Stars N Stripes N°29 PO

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il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano TUTTO SUL SECON DO TURNO DEI PLAYOFF NB A

TYREK E EV AN S

Ro o k ie o f th e Y ea r e nuo va s t e ll a d i S a c r a m e n t o


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TUTTI I NODI VENGONO AL PETTINE

Viaggio attraverso quelli che sono stati i punti ed i ‘mali’ salienti dei Denver Nuggets. Dalla mancanza di un lungo all'assenza di George Karl


A R OUND THE USA L O S A NG E L E S SA RA ’ IL TU O M O ME N TO ?

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LA RUBRICA YOU CAN’T C ME

4 47 7

LOS ANGELE S LAKERS VS U TAH JA ZZ

2 24 4

PHOENIX SUNS VS S AN AN T O N I O S P UR S

2 28 8

CL EVELA ND C AVALIER VS B OS TO N CEL TIC S

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ORL ANDO MA GIC V S ATLANTA HAWKS

3 37 7

FINALI DI CON FERENCE LOS A NGELES LA KERS V S PHOENIX SUNS (PR EVIEW)

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FIN ALI DI CONFEREN CE ORLANDO M AGIC V S BOS TON C ELTI CS (PREV IEW )

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ITALIANS DO IT BETTE R MAR CO BE LINELL I

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FOCUS

Niente anel Cleveland


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DI

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D OMENICO P EZZELLA Era il 22 maggio del 2003 quando con un po’ di ‘lavoro proprio’ e con una forte mano degli Dei del Basket, dall’urna per assegnare ‘the first pick’ uscì il nome dei Cleveland Cavaliers. Niente di strano, niente di particolare se non fosse altro che qualche mese prima da qualche parte ad Akron si sentirono pronunciare queste parole: «Ho deciso di saltare il college e di dichiararmi direttamente eleggibile per il prossimo Draft Nba». Ancora una volta tutto normale, un qualcosa di già visto se non fosse che a pronunciarle, in una conferenza stampa con molto più seguito di quella tenuta dal Presidente Obama sulla sanità americana, era tale James Lebron; il futuro dominatore della Nba o il vero e nuovo Michael Jordan. Lo stesso James Lebron che a pochi minuti (in quanto a tempi di interviste ‘over the sea’ sono davvero imbattibili ndr) dall’annuncio dell’assegnazione di quella prima chiamata assoluta si ritrovò con un microfono davanti alla bocca e la prima domanda buttata li tanto per gradire l’area ‘media’ dei professionisti: «Pronto a portare il titolo a Cleveland?». Per la cronaca la risposta di un LBJ giovanissimo e già diplomatico fu: «Non posso promettere il titolo in questo momento, ma darò tutto me stesso e migliorerò sempre di più per farlo». Nemmeno una piega. In mezzo all’inizio di tutta la storia ed un finale che potrebbe anche presentarsi come più drammatico del solito, ci sono stati una franchigia rinata, un pubblico in visibilio, una stella in crescita, vittorie a profusione industriale ed i primi due riconoscimenti personali che dovrebbero cambiarti la vita, ecco dovrebbero. Già perché per il secondo anno consecutivo le sue parole sembravano essere una sorta di dejavu. Il primo anno come ripresa di dichiarazioni da parte di chi prima di lui dopo aver vinto l’onorificenza più alta a livello personale in questa Lega, aveva ribadito che la cosa più importante era l’anello, e poche settimane fa nell’aula magna dell’Università di Akron (lo scorso anno la palestra della St. Vincent and St. Mary

llo d trema


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fece da palcoscenico all’incoronazione del ‘Re dei Re’ ndr) un disco sentito nemmeno dodici mesi prima. «L’unica cosa a cui pensa quando sono in campo è dare sempre il meglio di me, fare sempre il massimo per competere per arrivare a conquistare il titolo Nba. Mi rendo conto che fino a che non ho vinto quello che voglio non potrò mai essere ricordato come uno dei migliori di sempre». Tutto questo a conclusione di una cerimonia dove – altro dejavu – il liet motive della celebrazione è stata la squadra, i compagni ed i Cavaliers che lo hanno messo in condizione di rialzare il trofeo dopo averne posato uno uguale nella bacheca personale, già lo scorso anno («Il mio nome potrà anche essere stampato a caratteri cubitali sulla targa di questo trofeo, ma questi ragazzi hanno diritto di esserne parte, visto che se sono qui è anche merito loro» Vangelo secondo James ndr). Cambia lo scenario, cambiano i compagni di squadra (alcuni!) ma il risultato è sempre lo stesso senza di loro non si va avanti «Prima di iniziare vi devo chiedere scusa per quello che sto per fare, ma vorrei tutti i miei compagni qui sul palco con me per festeggiare questo momento». Dunque altro giro, altra corsa ed altra post season da ‘primo della classe’ e questa volta in maniera quasi intangibile rispetto a quanto invece era accaduto lo scorso anno. Ed ancora una volta altro giro, altra corsa ed altra eliminazione. Questa volta però il peso specifico della non presenza di Lebron alle Finali di Conference prima e magari alle Finals di giugno poi, è quello di un’intera montagna non solo per l’immagine della Lega, ma per gli stessi Cleveland Cavs. E’ come se durante e nel bel mezzo di una partita a bowling in cui sai di avere la possibilità di mettere a segno quanto meno lo ‘spare’ per andare avanti, inciampi malamente sul bordino della pista e la palla da 15 chili ti cade direttamente sulle dita dei piedi non i tuoi, ma di un altro. Danny

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Ferry il primo a sentire il dolore, il primo ad aver accusato il colpo di una doccia gelata dalla quale potrebbe anche non riprendersi. Una doccia gelata che ancora una volta è l’espressione figurata di ‘fallimento’. Certo non in maniera diretta, dal momento che l’ex giocatore degli Spurs ha fatto davvero di tutto tranne donare un rene, per accontentare il suo pupillo con un numero svariato di giocatori che avrebbero davvero fatto gola a tutti. Una doccia che lo stesso Ferry era riuscito a superare la passata stagione anche se a confronto quella di un anno fa era acqua fresca, per rinfrescarsi da una caldura che iniziava a presentarsi anche sull’Ohio. Una caldura per la quale l’unico rimedio era mettere quell’anello al dito del Re, convincerlo di essere nel posto giusto al momento giusto e magari lusingarlo con l’idea di essere stato uno dei pochi professionisti nella storia della città di Cleveland a portare in alto il nome della città per quanto riguarda lo sport professionistico. Ed invece niente da fare. Niente ha funzionato come doveva contro Boston. Niente ha funzionato come tutti si aspettavano dopo una regular season da 61 vittorie ed un Lebron devastante sia nella versione ‘ecumenica’ a servizio della squadra, sia in quella di ‘finisher e leader’ che la squadra se la carica sulle spalle. Niente è andato come doveva andare nemmeno dal punto di vista della stampa. Solo uno stolto non si sarebbe aspettato che tutta l’attenzione dei media nazionali nell’anno in cui il suo numero 23 finirà a luglio dritto dritto nella lista dei free agent, fosse catalizzata sul suo nome e sull’andamento dei Cavs. ‘The Chosen One’ stolto non lo è, ma forse mai si sarebbe aspettato tanto accanimento da parte di una fazione di media che forse tutto si auguravano tranne che Lebron potesse arrivare fino in fondo e magari alzare il Larry O’Brien Trophy a giugno. Una fazione che ha operato come soldati in trincea almeno fino al primo vero errore di questi playoff, almeno fino a quell’unico momen-

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Lo ‘Zen’ di Phil Jackson «Capisco come le speculazioni ti possa guidare la mente in maniera diversa da come fai del solit. E’ come non riuscissi a concentrarti ed il tuo cuore ti portasse altrove». Pensiero profondo, enigmatico, ma soprattutto Zen come del resto è soprannominato l’autore in questione. Si perché il ‘caso’ Lebron ha addirittura scomodato il coach più vincente della storia della Nba. «Sono rimasto stupito guardano la serie contro i Celtics. Ci sono state due partite forse tra quelle a Boston e a Cleveland in cui non ha certo dato il suo contributo standard che è di altissimo livello. Un qualcosa di molto strano visto che un James cosi penso che si sia visto uno o due volte in tutta la stagione». Chiudere cosi sarebbe stato non da Phil Jackson ed allora premete il tasto ‘rewind’ e tornate alle prime righe ed il senso di tutto il discorso vi tornerà limpido come vetri appena lustrati.

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LA ‘SHOOTING SELECTION’ DEL ‘RE’

to in cui tutti potevano mettere in risalto un solo concetto: ovvero quello di vedere se il ‘Re’ è davvero ‘Re’ da poter salvare se stesso ed i suoi compagni. Concetti che sono venuti fuori come piccoli spari dopo la gara3 persa in maniera al quanto umiliante per i Cavs, ma che sono divenuti dei veri e propri colpi di cannone dopo la sconfitta in gara5. Cannonate che addirittura hanno fatto saltare in piedi la signora Rivers («Non dovrebbero avercela cosi tanto con lui» le parole della consorte del coach biancoverde) e che invece hanno caricato sulle spalle una zavorra sulle spalle del ‘23’ indecifrabile dal punto di vista del peso. Una pressione che forse, e ripetiamo forse, nemmeno lui è riuscito a tenere poi cosi tanto nascosta, visto che la sua gara6 non è stata la migliore interpretazione del Lebron James attore protagonista visto e rivisto in regular season ed anche in questi playoff, tanto per usare un eufemismo. Troppo altruista in momenti in cui, invece, avrebbe dovuto prendere e salvare capra e cavoli praticamente da solo; troppo distratto ed impensierito dal fatto di essere con le spalle al muro e di fronte ad una ‘elimination game’ da perdere palloni che generalmente perde solo se bendato e con un braccio legato al corpo. Otto palle perse sono tantissime per un giocatore che invece di palloni ne perde col contagocce. Otto palle perse che contro i Celtics significa sanguinare davanti ad uno squalo. «Complimenti al coaching staff dei Celtics che praticamente ha consegnato ai loro giocatori un piano partita perfetto e che aveva un punto preciso su cui battere: tenerci per linee esterni togliendoci l’area. Boston ha tantissimi giocatori con anni di esperienza in situazioni come queste, anni di esperienza di playoff e sapevano già come eseguire». Già perché in campo c’erano anche i Celtics guidati in ‘console’ da Tom Thibodeau uno dei migliori allenatori in difesa dell’intera Lega. Un piano che ha sempre previsto un corpo addosso, sempre pieno e contatto

OBAMA FOR JAMES

« Voglio

solo vincere, quindi valuterò tutte le opzioni.

»

diretto per evitare che potesse prendere velocità, ritmo al tiro e penetrazioni che avrebbero portato giù i canestri (la linea di fondo e spazi angusti in cui arrivare all’anello, l’unica concessione dei biancoverdi ndr). Insomma quello che nel 2007 fecero gli Spurs, quello che lo scorso anno fece Orlando e che forse Lebron pensava di poter superare quest’anno grazie i tanti miglioramenti fatti in fase di tiro con Chris Gent durante l’estate e tutta la stagione regolare. Una sorta di sicurezza che si è letteralmente frantumata davanti alle percentuali al tiro stile ‘primo James’ sia di gara3 che di gara5 e che lo ha portato a pensare un po’ troppo in gara6 e a fidarsi, ancora una volta per poi essere ‘tradito’, dei compagni di squadra provando ad aspettare che il flusso del gioco tornasse normalmente tra le sue mani anche dalla distanza. Ed invece

..Tra estimatori e critici..

sorta di vittima sacrificale ed esempio da non seguire. Certo si fa fatica a pensare che queste ultime parole siano addirittura state rivolte parCi mancava solo ed esclusivamente il Presidente lando di LeBron James. Ed invece l’eliminazione contro i Celtics ed in degli Stati Uniti d’America. Certo non direttagenerale le ultime due sfide della serie che ne hanno poi segnato la fine mente, ma a quanto pare anche la massima della stagione e delle velleità personali di LBJ, hanno addirittura portacarica a stelle e strisce si sia posto a favore di to una leggenda vivente del basket a stelle e strisce, e non solo, a pensaLeBron, ma non certo per farlo restare li dove si re che quello che ha fatto Lebron, ma anche tanti altri prima e dopo di trova attualmente. Il presidente afro-americano lui, non è un esempio da seguire. A cosa si riferisce? Beh ovviamente al (ora la dicitura è ufficiale più che mai visto che salto di categoria puntando all’Nba direttamente dai corridoi dell’High durante la redazione del format per il censimenSchool anziché da quelli di un College anche di altissimo livello. Questo to la scelta relativamente al tipo di ‘razza’ è il succo di una lunga intervista, di una lunga serie di interviste, che l’ex caduta proprio sulla casella relativamente agli membro dello show time dei Lakers ha messo su di un piatto d’oro e afro-americani) non ha mai nascosto la propria consegnato ai posteri quasi come un esempio su ‘fede’ sportiva legata alla città di provenienza. cui riflettere. Già perché quello di LeBron ed il Chicago è nel cuore di Obama (in occasione di suo mancato passaggio («Avrebbe avuto modo di una sfida con i Wizards a Washington ci fu anche un invito ufficiale trarre dei benefici anche da un solo anno di per i Bulls a visitare la Casa Bianca) e quindi pare che secondo l’ex College» la dichiarazione in questione ndr) dai senatore distrettuale proprio a Chicago per LeBron scegliere la Wind Campus Universitari è arrivata all’interno di altre City sarebbe una mossa di altissimo livello oltre che un bel vedere con questioni che lo stesso Jabbar aveva toccato in quella ‘jersey’ sulle spalle. passato ovvero il limite degli anni per saltare il ‘fosso’ del professionismo e che dal 2005 in poi la PAROLA DI KAREEM ABDUL JABBAR Nba è divenuta una specie di succursale di 19enni. Niente male come punti su cui riflettere Ci vuole davvero un attimo. Un attimo per divenire l’idolo incontrastato dopo, ovviamente, aver fatto chiarezza tra i mille della folla, dei tifosi, dei giocatori o anche di vecchie glorie. Ma in pensieri relativi alla destinazione per la prossima altrettanto tempo si può passare all’altra sponda e finire come una stagione.


