il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano
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MARCH MADNESS
Le sorprese, gli outsider e la presentazione alla corsa verso le ‘sweet sixteen’ primo passo importante per Indianapolis
L’ANALISI 1 L A CA L DA E ST AT E DI DETROIT
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LA RUBRICA -
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Coach ‘Spy’ pronto all’ennesima crociata vesro la vetta Nba FOCUS
DI
N ICOLÒ F IUMI
A volte è impietoso vedere come passa il tempo. Ci si abitua negli anni a determinate cose che costantemente si ripetono, trasformandosi così da accadimenti eventuali a vere e proprie abitudini. Come il meteo folle di marzo, sebbene non risponda a una formula scientifica, è ormai atteso in maniera scontata nel suo susseguirsi di giornate di sole seguite da piogge, se non nevicate, copiose. Come i comunicati che ci informano che la crisi economica sta lentamente passando, seguiti a stretto giro da altri annunci che smontano ogni microscopica certezza che ci potevamo essere costruiti, informandoci del fatto che tempi duri sono ancora ben in vista all’orizzonte. O come le edizioni del Grande Fratello, che ogni anno potrebbe essere l’ultimo ma in cuor nostro (ahinoi…) sappiamo già che entro
qualche mese torneremo a subire l’ondata mediatica che ci subissa di indiscrezioni, quanto poi desiderate non si sa, sugli annoiati abitanti della casa più spiata del mondo. Tre esempi in tre ambiti completamente diversi, per spiegare però come certe cose, ormai, fanno parte, volenti o nolenti, delle consuetudini nella nostra vita. E anche in NBA ci sono situazioni simili. Specialmente quando si parla del periodo di maggio/giugno e delle squadre che lo popolano. Lì, anche se uno non avesse seguito nulla di una stagione NBA, ma fosse a conoscenza della storia recente della Lega, potrebbe a occhi chiusi buttare giù il nome di cinque o sei franchigie probabili partecipanti alla corse finale per il titolo. Los
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co.uk Fonte foto: http://static.guim.
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Angeles Lakers, Boston Celtics, Cleveland Cavaliers, Orlando Magic, Denver Nuggets, Dallas Mavericks e… San Antonio Spurs. E qui partono le musichette strappalacrime che introducono a un clima velatamente nostalgico. Sfogliando a ritroso le pagine della National Basketball Association, troviamo tracce degli Speroni texani nei momenti di maggiore importanza della stagione sin dall’anno 1999, quello del primo anello, quello di Tim Duncan rookie of the Year e MVP delle Finals. Da allora sono arrivati quattro titoli, tante vittorie, e una presenza fissa ai playoffs come squadra, se non favorita numero uno al titolo, almeno molto insidiosa. 10 anni (fino al 2008) di gioie e successi per Gregg Popovich
e una franchigia che negli anni ha saputo sempre tenere alto il proprio livello di competitività, tanto da sentir più volte associato al proprio nome l’aggettivo di Dinastia. In ordine cronologico da quel primo trionfo del ’99 abbiamo un’eliminazione al primo turno dei playoffs, comunque dopo una stagione da 53 vittorie, una finale di Conference, una semifinale, il titolo del 2003, un’altra semifinale, il titolo del 2005, ancora una semfinale di Conference, il titolo del 2007 e nuovamente una Finale di Conference. Poi l’anno scorso l’inizio del declino, con l’uscita al primo turno contro i Dallas Mavericks nonostante il vantaggio del fattore campo. E quest’anno siamo di nuovo di fronte a una squadra che parteci-
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perà di sicuro ai playoffs, ma ha alte probabilità di uscire al primo turno. Dando un’occhiata rapida al roster la prima considerazione che viene da fare è quella che da un po’ di tempo in molti stanno sollevando. Ossia, gli Spurs sono una squadra vecchia, specie nei pilastri della propria squadra. Tim Duncan ha 34 anni, Manu Ginobili 33, giocatori importanti come Robert Horry e Bruce Bowen hanno appeso le scarpe al chiodo, e anche Michael Finley, importante nel successo del 2007, è stato tagliato per accasarsi ai Boston Celtics che, per certi versi mostrano sinistre somiglianze con gli Spurs. Tony Parker è l’unico sotto i 30, dovendo ancora spegnere le 28 candeline, ma la sua stagione regolare è finita in anticipo per via di una frattura alla mano sinistra che lo renderà disponibile solo per la post season, e comunque fino a quel momento stava avendo una stagione sotto tono. I problemi sono nati quando si è dovuto, giocoforza, modificare un nucleo esperto e collaudato che aveva la sua chimica ben precisa, rimpiazzando i veterani con dei giovani. Horry, Bowen, Finley, Oberto, Kurt Thomas se ne sono andati e al loro posto oggi ci sono Richard Jefferson, George Hill, DeJuan Blair e George Mason. Chiaro che se a livello di talento la perdita è stata rimpiazzata, non si può dire lo stesso per quel che riguarda l’esperienza e il mestiere, attributi che spesso quando conta davvero fanno più differenza di qualsiasi altra cosa. La squadra di oggi rimane un ottimo collettivo, con la sfortuna di giocare a Ovest, perché a Est con quel record (41-27 attualmente) in ottica playoffs si avrebbe una posizione decisamente migliore, ma che non impensierisce le super potenze attuali, come dimostrano le 4 vittorie a fronte di 13 sconfitte maturate contro le prime 4 squadre delle due conference (Cleveland, Orlando, Atlanta, Boston, Lakers, Denver, Dallas e Utah). E più in generale gli
Spurs sono una squadra forte con i deboli (23-8 contro squadre con meno del 50% di vittorie) e debole con i forti (16-17 contro squadre con record superiore al 50%). Questo fa capire come siano fondati i dubbi sulle possibilità dei texani da aprile in poi. Perché se in regular season puoi tenere alto il tuo record vincendo contro le squadre di bassa fascia, ai playoff, invece, te la vedi solo contro il meglio della Lega. E nonostante questo San Antonio rimane una squadra che nei numeri non sfigura, specialmente in difesa, marchio di fabbrica storico di Gregg Popovich, nella top ten della Lega per punti, percentuale da tre e rimbalzi concessi. Variazioni al sistema si sono dovute apportare per forza in attacco, specialmente dopo l’inserimento di un giocatore esplosivo come Jefferson e vista anche la continua crescita di George Hill. E anche qui i numeri sono buoni, con 101 punti per partita col 47% al tiro. Ma alla fine gli scricchiolii maggiori sono venuti dai Big Three, Duncan, Ginobili, Parker. Il nativo delle Isole Vergini è al minimo in carriera per punti, rimbalzi, stoppate e minuti giocati. Ginobili ha avuto grossi problemi fisici che lo hanno limitato nella prima metà di stagione (anche se nel mese di marzo è tornato ai livelli da All Star) e Mr. Longoria, prima dell’infortunio, segnava 16.6 punti di media, il dato più basso dalla sua terza stagione fra i Pro, idem dicasi per assists e rimbalzi. Lo stesso Richard Jefferson, l’acquisto estivo che doveva rilanciare la squadra dopo un’annata negativa, è stato un mezzo flop. Fermo a poco più di 12 punti a partita che sono il minimo dalla sua stagione da rookie, l’ex Nets e Bucks sta soffrendo un gioco che, per quanto si sia cercato di adattare alle nuove e più giovani leve, rimane pur sempre basato sull’attacco a metà campo e dunque difficilmente esalta appieno le caratteristiche di RJ che per natura dà il suo meglio quando può scorrazzare in contropiede. E
LE STATISTICHE DI MANU GINOBILI ...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
I SAN ANTONIO SPURS IN CIFRE
m.br Fonte foto: http://www.utahjazz.co
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questa ideologia di gioco a difesa schierata torna utile per analizzare quanto accade contro le prime 8 della NBA e citate prima, ponendo l’attenzione specialmente sulle prime quattro a Ovest, quelle con cui, eventualmente, ci sarà da lottare per fare strada fra qualche mese. Analizzando alcune statistiche scopriamo come San Antonio giochi in media 91 possessi offensivi nelle proprie partite, tirando con una percentuale effettiva (cioè che dà maggior valore al tiro da tre) del 51,1%. Lakers, Denver, Dallas e Utah, tutte e quattro giocano un maggior numero di possessi (tra i 93 e i 95), con Denver e Utah che tirano con una migliore percentuale effettiva e Lakers e Dallas con una leggermente peggiore, bilanciando però questo con il maggior numero di possessi a disposizione. La conseguenza ce la portano ancora una volta le cifre. Nelle 12 partite contro queste quattro squadre (3-9 il record dei texani) San Antonio segna 96,4 punti di media, contro gli abituali 101, e ne subisce 99,3 invece dei normali 96. Una differenza netta di quasi 8 punti. Mettendo un po’ da parte i numeri e tornando a parlare la lingua corrente, abbiamo a che fare con una squadra chiaramente non all’altezza delle concorrenti di alto lignaggio. Venendo alla stretta attualità, la squadra è settima a Ovest ed è in una lotta a quattro con Phoenix, Oklahoma City e Portland per ottenere il miglior piazzamento possibile in ottica playoffs, ma le 14 partite rimanenti sono tutto tranne che favorevoli. Sei gare casalinghe e otto in trasferta di cui tre consecutive tra il 4 e il 7 aprile contro Lakers, Kings e Suns potenzialmente devastanti. Il dato peggiore di queste 14 partite restanti è che ben 11 sono contro squadre al di sopra del 50% di record, contro le quali, è bene ricordarlo, Duncan e compagni hanno il 48,6% di vittorie in stagione. Attenendosi ancora ai numeri e facendo una proiezione gli Spurs sono in linea per finire la stagione con 49 vittorie, ossia la prima stagione sotto le 50 vittorie dall’infausto (non tanto visto che portò alla scelta di Tim Duncan nel draft…) 1996/1997, senza, ovviamente, contare nel mezzo la stagione 1999 dove vennero giocate solo 50 gare. Per evitare questo i nero-argento si stanno aggrappando a un ritrovato Manu Ginobili che già da febbraio aveva dato decisi segnali di risveglio dopo una
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prima parte di stagione negativa, ma dall’infortunio di Parker è letteralmente esploso viaggiando a 23,3 punti con 5.5 assists, il 55% dal campo e il 48% da 3, tutto in soli 30,3 minuti di impiego, sempre perché Popovich non vuole assolutamente rischiare di spremere troppo i suoi uomini. A lato l’argentino ci mette anche un rapporto assist/palle perse di 2,3 a 1 decisamente ottimo. Tim Duncan può così gestire meglio i momenti della partita in cui tirare fuori il meglio di se stesso, mentre i giovani Hill e il sorprendente DeJuan Blair possono portare il proprio importante contributo. Il play/guardia da IUPUI ha preso il posto di Parker in quintetto producendo ottimi numeri consentendo così alla squadra di avere sempre un attaccante pericoloso in campo. I passi in avanti sono, come spesso accade, da fare nella fase difensiva, dove talvolta finisce un po’ in balia dei play avversari, ma in generale certo la dirigenza è contenta del suo andamento. E contenta di sicuro lo è anche di DeJuan Blair. Centro sottodimensionato a dir poco, pescato al secondo giro del draft è una dinamo di energia, con una calamita al posto della mani quando si tratta di andare a strappar rimbalzi. 6,2 carambole in meno di 19 minuti di utilizzo sono un dato che se parametrato su 48 giri di orologio porta all’incredibile cifra di 16,2. Purtroppo la sua scarsa altezza al momento non ne fa un giocatore affidabile per troppi minuti e questa, purtroppo, potrebbe essere una lacuna che segnerà la sua carriera. E che al momento sta segnando gli Spurs, che hanno il grande problema di non riuscire a trovare una presenza fissa da affiancare a Tim Duncan in pitturato. Il giocatore designato sarebbe Antonio McDyess, che però ha la carta di identità che gioca a suo sfavore, così è finito per partire in quintetto talvolta Matt Bonner, centro finto, che più finto non si può, tanto che la specialità della casa è il tiro dalla lunga distanza. Intanto si continuano ad attendere segnali costanti da parte del vero Richard Jefferson, che ha avuto un periodo tra febbraio e marzo in cui ha mancato la doppia cifra 9 volte in 16 partite giocate, mentre nelle ultime gare sembra essersi un po’ ripreso, per via anche dei maggiori tiri a disposizione stante l’assenza del play francese. Questo perché, tutti sanno che quando ci sarà da vincere una partita si andrà ancora una volta a bussare dai Big Three, ma giocatori pericolosi e decisivi attorno a loro saranno necessari, così come lo sono stati negli anni passati per creare la Dinastia dei San Antonio Spurs.
