17 punti. L’apporto di Jamison nelle prossime partite sarà importante, visto che nel frattempo si è fermato ai box LeBron James per un problema a una caviglia. Niente di grave, più che altro dovrebbe trattarsi di una pausa per recuperare un po’ di fiato in vista dei playoff, così nel frattempo la squadra proverà a confrontarsi senza il proprio leader. Finora è arrivata una sconfitta a Milwaukee e la sopracitata vittoria casalinga con gli Spurs. Altro argomento che tiene banco in casa Cavs è il ritorno di Zydrunas Ilgauskas. Cosa che ancora non si è verificata per via dei limiti imposti dalla Lega, ma è certo che avverrà. Il ritorno del lituano appare fondamentale per ovviare alla penuria di lunghi che è venuta a verificarsi dopo l’infortunio di Shaq che, aggregata alla partenza del lituano, ha dimezzato la rotazione,
obbligando Mike Brown a varare un’insolita versione del gioco denominato Small Ball, ossia 4 esterni e un solo lungo sul campo. Leon Powe è ritornato attivo dopo i problemi fisici che lo hanno tenuto fuori per tutta la stagione, ma finora ancora non si è dimostrato pronto per contribuire con continuità, ma da qui a maggio/giugno dovrà diventare un uomo importante, così come lo sta diventando Delonte West il quale attraversa un momento di forma ottimale e uscendo dalla panchina spesso sta facendo la differenza (MVP nella gara contro San Antonio, 27 punti nella sconfitta a Milwaukee). Da qui a fine mese 10 partite equamente divise tra casa e trasferta, con viaggi insidiosi a New Orleans e San Antonio e lo scontro casalingo coi Celtics, mentre le altre gare paiono decisamente più abbordabili.
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Chicago Bulls
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Nella Windy City prosegue la caccia a un posto nei playoff complicata dalle recenti 5 sconfitte consecutive di cui 4 casalinghe che hanno fatto cadere i Tori fuori dalle prime otto posizioni (attualmente mezza partita dietro agli Heat). Chicago continua ad essere una delle squadre più imprevedibili della Lega, capace di vincere in sequenza partite difficili e poi magari incappare immediatamente dopo in un periodo nero con sconfitte inspiegabili e senza appello. Derrick Rose è l’unico che assicura alto rendimento ad ogni ingresso sul parquet (25 punti e 6 assists di media nel dopo All Star), ma tutto attorno c’è molta incertezza. Deng e Hinrich vanno abbastanza a fasi alterne, Gibson è un rookie che comunque sta facendo bene ma al quale non si può chiedere la luna, così come a Brad Miller che porta esperienza e mestiere a centro area ma non può certo essere il giocatore che fa la differenza, mentre Warrick e Flip Murray hanno portato energia dalla panchina, confermandosi
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N ICOLÒ F IUMI
come discrete mosse di mercato. Il problema rimane comunque l’attacco, dove i Bulls faticano non poco. Basta, per una volta, affidarsi alle statistiche per rendersi conto della situazione precaria allo United Center: 24° posto NBA nei punti a partita e nelle percentuali da 3 punti, 23° nella percentuale complessiva dal campo. Il problema è che ora la squadra gioca senza il proprio faro a centr’area, Joakhim Noah, fermo fino a fine marzo per un infortunio a un piede che ha
privato della squadra di un giocatore da doppia doppia di media (10 punti, 11 rimbalzi) e non a caso dal suo infortunio sono cominciate le sconfitte. Il calendario, tra l’altro, ora è tutt’altro che clemente con 4 trasferte consecutive, dove i Bulls hanno un record di 12 vittorie in 31 partite, a Orlando, Miami, Memphis e Dallas che rischiano di fare crollare ulteriormente il record assestando un brutto colpo alle ambizioni di coach Vinny Del Negro.
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Milwaukee Bucks
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Grande momento nel Wisconsin con i Bucks che nel giro di due giorni hanno infilato vittorie casalinghe nientemeno che contro Cleveland e Boston issandosi al 5° posto nelle Eastern Conference, risultato certamente insperato alla vigilia della stagione. Milwaukee ha vinto 10 delle 12 partite giocate dopo l’ASG, mettendo a segno prima una striscia di 6 vittoria in fila e cavalcandone al momento una di 4. Andrew Bogut prosegue nella sua annata troneggiante (16.9 punti, 11 rimbalzi e 3.6 stoppate di media in queste 12 partite) controllando il pitturato e avvalendosi dell’apporto di esterni pericolosi che stanno beneficiando dell’arrivo da Chicago di John Salmons. Non cifre abbaglianti per lui (12.7 punti col 42% al tiro) ma un’altra freccia all’arco per Scott Skiles (nettamente uno dei candidati al Titolo di Coach dell’anno) che continua ad avere prestazioni sostanziose da Carlos Delfino e Ersan Ilyasova che arriva dalla panchina. L’ex Lottomatica, Brandon Jennings, conferma le sue difficoltà seguenti all’inizio fulminante, ma,
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N ICOLÒ F IUMI
per esempio, ha giocato una grande partita nella vittoria contro Cleveland (25 punti e 6 assists) segno che comunque il ragazzo c’è e bisogna solo aspettare che il tempo faccia il suo corso. I Bucks continuano ad essere una delle migliori difese della Lega (7° posto con 96,2 punti subiti di media) a cui accompagnano grande solidità a rimbalzo (43,5 a partita, 5° posto) ovviando così a pessime percentuali offensive (ultimi nella percentuale del
campo col 43,7%). Ora i ragazzi di Skiles devono cercare di sfruttare il calendario che entro la fine di marzo concederà 7 partite in casa su 11 totali. Nessuna delle partite casalinghe appare impossibile (le più complicate contro Utah e Atlanta) e quindi Milwaukee potrebbe mettere fieno in cascina e assicurarsi definitivamente la partecipazione ai playoff che manca dal 2006, magari anche una posizione di partenza non disprezzabile.