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il flusso tanto atteso non è mai arrivato o forse lo stesso James gli ha dato una spallata nel senso sbagliato (dopo le due triple consecutive che avevano praticamente riaperto il match ha preferito affidarsi ai compagni anziché continuare ad attaccare personalmente ndr) che ha spinto LBJ, compagni e Cleveland Cavaliers verso il vortice del ‘futuro’ tenuto a distanza fino a questo momento dalle vittorie e dai record di squadre ed individuali. «Quello che conta in questo momento è che tutto è finito e ad essere sincero non me l’aspettavo è stata una vera sorpresa per me, anche se nel senso negativo. Personalmente è come se stessi attraversando un incubo, anche se un mio amico mi ha detto che è passando attraverso incubi del genere che potrò realizzare il mio sogno». Parole amare quelle di James a termine della sconfitta a Boston in gara6 alle quali, ovviamente, non sono mancate (sarebbe stato strano il contrario visto che sono praticamente due anni che l’estate che sta per arrivare è l’unico capitolo di interesse che lo riguarda dal punto di vista dei media insieme magari alle eliminazioni dai playoff per quelli un po’ più anti-Lebron ndr) le solite richieste sul futuro. Richieste alle quali The Chosen One si è congedato con la solita diplomazia degli ultimi anni: «Quello che mi interessa è vincere. Questa è stata sempre la mia unica preoccupazione e motivo di orgoglio e credo che i Cavs mi abbiano messo in condizione di farlo. Allo stesso tempo, però, mi sono dato delle opzioni. C’era un piano da seguire ed ora dobbiamo vedere a che punto siamo». Insomma Danny Ferry è avvisato, l’estate incombe, le sirene di altre franchigie Nba iniziano a farsi più vicine e per Cleveland ed il suo Gm è ora di affrontare l’incubo peggiore che si sarebbero potuti aspettare: un Lebron scontento e senza titolo da convincere. Auguri!

CHI LA SPUNTERA’ NEW YORK KNICKS

PRO. Il Medison Square garden sarebbe lo scenario perfetto per poter strappare quanti più presidenti spirati da sponsor o quant’altro. Nella ‘Grande Mela’ diverrebbe il Re incontrastato della folla e dei tifosi che già lo adorano. Al suo fianco troverebbe un giocatore di medio alto livello come Danilo Gallinari ed un allenatore che ne saprebbe apprezzare ogni suo singolo grammo e talento. CONTRO. La pressione. Se James ha avuto qualche piccolo problema con la pressione che tutti i media gli hanno messo sulle spalle, New York ed i Knicks non sono certo l’eldorado preferito. Senza contare che oltre a Gallinari e Chandler ci sarebbe quanto meno una squadra da rifondare e quindi un piccolo passo indietro a livello di velleità. L’unica chance? Provare ad accaparrarsi un altro Big, forse Chris Bosh.

N EW JER SEY N ETS

PRO. L’amico detentore di una quota della società tanto sbandierato per attirarlo in quelli che saranno i Brooklyn Nets. I soldi dell’est del nuovo proprietario e la possibilità di avere comunque una squadra di un buon livello con Harris, tanti giovani di buone speranze. CONTRO. Niente di più di quanto detto in precedenza e per di più nemmno la prima scelta assoluta. Ecco i contro. Anche in questo caso James avrebbe il compito di rifare quanto ha già fatto a Cleveland e a questo punto sarebbe meglio New York ed il Garden.

CHIC AGO BU LLS

PRO. L’unica vera squadra che con il suo innesto potrebbe puntare direttamente al titolo. L’unico vero gruppo che ha tutte le carte in regola per convincerlo a non regredire di un paio di passi nella corsa verso l’anello. L’accoppiata con Rose sugli esterni e la presenza di giocatori come Noah o Deng pronti a fare faville sui suoi scarichi sono degli incentivi importanti se LBJ vuole pensare solo al titolo. CONTRO. La pressione di ‘ereditare’ la squadra di colui al quale è stato sempre paragonato. La pressione di paragoni che già oggi a km di distanza gli vengono ripetuti alla morte. Senza contare che entrerebbe in un gruppo dove verrebbe qualificato di diritto a leader dove però dei leader ci sono già. Dulcis in fundo: meno soldi e la presenza di Joakim Noah.

LA SCELTA DI ‘THE CHOSEN ONE’

Tra Cleveland e New York potrebbe sbucare Chicago...forse ‘Dove giocherà LeBron? Lascerà i Cavs?’. E’ stato il tormentone che ha riempito pagine e pagine di giornali, pagine di web o di qualsiasi altra cosa o mezzo di diffusione riguardante il mondo della pallacanestro a stelle e strisce. Due anni, compreso quello che per il numero 23 (ancora per poco visto che qualche mese fa lo stesso figlio di Akron ha dichiarato di voler abbandonare il numero che ormai si porta sulle spalle dai tempi del liceo per rendere omaggio a sua Maestà Michael Jordan ndr) è terminato nemmeno qualche giorno fa, in cui non si è fatto altro che sballottolare il nomadi The Chosen One a destra e manca. Due anni in cui la sua faccia stata probabilmente quella più ‘fotomontata’ del mondo con la sua effige raffigurata in diverse ‘jersey’ (mossa quest’ultima che di sicuro ha portato ad un picco di vendite o quantomeno di visite a secondo del tipo di mezzo di comunicazione di massa si prenda in considerazione ndr). A dire il vero la città in cima alla lista è sempre stata la stessa. Una graduatoria che quanto a corteggiamenti velati e non, non è mai scesa al di sotto della piazza d’onore e solo perché la novità del giorno ha schiodato il nome della città della Grande Mela dal gradino più alto del podio. E’ New York contro tutti. Non fosse altro per il fatto che l’opera di rifondazione, nel vero e più ampio senso della parola, ha portato il presidente operativo Donnie Walsh a liberare spazio salariale tale da potersi permettere di posare sulla scrivania prima e sul conto corrente poi, un contratto intestato alligno James LeBron si di sei cifre, ma con la prima parte dell’importo abbondantemente al di sopra della centinaia. Non fosse altro che il Madison Square Garden è stato sempre uno degli scenari preferiti dallo stesso LBJ con prestazioni da stropicciarsi gli occhi ad allacciata di scarpa. Non fosse altro che essere l’idolo della folla ed il giocatore franchigia dei Knicks, porterebbe il suo nome in cima a qualsiasi tipo di lista di sportivi sui quali puntare da parte delle case fornitrici di articoli sportivi. Non che da questo punto di vista, ovvero quello dei presidenti spirati, l’ex talento di St. Vincent and St. Mary sia particolarmente bisognoso o al di sotto del ‘par’ da quando è sbarcato nel mondo dello sport professionistico americano, ma averne qualcuno in più non gli dispiacerebbe di sicuro,

anzi. “Spero che resti a Cleveland è la strada che gli è stata designata” le parole addirittura di David Stern che a quanto pare si sarebbe schierato dalla parte dei Cavs nonostante un James in maglia Knicks significherebbe un ritorno di immagine ed un introito economico non indifferente. Sulla vicenda, forse nemmeno tanto a sorpresa, è intervenuto anche il sindaco di Akron che ha avuto il tempo di lanciare un messaggio diretto al ‘figlio prediletto della città dell’Ohio: “Io penso a quello che ha qui ovvero un rapporto diretto e reale con la gente. Che inferno sarebbe a New York? E questo spero che lo porti a prendere la decisione giusta tenendo conto e presente anche i motivi giusti quelli umani, anziché pensa a qualche dollaro in più. Se sono preoccupato che lui possa lasciare Cleveland? Certamente, tutti sarebbero preoccupati sapendo di poter perdere un ragazzo come lui”. Ma se fino a qualche mese fa il nome dei Knicks o al massimo quello dei Nets con qualche piccolo momento di ordinaria follia come quello che per esempio ha scaraventato nella mischia anche il nomerei gialloviola di Los Angeles (anche se il tutto aveva il dolce sapore della speculazione prima della firma di Bryant con la quale il figlio di Jelly Bean è divenuto un Lakers a vita) erano gli unici nomi per i quali si poteva ipotizzare un futuro diverso da Cleveland, negli ultimi giorni i Bulls di Chiacago sembravano aver preso il sopravvento sbandierando l’idea suggestiva di essere la continuazione di Michael Jordan nella Wind City. Ma come il vento che caratterizza la città di Chicago, forte è stata la folata che ha spazzato via qualsiasi tipo di possibilità con il ritorno prepotente da parte di New York. Addirittura voci di corridoio vorrebbero l’accordo già esistente – e forse non da adesso – e James pronto a prendersi il palcoscenico più importante d’America con il numero 6 stampato su canotta e pantaloncini. Ancora una volta qualcuno potrebbe chiedersi dov’è la novità? Ed infatti per il momento è tutta questione di parole, un giro vorticoso di parole, ma ‘verba volant, scripta manent’. Ed allora fino a che non ci sarà una firma, non ci sarà una conferenza stampa che confermi la firma di cui sopra, il tutto sarà meno che foglie alzate dal vento in pieno autunno.


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LA CURIOSITA’

Shaquille O’Neal e Duncan gli unici a sfatare il tabù dell’Mvp nel nuovo millennio Al momento starà ancora rimuginando sull’eliminazione, starà ancora pensando come, dove e quando ha sbagliato o hanno sbagliato i Cleveland Cavaliers, intesi come compagni di squadra per poi valutare il da farsi, ma una cosa è certa: di sicuro non vorrà più vedere quella statuetta ovunque lui vada a finire e per qualunque squadra vada giocare. Otto volte su dieci nell’ultimo decennio, infatti, chi si è ritrovato ad alzare il premio di Most Valuable Player ha poi finito anzitempo o con le mani vuote la propria stagione. Lo sa bene persino Kobe Bryant che l’ha portato a casa nell’anno della finale proprio con i Celtics nel 2008 il cui risultato finale è ben noto a tutti. E’ stato cosi anche per Kevin Garnett, tanto per restare in tema degli ultimi avversari di Lebron, che nel 2004 con una versione del tutto particolare di T’Wolves arrivò fino a quella finale di Conference e poi nulla più. Ma ancor di più lo sa Steve Nash che per ben due stagione, per ben due anni (2005 e 2006) si è visto consegnare da David Stern la statuetta in questione per poi vedere i suoi sogni di gloria infrangersi contro gli Spurs prima ed i Mavericks poi. Mavericks che nell’anno immediatamente seguente è stata ‘vittima’ indiretta della stessa sorta con il tedesco da Wuzburg ‘Stella tra le stelle’. Il computo dei ‘maledetti’ prima di passare ai privilegiati, due soltanto, si chiude con The Answer Allen Iverson. Al piccolo grande uomo di Philadelphia mancava addirittura solo il tutolo Nba per chiudere una stagione da ricordare con Mvp della stagione, capocannoniere, Mvp dell’Alla Star Game e coach dell’anno, ma niente da fare con il sogno dissuasosi tra il giallo ed il viola dei Lakers. Giallo-viola e Lakers, che però sono parte dell’una delle due eccezioni alla regola del nuovo millennio, dal momento che Shaquille O’Neal è stato il primo a vincere titolo e Mvp della stagione nello stesso anno. Accoppiata riuscita poi solo ed esclusivamente a Tim Duncan nel 2003 quando al Maurice Podoloff Trophy, il caraibico ci aggiunse il Larry O’Brien per l’ultima accoppiata vincente fino a questo momento.