SOUTHWEST DIVISION
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20 29 29 33 32 22 28 23 29 22 29 35 27
6-7 6-5 6-10 6-11 6-6 6-6 6-10 6-2 6-7 6-11 6-5 6-9 6-2
265 215 240 260 205 220 230 180 225 230 212 245 180
Pittsburgh Kentucky Florida Wake Forest Oregon Tennessee Arizona Virginia Alabama
SALARY $850,000 $825,497 $3,256,500 $22,183,220 $10,728,130 $736,420 $855,189 $1,081,680 $14,200,000 $989,670 $3,780,000 $4,500,000 $12,600,000
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L’ANALISI Fonte foto: http://upload.wikimedia.org
Gasol in ‘Numberwo
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DI
D OMENICO P EZZELLA
E tutta questione di numeri. Per alcuni ed in alcuni casi, il tutto potrebbe anche essere considerato come un gioco per soli amanti della matematica o delle statistiche, ma a volte, non sempre (basta guardare i numeri della passata stagione dei Cleveland Cavaliers ed il come la stagione della formazione di The Chosen One si è conclusa ndr), sono un indicatore che fa pensare e come. Già perché anche in una città ed in una squadra in cui guardare e tendere ai numeri significa guardare e tendere verso il numero 24 ovvero quello di Kobe Bryant (che non di recentissimo è salito alle luce della ribalta una novità? Per aver iscritto in maniera indelebile il suo nome all’interno della storia e della franchigia losangelina), negli ultimi tempi si
V i a g gi o a ttr a v e rs o le cif re del ‘ P ri n c i pe ’ sempr e più ago della b i l a n ci a d e i Los Angeles Lakers
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è dovuto guardare per forza di cosa verso un qualcosa di diverso. L’attenzione si è dovuta spostare verso la Spagna, verso la parte catalana della Spagna. Quella parte gialloviola che in questo momento rappresenta il giocatore più incisivo e più determinante dietro solo allo stesso Black Mamba. Eresia? Blasfemia? Può darsi, ma è in questa occasione che i numeri e la matematica ci vengono incontro e ci danno una mano. A partire dalla vittoria della settimana scorsa contro i Phoenix Suns sono 126 le vittorie incassate dai Lakers da quando i Memphis hanno deciso di omaggiare il team della California di uno dei pezzi pregiatissimi di tutta la Lega quando si parla di entrare nell’area pitturata. Certo, direbbe qualcuno, gioca con Bryant ed i Lakers. Solo che però prima del suo arrivo i Lakers di Bryant si erano fermati per due anni consecutivi proprio contro Phoenix e che dopo la scoppola subita dai Celtics in Finale il nuovo ‘Re’ della Spagna cestistica sia stato parte determinante della cavalcata losangelina della scorsa stagione. A rendere, poi, tutto questo giro di parole ancora più convincente c’è il fatto che a fronte delle 126 ‘W’ da quando il ‘Principe’ o ‘Re’ catalano ha poggiato piede nella patria del cinema, ci sono le sole 34 sconfitte subite da Los Angeles in quasi tre stagioni in cui lo stesso Gasol era in campo. A dire il vero erano 31 prima che nel mese di marzo accadesse quello che in genere non era mai accaduto ovvero quella di perdere tre partite in fila con Gasol sul terreno di gioco («Non posso giudicare oppure sparare sentenze su giocatori che in certo senso sono stanchi e deboli, Pau sta accusando un po’ la stanchezza e per questo sto cercando
di cavare il meglio dalla panchina» le parole di coach Jackson dopo la terza sconfitta di cui sopra ndr). Striscia spezzata, appunto contro i Suns di qualche settimana fa per riprendere un cammino che in un certo senso ha ripreso ad essere quello di sempre. Ma si parlava di numeri ed allora il tour nel fantastico mondo delle cifre del catalano parte dal 55% dei minuti giocati da suoi Lakers in questa stagione, parte dal fatto che dalle sue mani arrivano circa 1,12 punti per giro di lancette cosi come sono poco più di uno (1,02) i punti concessi dallo spagnolo agli avversari diretti. Avversari diretti che secondo lo scouting report, quando nella Nba si incrociano le armi con i losangelini, dice che è bene attaccare l’ex Barcellona quando è nella posizione di power forward, anziché quando riveste quella di centro. E’ di circa 0,7 la differenza tra i punti concessi ai numeri ‘4’ (19,0) e quelli concessi ai centri puri (18,3) anche se per contro il riccioluto catalano concede più agli albatros d’aria in termini di rimbalzi (12,4) che alle ali forti (10,9). Dall’altra parte poi, però, c’è addirittura l’imbarazzo della scelta dal momento che dal punto di vista offensivo, i movimenti e le mani regali di Gasol fanno girare la testa a qualsiasi coaching staff visto: 23,9 punti quando è in campo da centro e 20,4 quando in campo, insieme a Bynum specialmente, lo si vede nel ruolo di ‘PF’. Fatturato che a Gasol piace realizzare nei primi 10 secondi dell’azione dato che il 39% delle sue conclusioni e realizzazioni arrivano proprio in questa fascia dell’attacco. Addirittura al 35% quella allo scadere con circa 4,0 punti di media quando sta per suonare la sirena dei 24 secondi
LE STATISTICHE DI PAU GASOL
...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
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mentre paradossalmente al di sotto del 20% (14% per la precisione) quando si va dal 20 secondo in poi. In mezzo la percentualemigliore è quella quando riceve palla all’interno della triangolo dopo il cambio di lato e quindi tra l’11simo ed il 15simo secondo dell’azione (26% con 2,9 punti segnati), mentre del 21% quella tra i 16-20 ticchettii dell’orologio. Non contenti? Beh allora l’appetito sul valore e sull’incidenza del catalano sull’attacco gialloviola e sull’autentica scempiaggine di cui raccontavamo in precedenza dei Grizzlies si conclude e si completa con le ultime due statistiche: 33 vittorie ed 11 sconfitte (al momento di scrivere) con lui in campo per un 75% che è stato intaccato proprio dalle tre sconfitte in fila accumulate prima della gara contro i Suns dalla quale siamo partiti per il viaggio nel ‘Gasol’s numberwolrd’.
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LA ‘SHOOTING SELECTION’ DEL CATALANO
IL RENDIMENTO ‘BY POSITION’
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L’ANALISI -2
DI
V INCENZO D I G UIDA
La ‘calda estate’ dei Pistons Detroit Pistons, siamo all’anno zero. La stagione della franchigia del Michigan dopo un inizio tutto sommato positivo, si è trasformata in un autentico stillicidio. Al momento in cui scriviamo Detroit è matematicamente fuori dai playoff, il record è un indecoroso 23-46, e stanotte al Palace of Auburn Hills sono passati in grande stile (eufemismo) addi-
rittura gli Indiana Pacers. Per i tifosi dei Pistons (tanti anche in Italia) di ultima generazione, quelli cresciuti nell’era del titolo del 2004 e delle cinque finali di conference consecutive, è peggio di una coltellata al cuore. Da quel giugno 2004 di acqua sotto i ponti ne è passata. Lo scacco agli imperatori in giallo-viola, la finale persa l’anno dopo a gara
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7 con gli Spurs (dannato Rasheed, croce e delizia). Cinque anni di dominio nella Eastern Conference, cinque anni passati a cercare la magica formula del 2004, ma è mancato sempre il centesimo per arrivare a un dollaro. A un passo dal diventare una dinastia, più per propri demeriti che per colpa di Wade (2006), Lebron (2007) o dei “big three” dei Celtics (2008). Il passato è passato, ma se i Pistons d’oggi dì versano in questo stato comatoso è perché qualche errore di valutazione è stato fatto. LA LUNGA ESTATE CALDA. Le basi della squadra di quest’anno sono state gettate all’inizio della passata stagione. Il presidente esecutivo Joe Dumars decide per il licenziamento di Saunders promuovendo sul pino l’assistente ed ex giocatore Michael Curry. Dopo otto gare parte il piano di rinnovamento. Si cede con le lacrime agli occhi Chauncey Billups. Oh, anche le grandi storie d’amore nello sport, prima o poi devono finire. Il ciclo si è chiuso. Mr. Big Shot era quello che aveva più mercato, e poi bisognava lanciare Stuckey. Billups va a Denver (e i Nuggets si trasformano in una contender a Ovest), in cambio di Allen Iverson. Titoloni sui giornali, sappiamo poi come è andata finire. Detroit con un record perdente si affaccia alla post season con l’ottava testa di serie per essere ramazzata 4-0 dai Cavs. Ma la mossa di Dumars è oculata. Liberare spazio salariale. Iverson è in scadenza e non verrà rifirmato. In estate ci si saluta (con meno lacrime agli occhi) anche con Sheed Wallace. La rifondazione è partita. Soldi da spendere un bel po’. I PISTONS 2009/2010. Dopo molte riflessioni, tra le quali un ammiccamento con Avery Johnson, Dumars nomina capo allenatore John Kuester, navigato assistente che a Cleveland in sostanza era l’offensive coordinator, per prendere in prestito un termine usato nel Football. Si riparte da Hamilton, Prince e Stuckey. Al draft si pesca Austin Daye (ala piccola), e Jonas Jerebko (ala). Dal mercato ecco Ben Gordon, Charlie Villanueva, Chris Wilcox, Kwaume Brown (?) e il grande ritorno di Ben Wallace. Primi dubbi. Rip e Gordon seppur con caratteristiche simili fanno scopa, poi c’è un
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affollamento di ali peggio che in uno stormo di rondini in migrazione. Parte la season. Dopo una gara s’infortuna Hamilton, dopo una decina va fuori Prince. La squadra stranamente trova un suo equilibrio e sino a dicembre naviga a ridosso dei playoff. Gordon in quintetto produce circa 17 punti a partita, Stuckey viagga con il career high in tutte le categorie statistiche (173 punti, 4.9 assit, 4.3 rimbalzi). Poi il buio. Tornano Prince e Hamilton, nascono problemi di chimica. Il meccanismo s’inceppa. La stagione va a sud. Numeri. Già detto del record, esaminiamo un po’ i numeri. Detroit segna 93.6 punti a partita. Solo i derelitti Nets fanno peggio. E questo dice tutto. I Pistons sono penultimi anche nella percentuale dal campo (44%), e ultimi nel tiro da tre punti (30%).Ovviamente sono ultimi anche nei liberi (72%), dove incide il fattore Ben Wallace. L’attacco fa piangere, eppure John Kuester implementa lo stesso sistema usato dai Cavs. Giocatori diversi, risultati diversi. Prendere in esame le cifre in difesa sarebbe un puro esercizio giornalistico, perché Detroit è una di quelle squadre che trae energia in difesa da come attacca e non viceversa. E quando si attacca così male, fai fatica anche nella tua metà campo. Detroit nella seconda parte di stagione ha espresso il peggior basket della lega. I Pistons sono piccoli e tirano male. Coach Kuester ha provato diverse soluzioni e quintetti. Quando Hamilton e Prince sono tornati al cento per cento, ha spostato Gordon e Villanueva nella seconda unità, per dare punti e attacco dalla panchina. I risultati sono stati disastrosi. Gordon arrivato a Motown con la voglia di fare il titolare e non più il sesto uomo come ai Bulls, si è ritrovato a fare il backup di Rip. Le sue cifre sono scese (viaggia a 11.2 da quando parte dalla panchina), il suo impatto è pari a zero se non negativo. Villanueva ha fatto, invece, emergere tutti i suoi limiti. L’attacco quindi si struttura sulle uscite dai blocchi di Hamilton, sui mismatch generati da Prince e sull’uno contro uno di Stuckey. Il sistema non si sviluppa, anche perché ci sono pochi giocatori da pick and roll e in vernice non c’è niente. Wallace, Wilcox e Brown non sono giocatori pericolosi, il pur volenteroso Jaon Maxiell (una