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Indiana Pacers
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Altra franchigia da tempo già con la testa al futuro prossimo venturo sono gli Indiana Pacers che continuano a navigare nell’anonimato più assoluto, non rendendo onore a una società che nei primi anni del 2000 hanno spesso partecipato alla corsa playoff fino agli ultimi atti. La squadra è allo sbando assoluto e ha perso 11 delle ultime 14 partite. L’attacco segna meno di 100 punti a partita e la difesa ne concede quasi 105, a rimbalzo il disavanzo medio è di 5 palloni in più catturati dagli avversari sotto le plance e a peggiorare il tutto ci sono anche più di 15 palloni persi ogni sera. Si potrebbe anche andare avanti, ma non avrebbe molto senso, considerato che si è di fronte a una squadra che si sta trascinando stancamente verso il finale di stagione. Per provare a vedere un raggio sole si guarda alla ennesima buona stagione di Danny Granger, che segna meno dell’anno scorso, ma rimane comunque la prima (seconda, terza, quarta…) opzione offensiva della squadra e oltre a essere uno scorer di primo livello mostra comunque un gioca abbastanza completo, offensivamente parlando. Certo, che poi il suo morale non sia altissimo vedendo che attorno a se il secondo realizzatore della squadra è Troy Murphy è anche normale. Basso anche il morale di Tyler
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N ICOLÒ F IUMI
Hansbrough, rookie da North Carolina molto atteso e che nelle poche partite giocate aveva fatto benino, ma ha visto finire la sua stagione in larghissimo anticipo a causa di un infezione interna a un orecchio che lo ha messo definitivamente k.o a metà gennaio, dopo che la stagione era già cominciata in ritardo per un altro infortunio. Sempre parlando di giovani cerca di guadagnare qualche minuto A.J Price, che ha messo in mostra alcune
buone cose, ma ultimamente è caduto un po’ in disgrazia finendo ai margini della rotazione. Si consolino comunque i tifosi dei Pecars, perché ormai alla fine dello strazio mancano solo una ventina di partite, 18 per la precisione, 11 in casa e 7 in trasferta, quasi tutte abbastanza impraticabili. Probabile vedere Indiana a fine con il contatore sconfitte vicino al numero 55.
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Charlotte Bobcats
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Non mancavano di certo i centri in casa Bobacts, con Chandler, Diaw, Mohamed, Diop, ma Larry Brown ha voluto anche Thomas che è arrivato da Chicago,e Theo Ratliff, per rafforzare un pacchetto lunghi e provare a crederci ancora nella corsa ai playoff, ancora sicuramente alla portata della compagine in arancione. Guidati da un ottimo Wallace i Bobcats sono riusciti a superare lo scoglio perfino costituito dai Lakers rilanciandosi prepotentemente ad Est con un record vicino al 50% e con alune partite in meno ancora da giocare. Sta di fatto che la chiave di tanti bei risultati passa dalle vittorie on the road, pochine fino a questo momento. Mentre la squadra di Brown tra le mure amica e spesso al cospetto del suo attuale azionista di maggioranza, sua eccellenza "Air" Jordan, è imbattibile e perde solo con le grandi, o addirittura le batte, sono arrivate molte, forse troppe sconfitte lontano da Charlotte e questo è un handicap non da meno. La coppia di cabina di regina con Felton e il giovane DJ Augustine garantisce solidità punti e assist, la certezza Gerald Wallace da sostanza con gioco e tanto spettacolo, l'egoismo di Jackson fa il resto e abbiamo il mix di una squadra che domina in vernice con chiunque e mette paura davvero al proprio avversario di turno. Sicuramente una squadra tosta, che se dovesse beccare l'ultimo posto a est non regalerebbe un 4-0 facile alla diretta avversaria, specie in trasferta. E come nel film "qualcuno volò sul nido del cuculo",
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D OMENICO L ANDOLFO
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S TAR S ‘N’ STR I PES
MARCH MADNESS
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M ICHELE TALAMAZZI
‘ Te n r e a s o n ’ f o r. . March Madness
C’è chi aspetta con ansia la primavera, a marzo, e chi freme invece per il Torneo NCAA: la ‘March Madness’ è nel suo pieno, ‘la follia di marzo’ che coinvolge gli interi Stati Uniti si può ben misurare anche da questa parte dell’Oceano, dove sono tantissimi quelli che si districano tra orari impos-
sibile per seguire le dirette della fase più calda della stagione collegiale. In attesa dell’inizio del Torneo (First Round il 18-19 marzo), proviamo a riassumere, in dieci storie, un po’ (tutto non sarebbe possibile) di stagione NCAA.