KOBE-LEBRON: LA RIVALITA’ TANTO ATTESA

Per il secondo anno consecutivo si interrompe il desiderio di vederli l’uno contro l’altro Niente da fare. Sono due anni che negli States che parlare, sin dalla prima palla a due di fine ottobre, che quello che andava per iniziare era l’anno buono per vedere in campo a fine giugno quella che il desiderio non inespresso di tutto il mondo della palla a spicchi d’oltre oceano. Kobe contro LeBron, LeBron contro Kobe. Scegliete voi l’ordine, ma quello che non cambierà, mai è che dopo quel 2007 la finale tanto attesa, lo scontro tanto atteso non è arrivato ancora. Per gli amanti delle disquisizioni da bar ‘meglio Kobe o meglio LeBron’ ‘più forte il 24 che il 23’ le due partite di stagione regolare, restano ancora una volta l’unico fotogramma di una rivalità per la quale si urlava a gran voce il palcoscenico più importante per consacrarla ai posteri come quelle di cui nessuno si dimenticherà mai: Jordan-Magic

o Magic-Bird. E in quell’atto finale della stagione che nascono i miti e le rivalità più grandi, è in quell’atto finale che per due anni The Chosen One non riesce a presentarsi per cause a volte anche a lui non imputabili. C’è arrivato per due volte Bryant con il figlio di Jelly Bean che ha nel mirino la terza presenza di fila senza il tanto ‘desiderato’ rivale. Il tutto quindi porterebbe a fa pesare la bilancia a favore di chi ha sempre sostenuto che il numero 24 in gialloviola ha sempre avuto qualcosa in più rispetto al ‘figlio’ di Akron. E se invece il tutto non si è realizzato perché non era il momento giusto? Se invece il tutto non si è realizzato perché la rivalità necessitava di un ulteriore elemento per renderla ancora più storica e durevole nel tempo (la location ed i colori sociali di The King…)? ‘Lo scopriremo solo vivendo…..’


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L’ANALISI

Tutti i nodi vengono al pe ttine... N ICOLÒ ICOLÒ F IUMI IUMI DI

Ecco i mali dei Nuggets

Non ci pensava nessuno a Denver di essere a questo punto dell’anno già a stilare una lista delle cose che non sono andate e dei motivi che hanno portato alla fine anticipata della stagione. Le premesse, d’altronde, erano più che buone, con la migliore stagione della storia alle spalle, terminata solo in Finale di Conference contro i futuri campioni NBA. Il nucleo storico della squadra confermato in toto e l’arrivo di uno specialista come Arron Afflalo, rivelatosi

molto utile da subito, e di un rookie di impatto come Ty Lawson. Una regular season condotta quasi per intero subito dietro agli irraggiungibili Lakers, poi, da marzo in avanti, il lento ma inesorabile crollo, culminato con la sconfitta inaspettata al primo turno contro Utah. Un 4-2 più netto di quanto non dica il risultato stesso. I processi in Colorado sono iniziati da tempo, anche da prima che gara 6 terminasse, perché in molti hanno avuto il sentore che i giochi


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fossero terminati in anticipo, avvertendo la sensazione che qualcosa di invisibile si fosse spezzato, all’interno dello spogliatoio, come nella testa dei giocatori. Proviamo allora a rimettere insieme gli avvenimenti che hanno condizionato il finale di stagione dei Denver Nuggets: 1) 16 febbraio 2010. E’ questa, idealmente, la data in cui le cose cominciano ad incrinarsi. E’ un giorno triste per la pallacanestro, che scopre la malattia di George Karl. Il coach dei Nuggets annuncia in conferenza stampa di avere un forma maligna di tumore alla gola e che da lì a poco comincerà un trattamento di chemioterapia della durata di 6 settimane e che gradualmente lo porterà a perdere sempre più partite. Lo sconforto in squadra è forte, prima per l’uomo che per il coach, ovviamente. I giocatori si stringono attorno all’allenatore nel momento di difficoltà, ma quando l’assenza di Karl sulla panchina diviene permanente si ritrovano quasi spiazzati dall’assenza della loro guida abituale. Adrian Dantley prende in mano le redini del team e cerca di condurre in porto la regular season salvando un secondo posto a Ovest che sarebbe di importanza vitale. La squadra, però, continua a mostrare troppa fragilità lontano dal Pepsi Center e un infortunio a Kenyon Martin scatena l’emergenza difficile da affrontare. Arrivano diverse sconfitte, molte negli scontri diretti con Dallas, Phoenix e San Antonio, il secondo posto se ne va in Texas e anche il terzo finisce a Phoenix, con i Nuggets relegati alla quarta piazza. Il colpo psicologico è di quelli pesanti. Una squadra che, al completo, ha veleggiato per 60 partite buone col vento a favore, si ritrova nel momento clou della stagione senza allenatore e con il giocatore di maggior impatto difensivo in cattive condizioni fisiche. Dantley non ha certo l’ esperienza né il carisma di Karl, così lo spogliatoio dei Nuggets, universalmente riconosciuto come uno dei più “esplosivi” della Lega, perde la tramontana. Billups arriva ai playoff scarico e subisce oltremodo un Deron Williams, al contrario, in forma stellare, Anthony prova a caricarsi la squadra in spalla eccedendo nei personalismi, mentre attorno i compagni di squadra non sembrano avere le idee molto chiare sul da farsi. Per di più Denver è una squadra che, per il carattere e le caratteristiche tecniche dei giocatori a disposizione, vive di entusiasmo, sia all’interno di una singola partita, che su periodi di tempo più lunghi. Una serie di canestri possono aprire

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parziali che uccidono le partite, così come una serie di vittorie possono lanciare strisce vincenti che, se arrivano nel momento giusto come lo scorso campionato, ti portano lontano. Ovviamente vale anche il discorso contrario, ossia che, se le cose non vanno per il verso giusto, c’è abbastanza testosterone ed esuberanza caratteriale per mandare all’aria tutto nel breve volgere di qualche incontro. La situazione che si è creata quest’anno, con Dantley indiziato numero uno per il fallimento nei playoff, ma a ben vedere con poche responsabilità effettive vista l’improvvisa e non preventivata chiamata in causa, e i giocatori a perdere la testa in campo e fuori, punto numero due della nostra analisi; 2) Parlavamo appunto della tenuta nervosa dei giocatori, altro aspetto cruciale del finale di stagione per le Pepite. Se l’anno passato il trascinatore era stato Chauncey Billups, autore di un playoff sensazionale specie nelle serie contro New Orleans e Dallas, quest’anno, prima di gara 1, era stato Carmelo Anthony a prendersi questo onere direttamente in conferenza stampa: “Voglio essere il leader di questa squadra, il giocatore a cui tutti i miei compagni si possono rivolgere nei momenti di difficoltà. E’ giunto il momento nella mia carriera di fare questo passo definitivamente.” E al termine di una gara 1 da 42 punti sembrava che le promesse fossero pronte ad essere mantenute per davvero. Da lì in poi, però, Melo ha scambiato l’essere leader con il semplice segnar punti, dimenticandosi completamente di coinvolgere i suoi compagni. Dopo il pareggio e il sorpasso dei Jazz ci sarebbe voluto un aiuto per dei compagni di squadra in chiara difficoltà, a partire da Billups, chiave di volta come già detto di questa squadra, autore di una dichiarazione che ha chiarito bene il suo senso di disagio per la mancanza di ordine e gerarchie in campo: “L’assenza di George (Karl) si sente davvero tanto. Ci manca la sua presenza a bordo campo durante le partite.” Parole che

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hanno da un lato screditato definitivamente un Dantley completamente in balia degli eventi e mai con un minimo di controllo sulla situazione e dall’altra, implicitamente, criticato il cosidetto “essere leader” mostrato da Anthony fino a quel momento. Melo ha risposto con un’altra partita, gara 4, in cui si è intestardito nei momenti cruciali della partita e ha rincarato la dose in sala stampa, così: “Io voglio fare tutto il possibile per vincere questa serie. In campo dò il massimo, ma non posso fare tutto da solo. Ho bisogno che i miei compagni comincino a giocare a basket.” Un attacco duro e sfrontato ai suoi compagni di squadra, subito mal digerito da JR Smith, pronto a rispondere via Twitter con un laconico: “Play selfish, lose selfish”, accanto al quale non c’era certo bisogno di un indirizzo per cogliere il destinatario di tale riflessione. La situazione a quel punto era ormai irrecuperabile. La vittoria in gara 5 è stato solo fumo negli occhi e preludio alla vittoria conclusiva dei Jazz in casa propria, agevolata ulteriormente dall’infortunio di Nenè, che apre il terzo punto da affrontare; 3) Andiamo qui un po’ più sul tecnico, affrontando il discorso front office. Come abbiamo visto, uno degli aspetti che ha concorso a determinare l’eliminazione di Denver dalla corsa al titolo sono stati gli infortuni di Martin e Nenè, colonne portanti di una rotazione lunghi asciutta per non dire asfittica, se è vero che l’unico cambio credibile dietro ai due sopracitati è stato Chris Andersen. Ma questo non è certo un nodo venuto fuori negli ultimi giorni, bensì una questione annosa, che già da inizio anno aveva fatto storcere qualche naso in Colorado. Se non altro per la conoscenza delle condizioni di salute non esattamente perfette di cui godono Martin e Nenè, entrambi vittime di pesanti infortuni alle ginocchia in passato. L’appunto che è stato mosso fin da subito è che una società lungimirante, per la tranquillità sua e dell’allenatore, dovrebbe avere più risorse nei vari


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ruoli da coprire in campo. Mantenendo sì precise gerarchie, ma con giocatori pronti ad entrare e a contribuire in maniera sensibile in caso di infortunio dei titolari. Un esempio lampante sono i Cleveland Cavs, che sotto canestro hanno allineato quest’anno Shaquille O’Neal, Zydrunas Ilgauskas, Atnawn Jamison, Anderson Varejao, JJ Hickson e Leon Powe con questi due inutilizzati nei playoffs. Denver, invece, stante l’assenza di Nenè, ha giocato la decisiva gara 6 a Salt Lake City con Joahn Petro in quintetto, dopo che il francese aveva dovuto giocare già parecchi minuti nel finale di regular season per l’assenza di Martin. In conseguenza di tutto ciò anche Malik Allen e Joey Graham, peraltro sensazionale in gara 6, hanno dovuto calcare il campo molto più del previsto. Chiaro che un rinforzo di livello prima della deadline per gli scambi era quello che tutti si aspettavano. Denver, però, ha una situazione salariale molto complessa, con giocatori difficili da scambiare e così arrivare a un accordo con una qualsiasi altra squadra è stato impossibile, pur essendo stato vicino l’accordo con i Chicago Bulls per ottenere Tyrus Thomas, giocatore dalle caratteristiche perfette per il gioco atipico di Denver. Questa è senza dubbio una situazione di cui tenere conto per la prossima stagione. Non si può sperare che una rotazione di 8/9 giocatori porti a termine una stagione da 82 partite e sia in forma anche per i playoff senza mettere in conto infortuni o incidenti di vario genere. L’assenza di Linas Kleiza, per quanto nessuno avesse avuto un dubbio nel non pareggiare la super offerta dell’Olympiakos, alla fine ha pesato non poco. In conclusione, possiamo dire che Denver ha avuto anche molta sfortuna. Come l’anno scorso si era ritrovata al massimo della forma a inizio aprile, quest’anno, invece, ha avuto un calo vistoso proprio nello stesso periodo. E’ il gioco e il fascino dei playoff, dove tutto viene rimesso in discussione e anche una squadra sulla carta favorita può salutare la compagnia cantante a causa di un mese infausto. Si potevano prendere provvedimenti anticipati che rendessero quest’emergenza meno gravosa, ma al contempo quest’esperienza potrà servire, soprattutto ai giocatori che hanno perso la testa nel momento di massima difficoltà per avere un migliore approccio in futuro, che a Denver potrebbe anche presentare diverse facce nuove.