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delle poche note liete), non può fare miracoli. Unica luce nel buio, Jonas Jerebko. Lo svedese ex Biella, si è rivelata una clamorosa pesca al secondo giro (n°39), e con 9.3 punti e 5.9 rimbalzi, e la sua attività sui due lati del campo, sta facendo di gran lunga meglio di Daye. In definitiva, l’attacco dei Pistons prende pochi tiri aperti, cerca di andare sempre in area con risultati rivedibili, e soffre dell’assenza di un play nel senso classico del termine, perché ormai è chiaro che Stuckey non è ancora e forse sarà mai, quel tipo di giocatore. LE SCELTE DI DUMARS. E’ stato l’architetto dei Pistons del nuovo millennio. Da osannato a contestato, Joe Dumars è sempre argomento di discussione tra i tifosi duri e puri. Qualche flash: convince Larry Brown, fa arrivare da Minnesota Billups e da Orlando Ben Wallace, manda a Washington Stackhouse per Hamilton (affare), prende Rasheed Wallace sostanzialmente in cambio di niente. Negli anni avvenire puntella la squadra con i vari McDyess, Webber e con gran di scelte come quella di Stuckey al draft del 2007. Fin qui il saldo è strapositivo. Le note dolenti: la prima è la scelta di Darko Milicic al numero due nel draft del 2003. Quello di Lebron, Wade, Anthony, Bosh. E’qua già se ne va gran parte del credito. Ha poi lasciato andare troppo facilmente i vari Okur e Williamson, per prendere gente come Mohammed o Dale Davis. Negli anni, con una soluzione salariale con poco margine ha provato a piazzare qualche colpaccio, leggi Tony Delk, Flip Murray o Jarvis Hayes, nel tentativo di aggiungere talento alla panchina a poco prezzo e senza toccare il nucleo formato da Billups, Hamilton, Prince e Rasheed. CAPITOLO ALLENATORI. A John Kuester dobbiamo ancora concedere una chance. La scelta di Curry è stata disastrosa. Dumars se ne è accorto subito e vi ha posto rimedio. Il dopo Brown è stato affidato a Saunders, che tutto sommato ha raggiunto tre finali di conference consecutive. Ma a far pendere in negativo la bilancia sono le scelte compiute nell’ultimo mercato. Lo spazio salariale abilmente creato è stato così riempito: Ben Gordon (5 anni di contratto a partire da 10,000,000 $), Charlie Villaneuva (5 anni a partire da 6,500,000 $), Kwame Brown (4,100,000 $, in scadenza), Chris Wilcox (titolare di un contratto di 2 anni 3,000,000 $), Will Bynum (825, 470 mila $, in scadenza), Chucky Atkins (1,306,455, in scadenza), Ben Wallace (1,306,455, in scadenza). Passiamo a i giocatori già sotto contratto. Richard Hamilton ha ancora tre anni a 12, 650, 000 $. Tayshaun Prince chiama ancora un anno a 11, 148, 000 $, Rodney Stuckey è sotto contratto per altri due anni a 3, 000, 000 $ circa, Jason Maxiell chiama altri tre anni a 5, 000, 000 $. A questi vanno aggiunti i contratti da rokiee di Jerebko, Summer e Daye. Un pay roll a due facce, che dovrà essere letto alla luce di cosa accadrà quest’estate quando si libereranno i grossi calibri, ma anche in base alla ridiscussione del contratto collettivo (c’è l’ombra lunga del lock-out). Una cosa va detta, se l’acquisizione di Gordon può avere un senso in ottica futura, quella di Villanueva proprio no. Vuoi per il tipo contratto, vuoi per le caratteristiche tecniche e le attitudini del giocatore. Un’ala che se segna i primi due tiri può andare in ritmo e farne trenta, ma la sera dopo è capace di chiudere con 0/13 senza battere ciglio. Non difende, è atletico il giusto ed era già stato scaricato senza troppi complimenti da Toronto e Milwaukee. Cosa ci avrà visto in lui Dumars non è dato saperlo. Gli argomenti sopracitati non depongono a favore del numero uno del front office dei Pistons. La tremenda stagione di Detroit è figlia di queste
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scelte. Dumars voleva cedere Hamilton (trattative sino alla trade dead line di febbraio con Boston e Cleveland) e Prince, ma non ci è riuscito a causa di contratti che con i nuovi scenari risultano autentici albatros. Ma Hamilton e Prince meritano un paragrafo a parte. RIP E IL PRINCIPE. Per molti addetti ai lavori, “L’Uomo con la Maschera” e il “ Principe di Compton” sono tra i principali responsabili della fallimentare stagione di Detroit. Dopo anni di subalterna leadership, avevano avuto le chiavi della squadra e non sono saliti di livello. Il dilemma su di loro è il seguente: superstar o straordinari giocatori di complemento. Le risposte sono diverse. Hamilton è un campione, opinione personale e contestabile. Lo ha dimostrato a UConn con lo splendido titolo Ncaa 1999, quando fu nominato Mvp delle final four, lo ha dimostrato in parte della sua esperienza a Washington. A Detroit poi si definitivamente consacrato. Adesso a 32 anni, abituato a giocare sempre per certi traguardi, pare non abbia voglia di ripartire dal capo, né di fare da chioccia ai giovani delfini. Dal punto di vista statistico, i numeri ci dicono che Rip il suo lo sta facendo: 18.3 punti, 4.4 assist, 2.8 rimbalzi, ma la percentuale dal campo (41%) è la peggiore della carriera, e per ciò che concerne il tiro da tre punti (28%) solo nella sua seconda stagione ha fatto peggio. Più che i numeri è stato l’apporto emotivo a non soddisfare chi il 27 del mese gli stacca lo stipendio. E’ vero che Hamilton è stato fuori per molto tempo ad inizio stagione, e quindi il suo impatto è stato limitativo. Ma c’è dell’altro. Rip a parole per Dumars è la pietra angolare dal quale dovevano ripartire i Pistons. Ma se le principali operazioni di mercato (Iverson nel 2009, Gordon nel 2010) riguardano giocatori nel suo ruolo, allora Richard Hamilton da Coatesville – Pennsylvania, come può sentirsi legittimato del ruolo di leader? Caro Dumars è ora che ti decidi una volta e per tutte. Discorso estendibile anche a Prince: 12.4 punti di media (career low) e 4.9 rimbalzi, per il quale va fatto un distinguo. Per caratteristiche tecniche non potrà mai essere una Superstar nel senso classico, ma uno spettacolare terzo violino in una squadra da titolo. Anche il Principe ha saltato molte gare, e come Hamilton ha evidenziato i lati meno scintillanti del suo gioco e del suo essere giocatore, una volta che il sistema che ha tenuto in piedi Detroit per sei anni è venuto a mancare. IL FUTURO. Ora che i playoff sono andati, il motto in ossequio alla Longobarda di Oronzo Canà, sembra essere “perdere e perderemo”. Un disperato tentativo di avere più pallini nell’urna al draft, per il quale si pregano gli dei del basket affinchè elargiscano la terza o quarta chiamata, magari convertibile in quel Cousin, che dovrebbe portare al titolo Ncaa la Kentucky condotta da John Wall. A Detroit serve un lungo d’area capace di fare la differenza. Grande peso avrà pure la questione societaria. Con la scomparsa dello storico proprietario Bill Davidson se ne è andata l’anima dei Pistons. La famiglia Davidson (moglie e figli) sono decisi a passare la mano. Il sindaco di Detroit cerca acquirenti e ha avanzato la proposta di riportare la franchigia a giocare al centro della città e non più a Auburn of Hills, che dal centro (tutt’altro che scintillante) di Detroit dista una quarantina di miglia. Il futuro non è roseo, anche perché Motown vive una grave crisi economica, dovuta al crollo del mercato delle auto e della General Motors in primis. Per ciò che concerne la squadra, le decisioni le prenderà ancora una volta Dumars. I tifosi dei Pistons incrociano le dita. Bastera?
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IL PERSONAGGIO
‘Ru d y P ri de ’, Gay sarà a nco ra la s te lla dei Griz zl ies?
I Grizzlies sono senz’altro una delle squadre più talentuose, giovani e quindi futuribili della lega. Eccetto l’ottimo Randolph, tutto il roster agli ordini di coach Hollins è composto da giocatori con pochissima esperienza, ma che già hanno fatto intravedere ottime capacità. Conley, Mayo, Marc Gasol e Gay rappresentano il futuro della squadra, un futuro assolutamente luminoso, nonostante difficilmente preveda l’ingresso ai playoff già in questa stagione. Proprio su Rudy Gay vogliamo soffermarci. Nonostante sia in questa lega da soli tre anni, può essere considerato il giocatore più “esperto”, quello con la più lunga militanza nella franchigia del Tennessee. Tuttavia furono i Rockets a sceglierlo nel draft del 2006 (quello del nostro Bargnani, per intenderci) con l’ottava
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S TEFANO PANZA
scelta, prima di cederlo immediatamente insieme a Stromile Swift a Memphis in cambio di Shane Battier. Secondo molti Rudy Gay era già uno dei futuri rookie più pronti per l’NBA dopo un paio di stagioni a Connecticut dove lasciò intravedere cose egregie. Sfortunata fu la sua seconda apparizione al torneo NCAA, dove venne eliminato in una rocambolesca partita contro la sorprendente George Mason allenata da coach Larranaga. Numerosi furono i riconoscimenti che Gay ottenne in due stagioni al college, perciò i Grizzlies si ritennero pronti a sacrificare il loro miglior difensore pur di mettere le mani su un prospetto così interessante. Le attese, infatti, non furono mai deluse: nell’anno da rookie Gay segno quasi 11 punti a partita in 27 minuti d’impiego, partendo in quintetto in ben 43 occasioni. Venne preso in considerazione per il premio di Rookie of The Year, ma finì solo terzo in quella speciale graduatoria, dietro al fenomenale Roy e ad Andrea Bargnani. Nel giudizio finale pesò lo scarsissimo rendimento di Memphis, vincitori di sole 22 partite, troppo poche per valutare al meglio ed eventualmente premiare il contributo di un giocatore. La stagione seguente fu quella che lanciò nell’Olimpo del Basket il giovane, allora 22enne, da Baltimore: 20.1 punti di media, 6.5 rimbalzi e 2 assist in 37 minuti. Titolare in tutte e 81 le gare da lui disputate, ha sfiorato il premio di Most
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Improved Player, aggiudicato da Hedo Turkoglu. Ma lui, la dirigenza e i tifosi di Memphis non ne fecero un dramma: avevano trovato un vero fenomeno. Anche perché con la cessione di Pau Gasol, avvenuta a metà stagione, Gay diventò il miglior realizzatore della squadra. Gay è un atleta eccellente, in grado di giocare in entrambe le posizioni di ala. Da molti è considerato uno dei giocatori più eleganti al mondo grazie all’armonia dei suoi movimenti, alla facilità di tiro, alla fluidità nella corsa. Nei quattro anni di militanza nella lega ha saltato solo 8 partite, segno di grande costanza ed integrità fisica, come dimostra anche il numero di minuti giocati quest’anno, 2692, terzo in assoluto in questa speciale classifica (scende al quinto posto se si considerano i minuti a partita, 39.6). Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare un uomo-franchigia. La scorsa stagione ha chiuso con quasi 19 punti di media oltre a 5.5 rimbalzi. Il lievissimo calo è dovuto all’innesto da parte della dirigenza di altre bocche da fuoco, come ad esempio OJ Mayo. Nella stagione in corso, invece, Gay flirta nuovamente con i 20 punti a gara. Attualmente sono 19.8, ma per lunghi tratti l’ex Connecticut ha varcato la soglia dei 20. Se così dovesse essere, Memphis sarebbe l’unica squadra della lega a vantare due giocatori oltre quota 20 punti a gara (l’altro sarebbe Zach Randolph, 20.8). Il rendimento stagionale di Gay è gratificato, finalmente, anche dall’ottimo campionato disputato dai suoi Grizzlies, che hanno a lungo accarezzato il sogno di tornare ai playoff. Grande merito, ovviamente, è da attribuire al #22, che in questa stagione ha ritoccato praticamente tutti i suoi record, come i punti in singola partita (41 a Miami il 13 dicembre), i rimbalzi totali (13 a Sacramento il 2 novembre, record eguagliato), gli assist (6 in due occasioni, record eguagliato), oltre al numero di tiri trasformati in una partita, 15 nella gara di Miami già citata. Proprio il tiro è uno degli aspetti da analizzare di Rudy Gay. Abbiamo già descritto l’eleganza del movimento di tiro, che lo rende uno tra i giocatori più speciali in assoluto. Eppure, anno dopo anno, Gay ha ridotto il numero di conclusioni dall’arco a favore di un progressivo avvicinamento al canestro. Trascurando l’anno da rookie, Gay ha preso 387 conclusioni da tre nella sua seconda stagione, 242 nella terza e 177 finora, mantenendosi incredibilmente su una percentuale tra il 33.9 e il 35.1%. Questo nonostante la presenza in squadra di due uomini d’area come Randolph e Gasol che teoricamente dovrebbero favorire gli scarichi per i tiratori.