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1-ROOKIE WALL? Statene certi, l’anno prossimo in NBA il termine che identifica la difficoltà delle matricole nel passare dalla quarantina di partite collegiali all’ottantina nella Lega (che solitamente si palesa a gennaio-febbraio), si presterà facilmente a giochi di parole. Tutto a causa di John Wall, che primo anno lo sarebbe anche a Kentucky, pur se in pochi se ne sono accorti. Ricorda molto Derrick Rose, ha più fisicità ma forse non a sufficienza per scomodare un paragone con Wade, ma prima di parlare dell’impatto che avrà in NBA la già scritta scelta numero 1 al prossimo draft, forse è meglio fermarsi un attimo e godersi quello che ha già fatto e che potrà fare da qui ai primi di aprile il fenomeno dei Wildcats. Atleta cinque stelle, inarrestabile in transizione e ottimo passatore, sa creare per sé (vedi il jump dai 4 metri, mentre dall’arco è ancora rivedibile) come per i compagni, ma soprattutto quel che magnetizza l’attenzione su di lui è come si sia mostrato un vincente. A cominciare dal jumper decisivo nell’esordio con Miami, Ohio, per finire (almeno per ora) con la stoppata e recupero contro Vanderbilt, passando per una serie di giocate chiave ‘down the stretch’.
schiena sul parquet amico della Value City Arena. Accadde a 13’27” dal termine del primo tempo della sfida con Eastern Michigan quando l’esterno tuttofare dei Buckeyes prese velocità sulla corsia centrale e staccò per la bimane: il fallo di Antonio Green lo sbilanciò leggermente, e nel vano tentativo di aggrapparsi al ferro Turner perse l’equilibrio. Un primo esame ai raggi-X escluse gravi conseguenze, ma il trainer di Ohio State Vince O’Brien parlò comunque di una frattura traversale della seconda e terza vertebra lombare. I dottori dissero che per rivederlo in campo ci sarebbero volute almeno otto-dieci settimane. Il 6 gennaio, Turner era già in campo contro Indiana: venti minuti, giusto per riprendere confidenza col campo. Dalla successiva, era già tornato al proprio posto come se niente fosse: 38’ e il solito flirt con la tripla doppia (due quest’anno). Del resto, uno che ha superato un primo anno di vita complicatissimo, per lo più attaccato ad un respiratore, deve aver dentro di sé qualcosa di speciale. Gioca play, guardia e ala piccola, dei Buckeyes è stato leader per punti, rimbalzi e assist, e non fosse per il play di Illinois McCamey lo sarebbe stato anche di tutta la Big Ten. Difficile che in NBA possa ‘starreggiare’ così, ma rimane uno degli esterni più intriganti degli ultimi 2- TURNER AROND. Lo scorso 5 dicembre, ricadendo mal- anni. destramente dopo un tentativo di schiacciata, fermato con fallo dalla difesa, Evan Turner battè pericolosamente la 3- FORZA DI V OLUNTEERS. Il brindisi di capodanno a
LA STAGIONE DI JOHN WALL IN CIFRE
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Bruce Pearl dev’essere andato leggermente di traverso. La sera dello scorso 1° gennaio quattro Vols (Melvin Goins, Brian Williams, Cameron Tatum e Tyler Smith), impegnati evidentemente a proseguire i festeggiamenti dalla sera prima, vennero fermati dalla polizia per un normale controllo sulla velocità a Knoxville, nei pressi del campus universitario. I quattro faticarono a giustificare (mettiamola così…) la presenza in macchina di pistole, marijuana e alcool. E, pur in assenza di un apposito test, i poliziotti non ebbero molti dubbi sul fatto che qualche canna se l’erano fatta, visto il forte odore di erba proveniente dall’abitacolo. A Tyler Smith, senior e stella della squadra (17.4 a partita nell’anno da junior) che si accollò le maggiori responsabilità, andò ovviamente peggio che agli altri (stoppati per cinque giornate), con l’espulsione dall’ateneo. Si pensava che la stagione dei Vols fosse destinata ad andare a sud, ed invece l’ottimo lavoro di Pearl ha portato Tennessee a condurre in porto una stagione da 22-7, con gli scalpi eccellenti di Kansas e Kentucky come fiore all’occhiello: il tutto grazie alla crescita del sophmore Scotty Hopson e alla solidità dei senior JP Prince Wayne Chism. Intanto, Smith, in attesa del draft, ha firmato in Turchia per il Bornova… 4 - COACHING STUFF. Problemi di salute non meglio precisati (ma l’ateneo ha subito confermato come non si trattasse ne di problemi di cancro o di cuore, di cui aveva già sofferto), hanno fermato il leggendario coach Jim Calhoun per quasi un mese. UConn è rimasta