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ROOKIE TIME

Welcome...Tyrek Il cammino verso la conquista del trofeo di ‘Rookie of The Year’ per la nuova stella dei Sacramento Kings

Che posto strano l’NBA: bastava dare uno sguardo fugace ai migliori draft report propinati dai vari siti internet, dalle più svariate riviste cestistiche (noi compresi), dalle aspettative degli stessi giocatori NBA per quel poco che possono sapere delle matricol e appena


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G UGLIELMO UGLIELMO B IFULCO IFULCO DI

Dicono di Lui... GEOFF PATRIE: «Dopo la prime due tre settimane di regular season, il livello di solidità e consistenza che ha raggiunto è stato notevole considerando l’età e l’unico anno di esperienza al college. È stato tanto bello quanto inaspettato vederlo su certi livelli, soprattutto viste e considerate le critiche che abbiamo ricevuto per non avere scelto Ricky Rubio».

STEPHEN CURRY: «Mi congratulo con Tyreke per questo award: non c’erano dubbi che fosse lui a meritarlo maggiormente, per me finire alle sue spalle è stato un vero onore».

PAUL WESTPHAL: «E’ il rookie più solido che io abbia mai visto: non vedo altro che una luminosa carriera davanti a lui, e conoscendolo posso garantirvi che non si sente per nulla appagato da quello che ha ottenuto finora, ma è un ragazzo che guarda sempre al prossimo obiettivo conscio di essere solo all’inizio».

ke Evans

approdate nella lega, per rendersi conto di quanto dovesse essere scontata la corsa al titolo di miglior rookie della stagione 2009-20010: quasi una votazione unanime, a conti fatti una vera e propria elezione bulgara, che coronava al top degli aspiranti il pick numero 1 assoluto scelto dai Los Angeles Clippers: Blake Griffin; “ Blake who??” verrebbe da dire a chi in questa stagione ha dato una sguardo effimero alle partite

NBA proposte dalle nostre televisioni: in effetti di Blake Griffin si è visto poco o nulla, come del resto di Hasheem Thabeet (anche se per motivi radicalmente opposti, il primo perennemente ai box, il secondo ancora totalmente inadeguato, anche al garbage time..), e di Rubio -ancora nel vecchio continente-; parlando di previsioni della vigilia, dunque, nessuno aveva scommesso un singolo penny o centesimo di Euro sull’affermazione della combo-guard dei Sacramento Kings Tyreke Evans, cosi come quella dell’ex Roma Brandon Jennings, o di Stephen Curry (secondo bella graduatoria finale) unici rivale proponibili al numero 13 -ereditato dal leggendario difensore Doug Christie, baluardo difensivo degli ultimi veri Kings- della franchigia dei Maloof. A dirla tutta, nonostante la quarta scelta assoluta e gli ovvi margini di miglioramento, parlando sempre di un ragazzo non ancora ventunenne, nessuno immaginava nemmeno lontanamente la stagione che avrebbe potuto produrre l’ex guardia di Memphis, ateneo con il quale Tyreke ha disputato una discreta ma non esaltante annata, non in maniera tale da rendere prevedibile una sua affermazione immediata ed impetuosa al piano di sopra: e invece nonostante tutte le congetture e i dubbi del caso, la realtà è stata completamente ribaltata e stravolta rispetto alle previsioni. Evans ha dimostrato una maturità assolutamente disarmante per un ragazzo della sua età, non tanto dal punto di vista cestistico dove ha ancora periodici ed occasionali black-out nelle interpretazioni difensive ( ne sa qualcosa Kobe Bryant, comunque non uno qualunque, durante un match vinto in volata dai giallovio-


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la in questo inverno), quanto dal punto di vista emotivo- comportamentale: cercando di mantenere i piedi per terra e di non azzardare paragoni assurdi e improponibili, non si può ritenere la stagione da rookie di TE inferiore, quantomeno statisticamente, a quella di giocatori che attualmente governano o hanno governato la lega, vedi Kobe Bryant -primo anno a 7.6 punti, 1.9 rimbalzi e 1.8 assists a gara: c’è da dire che erano altri tempi, Kobe veniva dall’high school suscitando lo scalpore dell’allora tradizionalista NBA, e soprattutto era sesto uomo della squadra di O’Neal-, e Tracy McGrady - 7 punti, 4.3 rimbalzi e 1.5 assists- rispetto ai quali ha fatto molto meglio e LeBron James - primo anno a 20.9 punti, 5.5 rimbalzi e 5.9 assists, cifre sinistramente simili a quelle di Tyreke, che recitano 20.1 punti, 5.3 rimbalzi e 5.8 assists- con il quale il confronto statistico regge alla grande. Chiaro che giudicare un giocatore in base a quelli che sono i suoi numeri può essere un approccio analitico un tantino superficiale ed avventato, ma avallare la figura di Evans come quella di un potenziale AllStar non suona per nulla blasfemo e inverosimile; Sacramento, nelle previsioni proposte dai più accreditati rankings, sembrava una squadra materasso da prendere tranquillamente con le molle per tutta la regular season, ma in maniera a dir poco shockante il giovane Tyreke , a prescindere dai punti segnati o dagli assist distribuiti, ha lasciato intravedere una tempra caratteriale, un coraggio e una capacità di prendersi le proprie responsabilità e di caricarsi la

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squadra sulle spalle nel momento del bisogno assolutamente priva di senso logico per un ragazzo di quella età: personalmente ho visto vari incontri dei Kings durante il freddo inverno e non posso nascondere di aver trascorso qualche notte affascinato ed entusiasmato, per aver rivisto un posto pittoresco, eccentrico, passionale e ricchissimo di gloriosa storia recente quale l’Arco Arena riesplodere nei fragorosi e intimidatori suoni dei campanellini riecheggianti nei finali tirati degli incontri: i Kings hanno perso molte partite punto a punto, segnale di immaturità (parliamo sempre di un quintetto medio che non va oltre i 22 anni medi di età all’incirca), ma anche di una ritrovata competitività e speranza di ritornare ai memorabili primi anni del 2000, quando Divac, Bibby, Webber, Stojakovic e soci incantavano a suon di pick&roll e giochi di prima gli estasiati supporters della squadra della capitale della California. In ciascuno di quei finali tirati Tyreke Evans non ha mai rinunciato ad assumere il controllo della situazione, coadiuvato perfettamente, anche se solo a tratti, dal sottovalutatissimo Beno Udrih e dal sorprendente israeliano Omri Casspi: alcuni errori certo, ma numerosissimi canestri decisivi e più in generale un mostruoso ascendente con il giovane Kobe Bryant, pur tenendo conto di tutte le differenze tecniche che li contraddistinguono. Domanda da un milione di dollari: considerato questo esaltante primo anno, in cui non è stato possibile rintracciare una sua nemesi (come Anthony lo fu per


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LeBron), se non nei primi 2 mesi di RS -con Jennings-, quali si prospettano essere le tappe successive per il numero 13? Domanda effettivamente difficile e legata a tantissimi fattori tra i quali soprattutto l’atteggiamento che avrà Sacramento sul mercato e la capacità con cui riusciranno a salire di livello i vari Hawes, Casspi, Landry, Thompson e Green nel corso degli anni venturi. I margini di miglioramento sono individuabili principalmente nel tiro dalla distanza- quest’anno un magrissimo 25% da 3, frutto di 36 realizzazioni su 141 tentativi, all’incirca due tiri presi a partita- che lo rende ancora contenibile quanto meno chiudendogli il campo, anche se nei momenti clutch tende a dimenticarsi del suo limite attuale, nella tenuta difensiva dove non pecca di fondamentali (buon gioco di piedi e ottima rapidità) ma tende a dimenticare il proprio uomo e non sembra essere cattivo quanto può esserlo sull’altro lato del campo: ovviamente ci sarebbe da migliorare anche su letture offensive nei finali di partita, ma basta pensare che il peggior lettore di situazioni offensive tra le stelle attuali è anche il più decisivo di tutti grazie alle proprie skills ( Kobe Bryant, anche se la citazione sembra superflua), per rendersi conto di quanto questo limite possa diventare un punto di forza assoluto. In definitiva nella migliore delle ipotesi possiamo ritrovare Tyreke tra i top 5 players del futuro, nella peggiore una comboguard statisticamente imponente e incisiva come poche. Per quanto possa sembrare esagerato, includerlo nei probabili top 5 player dei prossimi 10 anni è una previsione rischiosa ma fedele al tipo di giocatore che rappresenta Tyreke: l’attività a rimbalzo e la buona visione di gioco già ora lo rendono un ottimo allaround, in più la varietà di movimenti offensivi dal palleggio, la creatività nelle situazioni di traffico e la capacità di vedere il canestro grande quanto una casa quando la difesa è collassata e il tiro concesso diventa semiimpossibile, lo rendono già ora un attaccante abbondantemente affidabile, oltre che già maturo come leader (Bryant dice di lui : “He ‘s a grown man”, un uomo cresciuto, letterale): affinando i difetti prima evidenziati, lavorando sempre stakanovisticamente come fatto finora cercando di non perdere la bussola strada facendo come hanno fatto alcuni suoi colleghi Vince Carter su tutti, Tracy McGrady, Allen Iverson e via discorrendo-, il risultato finale dovrebbe essere quello previsto precedentemente nella migliore delle ipotesi. Poi è chiaro, in una lega dove giocano e giocheranno ancora a lungo Kevin Durant e LeBron James, l’opera diventa anche proibitiva, ma i mezzi di base per emergere a certi livelli ci sono: Michael Jordan soprattutto, poi Kobe Bryant, gli unici dominatori nel ruolo di guardia nella storia (non me ne voglia Jerry West..) al di sotto dei 2 metri hanno costruito la loro leggenda con il lavoro ossessivo e l’analisi nanoscopica del proprio gioco finalizzata all’automiglioramento: anche se è difficile\impossibile salire al livello delle due guardie 1.98 ,Tyreke può quantomeno aspirare ad avvicinarsi a certe vette, con la materia prima e la materia grigia di cui sembra essere dotato.

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‘Lo Stall on e I ta li ano ’ DI

LA RUBRICA

Stagione ricca di alti e bassi per il nostro connazionale Marco Belinelli. Dopo una discreta stagione a Golden State chiusa con 9 punti in 21 minuti di media in 42 partite (di cui 23 in quintetto) è riuscito a sfuggire da quel circo ambulante che è per ora la squadra della città sulla baia. Arrivato a inizio stagione a Toronto da Golden State fortemente voluto dal General Manager Colangelo, sembrava in lizza con il rookie Demar Derozan per un posto da titolare nel quintetto formato da Calderon, il neo arrivato Turkoglu e la coppia di lunghi Bosh e Bargnani. Nelle primissime partite Marco era il primo cambio degli esterni di coach Triano, fornendo pure buone prestazioni. Nella prima partita stagionale contro i Cavs ha segnato 10 punti in 19 minuti con il 50% dal campo, successivamente ha continuato a sfornare buone prestazioni come ad esempio contro gli Spurs (12 punti, 4/4 da 3), i Clippers (15 punti e 3 assist), Denver (16 punti e 4 rimbalzi in 24’) e Utah (19 punti) alternandole però con partite veramente pietose, insufficienti al tiro e con poca grinta in difesa. Il coach ha utilizzato Marco come specialista offensivo, ovvero il giocatore in grado di segnare tanti punti in

R AFFAELE VALENTINO

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pochi minuti. Per i primi mesi la scelta ha funzionato grazie alla continuità e alle buone percentuali del ragazzo di San Giovanni in Persiceto, ma quando il tiro non è più entrato con continuità sono arrivate le prime difficoltà, e anche qualche partita in cui è rimasto seduto a guardare per tutti e 48 i minuti. Va dato merito all’ex fortitudino di non aver mai creato alcuna polemica o aver preteso di giocare di più. Quando è stato impiegato regolarmente ha dato sempre il suo apporto, è partito titolare solo una volta, nella sconfitta 130-115 sul campo dei Pacers , segnando ben 21 punti con 7/13 dal campo e 5 rimbalzi, nella stessa partita in cui Bargnani ha stabilito il record di punti per un italiano con 34. Prima di questo exploit, c’era stata una bella performance da parte di Marco nella vittoria in casa contro i Lakers dove aveva segnato 15 punti con 3/3 dalla lunga distanza, impegnandosi pure in difesa marcando onestamente Kobe Bryant. Purtroppo Marco successivamente non ha goduto di molto minutaggio e il suo rendimento è calato drasticamente. I Raptors hanno fallito l’obiettivo minimo della qualificazione ai Playoff, arrivando al 9° posto nonostante le aspettative

Fonte foto: http://im.sport.cz

di inizio anno, dopo l’acquisizione di Turkoglu, fossero ben’altre. Pure per Marco la stagione è stata un mezzo fallimento, le sue medie parlano di 7.1 punti in 17’ di impiego con il 38% al tiro da 3, al di sotto delle medie ottenute l’anno prima a Golden State. Ci aspettiamo comunque un pronto riscatto del Beli, già a partire dalla sua partecipazione con la nazionale italiana impegnata nelle qualificazioni per gli Europei del 2011. Beli è stato il primo a dare l’adesione, seguito a ruota dal suo compagno di squadra Bargnani. La nazionale gli ha già dato molta visibilità ai Mondiali 2006 in Giappone, dove si fece conoscere dal mondo NBA grazie alla splendida prestazione, 25 punti e una spettacolare schiacciata in contropiede, contro gli USA guidati da Carmelo Anthony e Lebron James. Magari quest’anno servirà a fare tornare a “Rocky” la sicurezza di cui ha bisogno e anche la consapevolezza di avere un talento che è riservato a una stretta èlite di persone. Marco dovrà comunque continuare a lavorare duro e cercare di migliorare ogni giorno, soltanto cosi sarà sicuro di avere un posto fisso nell’NBA per i prossimi 10 anni, quale sarà il suo ruolo sarà lui stesso a deciderlo.