LE STATISTICHE DI RUDY GAY
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IL PERSONAGGIO - 2 Fonte foto: http://ladiesdotdotdot.files.wordpress.com
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di
G UGLIELMO B IFULCO
Per esprimere un sintetico ed esauriente giudizio su Luis Scola, può essere sufficiente ricorrere al soprannome che in questi ultimi 15 anni di NBA è stato accostato al tetratitolato Tim Duncan: the Big Foundamental; ed è un’incredibile ironia della sorte che la franchigia che lo abbia scelto al Draft nell’oramai lontano 2002 siano stati proprio quei San Antonio Spurs che oggi, al di là della figura leggendaria del Caraibico hanno ben poco da far sperare ai propri supporters. Partiamo proprio dal soprannome appioppato , più che giustamente, a TD21, per descrivere le gesta di questo capellone argentino , che oltre ad avere una chioma folta degna dei migliori Batistuta, Kempes, Valdano, tanto per citare alcuni di suoi connazionali che hanno avuto fortuna nel soccer, mostra una grinta, una cattiveria agonistica, una padronanza intellettuale cestistica forse unica tra le power forward attualmente in circolazione nella lega, e un’e-
‘Luisito’ Him’: Scola
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spressione e un’identità facciale quanto mai accostabile all’ultimo eroe di una fittizia tribù del sudAmerica. Parlando da un punto di vista strettamente estetico, un gioco in post pulito quanto a varietà di movimenti, scelte inappuntabili e quasi sempre giuste come quello di Scola sono roba assolutamente inedita, se non rara. Come se l’estetica non bastasse da sola ( vero T-Mac? ), a supporto di queste, già pregievoli di loro, caratteristiche, vi sono mille altri aspetti per i quali innalzare la figura cestistica
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del Nostro: l’ atteggiamento emotivo e l’impatto sui compagni di squadra tanto per iniziare: basta guardare una sola partita degli Houston Rockets per denotare la cattiveria con la quale tratta l’attaccante opposto in fase difensiva pur trovandosi magari in difetto di centimetri rispetto al diretto avversario: negli occhi di tutti non può non manifestarsi il ricordo del modo in cui abusò tecnicamente, fisicamente, agonisticamente e psicologicamente di Pau Gasol negli scorsi Playoffs nei quali degli
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acciaccati e privi di primedonne Houston Rockets portarono alla settima gara nelle semifinali della Western Conference gli strafavoriti sulla carta LosAngeles Lakers. In quella serie, epica per qualsiasi supporter dei Rockets, Scola e Landry presero a botte gente come Lamar Odom, Gasol appunto, ed Andrew Bynum, il più basso e leggero dei quali era Lamar Odom, ben 2 metri e 8 contro gli scarsi 2,06 di Scola e gli scarsi 2 metri di Landry. Al di là dunque dell’impatto fisico sull’avversario e della sua marcatura, ciò che maggiormente impressiona dell’argentino è l’elevatissimo IQ cestistico, la capacità di leggere i movimenti della difesa avversaria e di regolarsi in base ad essa su come attaccare: la cosa bella è che in un’azione tipo di un attacco di Houston basterà seguire con lo sguardo Luis per vedere come dietro ciascun movimento eseguito, dietro ciascun blocco, dietro ciascuna soluzione che possa adottare con la palla in mano, una conclusione con giro su perno o in semigancio oppure uno scarico su un tagliante libero, si nasconde uno dei principali successi della franchigia Texana. Scola offre una varietà di soluzioni in attacco ammorbante, dà un contributo in termini di intensità assolutamente superbo, rappresenta un tostissimo giocatore sotto la propria area, ed è assurdo non pensare a lui come uno dei giocatori più sottovalutati in assoluto nel panorama NBA. La sfortuna di questo autentico gladiatore da parquet è stata principalmente quella di aver militato in una compagine non idonea per ambire alle finali NBA, il che ne ha precluso l’opportunità di dimostrare la propria abilità
e il proprio spessore psicologico ad alte temperature, come invece non è avvenuto ad esempio per l’altro argentino Emanuel Ginobili in quel di San Antonio. Proprio come il connazionale più titolato, Luis è un giocatore pensato per i momenti caldi e rarefatti di una stagione, eppure lo sportivamente triste destino lo ha indirizzato in un contesto sospeso nel Limbo della sufficienza come quello dei Rockets. Assurdo con il senno di poi, pensare che gli Spurs gli abbiano preferito il connazionale Fabricio Oberto anni or sono. In definitiva una carriera NBA al di sotto delle proprie possibilità, parlando in termini di argenteria, ma al contempo anche una grandissima impronta timbrata nel territorio FIBA, con i 7 anni trascorsi in Spagna con il TAU con le 2 final four disputate e soprattutto con i successi ottenuti con la casacca Albiceleste, comprendenti: Oro olimpico ad Atene 2004, Bronzo a Pechino 2008, Argento ai mondiali di Indianapolis 2002 e via discorrendo. Purtroppo l’arrivo negli Stati Uniti è stato molto tardivo, nel 2007 , e l’anagrafe recita quasi anni 30 ( il prossimo 30 Aprile), per cui diventa difficile immaginare svolte significative nella sua carriera: la speranza è quella che il talvolta caotico e spesso incomprensibile mercato NBA ( perché dopo l’affaire scandalo Gasol Lakers, dovrebbero anche spiegarci l’ultima rapina di Antawn Jamison da parte dei Cavs) possa dirottarlo in una situazione tecnica più solida e definita per consentirgli di dimostrarci che l’Argentina non è solo Manu Ginobili. Come se poi fosse veramente necessario dimostrarlo..
LE STATISTICHE DI LUIS SCOLA
...COSI’ NELLE ULTIME 5 PARTITE...
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OCCHI PUNTATI SU...
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Por tland Trailblazers
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E’ la squadra sicuramente più gufata della lega, essendo l’ottava in quel groviglio di squadre a ovest, e quella su cui tutte fanno la corsa giacchè è ottava, e le malelingue sembrano funzionare non tanto perché producono risultati negativi, quanto invece perché falcidiano di infortuni i ragazzi della città delle rose. Roy è il solito cecchino ma le sue precarie condizioni appunto ne limitano l’utilizzo e la resa sul parquet. L’emergenza lunghi con il fragilissimo Oden e Prizbylla out non è stata sopperita con l’arrivo di Camby, anch’egli finito in infermeria. I piccoli non sono da meno, e a turno c’è un play tra Bayless, Fernandez , che sta fuori con l’ingresso nelle rotazioni di giocatori inferiori come i vari Diener, Cunningham. Lo spagnolo u conferma punto determinante punta di diamante di un collettivo che ha la sua onnipresente certezza nel suo play Miller. La sua struttura fisica che lo rende simile a un runningback della nfl gli permette di assorbire meglio gli urti portare i pari ruolo (ma con meno kili) in post basso e batterli con giro e tiro, ganci, o movimenti da lungo. Giocatore dal rendimento affidale è Aldridge che ha trovato confidenza nel tiro e va avanti anche a rimbalzo e rappresenta il totem della squadra. Vuoi gli infortuni, vuoi la mancanza di gente di talento, è tornato di moda Juwan Howard che alla sua età si fa ancora vedere e fa molto bene. Stanno uscendo i due virgulti un po’ dimenticati Batum e Bayless, mentre se cerchi un tiratore affidale il “Martello” Webster è più che affidabile e regala punti e grande continuità. Attenti lakers Portland non è lo scoglio semplice che si vince 4-0.
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D OMENICO L ANDOLFO
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Dallas Mavericks
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D OMENICO P EZZELLA
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E’ indubbio, è inequivocabile che anche prima dell’arrivo dei ‘tre moschettieri’ dalla capitale, in quella che potremo definire come la trade più produttiva di metà stagione, che il dato più rilevante, che il dato che più salta agli occhi è quello relativo alla difesa. Tallone d’Achille negli anni di guida Nelson (nonostante la Finale raggiunte ma dove questo fondamentale è stato a dir poco importante nell’assegnazione del titolo del 2006 e l’eliminazione al primo turno dell’anno successivo nonostante papà Don aveva lasciato il Texas ed il Donn per andare ai Warriors ndr) e da sempre considerato come lo spartiacque tra il considerare i Mavericks come una delle formazioni da inserire all’interno della lizza per la conquista del ‘Larry O’Brien Trophy’ e quella che faceva dei texani come una delle squadre con tanto potenziale ma alla quale mancava sempre il centesimo per raggiungere l’euro. Beh quel centesimo sembra che i Mavs l’abbiano trovato e aggiunto al resto del gruzzoletto, visto che è nella propria metà campo che principalmente Dallas sta costruendo ed ha ostruito,
prima e dopo la trade, la maggior parte del record che ora la mette in vetta alla Southwest Division. Un differenziale tra punti segnati e punti subiti che finalmente riesce ad essere ad appannaggio ed a favore di quelli segnati e non al pari o comunque al di sopra di quelli messi nel ‘baloncesto’ avversario. Non che ora i texani guidati da Rick Carlisle siano diventati una sorta di succursale ad Ovest degli Charlotte Bobcats e dell’idea di coach Brown che è meglio vincere le partite con la difesa che vendere i biglietti con l’attacco, ma i 99,6 punti concessi a fronte dei 101,65 sono attualmente la chiava di volta e la delizia per il palato di Mark Cuban. Nonostante tutto, però qualche
piccolo passo falso i texani l’hanno ancora commesso come per esempio le due sconfitte casalinghe nelle ultime 10 partite di cui al limite dell’imbarazzante e che manderebbe a carte e quarantotto tutto il discorso sulla difesa visti i più di trenta punti di scarto presi dai Knicks e ripetiamo i Knicks, e quella più recente contro i Celtics. Dimostrazione che alla base qualcosa di buono c’è, ma che l’inserimento di Butler, Haywood e compagnia cantante non è ancora al 100%, ma che questi arrivi hanno dato un volto ed una pericolosità dentro e fuori dall’area che unita al talento di Nowitzki ed al genio di Kidd ne fanno una seria candidata quanto meno a non andare a casa in primissimo aprile.
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Houston Rockets
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D OMENICO P EZZELLA
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Ci vuole davvero poco ad accendere facili entusiasmi a seguito di una serie di vittorie consecutive che ti fanno risalire quel poco che basta la china per poter tornare a pensare di salvare capra e cavoli e non dover considerare l’attuale, come una stagione di transizione in attesa del cinese, come una stagione di rivoluzione con la partenza di McGrady, e magari rendere
tutto più interessante con una partecipazione ai playoff. I numeri non danno certo esclusa la possibilità di vedere, magari, i Rockets impegnati in tarda primavera nella lotta e nella corsa al titolo che in gergo tutti ‘osano’ chiamare playoff. Numeri che allo stato attuale dicono quanto segue, ovvero che le sette vittorie in dieci partite (dati aggiornati al momento di scrivere ndr) consentono a Houston di rosicchiare qualcosina per quell’ottavo posto attualmente detenuto da parte dei Portland Trailblazers. Sei le vittorie di differenza, 5,0 la distanza in termini di GB dalla formazione dell’Oregon e ancora una terza parte di stagione ancora tutta da giocare. L’innesto di Kevin Martin ha dato a coach Adelman quella bocca da fuoco naturale che gli serviva dopo le partenze e le indisponibilità di chi lo era in passato. Dal suo arrivo in Texas l’ex Sacramento Kings
ci ha messo poco ad inserirsi a mostrare tutto il suo talento, anche se i guai fisici non lo hanno abbandonato del tutto. Con lui in squadra (22 punti abbodnanti di media in circa 37 giri di lancette giocati), con Brooks a condurre le danze e con una serie di ‘gregari’, di lavoratori instancabili a partire da Scola fino ad arrivare a Shane Battier e al nuovo ruolo di sesto uomo e show stopper date le sue ben note doti difensive, quello biancorosso diventa un cliente non facile nella post season per diversi motivi: una squadra che dal punto di vista tattico ha trovato il suo equilibrio ‘anormale’ negli ‘undersized’ (di cui Luisito Scola rappresente il miglior esponente), ma soprattutto una squadra che dal punto di vista psicologico non avrà nessuna pressione di qualunque genere e questo in situazioni tese e a volte pesanti come quelle dei playoff può essere qualcosa di importante.