infatti senza la propria guida dopo la brutta sconfitta con Michigan del 17 gennaio, ritrovandola il 13 febbraio in occasione di un’altra brutta sconfitta, con Cincinnati. In mezzo, il vice Blaney (che alla notizia dell’assenza aveva detto “gli incoraggiamenti mi piacciono, ma stiamo parlando di un coach da Hall of Fame e io lo rivoglio al più presto al suo posto”) ha condotto gli Huskies ad un record di 3-4 che è coinciso con il periodo più nero della stagione, quello che ha compromesso il cammino nella Big East. Calhoun, nonostante l’età, ancora una volta (è la 22esima occasione in cui si assenta per motivi di salute) si è ribellato ai dottori ed è tornato sul suo pino. Dopo il ko con Cincy, UConn ha infilato tre vittorie consecutive, di cui le due prestigiose con Villanova e West Virginia. Poi però sono arrivate anche tre sconfitte, e il torneo NCAA sembra sempre più lontano. A meno che, nel Big East tournament… 5- QUESTIONE DI CARACTER. Da top prospect a livello liceale (in compagnia di gente come Kevin Durant o Greg Oden) ad autentico ‘bust’ in poco meno di due stagioni. Quelle trascorse a Louisville, dove Derrick Caracter ha fatto perdere la pazienza anche a Rick Pitino per i suoi innumerevoli problemi disciplinari, che complessivamente gli hanno fatto collezionare 17 gare di sospensione. Con l’arrivo imminente di Samardo Samuels i Cardinals non si fecere problemi a dargli il benservito, e Caracter, bypassate dopo un pensiero iniziale le ipotesi draft ed Europa, decise che voleva mostrare qualcosa ai suoi tanti detrattori. L’occasione gliela offrì Tony Barbee, che un paio d’anni prima aveva provato a reclutarlo per Memphis. Dove? A Texas El Paso, cittadina che lo stesso Caracter ammise di conoscere solo ed esclusivamente per la storia narrata nel film ‘Glory Road’, in cui UTEP si chiamava ancora Texas Western. Durante l’anno da redshirt ha perso 20 chili e lavorato sui fondamentali, oggi non rinnega il rapporto complesso con Pitino affermando che “certi errori è meglio farli presto, piuttosto che in NBA dove magari ti possono costare una carriera”. Con 14 punti e 8 rimbalzi ha raddoppiato le cifre del suo secondo anno e guidato, assieme alla scoring point Randy Culpepper i Miners al titolo della Conference USA. A marzo toccherà guardarsi anche da
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loro. 6-DOWNEY STREET. I suoi quindici minuti di celebrità Warholiani, Devan Downey li ha vissuti la sera dello scorso 26 gennaio. Strano a dirsi, per uno che viaggia a oltre 22 di media e che quindi non dovrebbe aver problemi a far parlare di sé. Al suo quinto anno collegiale dopo il trasferimento da Cincinnati a South Carolina, Downey, ritiratosi in tempo da un draft 2009 che non l’avrebbe visto stringere la mano a Stern e rifiutata una manciata di proposte dall’Europa, è stato il grande protagonista dell’acuto stagionale dei Gamecocks, in grado di superare la Kentucky di John Wall e soci, al tempo fresca numero uno ed unica squadra ancora imbattuta. Il boxscore di Downey, nell’occasione, parla di un 9-29 al tiro che non è esattamente il top della balistica, ma tra quei nove canestri (30 i suoi punti totali) ci sono tutti quelli decisivi per piegare i Wildcats. Ed ora ha trovato anche la ‘strada’ per farsi ammirare dagli scout NBA: le vittorie di squadra prima del tabellino personale. 7 - TRAFFICO SULLA ‘TOBACCO ROAD’. Una stagione iniziata benino, proseguita così così e finita nel peggiore dei modi. I campioni in carica di North Carolina nell’ultimo incontro della regular season sono infatti crollati al Cameron Indoor Stadium col punteggio di 82-50, uno smacco che ricorderanno a lungo. Nella ACC hanno perso tutte le sfide più importanti, con Duke come con Wake Forest e Maryland, chiudendo con un record di 5-11 e solo 2-6 in trasferta. Alla squadra di Roy Williams sono mancati i punti di riferimento, Deon Thompson e Ed Davis (peraltro infortunatosi nel finale di stagione) non sono stati affidabili a lungo andare, Larry Drew in cabina di regia non ha offerto la continuità necessaria, i freshman Henson e Strickland hanno dato un apporto ancora acerbo. Insomma, non era l’anno dei Tyler Hansbrough e Ty Lawson. Meglio guardare al prossimo anno, con la ‘recruit’ del promettentissimo Harrison Barnes che fa già sognare i tifosi dei Tar Heels: l’ala da Ames Senior HS è un mix di agilità, tecnica e IQ cestistico, oltre che otttimo studente.