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LE STATISTICHE DELLA STAGIONE IN CANADA


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NBA PLAYOFF

We l c o m Larry O’Brie


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NBA PLAYOFF

me to: en ‘Rumble’


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Los Angeles Lakers

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Per il terzo anno consecutivo i Jazz terminano la stagione contro i Lakers, ma stavolta non c’è stata storia. Eppure, dopo il dominio contro i Nuggets e le prime battute di gara 1, tutto lasciava presagire una semifinale molto combattuta anche se, ovviamente, i pronostici erano quasi totalmente in favore dei campioni in carica. Due i momenti chiave della serie: in gara 1, quando Kobe si è preso sulle spalle la sua squadra ed ha ribaltato la partita, ed in gara 3, quando Fisher ha gonfiato la retina della sua ex squadra a 28 secondi dal termine ipotecando quindi il passaggio del turno già alla terza gara ed ammutolendo il suo ex pubblico di Salt Lake City che per tutta la partita lo aveva fischiato a causa dell’affrettato addio di qualche stagione

GARA1

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fa. Troppo forti questi Lakers per i Jazz, decimati dalle fondamentali assenze di Kirilenko, rientrato solo per gara 3, e soprattutto di Okur, la cui presenza sarebbe stata fondamentale per tentare almeno di arginare lo strapotere fisico dei losangelini sotto canestro. Devastanti le cifre dei lunghi di coach Jackson, primo fra tutti Pau Gasol. Lo spagnolo è stato autore di 23.5 punti e 14.5 rimbalzi di media, mettendo a segno ben 34 delle 56 (60%) conclusioni tentate, oltre ad oscurare il proprio canestro con 2.75 stoppate a partita. Una prestazione a tuttotondo per lo spagnolo, già decisivo contro i Thunder. Eccellente anche il supporto di Bynum, determinante con i suoi 7.8 punti e 8.8 rimbalzi, ottenuti però in soli 24 minuti d’impiego perché Phil


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Utah Jaz z

S TEFANO PANZA

Jackson a tratti ha preferito lasciare in campo Lamar Odom in favore di un quintetto meno ingombrante e più efficace in difesa contro avversari rapidi come i Jazz. Per l’ex Miami Heat 9.5 punti e ben 10 rimbalzi in 28 minuti, cifre notevoli specialmente per un giocatore partente dal pino. Tutto ciò prima di elogiare Kobe Bryant, il vero vincitore della serie. 31 punti in gara 1, forse la più delicata di tutte, 32 di media nella serie per un giocatore che, messe da parte le incomprensioni con Phil Jackson relative al primo turno di playoff, è tornato lo schiacciasassi di sempre, approfittando anche dell’assenza di Kirilenko tra gli avversari, probabilmente il candidato numero 1 alla marcatura del Mamba. Se gara 2 non è stata una passeggiata, poco ci è

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Power Ranking

mancato, nonostante il punteggio finale non lo dia a vedere. Devastante qui il dominio dei Lakers sotto canestro, come testimoniano i 58 rimbalzi catturati scontro i 40 degli ospiti. Aspetto, questo, più volte citato nelle interviste del dopo partita. Qui, come mai, si è sentita l’assenza di Okur perché Sloan, a corto di corpaccioni da gettare nella mischia, ha dovuto accontentarsi di Fesenko. Bravo ragazzo Fesenko, ma non esattamente l’uomo ideale per contrastare Gasol e Bynum. Per lui in gara 2 ci sono stati 2 soli punti con 1/7 dal campo e 3 rimbalzi in 17 minuti. Si può dare di più. Perdere le due gare in trasferta ci può stare, a patto di pareggiare il conto in casa e giocarsi tutto nelle ultime tre. L’operazione, per i ragazzi si Sloan, sembrava


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ben avviata, ma a parte il solito Williams (28 punti in gara 3) sono venuti a mancare molti elementi fondamentali, salvo andare a pescare un Kyle Korver da 23 punti, 9/10 dal campo di cui 5/5 da tre dalla panchina che ha tenuto i suoi Jazz in partita fino all’ultimo, quando la tripla di Fisher con 28 secondi da giocare ha siglato il definitivo punteggio di 111-110. A nulla è valso il tentativo di Matthews per il controsorpasso. Importante anche il rientro in campo di Kirilenko, ma il suo apporto (8 punti e 6 rimbalzi) non è stato, come prevedibile, decisivo. In gara 4 i Lakers realizzano per la terza volta consecutiva 111 punti, troppi per non essere associati ad una vittoria. Tra i Jazz, che incassano il primo 4-0 della loro storia, oltre a fare i conti

con la sfortuna si guarda già all’anno prossimo, dove però è previsto un netto ridimensionamento dei costi, quindi è da pronosticare un addio di diversi giocatori, primo fra tutti quel Carlos Boozer che comunque non ha deluso le attese, chiudendo la serie con 15.5 punti e 13 rimbalzi. Probabile, ma non sicuro, che la dirigenza si affiderà a Paul Millsap, unico, insieme a Deron Williams, ad essere uscito da vincitore dalle sfide contro i Lakers: per lui ci sono stati 19 punti e 7.3 rimbalzi – e meno male che non era un attaccante – mentre Williams ha chiuso con 22 di media e 8.8 assist. I Lakers si preparano dunque alla sfida contro i sorprendenti Phoenix Suns. Entrambe le squadre sono reduci da sei vittorie consecutive. Ci sarà da divertirsi.

HANNO DETTO...

Carlos Boozer: «Che delusione» Gasol: «Volevamo vincere ed in fretta e ci siamo riusciti» DOPO GARA 2 «I loro lunghi ci hanno reso la vita difficile stasera. Avremmo dovuto tirare meglio», ha detto Williams. «Oggi ci hanno annientati ai rimbalzi», ha detto il coach di Utah, Jerry Sloan. «Abbiamo giocato duro e cercato di rimanere in partita in tutti i modi». «I centri hanno fatto la partita stasera», ha detto il coach dei Lakers, Phil Jackson. «Hanno giocato tutti molto bene». DOPO GARA 3 «Quando effettuiamo il pick and roll con Kobe e Pau, è molto difficile decidere a chi passarla» ha detto Fisher. «Voglio dire, il miglior giocatore della partita sta uscendo dal blocco. Pau, uno dei migliori giocatori del mondo, sta portando il blocco. Quindi per i restanti giocatori è fondamentale farsi trovare pronti e cogliere l'opportunità».

(su Fisher) «Ha sempre fatto così», ha detto l'ala di Utah, Carlos Boozer. «E' un giocatore da playoff». «Pensavo fosse un buon tiro», ha detto Matthews. «Non sapevo quanto mancasse, perciò ho tirato il più velocemente posibile». DOPO GARA 4 «Volevamo chiuderla il prima possibile», ha detto Gasol. «L'obiettivo era di vincere la serie per poi pensare subito al futuro». «All'inizio non erano per niente aggressivi nel raddoppio di marcatura", ha detto Gasol. «Ho subito trovato il ritmo giusto. Stasera stavo bene, ho giocato come volevo in post e sono stato paziente». «Siamo stati battuti da una squadra più forte, tutto qui», ha detto Boozer. «Sono deluso per la nostra prestazione. Non abbiamo giocato al massimo e abbiamo perso malamente».


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GARA4


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Phoenix Suns

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Per la serie "corsi e ricorsi storici" Phoenix - San Antonio ha offerto grande spettacolo, grandi ricordi, e ha stravolto il passato.Una serie ricca di spunti dove il novizio Alvin Gentry sbaraglia del tutto il sergente di Ferro Greg Popovich che ancora è intento a cercare di capire come fermare Nash e il contropiede dei ragazzi in arancio-viola. Guardi gara 1 e vedi una squadra perfetta con il canadese che predica pallacanestro, punisce inesorabilmente la difesa dall'arco, mette a referto trenta punti, fa impazzire Tony Parker, entra in area si ferma riparte, fa sempre la cosa giusta. Stoudemire si fa trovare pronto e battaaglia nel pitturato, supera il pariruolo Duncan e schiaccia con i gomiti nel canestro. Il ceerottone talissmano di Manu produce 26 punti, con l'argemtino che si accende ed è l'unico

GARA1

GARA2

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che riesce a punire i continui cambi difensivi. Non basta a referto un trentello però a battere i Suns, che oltre al duo dei sogni e a un eccelso J Rich, trovano nel finale anche un Grant Hill. Popovich corre al riparo e decide di non concedere ai Phoenix 48 minuti di contropiede, blocca il ritmo raddoppiando sistematicamente Nash. La gara vive di maggior equilibrio. Abbandonato ogni schema, anche gli Spurs vanno col quintetto di 5 piccoli, con il solo Duncan nel pitturato, e quattro esterni. La mossa che in un primo tempo si rivela azzeccata, trova proprio nel caraibico il suo punto debole. Gentry schiera in quintetto Frye da numero 5 e assieme a Stoudemire, alter-


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San Antonio Spurs

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D OMENICO L ANDOLFO

na il versatile Dudley, le cui bombe risulteranno decisive. Un Parker come mai in carriera ispirato al tiro da tre riesce a risollevare quasi da solo i suoi, ma nel finale è l'esperienza di Hill ancora una volta (spesso accoppiato a Duncan) a farla da padrone. Primo flashback a esito contrario: a poco dalla fine con gli Spurs a 6 punti Duncan mette una bombe come nella serie di 4 anni fa, quando mandò una splendida gara 5 al supplementare. Qui la sua tripla riavvicina i suoi, ma sul capovolgimento di fron-

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te è Richardson a chiudere i giochi e i liberi di Nash mandano la serie in Texas con un secco 2-0 e la consapevolezza che, marcando i big three (Ginobili-Duncan-Parker) e concedendo tiri anche piedi per terra a J.Hill, Jefferson e Bonner, puntualmente errati, i Suns hanno in mano l'inerzia del gioco.


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Trasferiti baracca e burattini all'At&t center San Antonio subisce ancora una volta il canadese terribile che si abbatte ad ondate ripetute. Stoudemire e Richardson puniscono con continuità, ma il cuore dei bianconeri è forte e puro e la scalata ha la firma del solito uomo da Bahia Blanca, che si prende in mano la squadra e con triple, e tantissimi assist mette in ritmo anche i compagni che in quel di Phoenix avevano sbagliato l'impossibile ma che con i canestri amici hanno maggiore facilità al bersaglio. La gara alla fine del terzo periodo vede San Antonio avanti di due, con un po' di inerzia e sapendo che Nash starà come al solito a riposo nei primi minuti di periodo. Occasione ghiotta vero? Bene i fatti dicono che Nash in quel quarto periodo non metterà piede in campo, seduto e sbalordi-

to da Dragic, che piazza 23 punti e qualche assist e si prende da solo applausi. Fa impazzire tutti, Hill, Duncan, irride anche Mr Longoria, scava un solco e tarla la mente dei texani che perdono la testa e francamente l'unica speranza di riaprire la serie. Lo si vede da gara 4 e dal suo inizio fulmineo. Phoenix può correre, san Antonio ci prova con la difesa aggressiva, ma non basta. Ecco il secondo flashback. Come 4 anni fa ancora, Steve Nash prende un colpo al volto che lo costringe ad abbandonare per un po' la contesa. Ma come Ginobili, il cerotto porta bene e il canadese nel solo 4^ periodo regala 20 punti e 10 assist e firma la vittoria 4-0 nella serie, con i Suns che se la vedranno con i Lakers in una sfida dal pronostico apertissimo.