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New Orleans Hornets
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D OMENICO P EZZELLA
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Con ogni probabilità la formazione più deludente di questa stagione tra quelle che ovviamente non era stato certo preventivato o era preventivabile un record da bassi fondi della propria Division ed in generale della Western Conference. Segnali di cedimento o della presenza di un qualcosa che non andava, gli Hornets ne hanno dato già la passata stagione quando furono letteralmente spazzati via senza nemmeno troppo sudare dai Denver Nuggets, ma quelli visti quest’anno non sono nemmeno lontani parenti ne di quelli che comunque i playoff li raggiunsero, ne di quelli che ancora un anno prima stavano per compiere l’impresa più bella della storia della franchigia da quando sono passati da Charlotte a New Orleans. Il motivo? Beh primo su tutti la stagione tormentata dagli infortuni di Chris Paul che fino a questo momento ha giocato davvero uno scampolo di stagione causa un ginocchio che proprio non ne vuole sapere di lasciarlo in pace. Eppure 38 partite gli sono bastate per far crescere ancora di più il rammarico di non averlo visto al 100% dal momento che in proiezione i suoi attuali 20 e passa punti, 11,4 assist e 2,24 palle rubate sarebbero potuti essere un qualcosa di molto più significativo di numeri che non servono a niente. Una situazione difficile ma nella quale New Orleans ha dimostrato di essere non all’altezza delle manie di grandezza e delle aspettative del suo uomo più rappresentativo. Senza di CP3 in campo, ma a votle anche con lo stesso ex Wake Forest in campo, gli Hornets non hanno fatto che dimostrare di essere una squadra che ha dei lampi di luce accecante, ma anche dei momenti di bui profondo e pesto che ne fanno una delle formazioni da ‘lottery’ del prossimo Draft. Nemmeno quella che era stata considerata la seconda stella, David West, sulla quale costruire il futuro della franchigia è riuscita nell’intento di salvare quanto meno la faccia e di salire
quel gradino che di solito trasformano i buoni giocatori in ‘Star’ vere e proprie. I suoi 19,0 ad allacciata di scarpe non sono niente male, ma quante le occasioni in cui i suoi punti o canestri sono serviti a poco tanto per usare un eufemismo? Tante. Quante le occasioni in cui i suoi bottini si sono comunque rimpinguati per effetto di un talento indiscutibile, ma ormai a ‘babbo morto’ come si suol dire? Tante. Cosi come tante sono state le volte in cui nemmeno chi, nel primo anno, era stato portato per dare
esperienza nei playoff come aveva fatto a Boston e Miami, e si parla di tale James Posey, non è riuscito a dare quel contributo difensivo che ci aspettava. Ed allora in attesa di CP3, in attesa che l’ex Wake Forest non cambi idea per il suo futuro, in attesa del miglior David West quello che resta a New Orleans è la stagione di alto livello dei suoi rookie Marcus Thorton (13 punti abbondanti ndr) e Derren Collins (11 e 5 assist di media) e quella tutto sommato niente male di Peja Stojakovic (12,6 punti).
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Memphis Griz zlies
DI
D OMENICO P EZZELLA
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Se il discorso sulla questione mentale nei playoff e sul distacco dai Blazers per la prossima post season, vi ha lasciato qualcosa di interessante di cui preoccuparsi da qui a qualche mese, beh allora non potete che annotare un’altra squadra che potrebbe addirittura (visto che ovviamente fa comunque strano dirlo ndr) partecipare alla parte più affascinante della stagione. Con una vittoria in più, ma anche una sconfitta in più, i Grizzlies sono nella stessa condizione, situazione e posizione dei Rockets, ovvero a circa 6 vittorie e partite di distanza da quell’ultimo posto necessario per allungare la propria stagione. E il merito in questo momento ha un unico denominatore comune al di la dei numeri dei singoli giocatori e cioè il record di Memphis in casa e fuori. Questo è il dato rilevante a partire dal mese di febbraio e che in vista delle ultime 0tto
partite nelle 12 conclusive della stagione, hanno fatto inserire agli addetti ai lavori anche il nome di Memphis come possibile candidate alla post season. E tutto questo grazie ad un poker di giocatori sui quali, forse, nemmeno loro stessi (sempre che lo ammetterebbero!) avrebbero puntato un solo euro come protagonisti di questa stagione, ma soprattutto protagonisti di alto livello. Il primo è indubbiamente Zach Randolph, di cui abbiamo parlato anche nello scorso numero, e per il quale la scadenza di contratto ha avuto come per esempio su Eric Dampier tempo addietro o per altri, un effetto rigenerativo rispetto alla voglia di non fare sostanzialmente niente dal punto di vista cestistico dopo i bei milioncini di presidente spirati firmati tra Portland e New York e fatti poi girare per gli States fino ad arrivare a Memphis.
Con ogni probabilità questa resterà la sua migliore stagione non solo per numeri (20,8 ed 11 rimbalzi di media), ma anche dal punto di vista personale: nessuna grana, mai una questione fuori posto e anche in linea con la bilancia. Tutte cose che se fossero state scritte ad ottobre o ancor prima da parte di qualcuno sarebbe di sicuro stato rinchiuso per problemi psicologici. Ed invece l’ex Michigan State è insieme a Rudy Gay (19,8 punti e 5,8 rimbalzi), OJ Mayo (17 punti abbondanti di media) e Marc Gasol (14,8 punti e 9,5 rimbalzi per un altro nome su cui nessuno avrebbe puntato non un centesimo ma nemmeno un soldo bucato ndr) il fautore di una stagione che era iniziata come peggio non si poteva con il caso Iverson e che potrebbe invece finire con un sapore dolcissimo come quello della post season.
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Denver Nuggets
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Aprite le porte del Pepsi Center, squadra da titolo in arrivo: Carmelo e soci hanno un anno in più d’esperienza e la seconda piazza nella Gold Rush dell’Ovest. Chauncey Billups è probabilmente il miglior playmaker della zona, se la gioca solo con Deron Williams, ma la sua classe, la sua eleganza e la sua esperienza pongono a favore dell’ex Detroit abile a innescare i suoi compagni e a mettere ritmo e costruzione. Carmelo è la certezza in attacco, punti, tanta legna e soprattutto uno che, se non avesse avuto nella sua era due signori come il Black
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D OMENICO L ANDOLFO
Mamba e il Prescelto, sarebbe sicuramente mvp ogni anno. Denver ha molti giocatori che ti entusiasmano e regalano tante emozioni ai suoi tifosi: JR Smith, che dalla panca porta genio e sregolatezza, Kenion Martin, autentico totem là in mezzo, capace di far sentire il peso della sua esperienza, e poi lui, il “Birdman”, Chris Andersen che regala veloci pallavolistiche a chi si azzarda a ronzare nella sua zona. Denver è davvero una squadra concreta e forte, la valida alternativa a Kobe e ai losangelini, e considerato che il suo palazzetto è a quota ele-
vata, sulle rocky Mountain, sarà difficile per chiunque fare risultato al Pepsi Center. Karl è un allenatore esperto e a come spremere la sua squadra per un succo migliore, un vero peccato, però, la sconfitta arrivata contro i Buckss, squadra tosta, ma sicuramente alla portata, dove non sono bastati i 29 di Anthony. Il record nelle ultime 10 è di 8-2 quindi la squadra è in salute e ha fegato da vendere, e ben spera con la crescita di Lawson, che nell’ultima gara però non è entrato a referto. Denver spera, e crederci non costa nulla.
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DI
N ICOLÒ F IUMI
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Ottimo momento per Steve Nash e i suoi Suns che hanno sfruttato molto bene il calendario favorevole che dall’inizio di marzo gli ha messo a disposizione 8 partite in casa su 10 incontri. Sono così arrivate 8 vittorie e sole 2 sconfitte, una contro i Lakers e una dolorosa anzichenò contro Utah, soprattutto perché giunta fra le proprie mura. Ancora di più perché Phoenix sta correndo proprio contro i Jazz per cercare di ottenere il 4° posto nella griglia playoff della Western Conference. Posizione che dista al momento una solo partita, e chissà che a fine stagione la squadra non debba mangiarsi le mani per quell’occasione persa (sconfitta poi vendicata qualche giorno dopo sempre in Arizona battendo i Jazz, nuovamente ospiti all’American Airlines Arena). Nella
partita contro Minnesota, poi, i Soli si sono dilettati a segnare la bellezza di 152 punti, in una partita terminata senza supplementari, ovviamente record stagionale NBA, tirando tra l’altro 15/31 da 3 e mandando in doppia cifra abbondante ben 8 giocatori, segno che il run and gun è definitivamente tornato di casa a Phoenix. Suns che ora sono concentrati nell’inseguimento dei Jazz, e perché no di Nuggets e Mavs due partite avanti, sempre però buttandosi un occhio alle spalle, dove San Antonio e Oklahoma City sona a due partite di distacco e Portland a tre. In questa situazione molto fluida della conference Ovest la squadra di Alvin Gentry se ne và
per un po’ sulla costa Est per affrontare 5 trasferte consecutive (dopo una gara casalinga contro New York) contro Minnesota, Chicago, New Jersey, Detroit e Milwaukee, tutte partite più che abbordabili e che potrebbero proiettare la squadra di Nash e Stoudemire verso nuovi obiettivi. Le indiscrezioni nel frattempo si fanno sempre più insistenti e pare quasi certo che al termine di questa stagione STAT opterà per uscire dal contratto che lo lega con la squadra per andare ad esplorare il rigoglioso mercato dei Free Agent, nonostante il giocatore continui a ripetere che una decisione definitiva non sia ancora stata presa.