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8-ALLEN…ATORE NON GIOCATORE. La sua prima esperienza da allenatore? In Italia, a Udine, per la verità poco felice, visto che assieme a Mario Blasone traghettò Udine in Legadue con un bilancio di 0-5. Quest’anno è subentrato ancora una volta in corsa, ma partendo da assistente e non da giocatore… Jerome Allen, smessi definitivamente i panni del playmaker, ha indossato quelli del coach. E, dopo le sette sconfitte iniziali subite da Glenn Miller, Pennsylvania ha deciso di affidargli il pino, anche per ricostruire una forte identità locale, in una lega come la Ivy League che non concede borse di studio per meriti sportivi. Allen, che dei Quakers è stato un’autentica icona, portandoli tre volte al titolo di conference, dal suo insediamento ha avuto un record di 6 vinte e 14 perse. Ma, soprattutto, il 12 febbraio scorso si è tolto la soddisfazione di battere Cornell, favorita della Ivy e già comparsa anche nel ranking nazionale; invasione di campo ‘obbligatoria’ e, almeno per una sera, Jerome ha dato un bel motivo per festeggiare a tutta Penn. 9-VILLA‘NOVA’, LEADER VECCHIO. Erano in molti a pensare che la perdita di un lungo dinamico come Dante Cunningham potesse ridurre le ambizioni dei Wildcats. Invece, Jay Wright si è fidato della crescita di alcuni suoi elementi al terzo anno ed ha avuto ragione: il lungo Antonio Pena ha praticamente raddoppiato le proprie cifre, le guardie Corey Fisher e Corey Stokes hanno confermato la propria affidabilità. Ovviamente, serviva un leader a tirare il gruppo: per l’ultima stagione lo ha fatto Scottie Reynolds, autore dalla propria miglior annata collegiale con 18.8
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punti, 3.4 assist e 2.7 rimbalzi, e le percentuali tutte in miglioramente rispetto alle prime tre annate. Tre sole volte sotto la doppia cifra, l’exploit contro Louisville con 36, frutto di 5 su 5 da tre e 13 su 17 ai liberi. Segno che non è solo uno di talento, ma anche uno che sa quali scelte prendere. A marzo avrà forti motivazioni, perché l’atletismo non esattamente debordante sin qui lo ha penalizzato in ottica draft, così come il fatto di essere un senior. Occhio perché se la NBA si mette il paraocchi, in Europa si stan già leccando i baffi. 10-ELIAS SAYS. No, non stiamo parlando del columnist di ESPN malato di statistiche e curiosità, ma di Elias Harris, freshman di Gonzaga che, dopo i ventelli in ProB tedesca con lo Speyer e una prima apparizione con la Nazionale
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agli ultimi Europei di Polonia (2.2 punti e 2.3 rimbalzi in 6’), ha decisamente alzato la voce anche al suo primo anno di college basketball. Inseritosi alla perfezione nel sistema di Mark Few, sfruttando l’altruismo dei leader Matt Bouldin e Steven Gray, il tedesco volante classe 1989 si è ritagliato un ruolo subito importante (14.9 punti e 7.4 rimbalzi, secondo marcatore e primo rimbalzista), grazie al suo pazzesco atletismo, alla capacità di giocare in avvicinamento e ad un insospettabile 45% dall’arco. Dovrà lavorare forte sul palleggio e sul rilascio per diventare un ‘3’ a tutti gli effetti, ma pare che non sia un problema perché è uno cui piace stare in palestra. Intanto gli scout europei hanno dovuto mettere il suo nome nella lista degli ‘impossibili’. Che si dichiari per il draft quest’anno o l’anno prossimo, il suo futuro è in NBA.
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Y Yo ou u c ca an n’’tt c c m me e
LA RUBRICA
JASON TOCCA FERRO!
Avete presente quando, per attuare un gesto scaramantico, qualcuno invita a toccare ferro? Bene, nei paesi anglosassoni, questo gesto apotropaico viene ‘tradotto’ in un eloquente ‘touch wood’, un invito a toccare legno. Cosa c’entra tutto questo con il nostro amato Jason Kidd è presto detto. Forse invitato dal suo amicone Dirk Nowitzki, l’immenso play dei Dallas Mavericks, nel corso della partita contro gli Atlanta Hawks, ha ‘toccato’ Woodson; qualcosa che, per assonanza, si avvicina molto al ‘wood’ della tradizione popolare. Ma veniamo ai fatti. Quando mancava un minuto e trenta secondi alla fine del quarto periodo di gioco, con gli Hawks a condurre 97-95 in piena emorragia difensiva (15 punti di vantaggio gettati alle ortiche), il due volte MVP della Lega, Kidd spinge in attacco sul lato sinistro del campo, adiacente la linea laterale. La visione di gioco di Giasone è ben nota ed ampia e copre tutto quello che succede sul parquet e non solo: coach Woodson fornisce istruzioni ai suoi ragazzi e sconfina nel rettangolo di gioco. Kidd decide di fiondarsi sul coach avversario, in cerca di fortu-
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DELLI
DI
PAOLI
ne che non tardano ad arrivare: “L'ho visto in campo, e ho pensato che avremmo potuto tirarne fuori almeno un punto; ho fatto in modo che gli arbitri fischiassero qualcosa. Woodson, d'altronde, non potrebbe stare lì, ma per qualche strano motivo gli allenatori pensano che sia figo entrare in campo... mi sorprende il fatto che giocate come questa non siano successe in passato”. Risultato? Coach Woodson, accortosi del pericolo, fa un passo indietro cercando di evitare l’impatto ma Kidd che è un “vecchio cagnaccio astuto”, così com’è stato definito dalla ESPN, anticipa la mossa dell’allenatore degli Hawks ed allarga il braccio sinistro andando a collidere con il petto del coach. Fallo tecnico, libero di Wunderdirk e possesso Mavs. Partita che finisce all’overtime e Dallas trionfante con Jason che va a siglare la sua 104esima tripla doppia in carriera (19 punti, 17 assist e 16 rimbalzi) e uno tra i falli subiti più eclatanti della storia del basket. In realtà, coach Woodson è in ottima compagnia. L’allenatore italiano Gigio Gresta, in una partita di qualche anno fa, tra la sua Veroli e la Vanoli Soresina, mise in scena un vero e proprio tagliafuori su Reynolds, impedendogli di tornare in difesa. Nessuna furbata da parte del giocatore, in quel caso, ma solo le arti difensive di un coach messe in pratica in maniera poco ortodossa. Dura la vita degli allenatori, vero Jason?