HANNO DETTO...

Stoudemire: «Abbiamo battuto una grande squadra. Io? Mi sento in piena forma» GARA 1 Gentry: «Grande vittoria per noi, già stasera si sono potuti vedere chiaramente le chiavi della serie. Nel terzo quarto non abbiamo difeso come sappiamo, e abbiamo concesso più di 12 tiri, che se non segni correndo diventa un problema. Sono contento che Steve abbia recuperato, aveva avuto qualche problemino, ma ha riposato, ha recuperato ed è stato il fattore determinante di questa gara. Ha avuto giudizio, ha fatto girare la palla, ha preso i suoi tiri, ha fatto anche molto lavoro difesa e speriamo continui così. Posso ritenermi soddisfatto». Popovich: «Steve è stato l’uomo in più stasera, ci ha tagliato le gambe, e ha fatto quel che ha voluto producendo l’allungo decisivo nel primo tempo. Noi ora dobbiamo riprenderci subito, alzare i giri del nostro motore e andare avanti, dobbiamo evitare le troppe transizioni, perché tutti lo sanno, se non torni in difesa e se concedi contropiedi è impossibile fare risultato. Eravamo riusciti anche a pareggiarla alcune volte questa gara, ma poi queste transizioni ci hanno cacciato via e hanno prodotto la sconfitta». GARA 2 Gentry: «Stasera non solo attacco, ma anche difesa, stoppate, recuperi, sono stati i fattori decisivi del nostro successo. Trovare nuovi ostacoli, nuovi livelli da superare ci aiutano a migliorare, a crescere e ad andare avanti, sempre di più. Riuscire a trovare risorse da tutti, come per esempio stasera da JD è stato importante, qualche tripla, qualche gioco da tre punti, rimbalzi, piccole cose che fanno però il risultato. Grant Hill è un ragazzo che non finirà mai di stupirmi ha più di 30 anni, ma continua a lavorare e migliorare con grande

serietà voglia e determinazione, nonché talento». P o po v i ch : «Nel primo tempo Jared Dudley ha cambiato totalmente l’incontro, provenendo dalla panca è diventato un fattore, e lo stesso è avvenuto con Channing Frye nel secondo tempo, con le sue triple,nonostante molte di esse non fossero tiri aperti, ma contestai dai miei. Grant Hill è stato eccellente specie nel finale con due canestri su Timmy davvero eccezionali, è stato il nostro vero problema, perché era un giocatore di grande movimento che ronzava nei pressi del ferro. Non importa il passato, la serie con gli Hornet di due anni fa che era così, dobbiamo concentrarci su noi stessi preparare gara 3 e fare del nosstro meglio, così come i Suns hanno fatto stasera con il loro grande lavoro, che la nostra voglia ed energia stasera non sono riusciti a battere». GARA 3 Gi no b ili : «Ci hanno massacrati nel vero senso della parola. Cinque tiratori, noi abbiamo deciso di cambiare, abbiamo cercato di penetrare e scaricare rapidi, di contestare le loro triple, ma non c’è stato verso di fermarli. Imbarazzante per noi il 4^ periodo dove hanno segnato 39 punti, correndo e facendo il loro gioco. Loro sono stati grandi e noi in difesa molto scarsi. GARA 4 Stoudemire: «Abbiamo sconfitto un team forte, con un grande pedigree e che ha grande storia. Steve nel quarto periodo ha regalato magia, con apertura e visione di gioco eccezionali. E’ stata una lotta dura, potevamo rilassarci dopo gara 2, ma abbiamo continuato a lavorare e migliorare e abbiamo alato i colpi in difesa e chiuso la serie qui a San Antonio, è bello e mi sento molto bene».


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Cleveland Cavs

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Il Re è nudo. Spodestato dai magnifici quattro in biancoverde barcolla alla ricerca di un modo per tornare a sedere sul trono. La corsa dei Clevaland Cavaliers e di Lebron James si ferma in semifinale. Continua, invece, quella di Boston, che nel momento decisivo della stagione sembra aver ritrovato il magico spirito che nel 2008 la condusse al titolo Nba. In una sfida dall’andamento rapsodico Cleveland ha mostrato tutti i suoi limiti: caratteriali e tecnico-tattici. Il campanello d’allarme della serie di Finale di Conference persa l’anno scorso contro i Magic sono stati in parte inascoltati. La filosofia tecnica e gestionale della franchigia dell’Ohio non è cambiata, il risultato neanche.

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La serie. A vederla a ritroso, i semi della clamorosa caduta degli dei, c’erano già in gara 1. Nel primo episodio della serie, Lebron e compagni infilano una vittoria svogliata per 101-93. Il Re ne mette 34 silenziosi, coadiuvato dai 24 di Mo Williams, che però dall’altra parte ne concede 27 a Rondo. Il livello di pallacanestro espresso dai Cavs non è convincente, in particolare in attacco. E in questo senso gara -2 mostra inquietanti presagi. La Quicken Loans Arena è scossa dal 104-86 con il quale i Celtics pareggiano la serie. Il metronomo Garnett (18 e 10r) detta i tempi, Allen (22), Pierce (14) e Rondo (19 assist e 13 punti) illuminano, ma la partita è spaccata in due nel secondo quar-


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Boston Celtics

V INCENZO

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G UIDA

to da Rasheed Wallace (17) riapparso sulla scena nel momento più importante. Tutto da rifare 1-1. Si va a Boston dove James dipinge in gara -3 il suo capolavoro. Con una pazzesca prestazione da 38 punti (28 punti all’intervallo), Cleveland spazza via Boston per 124-95. Tutti a sentenziare: Lebron porterà i Cavs al titolo. Rajon Rondo però non è d’accordo e come un buco nero divora la stella Lebron in gara -4. Tripla doppia da 29 punti, 18 rimbalzi, 13 assist: immenso. Prima di lui a questo livello nei playoffs, solo Oscar Robertson e Wilt “The Stilt” Chamberlain. Si torna a Cleveland sul 2-2. L’equilibrio in questa serie non esiste. Il 120-88 con il quale passano i

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Power Ranking

Celtics vale molto di più del punto del 3-2. E’ la vittoria di una squadra contro un simbolo. Ray “He Got Game” Allen vola leggero e indomabile con i suoi 23 punti (6/9 da tre), il Capitano Paul Pierce (21 e 11 rimbalzi) piazza la zampata decisiva, l’energia di Garnett (18) oscura la vallata in difesa. Dall’altra parte i 21 di Shaq (si, c’è anche lui in questa serie..) impallidiscono di fronte ai 15 punti con 3/15 dal campo di James. Performance enigmatica del Prescelto, che costeggia la partita con regale disinteresse. Quasi abulico, con la sola scusante dei noti problemi al gomito, Lebron soffre in silenzio, ma allo stesso tempo è incapace di dare la scossa ai suoi compagni, che ancora


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una volta dimostrano enormi limiti di leadership. Il copio- Tim Thibodeau. E’ fatta: Boston in finale di Conference. ne si ripete in gara -6. Boston chiude i conti con un 95-84, Cleveland in vacanza alle prese con i suoi demoni. che non rende giustizia a quanto visto in campo. I numeri a volte sono ingannevoli: 27 punti, 19 rimbalzi, 10 assist è il fatturato di Lebron. La partita va vista e non solo conteggiata (peraltro anche 9 palle perse per James). La faccia di James diceva quasi tutto. Assente, senza la cattiveria giusta per tentare l’impresa. Rassegnato all’incapacità accertata dei suoi compagni e del suo allenatore. I Celtic invece giocano insieme con uno spirito che proviene dalla grandezza dei suoi Fab Four, dalla leadership di coach Rivers e dalla sublime difesa messa in campo da

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Rivers: «Siamo rimasti uniti in tutta la serie e abbiamo vinto». Brown: «Un grande rammarico» «Dan Gilbert (il proprietario dei Cavaliers, ndr) è sempre stato duro con me dal primo giorno e so quale è il mio lavoro» - ha detto Brown -. Al momento mi viene difficile pensare a ciò. Ora cerco di riflettere su dove e come abbiamo perso la partita. E' il mio più grande rammarico». Sulla graticola anche il g.m. Danny Ferry, che come Brown continua a mostrarsi tranquillo. «Rispetto Mike Brown. Ho sempre apprezzato il suo lavoro. Siamo tutti scontenti di come abbiamo giocato nei playoffs. Ci siederemo e decideremo che fare». Nonostante la facciata se cade uno, cade anche l’altro. Ma i riflettori di tutti sono puntati su Lebron James. Che cosa farà? «Per me la cosa più importante è vincere ed i Cavs vogliono la stessa cosa. Però, a questo punto, valuterò tutte le opzioni che mi si pareranno davanti». Queste le dichiarazioni di James nella difficilissima conferenza stampa post gara -6. Tutta Cleveland spera ancora. I Cavaliers sono pronti alla rivoluzione tecnica e manageriale pur di tenerlo. Lui vuole vincere, e ha bisogno di una squadra all’altezza per farlo, che si chiami Cleveland, New York (dove si è pianto di felicità al termine di gara -6) o Chicago. E non detto che

se dovesse cambiare team, i tempi siano poi così brevi per la scalata al titolo. L’anno prossimo Lebron compirà 26 anni. L’orologio inizia a ticchettare. Al momento una sola cosa è certa: sarà una lunga estate, che cambierà i destini della Nba per i prossimi dieci anni. Un mantra incessante quello ripetuto da coach Doc Rivers. Quello che nel 2008 era “Ubuntu”, ora è divenuto “Togheter”. Insieme, giocare insieme, vincere insieme, ripetuto nei timeout, nei pregara, nelle conferenze stampa post gara. Sempre. «Siamo rimasti uniti e abbiamo lottato e giocato insieme anche nei momenti più difficili della serie»- ha dichiarato dopo gara -6 il coach dei Celtics-. «Abbiamo rispettato il piano partita, i nostri uomini di riferimento hanno fatto un grosso lavoro anche in difesa, sacrificandosi per la squadra». Un messaggio in codice, per cementare il gruppo, ma soprattutto per indicare ai suoi che si giocava “tutti contro uno”, e che alla fine il gruppo avrebbe battuto il singolo. Dal punto di vista tattico, il duo Rivers- Thibodeau ha stravinto il duello con coach Mike Brown e il suo staff. LeBron da solo ne poteva vincere una, al massimo due e così è stato.