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Oklahoma Cit y Thunder
DI
D OMENICO L ANDOLFO
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Fate largo alla banda che l’anno scorso era la squadra materasso e che adesso fa paura ed è pienamente nel giro playoff. Durant è il giocatore probabilmente più forte del circus, di quelli almeno che non troviamo sui quotidiani ogni giorno. Capace di segnare da dentro e da fuori, di difendere come pochi e con grande intensità e anche di smazzare assist per i suoi compagni. Ventinove punti di media, e 8 rimbalzi di media col 40% dal campo e il 90% ai liberi, sovrumano, leader e gregario allo stesso tempo, fa sempre la cosa giusta e come i numeri fanno evincere molto continuo. In cabina di regia c’è il piccolo ma atomico Westbrook, folle come pochi, abile nel leggere le situazioni e a fare anche qualche magata se il caso lo richiede. Venti punti e 8 assist a serata lo mettono tra i papabili più migliorati, la sua fase di playmaking si rivelerà determinante se i Thunder vogliono provare
a vincere qualche gara anche nella post season. Con meno visibilità anche la “Green light” riesce a farsi valere e a fare la colonna centrale di questo team, l’ago della bilancia tra il talento del numero 35 e la stravaganza del play da UCLA. HArden è il futuro per questa squadra un giocatore che se la gioca col Grant di Sacramento come roookie, e che sa alternare grandi cose a prestazioni meno incisive, ma sempre con un tiro o magari un’azione decisiva che risultano decisive per
la vittoria finale. Il resto del roster non fa tutta la differenza del caso, anche se la grande esperienza dei “nonni” Krstic e Collison e la super prestanza atletica di un Thabo Sefolosha che promette di portare la svizzera ai vertici del basket mondiale possono sempre ritornare utili. Oklahoma ha spazio nel salary, se non perde il 35 e se tra scambi, acquisti e draft piazzasse almeno un colpo, potrebbe essere la nuova sorpresa dell’ovest. E intanto a Seattle si mordono le mani…
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U Utta ah h JJa az zz z
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Testa di serie numero 4, la squadra più tosta delle 8 a ovest, si presenta a questo rush finale con una grande condizione fisica, ma con la consapevolezza di poter recitare un ruolo da protagonista che le manca dai tempi di Malone. Lo zoccolo duro della scorsa stagione, che aveva accusato un passaggio a vuoto nel mese prima dell’all star game ha fatto il ritorno sulle luci della ribalta e adesso in vista dei playoff si presentano come una potenziale mina vagante. Deron Williams si pone come
leader carismatico e con i suoi assist regala tanto spettacolo, e potrebbe cerare una vera e propria dinastia come ha fatto Paul a New Orleans. Proprio gli Hornet gli ultimi avversari dei “jazzisti” che gli hanno dato ben 20 di scarto, con un super Millssapp. Boozer è sempre il totem a cui affidarsi sempre in doppia doppia di media, Okur l’arma in più capace di spezzare le partite, Korver uscendo dalla panca spara triple a non finire, e AK 47, il russo sta crescendo e se non è più il tiratore
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D OMENICO L ANDOLFO
eccezionale di qualche anno fa adesso in difesa non fa sconti a nessuno. Curioso come in questa squadra giocano due ex Canturini, come Jeffers e sundiata Gaines, mentre si attende l’esplosione di Matthews. Se Sloan riuscirà a trovare non solo dal suo quintetto, ma anche dalla sua panca qualcosa di concreto, per i ragazzi di Salt Lake City ci potrebbe essere un risultato importante. E se il calendario darà un aiuto ai biancoblù, chissà che la classifica finale a ovest non regali qualche gradino del podio.
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Minnesota T’Wolves
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D OMENICO L ANDOLFO
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Squadra materasso, reduce da 12 sconfitte consecutive, in fase di grande dissesto e che non si sa come sia superiore di record ai derelitti Nets, cosa che forse non sta neanche troppo bene alla dirigenza che sperava in una chiamata migliore per il draft, magari proprio la prima scelta. Non c’è gioco, Jefferson e Love fanno pentole e coperchi, Session prova a pre-
dicare e a inventare ma è nel deserto più totale. La squadra in verde non ha una sua anima non entusiasma e rappresenta l’avversario ideale per chiunque sia in crisi. Non c’è altro da dire,non ci sono numeri da segnala-
re, e neanche gli scambi natalizi per Milicic e Alando Tucker sono serviti a qualcosa. Servirebbe qualcosa di più di un miracolo, perché i lupi tornino a ruggire serve davvero qualcosa di straordinario.
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Los Angeles Lakers
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N ICOLÒ F IUMI
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In netta ripresa i campioni in carica che avevano attraversato un brutto momento culminato da 3 sconfitte consecutive che avevano un po’ fatto preoccupare i tifosi giallo viola. Dalla mano galeotta di Lapo in poi sono arrivate 6 vittorie consecutive di cui tre molto importanti in un giro in trasferta tra Phoenix, Golden State e Sacramento. Quello che al momento tiene maggiormente in apprensione Phil Jackson è la condizione fisica di Andrew Bynum che si è procurato un infortunio al tendine d’achille. La risonanza magnetica ha escluso rotture, ma il centro numero 17 dovrà stare fuori dai campi per almeno 10/15 giorni, con Lamar Odom che è stato inserito in quintetto base, nonostante, lui pure, non sia al massimo. Un peccato la perdita di Bynum che nelle 5 vittorie in cui ha giocato aveva messo assieme 18 punti e 9 rimbalzi di media. I Lakers non possono distrarsi un attimo perché continua la sfida a distanza con i Cleveland Cavaliers per avere il miglior record della Lega e conquistare così il fattore campo per tutta la durata dei
playoff. La rincorsa a LeBron e soci attualmente pare molto complicata, visto che il team dell’Ohio ha 3 partite e mezza di vantaggio sui Californiani che tra l’altro ora chiudono marzo con 5 trasferte consecutive tutte molto pericolose giocando a San Antonio, Oklahoma City, Houston, New Orleans e Atlanta. Plausibile pensare che una squadra con una rotazione accorciata sotto canestro possa andare incontro a 1 o 2 sconfitte che potrebbero compromettere definitivamente la corsa al primo record.
Anche se con Kobe non si sa mai. Nel frattempo Ron Artest, ancora un po’ misterioso nella sua avventura Los Angelena, ha fatto sapere che “Trevor Ariza è un giocatore migliore me. Insomma, non posso certo paragonarmi a lui. Ha vinto un’anello. Inoltre è un ottimo giocatore di ruolo, cosa che io non sono mai stato.” Una nuova stranezza per Ron Ron, che ha dato ulteriore ossigena alle discussioni fra chi avrebbe preferito tenere Ariza, piuttosto che scambiarlo con l’ex Pacers.
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Los Angeles Clippers
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Con l’approcciarsi dell’ultima parte di stagione i Los Angeles Clippers stanno cominciando a vedere una luce in fondo al tunnel. Luce che altro non è che la fine delle partite da giocare per quest’anno, nuovamente deludente e frustrante per i cugini poveri di L.A. Addirittura in marzo sono arrivate solo 2 vittorie a fronte di 10 sconfitte di cui 8 consecutive. Anche il leader di questa stagione, Kris Kaman, sta attraversando un pessimo momento (11 punti di media nelle ultime 5 gare con percentuali al tiro ridicole, prime di riprendersi contro Dallas), con i soliti maligni che hanno insinuato potesse trattarsi di una sorta di periodo negativo “indotto” per perdere qualche partita in più e avere un maggior numero di chance al prossimo draft, ipotesi smentita immediatamente e bruscamente dal nazionale tedesco, che comunque conduce una stagione da 18 punti e 11 rimbalzi di media. L’impatto degli utli-
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N ICOLÒ F IUMI
mi arrivati, Travis Outlaw e Steve Blake rimane marginale, e entrambi hanno poche possibilità di rimanere il prossimo, con forse qualche probabilità in più per quello che riguarda Outlaw. In questo solito clima da disfatta totale Drew Gooden, propria nell’ultima partita giocata a Dallas ha fatto sapere che se ne andrebbe volentieri per tornare ai Mavs, dai quali, testuali parole, non si
sarebbe mai voluto separare. Insomma, quando piove grandina, ma, anche se siamo nella Città degli Angeli, i tifosi dei Clips sono molto abituati a questo. Dando uno sguardo al calendario, rimangono 11 partite da giocare, di cui almeno 5 sono abbordabili, occasione ghiotta per chiudere con un record almeno decente. Sempre che le priorità non siano altre…
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Sacramento Kings
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N ICOLÒ F IUMI
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Nonostante un record nettamente negativo, all’Arco Arena i tifosi sembrano avere di che essere ottimisti. La squadra era pronosticata dall’inizio come una delle più deboli della NBA, ma per almeno 2/3 mesi se l’è cavata egregiamente, salvo precipitare con l’inizio del 2010, più o meno in coincidenza col rientro di Kevin Martin. Ma nel frattempo i Kings hanno potuto sviluppare diversi giocatori. Primo fra tutti Tyreke Evans, che al momento è fermo per una brutta botta a una mascella rimediata contro Milwaukee, giocatore che sta lottando con Steph Curry per il titolo di Rookie of the Year e cerca una stagione da 20 punti, 5 assists e 5 rimbalzi di media che sarebbe un record per la franchigia californiana. In marzo sono giunte 4 vittorie e 8 sconfitte, ma al momento si bada più ai progressi di giocatori come Carl Landry, pezzo pregiato e sottovalutato arrivato nella trade che ha mandato a Houston Kevin Martin. L’ex Purdue ha immediatamente preso possesso dell’attacco e per ora viaggia nelle 17 partite disputate a 17 punti e 6 rimbalzi di media con un super 54,7% dal campo. E’ indubbio che questo sia il primo tassello da porre a fianco di Evans per costruire il futuro. Buone notizia anche da Beno Udrih e Spencer Hawes. Lo sloveno si
avvia a concludere una stagione molto più ricca di soddisfazione individuali di quello che ci si sarebbe attesi in preseason e qualche giorno fa contro i Clippers ha fatto segnare il suo nuovo record di assists, mettendo per 17 volte un suo compagno in condizioni di segnare. Il lungo da Wshington, invece, ha dato segnali di ripresa nelle ultime partite, in cui ha sempre segnato in doppia cifra, mettendo in campo una maggiore inten-
sità, caratteristica di cui il suo gioco è sempre stato ritenuto carente. Ora Sacramento è attesa da 5 trafserte consecutive nella zona Est del paese, in sequenza contro New Jersey, Boston, Cleveland, Indiana e Minnesota, seguite da 5 gare invece tutte casalinghe, tutte abbastanza difficili, tranne una contro i Clips, per poi chiudere in trasferta contro i Los Angeles Lakers una stagione che potrebbe essere l’anno zero di una nuova era.
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Golden State Warriors
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Risulta sempre piuttosto complicato commentare i Golden State Warriors. Una franchigia con un’allenatore molto particolare, martoriata dagli infortuni. Attualmente sono fuori uso: Radmanovic, Turiaf, Biedrins, Randolph, Mikki Moore, Azubuike e Brandan Wirght. In pratica tutto il roster o quasi, senza peraltro contare Raja Bell, rilasciato nelle ultime ore, lui pure comunque appiedato da questioni fisiche. Così in sostanza c’è una squadra aggrappata a Ellis, Curry e Maggete che devono giocare intorno ai 45 minuti a partita e prendere più tiri che possono, giocando attorno ai 120 punti di media, contornati da figuranti pescati estemporaneamente dalla D-League. Succede così che un Anthony Tolliver faccia 30 punti contro i New Orleans Hornets e pochi giorni dopo 25+12 contri i Suns, che Chris Hunter giochi una partita da protagonista in mezzo all’area segnando 22 punti contro i Lakers e Andrew Bynum e che Reggie Williams venga immediatamente sbattuto in quintetto segnando in doppia cifra in 9 partite su 12, con picchi di 28 e 29 punti e si attesti al momento sui 14 punti a partita. Insomma una situazione paradossale, più unica che rara nel panorama NBA, ma che comunque non può annacquare il talento cristallino del rookie Steph Curry che a furia di prestazione offensive da urlo ha scalato il ranking dei rookie e battaglia ora con Tyreke Evans di Sacramento per il trofeo di esordiente dell’anno. Nelle 10 partite giocate a marzo (2-10 il record di squadra) ha viaggiato a 19,7 punti di media con un astronomico 47,6% dalla lunga distanza su 6 tentativi abbondanti a partita. L’idea sarebbe quella di trasformarlo in un play, ma al momento si vedono più le sue clamorose doti realizzatore. Come mai sono state in discussione quelle di Monta Ellis, giocatore sul cui futuro ci sarà da discutere. La stagione finisce ora con 5 gare casalinghe e 7 trasferte. Anche in questo caso sarà da valutare se giocare per ottenere qualche vittoria in più o provare ad aumentare le possbilità di ottenere una buona scelta alla prossima lottery.