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LA RUBRICA GOOD CHARLOTTE Chissà se sarà ‘rock’, come il gruppo musicale che viene dal Maryland, la seconda esperienza come owner di una franchigia NBA, per Michael Jordan. Il giocatore più forte di tutti i tempi ha rilevato la maggioranza azionaria degli Charlotte Bobcats. Nativo di New York ma formatosi cestisticamente e non a Wilminghton, nel North Carolina, ‘Air’ ha acquistato tramite il suo gruppo, la MJ Basketball Holdings LLC, la franchigia del suo amato Stato con l’obiettivo di rilanciarla nella Lega. Certo, se i tifosi dei Bobcats pensassero alle mosse di MJ quando dirigeva la baracca Wizard, qualche brivido
dovrebbe salire. Un nome su tutti: Kwame Brown, l’errore più clamoroso nella carriera del sei volte campione NBA. Le speranze del vecchio proprietario, in realtà, sono tutt’altre: “Sono molto contento e fiero che sia Michael a portare avanti questo progetto. – ha dichiarato Bob Johnson - Lui è ‘l’icona di questo sport ed è determinato in quello che vuole fare”. Jordan che aveva una sorta di diritto di prelazione, ha battuto, proprio sulla sirena, l’ex proprietario degli Houston Rockets ,George Postolos, pronto a comprare la squadra. Battuta la concorrenza con un ‘buzzer beater’, non resta che lanciarsi nel meraviglioso mondo del management NBA. Jordan in the Wonderland. Stay tuned.
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LA RUBRICA B E L IKE MIK E Inutile giraci intorno. C’è solo un giocatore che è ancora in grado, a scarpe ben appese al chiodo, di catalizzare l’attenzione di tutto il pianeta cestistico. Tutti coloro che prendono in mano una palla a spicchi, fosse solo per fare due tiri al campetto vicino casa, hanno un unico modello e punto di riferimento. Tutti, come il celebre refrain della storica canzoncina, vorrebbero essere come Mike. LeBron James ha preso ad indossare la canotta numero 23, proprio per emulare le gesta del mito Jordaniano e, ora, ha compiuto un gesto che rappresenta la massima
onorificenza che potesse attribuire al più grande di tutti. King James, dalla prossima stagione, lascia il #23 e sceglie il #6, suo numero di maglia nel Team USA. La decisione, già ampiamente preannunciata nei mesi scorsi (e da noi riportata in questa rubrica), è giunta dopo la vittoria dei Cavs sui New York Knicks, neanche a farlo apposta una delle squadre contro cui Michael Jordan era solito sfoderare prestazioni disumane. “Il #23 è solo di Michael Jordan” ha dichiarato il ‘Prescelto’ e, allo stesso tempo, sta prendendo sempre più piede, nei vertici alti della Lega di togliere il #23 dalla disponibilità di tutte le franchigie NBA. Love is in the ‘Air’.
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LA RUBRICA D RI N K I N G I N L . A . Ok siamo solo nel gelido Minnesota però, il brano dei bran Van 3000 è più che mai di attualità. Forse proprio il freddo tremendo dello Stato che ospita i T-Wolves avrà spinto il povero Richard Jefferson ad alzare il gomito. Il giocatore è stato beccato dalla locale polizia in guida in stato d’ebbrezza.
Pronta ammissione di colpevolezza e redenzione: “Ho fatto una stupidaggine e chiedo scusa a tutti. Sono il leader della squadra e devo dare l’esempio, molti si aspettano grandi cose da me, sono deluso da me stesso per quello che è accaduto”. Il passo successivo, previa squalifica per due partite, sarà la concessione di aureola da parte di Stern in persona. Si, ma come arriverà alle partite il nostro Rich? Jefferson’s Airplane!
ideato da: scritto da:
Stars ‘N’ Stripes
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Domenico Pezzella
Alessandro delli Paoli Leandra Ricciardi Nicola Argenziano Nicolò Fiumi Domenico Landolfo Stefano Panza Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco Stefano Calovecchia Davide Mamone Stefano Livi
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Brett Favre... That’s Over?
"Tarataratà!", avrebbe risposto prontamente il protagonista della barzelletta; meno prontamente, invece, risponderebbe Brett Favre. Infatti, per il quarto anno consecutivo, ci ritroviamo di fronte a quello che ormai è diventato un tradizionale appuntamento dell’off-season: la decisione di Brett su appendere il casco al chiodo o continuare a giocare concedendosi un’altra opportunità per cercare di mettere al dito il suo secondo anello da campione del mondo a costo di rischiare di giocare una stagione anonima piuttosto che lasciare l’NFL da vice-campione di conference.