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Orlando Magic

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Continua a non trovare ostacoli la corsa al titolo NBA degli Orlando Magic, che spazzano via gli Atlanta Hawks con un perentorio 4-0, lo stesso risultato con cui gli uomini di Van Gundy hanno annichilito Charlotte al primo turno, portandosi così in finale di Eastern Conference per il secondo anno consecutivo. Dal canto suo Atlanta, dopo aver palesato enormi lacune nella serie contro Milwaukee, incassa anche quest'anno uno sweep al secondo turno, mostrando di non essere all'altezza delle grandi della Eastern Conference. In questa serie finalmente Dwight Howard torna a giocare sui suoi livelli, chiudendo con una media di 21 punti e 13.3 rimbalzi, ma soprattutto tirando con l'84% dal campo e

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dominando i lunghi degli Hawks, letteralmente distrutti dal centro dei Magic. La serie ha delineato le enormi differenze tra i due team sin dall'inizio, con Orlando che schianta Atlanta 114-71 in gara 1 e con Howard che torna al 20+10 dopo le difficoltà del primo turno. Per gli Hawks, nettamente provati dalla gara 7 contro i Bucks, sono solo tre i giocatori a chiudere in doppia cifra, ma ciò che sorprende maggiormente è il mismatch Howard-Horford. Il giovane centro di Atlanta non solo non riesce a limitare Howard, ma risulta totalmente impalpabile nella metà campo offensiva, chiudendo il match con 4 punti, 6 rimbalzi, e un pessimo 1/7 al tiro. Per Orlando continua il momento positivo di Jameer


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Atlanta Hawks

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Nelson, autore finora di ottime prestazioni in questi playoffs. Il playmaker ha chiuso la serie con una media di 17.3 punti e 6 assist, confermando quanto di buono visto finora. Se in gara 1 gli Hawks hanno avuto l'attenuante della stanchezza, in gara 2 continua a non esserci storia, e le giustificazioni per gli uomini di coach Woodson iniziano a non reggere. Il dominio di Howard è imbarazzante, stavolta con 29 punti e 17 rimbalzi, e la sconfitta per Atlanta arriva nonostante un ottimo Crawford dalla panchina e un Johnson tornato su livelli accettabili. A fare la differenza per la franchigia della Florida è il quintetto base, che mette 97 dei 112 punti totali con 4 uomini sopra i 20 punti, men-

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Power Ranking

tre Atlanta soffre ancora una volta sotto le plance. Horford e Smith provano a fare il possibile in attacco, ma, come già anticipato, non riusciranno ad intimidire Howard per l'intera serie. Gara 3 diventa, inevitabilmente, il match della verità, con gli Hawks che tornano alla Philips Arena, dove solitamente riescono ad esprimere tutto il loro potenziale, ma anche in Georgia per Johnson e company arriva una disfatta colossale. I numeri parlano da soli, a partire dai 30 punti di distacco tra i due teams, continuando con la solita doppia doppia di Howard (21 punti, 16 rimbalzi) e chiudendo con gli 8 punti di Johnson, di nuovo sottotono in questa serie. A questo punto gli uomini di Van Gundy vedono il


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secondo sweep consecutivo, e non si lasciano sfuggire l'occasione di arrivare subito in finale di conference. Stavolta, e verrebbe da dire finalmente, Howard non domina, per lo meno offensivamente, e sono Carter e Lewis a prendere in mano la squadra verso un meritatissimo 4-0. I due sono una minaccia costante dall'arco (entrambi chiuderanno con 4/7 da tre punti) e Atlanta, forse troppo concentrata sul pitturato dopo le scoppole precedenti, non riesce a prendere le contromisure. Crawford dalla panchina non riesce a cambiare le sorti di Atlanta, mentre Johnson saluta la postseason con 12.8 punti di media, cifre ben al di sotto delle aspettative da parte dell'unico giocatore capace di far salire di

livello questa squadra. Adesso Orlando si trova nella stessa situazione dei Cavs dello scorso anno, favoriti d'obbligo e reduci da due 4-0, per i tifosi dei Magic sarà meglio fare gli scongiuri, ma difficilmente Boston/Cleveland riuscirà a contenere Howard e company se giocano ancora su questi ritmi.

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Howard: «La chiave è dominare quando si è in vantaggio». Crawford: «Un anno esaltante» GA R A 1 Howard: «E' quello che diciamo dalla serie passata, quando siamo in vantaggio dobbiamo dominare e non dare loro alcuna fiducia». B i b b y : «Una squadra deve vincerne quattro prima di andare avanti, e questa è solo una gara. Ci hanno imbarazzato, ma ormai dobbiamo solo prepararci per giovedì». GA R A 2 V a n G u n d y : «Howard è veramente riuscito a tenergli testa stasera, è stato colpito dure 4-5 volte, ha subito colpi che avrebbero messo a terra chiunque, me compreso». Horford: «Abbiamo capito che dovevamo giocare più duro di quanto fatto finora, penso che siamo migliorati dalla prima gara e abbiamo imparato dai nostri errori. Abbiamo cercato di dare tutto stasera ma non ci siamo riusciti, adesso dobbiamo solo tornare a casa e vincere». GA R A 3 Woodson: «Sono molto deluso. Dopo aver giocato ottimamente per tre quarti ad Orlando, pensavo che

saremmo potuti tornare a casa giocando ad alti livelli per riaprire la serie. Siamo stati troppo piatti». H ow ard: «Sappiamo che per vincere bisogna giocare in difesa, inoltre abbiamo un sacco di tiratori, e cerchiamo di ottenere il massimo da ciò». GA R A 4 Carter: «Abbiamo cercato di assestare il colpo di grazia all'inizio di ogni quarto, sapevamo che sarebbero stati aggressivi, ma abbiamo resistito ai loro attacchi». Crawford: «E' stata una grande stagione, una delle migliori nella storia della franchigia. Il finale è stato brusco, ma spero che tutto il lavoro fatto finora non vada perso». Johnson : «Non ho ancora pensato al mio futuro, ho voluto assicurarmi che i ragazzi mantenessero alta la loro concentrazione. Non abbiamo giocato una buona serie, ma l'annata complessivamente è stata buona. Bisogna dare molto credito a Orlando, difensivamente e offensivamente, ci hanno veramente reso difficile questa serie».


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Orlando Magic

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Rewind. Si torna ancora indietro, ma paradossalmente con un passo in avanti. Una serie già vista, uno scontro già visto una rivalità che inizialmente poteva essere considerata fievolissima, ad oggi, invece, può contare qualche tacchetta in più sullo speciale ‘rivalitometro’. E tutto nasce forse dal ‘Celtics Pride’. Dall’orgoglio della formazione del Massachussets che dopo l’eliminazione della passata stagione in una gara7 che vide dominare in lungo ed in largo il team della Florida, con Turkoglu e company che mandarono a casa una eroica Boston senza Kevin Garnett (ma soprattutto alla seconda gara7 di fila e con condizioni fisiche non certamente delle migliori ndr), s’è legato al dito il nome anche degli Orlando Magic dopo essersi legato al dito, nel 2007 quello dei Cleveland Cavaliers che poi furano finalisti ‘invisibili’ contro gli Spurs. Perché un viaggio nel tempo con un passo in avanti? Ovviamente per il fatto che il tutto lo scorso anno si svolse su di un altro palcoscenico, quello delle semifinali di Conference, quelle che permisero poi ai Magic di accedere alla finale ad Est contro i Cavs e che ora invece vede la franchigia pluri-titolata e quella con una sola vittoria in due finali Nba l’una contro l’altra per l’accesso all’atto finale.

mare il palleggio arresto e tiro di Nelson che potrebbe davvero fare la differenza. Dall’altra parte Nelson deve assolutamente evitare di fare la fine di Mo Williams e non mettere in mostra tutti i limiti difensivi del numero 9 di coach Doc Rivers.

SHOOTING GUARD. VINCE CARTER-RAY ALLEN Bella prova per Vincenity che dovrà di sicuro svolgere un carico di lavoro aerobico supplementare per riuscire a tenere il passo ed il fiato di He Got Game nelle corse furiose ed interminabili sui blocchi. Un accoppiamento che di sicuro darà degli spunti interessantissimi visto che uno è un cecchino al quale l’ex Nets non potrà lasciare nemmeno un secondo, l’altro un giocatore che dovrà di sicuro sfruttare il suo maggiore atletismo per provare a sovrastarlo. Non è cosa dell’altro mondo se magari coach Van Gundy proverà ad evitare un accoppiamento cosi rischioso provando magari a far seguire Allen da Reddick ovvero un altro corridore sui blocchi di buonissima fattura. Cosi come dall’altra parte non potrebbe essere pura follia l’idea di affidare lo stesso Carter ad un Paul Pierce che ha lavorato già bene contro Lebron. SMALL FORWARD. MATT BARNES-PAUL PIERCE Un duello che ha da dire solo dal punto di vista dei Celtics per quanto riguarda l’attacco. Certo le mani di Barnes dalla lunga distanza in questa stagione non sono certo stato niente male con triple importanti sugli scarichi alle quali alterna sfuriate verso l’anello in penetrazione. Ma il ruolo dell’ex Phoenix e Golden State, sarà soprattutto quello di seguire come un segugio il numero 34 in biancoverde. Un lavoro che con ogni probabilità Stan Van Gundy affiderà a mo’ di staffetta anche a Mikael Pietrus che potrebbe aggiungere al nome di James anche quello di Pierce-Stopper.

P LA Y M A K E R : J A M E E R N E L S O N – R A J O N R O N D O . Questo si che è un duello molto più interessante e molto più elettrizzante di quello della passata serie che vedeva impegnati Mo Williams contro il talento di Kentuky. Due attaccanti, due penetratore, due giocatori che fanno del palleggio un arma anche se in maniera differente: crossover per il piccolo grande uomo di Orlando, ‘dribbling’ incessante per trovare l’uomo giusto al momento giusto per l’ormai Fab Four dei Celtics. Due giocatori sostanzialmente simili ma molto diversi nella pratica. Ronda dovrà dimostrare di meritare i tanti voti ricevuti per l’inserimento all’interno del miglior quintetto difensivo riuscendo non solo a rubare palloni sulle linee di POWER FORWARD. RASHARD LEWIS-KEVIN GARNETT passaggio e scattare in contropiede, ma provando anche a fer- L’accoppiamento che potrebbe fungere da ago della bilancia

R.Lewis

M.Barnes

L.Nelson D.Howard

V.Carter


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Boston Celtics

D OMENICO P EZZELLA

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della serie. ‘The Big Ticket’ ha dimostrato di essere in una forma perfetta per arrivare in finale. Fino a questo momento è stato il metronomo dei Celtics in attacco svolgendo con precisione certosina il compito affidatogli da Doc Rivers in attacco a secondo dei lunghi che coach Brown gli metteva di fronte. Insomma l’ex Timberwolves ha dimostrato una maggiore bidimensionalità che potrebbe causare non pochi problemi in difesa, ad un Lewis che non è mai stato un eccellente difensore specialmente vicino a canestro. Attaccarlo per mettere in cascina falli, per KG, sarebbe l’arma ideale per demoralizzarlo e magari togliere dall’altra parte quella che è l’arma principale (quella che per intenderci è mancata in gara1) il tiro dalla lunga distanza che oltre a punire sugli scarichi ha un altro ruolo importantissimo, spostare da sotto le plance un giocatore importante come Kevin Garnett.

Rasheed Wallace. L’ex Pistons deve mettere in scena la prima vera serie, intera, da protagonista, visto che per l’accesso in finale persino un giocatore da sfide importanti come Big Shot Rob al secolo Robert Horry in passato si è scomodato per i Lakers o per gli Spurs. Dalle sue mani e dalla sua testa passerà gran parte dell’equilibrio della serie, soprattutto per evitare un aspetto tattico precedentemente messo in evidenza: quello di portare Kevin Garnett al di fuori dell’area colorata per marcare Lewis. Toccherà spesso a lui seguire sul perimetro l’ex Sonics permettendo, quindi, a KG di presidiare l’area e magari provare anche a fermare Howard (lui che quando era a Minnesota ha anche marcato Shaq ndr). Dall’altra parte, invece, la lista potrebbe essere molto più lunga partendo da ‘Air France’ Pietrus, passando per JJ Reddick o dalle mani sapienti di J-Will e dai muscoli di Gortat senza andare troppo in fondo alle rotazioni. Di sicuro molto più lunga la panchina CENTER. DWIGHT HOWARD-KENDRICK PERKINS dei Magic, ma contro Cleveland i Celtics non hanno avuto Ora o mai più. O Dwight Howard dimostra di poter salire di troppo bisogno dei comprimari. livello scacciando definitivamente od anche almeno parzialmente i fantasmi che lo assillano o come la scorsa stagione lo COACH. STAN VAN GUNDY-DOC RIVERS perseguiteranno fino alla fine. Quale il male peggiore? I falli. Due allenatori che hanno motti sostanzialmente differenti, ma E quale rimedio migliore che approfittare di un duello nel che hanno un denominatore comune importante: evitare tropduello con un giocatore che generalmente con i fischietti Nba po gli individualismi. Durante la serie contro i Cavs la richieha lo stesso tipo di problema, anzi forse un tantino di più. sta più ossessiva durante i time out da parte di Rivers è semProvare a sfruttare a proprio favore questo tipo di situazione pre stata la stessa: evitiamo di attaccare e vincere da soli, ma potrebbe permettergli di prendere quella fiducia necessaria facciamolo di squadra. Un ‘mantra’ che ha messo in gabbia per salire di tono e portare Orlando ancora in finale. Per i Lebron e per adesso anche i Magic, un ‘mantra’ che è la forza Celtics, invece, potrebbe essere l’unico vero punto debole della di Boston ormai da sempre. serie, dal momento che dopo Perkins i biancoverdi non pullu- Da un allenatore di sistema ad un altro. Da un allenatori di lano di nomi da potersi permettere di tenere lo strapotere fisi- spazi, ad uno che di ‘spacing’ su tutti i ventotto metri di campo ci vive e c’ha costruito le stagioni vincenti ad Orlando. co del numero 12. Il tiro pesante ed il pick and roll per aprire spazi e area coloPANCHINA. rata, sono il credo dell’ex timoniere degli Heat. Attacco contro Pochi i nomi che potrebbero davvero fare la differenza. Primo difesa. Una sfida che per concetti e tecnica è la più nitida fra tutti per quanto riguarda i Celtics quello, ovviamente di dimostrazione del concetto appena esplicato.