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N ICOLÒ F IUMI
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MARCH MADNESS
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M ICHELE TALAMAZZI
Road to ‘sweet Sixteen’
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Sono rimaste in sedici, le cosiddette ‘Sweet Sixteen’. Al termine di un lungo e pazzo weekend, i primi due turni del tabellone NCAA ha eletto le sedici protagoniste dei Regionals. Ed ovviamente non sono mancate le sorprese, a partire dall’eliminazione precoce di quella che era unanimemente considerata la favorita numero uno, Kansas. Sulle 48 partite giocate dall’inizio del torneo, ben 13 sono gli ‘upset’ acclarati, quelli stabiliti in base ai seed delle singole squadre, 16 le partite finite con uno scarto inferiore o uguale ai cinque punti. Quattro giorni di fuoco, da cui sono uscite le sedici ‘sopravvissute’: ecco come si presentano al grande ballo. LE FAVORITE. L’uscita di Kansas è l’upset inimmaginabile: era dal 2004 che una numero uno del tabellone non cadeva al secondo turno. Chi invece ha vinto e convinto, sin qui, sono le altre tre teste di serie: Kentucky tra East. Tennesse State e Wake Forest ha avuto uno scarto medio di 29,5 p unti, Syracuse tra Ve r m o n t e Gonzaga 22,5. E se le avversarie del primo turno non erano certo accreditate per giocarsela, quelle del secondo potevano aspirare a dare qualche fastidio. Ma sin qui, John Wall e Wes Johnson non hanno tradito, e va detto che gli Orangemen sono senza Arinze Onuaku. Sempre considerata un passettino indietro Duke, ma la squadra di coach K gioca bene e da un po’ di tempo a questa parte è confortata dai risultati che a inizio stagione non s e mpre arrivavano. Su r c l a s s a t a A r kansas Pine-Bluff, r e g o l a t a California senza grossi problemi: i ‘Big Three’ del college basketball (Scheyer, Smith e Singler) fanno paura. O U T S I D E R C E R C A S I . Persi per strada i Jayhawks, chi l’ha detto che alle Final Four non ci sia nessuna squadra dello stato di Kansas? I Bulldogs di Kansas State sono una squadra con cuore e due esterni dal noto potenziale offensivo, Pullen e Clemente: tanto basta per renderli pericolosi. Così come, nell’East Regional, Kentucky dovrà guardarsi dalla forte ascesa di West Virginia, trascinata da un Da’Sean Butler che in questa parte di stagione n on sta sbagliando una p a r t i t a . Almeno non quando serve. Occhio, ovviamente, anche a Ohio State: non una squadra lunghissima, talento diffuso poco, ma talento nelle mani del proprio leader debordante. Se hai il
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prossimo Player of the Year in Evan Turner, solo questo basta per essere considerato a certi livelli. L E C O N F E R M E . Butler, X a v i e r e Tennessee sin qui hanno fatto il loro. I Bulldogs di Hayward e Mack hanno avuto il merito di non scivolare sulla buccia di banana UTEP, ed ora si pres e ntano al confronto c o n g l i Orangemen più che mai gasati. Anche considerando il fatto che la zona hanno dimostrato di saperla attaccare bene. I Musketeers sono stati trascinati sin qui da Jordan Crawford, aka il posterizzatore di LeBron James, ovvero colui che in estate dette origine alla storia del video sequestrano dagli uomini Nike schiacciando in testa al Prescelto. L’accoppiamento con Kansas State potrebbe dare origine ad una sorpresa. Tennessee è s a pientemente guidata d a B r u c e Pearl, anche se sin qui ha avuto un tabellone relativamente facile per una squadra che non strabocca di talento. S t esso discorso vale pe r B a y l o r . Purdue forse è andata anche oltre, vista l’assenza di Robbie Hummel: le due vittorie dei Boilermakers sono successi da squadra vera, ma difficilmente basterà per ripetersi contro i Blue Devils. Michigan State si è forse spinta già un pochino oltre i propri limiti superando Maryland, ed ora ha perso Kalin Lucas per infortunio: occhio all’esplosione di Durrell Summers, ma francamente ci stupiremmo di vederli ancora ad aprile. LE SOR PRE SE . Le sempre affascinanti storie che sbocciano al torneo NCAA sottoforma di risultati quest’anno offrono molteplici spunti. C’è la Cornell, campione della ‘povera’ Ivy League, quella dove non si danno borse di studio per meriti sportivi, che come se niente fosse butta giù dalla torre Temple prima e Wisconsin poi. C’è Washington, forse un po’ sottovalutata da tutti, ma molto solida: e se a guidarti c’è uno che si chiama Isaiah Thomas, anche se non è l’ex Pistons, il destino è dalla tua. Ci sono poi le storie esotiche: quella di Northern Iowa che sbatte fuori la strafavorita Kansas guidata dalle triple dell’iraniano Alì Farokhmanesh (assurto a idolo assoluto per i fans dell’underdog) e quella della Saint Mary’s della cricca australiana ma t r ascinata da un super e g i z i a n o , Ohmar Samhan, assolutamente devastante sin qui sotto i tabelloni.
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Y Yo ou u c ca an n’’tt c c m me e
LA RUBRICA
A LESSANDRO
DELLI
DI
PAOLI
ALL A’RONDO THE WORLD
No, nessuna cover del celebre brano degli Oasis, ‘All around the world’, da parte di qualche canterino giocatore NBA, ma solo la notizia che si è diffusa nei giorni scorsi. Rajon Rondo potrebbe approdare in maglia ‘States ed essere, quindi, selezionato per disputare i prossimi Mondiali in Turchia. Risolta, dunque, l’incomprensione relativa ad un rifuto da parte del play dei Celtics: “Non ho mai detto di no, giocare per la mia nazione sarebbe un onore senza eguali”. A far compagnia a Rondo, molto probabilmente, ci sarà il talento emergente di Kevin Durant. Insomma, gli USA stanno preparando un bel muro da opporre agli antagonisti provenienti dall’altra parte del mondo. Wonderwall.
ATTENTI AL LAPO! Ecco una immagine tratta dal videoclip in cui Josè Calderòn canta la cover del celebre brano portato al successo dal cantautore italiano Lucio Dalla. Nella foto è possibile scorgere un meravigliato Lapo Elkann, sorpreso per la dedica musicale rivoltagli dal campione spagnolo in canotta Raptors.
Ecco la maglia del nuovo acquisto dei Los AngelesLakers. Secco il commento di Dante Alighieri (noto tifoso gialloviola) che afferma: «Kobe vorrei tanto che tu, Lapo ed io vincessimo l’anello»... E il grande Principe della risata, Antonio De Curtis, avrebbe risposto: «E ho detto tutto...»
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LA RUBRICA RICOMINCIO DA SEI La somiglianza con Massimo Troisi è lontana come come la distanza che è trascorsa dall’ultimo titolo dei Washington Wizards ad oggi. Agent ‘0’, però, ripercorre le orme dell’amato attore partenopeo e volta pagina. Nella prossima stagione (in quella attuale il giocatore sconterà la squalifica per la nota vicenda legata al duello in punta di pistola con il compagno Crittenton), Gilbert abbandonerà il suo numero di maglia, lo ‘0’ appunto, e prenderà il #6. La scelta di giocare con lo #0 era dovuta al fatto che tutti,
all’inizio della sua carriera tra i professionisti, lo additavano come un giocatore di scarse qualità, di valore prossimo allo zero. La notizia è stata diffusa dal “Washington Post” che riporta il foglio mandato in Lega dallo stesso giocatore in cui vi è trascritto la scelta di cambiare numero. Se per Troisi la decisione era dovuta al fatto che solo tre cose gli erano riuscite bene nella vita, attendiamo tutti di conoscere quali siano le motivazioni di Agent ‘6’. ‘Six on the bench’ sarà il prossimo cocktail che, nei bar della Capitale, soppianterà il classico ‘Sex on the beach’?
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LA RUBRICA S TA R B U R Y N I GH T F EV ER Come sarebbe John Travolta nei panni di Stephon Marbury? Non lo sappiamo e neanche lo riusciremmo ad immaginare. Se proprio si dovesse dar vita, sul grande schermo, alla ‘Freccia di Coney Island’, un capitolo della storia di questo affascinante personaggio dovrebbe essere dedicata alla sua avventura cinese. Lo avevamo lasciato in crisi di gioco e non ancora integrato nel sistema (?) cestistico orientale. Beh, ne è
passata di acqua sotto la Muraglia Cinese. Il nostro Steph sta salendo di intensità, al punto da aver siglato la sua prima tripla doppia con gli occhi a mandorla. 26 punti, 13 rimbalzi e 12 assist per il talento ex Knicks, contro la temibile, si fa per dire, formazione degli Lianoning. Vittoria per 104-99 per i Shanxi e show di Marbury. Ma siamo sicuri che la Cina sia l’ultima metà del nostro eroe? Riportatecelo negli ‘States, please. Chinese takeway.
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LA RUBRICA COUNTRY HOUSE Ricordate Greg Ostertag? Uno dei tanti ‘Country boy’ del basket a stelle e strisce. Il centrone texano, che vanta il titolo di miglior stoppatore della storia di Kansas con cui ha raggiunto la Final Four NCAA nel 1993, è altresì noto per aver indossato la canotta degli Utah Jazz. Greg era il corpaccione che occupava l’area colorata ai tempi in cui la coppia Stockton-Malone provava ad interrompere il regno sua maestà Michael Jordan. Ostertag, infatti, giocò due Finali NBA e, poco dopo, scom-
parse nel nulla. Qualche tempo fa, il trentaseienne Ostertag, aveva manifestato la volontà di ritornare a calcare un parquet. Il sogno, secondo quanto riportato dai siti internet, si è spento ben presto e, ora, l’ex doppio zero dei Jazz potrà ritornare alla sua casa in campagna, proprio come cantano i Blur. Meglio godersi i paesaggi di Scottsdale, Arizona e, soprattutto, aiutare e dare consigli al figlio Cody, fresco campione dello Stato con la locale Scottsdale Christian Academy. “He lives in a house, a very big house in the country”.
ideato da: scritto da:
Stars ‘N’ Stripes
info, contatti e collaborazioni:
Domenico Pezzella
Alessandro delli Paoli Leandra Ricciardi Nicola Argenziano Nicolò Fiumi Domenico Landolfo Stefano Panza Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco Stefano Calovecchia Davide Mamone Stefano Livi
domenicopezzella@hotmail.it
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AROUND THE USA
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Free Agency, ecco le prime mosse
Siamo giunti solo a metà delle operazioni di mercato della Free Agency ma abbiamo già assistito al movimento dei migliori giocatori sulla piazza. Senza dubbio l’operazione che ha destato più attenzione è stata quella che ha portato il running back LaDainian Tomlinson, uno dei più grandi talenti che ha calcato i campi NFL negli ultimi anni, da San Diego fino all’altra parte degli USA, a New York, sponda Jets. Il texano lascia la California dopo 9 anni durante i quali è riuscito ad accumulare 12490 yds corse e 3955 yds ricevute, 138 TD chiusi di corsa e 15 TD su passaggio.