Tutto cominciò nella pre-season 2007 quando minacciò di lasciare i Packers dopo aver accusato la dirigenza di non essersi mossa al meglio per portare Randy Moss a Green Bay. Quella stagione si chiuse con la cocente sconfitta nella finale di conference contro i Giants. Nel luglio 2008, dopo aver annunciato il ritiro dai campi di football, decise di tornare sulla sua decisione chiedendo inutilmente ai Packers, che intanto avevano già promosso titolare Aaron Rodgers, di essere reintegrato in rosa. Lasciò Green Bay dopo 16 anni accasandosi cosi a New York, sponda Jets. Dopo una stagione chiusa a tanto così dai play off, nel febbraio
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2009, annunciò di nuovo il ritiro, ma dopo mesi di trattative arrivò l'ingaggio da parte dei Vikings, arcirivali dei Packers. A Minneapolis è stato protagonista di un'altra grande stagione. Nominato per il suo 11esimo Pro Bowl, ha chiuso la regular season con 4,202 yds lanciate, 33 td pass ed un rating di 107.2. Nonostante questi numeri da far accapponare la pelle, i Vikings si sono dovuti arrendere nella finale di conference, contro quelli che saranno poi i campioni del mondo, a causa proprio di un intercetto lanciato da Favre nelle mani di Tracy Porter a pochi secondi dal termine. Forse se la stagione appena conclusa fosse finita in maniera vittoriosa per i Vichinghi, se Favre avesse effettuato un semplice passaggio laterale o avesse lasciato correre a Peterson quelle poche yard sufficienti per andare a segno con un field goal, a questo punto staremmo già parlando di Favre come un ex-giocatore, che ha voluto lasciare il football da campione del mondo. Ecco che, invece, puntuale come il Natale, comincia la telenovela che ci accompagnerà nei mesi a venire, e riempirà le nostre vuote giornate di football in attesa di una nuova stagione. La prima puntata è andata in scena qualche giorno fa quando, sul suo sito, Favre ha lasciato un messaggio di ringraziamento verso i t i f o s i , l a d i r i g e n z a , l o s ta f f e i c o m p a g n i d i s q u a d r a d i Minnesota per la stagione memorabile appena trascorsa, anche se, a dire la verità, più che di ringraziamento, il messaggio sembra d'addio; "indipendentemente da cosa ci riserverà il futuro" conclude Brett - "voglio far sapere a tutti che conserverò i ricordi della stagione passata per il resto della mia vita". Mancano ancora 5 mesi al training camp, ma non è così tanto il tempo che ci separa dal draft che prenderà il via il 22 aprile. Farebbe sicuramente comodo ai Vikings conoscere per quella data la scelta di Favre e consentirebbe di muoversi nel migliore dei modi tra i giovani prospetti. Ciò nonostante i Vikings sembrano voler dar al 40enne quarterback tutto il tempo di cui ha bisogno. L' head coach Childress non ha stabilito alcun limite temporale, come non lo aveva stabilito la scorsa estate quando hanno dovuto aspettare fino ad agosto per poter contare finalmente sul suo contributo.
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Il General Manager di Minnesota, Rick Spielman, afferma che, nonostante i Vikings sarebbero felici di avere Favre nel proprio roster anche la prossima stagione, la sua decisione non influenzerebbe le strategie della franchigia. "Favre prenderà la sua decisione quando prenderà la sua decisione", dichiara Spielman, lasciando intendere che la squadra si sta organizzando e sta valutando tutte le possibili opzioni a disposizione, facendo attenzione ai tagli degli altri team, esaminando attentamente i quarterbacks disponibili per il draft e considerando anche la possibilità di promuovere titolare uno dei due backups, Rosenfels e Tarvaris Jackson (già titolare nel 2007 e protagonista di una discreta stagione), con il secondo favorito sul primo. Comunque sia, con o senza Favre, e chiunque sia lo starter, il futuro dei Vikings sembra brillante; l'attacco potrà puntare ancora sulle corse del running back Adrian Peterson e sulle mani di Sidney Rice pronto a ricevere palle da chiunque le lanci; in difesa, quest' anno una delle migliori sia via terra che via aria, è stata confermata la permanenza a Minneapolis di Ray Edwards, autore di una grande stagione. Non così rosea sarebbe per Favre continuare a giocare in una città diversa da Minnesota. Tra i team che possono ambire ad un posto nel Super Bowl nessuna, a meno di clamorose sorprese, sembra aver bisogno di un quarterback di questo livello essendo tutte molto ben coperte nel ruolo; difficile, se non impossibile, quindi, che Brett scelga di chiudere la carriera in città come Cleveland oppure Oakland dove avrebbero senz’altro bisogno di un quarterback degno di questo nome. Insomma, i Vikings hanno tutte le carte per potersi giocare al meglio un' altra stagione da protagonisti, magari riuscendo dove hanno fallito quest' anno, raggiungere Arlington per giocarsi quel Super Bowl che manca ormai dal '76, sarebbe il loro quinto dopo essere sempre usciti sconfitti dai quattro precedenti. Brett Favre, invece, il Super Bowl non lo gioca dal gennaio del '98, ed è proprio questa la chiave di volta della vicenda, un Super Bowl, un ultimo Super Bowl da giocare, un ultimo gran ballo, e poco importa se giocarlo con una maglia viola o di qualsiasi altro colore, l’importante sarà esserci.
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PIù facile sorprendere che convincere: L’Angelico Biella
La lente di ingrandimento di Stars N Stripes sulla LegaA
MADE IN ITALY L’ANALISI...