Arriva nella franchigia che sembra fatta su misura per lui, la prima del ranking per quanto riguarda le corse nell’ultima stagione. E fin qui sembra tutto perfetto, ma andando ad analizzare più in profondità la situazione potrebbero sorgere alcuni dubbi sul futuro rendimento di LT. Innanzitutto l’eta: 31 anni cominciano a farsi sentire, si è capito nell’ultima stagione dove, con 730 yds e 12 TD, non ha fornito quelle prestazioni alle quali ci aveva ormai abituato negli anni passati . Secondo elemento importante è la condizione fisica di Tomlinson, il running back nelle ultime stagioni è stato troppo spesso vittima di acciacchi, questo potrebbe causare qualche problema
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ai piani dei Jets. Per quanto riguarda l’aspetto economico, LT ha firmato un biennale da 5,1 milioni di dollari con possibilità di aumento fino a 5,6 milioni; più o meno si parla delle stesse cifre che avrebbe guadagnato l’ex running back dei Jets, Thomas Jones, forse il migliore della scorsa stagione nel suo ruolo, se fosse stato confermato a NY. A Tomlinson spetta il compito arduo di far dimenticare le gesta del collega ora trasferitosi ai Chiefs, e spetta anche il compito di far mangiare le mani a San Diego dove, negli ultimi anni, il suo straordinario potenziale non è stato sfruttato a dovere dall’ head coach Norv Turner. Per questo motivo a scelto di andare in un team dove avrebbe avuto la possibilità di competere per il campionato,ha dichiarato il manager di Tomlinson, Tom Condon – ma, cosa più importante, è voluto andare dove è sicuro di poter ricoprire un ruolo rilevante. Oltre ai Jets sulle sue tracce c’erano i Vikings, dove però si sarebbe forse pestato i piedi con l’altro fenomeno Adrian Peterson, e i Texans, nel caso che il running back avesse optato per una scelta fatta col cuore andando a giocare nel suo stato natale, ma alla fine la razionalità ha avuto la meglio, e chissà che non sia proprio la scelta giusta. La stessa strada che porta da San Diego a New York l’ha percorsa il talentuoso cornerback Antonio Cromartie, con il quale i Jets hanno migliorato la secondaria. Con l’altro CB Darrelle Revis andrà a formare quella che molto probabilmente sarà la migliore coppia di cornerback dell’intera NFL. Cambiare aria era la scelta più giusta che Cromartie potesse fare dopo che il suo rendimento è sensibilmente calato nelle ultime due stagioni in California, una partita su tutte quella dell’ultima post season proprio contro quella che sarebbe poi stata la sua futura franchigia, quando si è reso protagonista di una prestazione che definirla orrenda è un eufemismo, anche se già il General Manager AJ Smith aveva dichiarato pubblicamente l’intenzione di voler tradare il cornerback considerando anche i suoi problemi con la legge, tra cause di paternità e violenze fisciche. Un’altra grande sorpresa è arrivata direttamente dal Maryland, dove i Ravens si sono accaparrati uno dei più validi wide receiver delle lega, Anquan Boldin, vice campione del mondo del campionato 2008 con i Cardinals, e stella troppo spesso oscurata da quel fenomeno che risponde al nome di Larry Fitzgerald. Boldin arriva a Baltimora dove fungerà da specchio allo stagionato Darrick Mason negli schemi d’attacco, e dove molto probabilmente sarà il target numero uno per Flacco. Boldin ha firmato un contratto triennale da 25 milioni di dollari, che potrebbero diventare 28 nel caso in cui le parti decidessero di allungare l’accordo di un ulteriore anno. I numeri parlano chiaro, 7.520 yds e 44 TD, per il 29enne floridiano, nelle sue 7 stagioni in Arizona,
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condite però da qualche infortunio che hanno costretto Boldin a saltare qualche partita, e questo potrebbe rappresentare l’unico limite del forte ricevitore. Per il resto sembra che con questo innesto i Ravens possano finalmente fare il salto di qualità che tanto aspettavano. Infatti potranno contare finalmente su un grande interprete per il gioco d’aria messo in azione da un giovane quarterback come Flacco che ha tutte le carte in regola per diventare uno dei migliori nel suo ruolo; potranno affidarsi alle corse di due ottimi running back quali McGahee e Ray Rice per riconfermarsi una delle migliori franchige nella voce “yards corse”; dall’altra parte ci sarà sempre la granitica difesa, la terza nel ranking della regular season, la migliore nella post season, con giocatori di altissimo livello come Ngata sulla linea di scrimmage, Ray Lewis a dominare il backfield ed il grande Ed Reed nelle retrovie. Questi gli ingredienti giusti per cercare migliorare quella finale di conference raggiunta due stagioni fa e poi persa a favore degli Steelers e magari bissare la vittoria del campionato 2000. Dando uno sguardo alle altre operazioni risaltano indubbiamente quelle messe a segno da Chicago che inserisce nel proprio scacchiere due importanti pedine come il DE Julius Pepper e il RB Chester Taylor. Il primo, proveniente da Carolina, è diventato il giocatore non QB con il più alto ingaggio di sempre, 91,5 milioni di dollari che potrebbero aumentare in seguito alla nomina di Pro Bowler o ad un certo numero di sack fino ad arrivare ad un massimo di 110 milioni di dollari. Il gigante ex Panther (2 metri per 130 kg) va a rinforzare una difesa con ottime individualità come Briggs e il rientrante Urlacher ma che ha tentennato parecchio nell’ultima stagione situandosi al 17° posto nel ranking. Taylor, invece, arriva dai Vikings, dove è stato poco sfruttato essendo il backup di Peterson e a Chicago avrà l’opportunità di mettersi finalmente in mostra considerando anche le sue buone mani. Altre operazioni importanti sono quelle che hanno portato l’ ottimo inside linebacker Dansby da Arizona a Miami; il QB Delhomme passa dai Panthers ai Browns che cedono ai Broncos Brady Quinn in cambio del fullback Peyton Hillis. Al momento resta ancora da capire il futuro di altri tre pezzi da novanta come Terrell Owens, Brian Westbrook e Orlanda Pace. T.O, lo scorso anno a Buffalo, è in cerca di un’altra città dove continuare a far parlare di sè, tra le più papabili Cleveland, Cincinnati e Jacksonville; Westbrook potrebbe accasarsi ai Vikings dove troverebbe Childress, suo head coach per quattro anni a Philadelphia; infine Orlando Pace deve far dimenticare la penosa ultima stagione con i Bears cercando di chiudere la carriera nel miglior modo possibile.
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NBA NEWS
Il dubbio amletico di CP3
Fonte foto: http://www.nakednews.it
Che Chris Paul sia il miglior playmaker in assoluto della lega non è un mistero. L’anagrafe non è un problema, cosi come gli infortuni che, pur se numerosi questa stagione, non denotano un’estrema fragilità fisica di CP3 : eppure il suo ritorno in campo, pronosticato per questi giorni, servirà più che altro per capire quale sarà la collocazione che la società vuole dare al rookie meraviglia Darren Collison e fino a che punto Paul sia ritenuto veramente incedibile. L’impressione è che a New Orleans abbiano capito che forse conviene puntare tutto sull’attuale matricola, comunque dal rendimento assolutamente eccelso, e cercare di rimediare il meglio possibile (e teoricamente dovrebbero riuscirci) dalla cessione di Paul. Per ora Chris sta ultimando la riabilitazione e ha ripreso a tirare e correre, ma che stia veramente cercando di ponderare quale sia la migliore scelta in prospettiva per la propria carriera? A volte si pensa a DWade o a LeBron come a coloro che sposteranno gli equilibri nella Lega con le loro scelte, dimenticandosi troppo spesso di giocatori come Paul, appunto, che se trovano l’habitat giusto ti cambiano tutto (qualcuno ricorda Kidd ai Nets o Nash ai Suns?).
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NBA RUMORS
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Jordan pazzo di...Brown Non è un mistero che mr Play the right way abbai estimatori radicati un po’ dappertutto nelle lega. Sicuramente colui che maggiormente nutre verso il coach ammirazione e speranza è il suo neo-attuale proprietario, ovverosia sua altitudine Michael Jordan, da pochi giorni nominato come boss della franchigia di Charlotte. Sempre contraddistintosi per lo spirito competitivo e l’ambizione, anche nel suo nuovo incarico Michael è fermamente intenzionato a imporre la sua volontà sulla franchigia e la riconferma di Larry Brown sembra essere la priorità di Air: il coach ha ancora due anni di contratto, ma non è escluso che per cause familiari (la moglie Shelly sembra..) possa decidere di suonare prematuramente la ritirata: ipotesi quanto mai sgradita a His Airness che avrebbe detto: “Mi piacerebbe se Larry rimanesse qui, capisco la sua situazione, il suo scenario familiare, ma cercherò di fare tutto affinché possa rimanere con noi..se ”
Rivoluzione in casa Blazers: Allen fa piazza pulita in società Come se non bastasse l’incredibile sfortuna di aver avuto per lunghi tratti di stagione i propri migliori giocatori ai box ,Roy a fasi alterne, Oden da Dicembre ad ora (sembra, tuttavia, che esista qualche chance di rivederlo a fine RS), Aldridge, Przybilla e compagnia cantante, il proprietario Paul Allen sembra veramente sul punto di esplodere e di rifondare la squadra, partendo dalla società: ad averne già fatto le spese c’è il vice presidente Tom Penn, mentre in lista di attesa sembra esserci Kevin Pritchard, reo di aver preferito, 3 anni fa, Greg Oden all’ autentico fenomeno visto in questa stagione di Kevin Durant: ovvio che i conti si faranno alla fine delle loro finora molto diverse carriere e che mai come in questo caso, più che di negligenza di Pritchard si sia trattato di autentica sfortuna, ma ci sono momenti in cui dare scosse all’ambiente e può diventare necessario trovare capri espiatori anche laddove non ve ne sono, pur di provare a muovere qualcosa.
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Montegranaro, da brutto anatroccolo a cigno: e il merito di chi è?
La lente di ingrandimento di Stars N Stripes sulla LegaA
MADE IN ITALY L’ANALISI...
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N ICOLA A RGENZIANO
Giunti nella fase ormai decisiva la regular season di Lega A ha diversi di da sciogliere, soprattutto in fase di piazzamento playoff. Ma se si possono cercare delle certezze che non siano sulla migliore (Siena) o la peggiore (Napoli o Rieti a dir si voglia…) del campionato allora non si può non pensare alla squadra rivelazione (insieme a Caserta, se non qualcosa in piu’..) che ora come ora è certamente identificabile nella Sigma Montegranaro. Un team che addirittura in estate aveva suscitato perplessita sul mantenimento del titolo, oggi viaggia a braccetto (ma con lo scontro diretto piu’ che favorevole) con la Pepsi al
secondo posto in classifica sopra formazioni di caratura tecnica e budget superiori (eufemismo). Lo staff societario del trio Trapè-Cannella-Vacirca è riuscita con astuzia e quel pizzico di buona dose di follia nel tirar su un roster costato decisamente poco, ma che oggi ha quadruplicato il suo valore con i risultati
M A DE I N I T A LY
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mostrati sul campo. Affidata ad inizio stagione a Fabrizio Frates (vincitore del ballottaggio con Vitucci) la Sigma ha in principio avuto difficoltà nel rodare e per buona parte di inizio stagione era considerata tra le papabili all’unico posto rimasto (considerando l’Nsb di Papalia) in zona retrocessione. Poi
però il brutto anatroccolo è diventato cigno e ad un certo punto ha cominciato a volare: 8 vittorie consecutive nelle ultime 8 gare disputate hanno reso Montegranaro una squadra temuta e rispettata, complice anche l’evoluzione esponenziale di molti giocatori italiani di talento e del contributo straordinario dei suoi stranieri. Il dato piu’ interessante è: come fa la Sigma ad essere seconda in classifica seppur navighi nei bassifondi di tutte le voci statistiche? Difatti, ranking dei rimbalzi a parte (dove è stabile al secondo posto alle spalle di Caserta) Montegranaro è tra le ultime in tutti gli altri aspetti, eppure è lassu’…La risposta? Un gruppo di granito che ha costruito in primis sulla concretezza di Greg Brunner e Dejan Ivanov un duo oggi tra i piu’ forti di tutta la serie A sotto le plance, passando poi per l’amplia fiducia concessa e riconosciuta da inizio stagione a talenti nostrani sempre sul punto di sbocciare come Michele Antonutti e Andrea Cinciarini, ad altri che attendevano finalmente la grande chance di poter avere spazio come Luca Lechthaler, sino ad arrivare quel Daniele Cavaliero che dopo tanto attendere sembra aver raggiunto quella maturità tecnica che da tanto si attendeva e che ad oggi lo pone senza alcun dubbio tra le guardie italiane di maggiore interesse. Certamente non dall’inizio è stato tutto rose e fiori, anzi prima il taglio di Bryce Taylor (lasciato andare dopo un rendimento fatto di troppi alti e bassi) poi il litigio tra Frates ed Hite che ha portato senza indugi la società ad escludere il coloured a stelle e strisce, sono stati fattori che hanno di certo ritardato la chimica e l’amalgama dal punto di vista tecnico in mente al coach meneghino. Poi però l’arrivo di Dimitros Tsaldaris (in fuga da Napoli) ha fatto quadrare il cerchio nelle rotazione che hanno visto nel frattempo imporre la leadership e la caratura tecnica di Anthony Maestranzi. Pescato in Legadue a Jesi dopo 2 stagioni di altissimo livello, il playmaker italoamericano era circondato dallo scetticismo generale per il gran salto che lo attendeva. Si diceva che sarebbe stato troppo “soft” fisicamente per la serie maggiore e che non sarebbe stato in grado da subito di essere un titolare affidabile. Nulla di piu’ sbagliato, anzi il “paisà” di origini trentine è ad oggi un regista appetito anche da altre formazioni per ciò che ha mostrato sia tecnicamente sia dal punto di vista della leadership. Alla resa dei conti molti si chiederanno sino a dove arriverà Montegranaro, ad oggi nessuno è in grado di dirlo, ma di certo in questo momento la Sigma è temuta e rispettata da ogni formazione e se riuscisse a conservare la seconda piazza sarà di certo piu’ di uno scudetto per una squadra costruita con pochi, pochissimi soldi, ma tantissima passione.