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Come spesso accade nello sport esser sorpresa è impresa ben piu' agevole dell'essere conferma. Un esempio di valore da estrapolare in questa stagione è l'Angelico Biella, la quale se sul piano societario è orma consolidata nel panorama della Legabasket ha accusato un rallentamento abbastanza evidente dal punto di vista tecnico dopo lo scintillante campionato dello scorso anno. Ripercorrendo brevemente il recente passato dei biellesi non può non tornare in mente la straordinaria cavalcata che vidde protagonisti allora Smith e soci fino alle semifinali scudetto. Dopo quell'expolit valso l'Eurocup l'Angelico ha parzialmente smantellato quel gruppo con le partenze di
Spinelli (rimasto poi inattivo per mesi), di Jerebcko (volato negli States per indossare la maglia dei Detroit Pistons) di Greg Brunner (vera rivelazione) e per finire del duo spettacolo Gist-Gains. Impostare un gruppo capace di esser solido sia in campionato che in Europa rispettando il budget non era certo impresa facile, eppure gli arrivi di Schultze, Plisnic, Soragna e Fred Jones (presentato a tutti gli effetti come il fromboliere piu' interessante del campionato) lasciavano presagire subito una stagione di vertice. In effetti i ragazzi di Bechi nonostante qualche problema fisico di troppo nel proprio roster per una
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buona parte di questa stagione ha menato le danze che era un piacere: l'esplosione di Aradori e Ona Embo, la leadership sempre piu' sicura di Jones supportata dal sempre verde Soragna, il supporto di Chessa e dell'innesto Pasco hanno fatto si che i piemontesi per buonissima parte del campionato riuscissero a reggere decentemente sia in Italia che in Eurocup; poi però qualcosa si è inceppato e il team biellese ha cominciato un lento declino in termini di risultati e soprattutto sotto il profilo del gioco. L'infortuneo di Jones è stato a lungo tempo coperto dalla grandissima produttività resa da Pietro Aradori
a lungo miglior marcatore italiano nei primi 3 mesi di campionato, qui forse lo staff tecnico piemontese ha commesso un piccolo errore strategico, ovvero l'ingaggio di Dominique Coleman il quale senza dare un contributo di particolare rilevanza è stato un ingombro proprio per il giovane talento lodigiano uscito addirittura dal quintetto titolare nonostante viaggiasse sui 19 punti di media. Dopo il ritorno di un Jones per niente in forma e piuttosto deleterio la dirigenza ha allora deciso di rompere gli indugi e puntare su Guillermo Diaz, atleta di grande valore che già in maglia Eldo Caserta aveva dimostrato di esser sicura star potenziale del campionato, ma fermo da piu' 4 mesi per il famoso ritardo nelle procedure di antidoping che lo vidde protagonista con Ron Slay la scorsa stagione. Nel frattempo anche Schultze veniva meno alla causa e dopo la cocente eliminazione in Eurocup all'ultima giornata ed una final 8 di coppa di Lega conquistata meritatamente, è iniziato inesorabile il declino sul campo. La squadra aggressiva e spettacolare vista nella prima parte di stagione ha cominciato inesorabilmente a perdere colpi e posizioni in classifica portandosi ad un certo punto addirittura nelle zone calde della classifica. La sosta per le Final 8 di Avellino ha potuto per lo meno dare un'iniezione di fiducia con la vittoria su Cantu' (altra formazione in crisi del campionato) prima di cedere dignitosamente il passo alla Montepaschi Siena. Poi però l'ennesima tegola dell'infortuneo di Diaz (sin li però tutt'altro che incisivo) costretto a fermarsi a Cremona (dove l'Angelico ha inanellato la quinta sconfitta consecutiva) per un sospetto strappo che vorrebbe dire stagione finita e ritorno sul mercato per lo staff tecnico guidato da Bechi. In un contesto del genere il baratro sarebbe stato inevitabile per chiunque, ma se dal punto di vista dell'amalgama tecnico l'Angelico ha avuto sino ad oggi difficoltà, dal punto di vista caratteriale Smith e compagni hanno mostrato una forza incredibile riuscendo a vincere tra le mura amiche contro la Lottomatica Roma. Una vittoria decisiva per il rilancio della stagione piemontese, 2 punti strappati di carattere grazie al grandioso contributo di giocatori come Chessa, vera rivelazione a disposizione di Coach Bechi, Ona Embo e Garri, partiti in teoria all'inizio per essere dei rincalzi e che invece hanno ancora una volta dimostrato di essere oggi come non mai fondamentali alla causa. Un visto ancora da spendere potrebbe certamente essere utilizzato dalla società per sostituire Diaz nel caso venisse confermata la prognosi, ma dovrà essere una scelta piu' che ponderata per decidere se spenderlo o meno. Cosi come Coleman è stato piu' che altro un freno per alcuni compagni, la sensazione è che un nuovo arrivo possa esserlo altrettanto. Ora come ora l'Angelico ha in Smith, Pasco, Achara e Plisnic una batteria di stranieri piu' che solida e affidabile, potrebbe esser quindi la carta vincente della rinascita lasciar spazio al gruppo italiani (Aradori, Chessa, Soragna e Garri) che nel momento di maggiore difficoltà ha dimostrato di saper essere protagonista. Ora come ora l'obiettivo playoff è ancora a portata di mano e la zona calda a distanza di sicurezza e la vittoria di Roma ha ridato fiducia e speranza all'interno del gruppo. Forse è meglio battere il ferro finchè resta caldo...