P.Pierce

K.Garnett

R.Rondo

R.Allen

K.Perkins


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Los Angeles Lakers

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Si rinnova la rivalità tra i Los Angeles Lakers e i Phoenix Suns che da lunedì notte cominceranno a battagliare per conquistare l’accesso alle Finali. E, dalla sponda Lakers, per vendicare la rimonta subita nel 2006, quando Nash e compagni si trovarono sotto 3-1 e in abbondante svantaggio nella decisiva gara 5, prima di riacciuffare con una tripla di Tim Thomas Los Angeles, batterla nel supplementare e da lì involarsi verso la conquista del passaggio del turno. Erano dei Lakers molto diversi, molto più Bryant dipendenti di ora, contro dei Suns con lo stile di gioco odierno ma interpreti differenti. Sarà una serie estremamente interessante proprio per lo stile di gioco agli antipodi proposto dalle due squadre. Da un lato i Lakers, con il celeberrimo attacco Triangolo giocato a metà campo, con le soluzioni scelte in maniera razionale e il talento sconfinato di Kobe Bryant per risolvere le situazioni più intricate, dall’altro i Suns ai 200 all’ora, all’insegna del tiro da 3 punti e delle penetrazioni ubriacanti di Steve Nash. Ci sono tutti gli ingredienti per farsi una sana abbuffata di basket spettacolare, che non lascerà delusi ne i puristi del gioco né gli amanti dell’attacco champagne. PLAYMAKER VS DEREK FISHER V/S STEVE NASH Lo spot di playmaker è stato, e continua a rimanere, uno dei problemi dei Lakers. Non tanto in attacco, dove Fisher, d’esperienza, il suo lo fa, quanto in difesa, con gli anni che cominciano a pesare sulle gambe del veterano di tante battaglie combattute al fianco di Kobe e Phil Jackson. Impietoso è stato il confronto contro Russell Westbrook dei Thunder, mentre nella serie coi Jazz i Lakers hanno dimostrato di poter ovviare al problema, se è vero che è arrivato lo sweep ai danni della squadra di Jerry Sloan. Nash, segreto di pulcinella, è l’alfa e l’omega del gioco di Phoenix. Dalle sue mani nasce tutto, in positivo, spesso, e in negativo, meno di frequente. Lo Angeles dovrà essere brava a rompere il ritmo al canadese che altrimenti potrebbe creare seri grattacapi a Jackson e al suo staff. Come può testimoniare Gregg Popovich, ultima vittima di un giocatore rinato cestisticamente per la seconda, dopo che negli anni scorsi sembrava destinato al viale del tramonto. Ora, invece, i suoi passaggi hanno ispirato

Pau Gasol

R.Artest

D.Fisher A.Bynum

K.Bryant

l’ascesa di giocatori impensabili come Channing Frye e Jared Dudley, esaltato le doti di Jason Richardson, mentre l’intesa con Amare Stoudemire non si è mai interrotta. Servirà un importante lavoro di squadra dei giallo viola per coprire le sofferenze di Fisher. GUARDIA KOBE BRYANT V/S JASON RICHARDSON Tutti si affrettano a sventolare il fatto che Bryant giochi con acciacchi in più o meno ogni zona del corpo, ma il Mamba nel frattempo continua a segnare tutte le volte che i Lakers ne abbisognano, e tutto lascia presagire che anche contro i Suns le cose non cambieranno, memore anche del famoso canestro vincente in gara 4 della suddetta serie del 2006. Opposto a lui c’è un Jason Richardson esploso nuovamente ai livelli della cavalcata 2007 dei Warriors che estromisero i Dallas Mavs numero 1 del tabellone. L’ex Michigan State sta viaggiando a 22 punti, 6 rimbalzi e un fantascientifico 52% da 3 punti in questa post season, ed è una delle principali ragioni dell’ascesa di Phoenix nei playoff. Se Phoenix può condurre il tanto amato gioco in transizione Richardson è devastante, e trovare una soluzione difensiva diventa arduo, anche perché Nash è geniale nel servirlo. Più probabile che su di lui in difesa vedremo Artest, con Bryant a “riposarsi” sul più stagionato Grant Hill, anche se qualche passaggio del 24 sull’atletico esterno di coach Gentry non è assolutamente da escludere. Anche qui servirà un lavoro di squadra ben calibrato. Da una parte per fermare il gioco in transizione dei Suns e dunque limitare Richardson a situazioni di attacco a metà campo, dove perde un po’ della sua efficacia. Dall’altra vedremo come i Suns cercheranno di contenere il solito incontenibile Bryant. ALA PICCOLA RON ARTEST V/S GRANT HILL Giocatori cruciali per le loro squadre perchè, in modi diversi, portano contribute che le squadre o non avevano in passato o non si aspettavano di avere in questa stagione. Nel primo caso Artest ha dato ai Lakers un giocatore di impatto fisico che non avevano mai avuto in precedenza. Difensore arcigno può anche fare bene in attacco, anche se, vista la presenza di tanti realizza-


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Phoenix Suns

N ICOLÒ F IUMI

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Power Ranking

tori, in questo campionato l’aspetto offensivo del suo gioco è passato un po’ in secondo piano, anche per le sue difficoltà e comprendere al meglio la Triple Post Offense. Grant Hill, invece, dimostra tutto tranne che le 38 primavere segnalate dalla sua carte di identità. La sua intelligenza cestistica non è mai stata in dubbio, quello che sorprende è la freschezza che dimostra di avere, a maggior ragione così in là nella stagione. E’ il giocatore di raccordo della squadra, quello che deve fare tante piccole cose, senza essere mai troppo vistoso, ma risultando spesso decisivo ai fini del risultato. Importante sarà valutare quale sarà il suo impatto difensivo sulla serie. Impatto, invece, certo per Artest, che, al contrario, sarà da valutare in attacco. Se anche lui riuscirà a portare un contributo costante nella metà campo offensiva per i Lakers sarà tutto più semplice.

per i Suns è Channing Frye che sale dalla panchina, ma in ogni modo Lopez, rientrante da un infortunio, avrà un ruolo importante. Dovrà portare presenza difensiva a centro area per contrastare le lunghe leve di Bynum, e in attacco cercare di racimolare il possibile muovendosi bene per ricevere i palloni precisi di Nash. Bynum, dal canto suo, arriva alla serie in dubbio per dei problemi a un ginocchio che non lo lascia in pace. Se potrà stare in campo con continuità sarà senza dubbio un fattore importante, che Phoenix potrà cercare di limitare soprattutto alzando il ritmo della partita, perché a difesa schierata rischia di diventare semi immarcabile. Il giovane centro sta imparando sempre meglio a muoversi nei pressi del canestro per ricevere gli scarichi dei compagni e se riceve troppo vicino diventa difficile da fermare, senza dimenticare che i movimenti dal post cominciano ad essere sempre più solidi. Alvin Gentry dovrà trasformare ALA GRANDE PAU GASOL V/S AMARE STOUDEMIRE quella che per i suoi è una debolezza, ossia i centimetri e i chili Senza dubbio il confronto diretto più intriganti della serie. Da sotto canestro, in un vantaggio, spingendo la palla, se possibile, una parte la classe e la pulizia tecnica dello spagnolo, dall’altra ancora di più che nelle abitudini. l’esuberanza atletica e la faccia tosta del compagno di pick’n’roll di Steve Nash. Da come i Lakers sapranno difendere questa PANCHINA situazione passa molto del futuro della serie. Togliere quest’op- La panchina dei Suns è una delle più pericolose e al contempo zione all’attacco dei Suns vuole dire diminuire l’efficienza dell’at- inattese della Lega. Basta pensare che due uomini fondamentali tacco avversario di un buon 30/40%, visto che è un gioco che sono Frye e Dudley, che a inizio stagione si pensava potessero permette ai Suns sia di andare dentro o con Stoudemire o con avere al massimo ruoli marginali. Invece, il primo ha affinato un Nash, ma anche di trovare sulla linea dei 3 punti i tiratori a tiro da 3 punti mortifero che permette alla squadra di aprire il seconda delle rotazioni della difesa. Ugualmente Phoenix dovrà campo, considerando che è un centro, mentre Dudley a suon di trovare un modo di limitare Gasol in post basso, dove è una fuci- difesa e canestri pesanti si è guadagnato la fiducia di compagni e na quasi inesauribile di punti per i Lakers, che spesso, nelle allenatore. Non vanno certo dimenticati Leandro Barbosa e situazioni di emergenza si affidano alle sue mani dolci per trova- Goran Dragic, eroe di gara 3 contro San Antonio. Le riserve dei re i due punti. Qui Stoudemire dovrà dare il meglio di sé nelle Lakers, invece, sono decisamente meno decifrabili, a partire dal situazioni in cui verrà lasciato in solo contro il catalano, oltre a sesto uomo Lamar Odom, giocatore una sera da tripla doppia e non dimenticarsi del tiro dalla media del numero 16, soluzioni un giorno dopo ectoplasmatico. Continundo con Farmar, di efficacia non disprezzabile. Shannon Brown, Sasha Vujacic, Luke Walton, giocatori che passano dall’anonimato buone prestazioni nell’arco di poco tempo. CENTRO ANDREW BYNUM V/S ROBIN LOPEZ Probabile che l’apporto delle panchine aumenti in relazione a Difficile definirlo un vero e proprio scontro diretto, visto che il dove si giocherà e partanto una gara fuori casa con una produgiocatore che occupa più minuti in campo nella posizione di “5” zione importante della second unit potrebbe essere cruciale.

G.Hill

C.Frye

S.Nash

J.Richardson

A.Stoudemire


STAR S ‘N’ STR I PES

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AROUND THE USA

S TEFANO TEFANO L IVI IVI DI

L os Ange le s, è giunta la tu a or a?

La stagione che prenderà il via a settembre sarà la sedicesima senza una franchigia con sede a Los Angeles, da quando, nel 1994, i Rams di Georgia Frontiere lasciarono Anheim per St.Louis dopo essersi chiamati per 48 anni L.A. Rams, e da quando i Raiders si trasferirono dalla città degli angeli, per sbarcare nella baia, ad Oakland. Era la vigilia di Natale del 1994 e i Los Angeles Raiders persero nelle mura amiche del L.A. Coloseum contro i Chiefs, mentre poco lontano, ad Anaheim, i Rams perdevano contro i Redskins chiudendo la stagione con un mediocre bilancio di 4-12. Quello fu l'ultimo giorno in cui furono giocate partite NFL di regular season. Sedici anni senza football sono decisamente troppi per la seconda città più grande degli Stati Uniti, e durante tutto questo tempo non c'è stato

anno in cui un magnate locale non abbia presentato un piano per portare una nuova franchigia a Los Angeles. La squadra giocherebbe in un rinnovato Coliseum oppure al Rose Bowl, o magari in un nuovo stadio che potrebbe sorgere a Carson o ad Anaheim oppure nella stessa Los Angeles, accanto allo Staples Center. Addirittura l'ex proprietario dei Dodgers Peter O'Malley ha offerto un terreno nei pressi del Dodger Stadium. Si è mosso anche l'agente NFL Leigh Steinberg per portare una franchigia ad Orange County. Nel 1996 i Seahawks erano talmente tanto vicini a trasferirsi nel sud della California che avevano già spedito i caschi e le protezioni ad Anaheim, a fermare tutto fu il co-fondatore di Microsoft Paul Allen che avrebbe acquistato la società in seguito alla costruzione di un nuovo sta-


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dio. Lo stadio, quello che oggi è il Qwest Field, fu costruito per lo più a spese dei contribuenti, e Allen acquistò così i Seahawks per 200 milioni di dollari mantenendoli nello stato di Washington. Verso la fine degli anni '90, l'NFL annunciò l'aumento del numero delle squadre inserendo una nuova franchigia, e Los Angeles sembrava la destinazione più logica. Si attivò anche il presidente della Majestic Realty, una delle più grandi e più vecchie società di sviluppo immobiliare degli USA, Edward Roski, che per riportare il football nella città del cinema spese 6 milioni di dollari per preparare l'offerta e arruolò il premio Oscar Charlton Heston per presentare la candidatura alla lega. Nonostante ciò, l'NFL concesse la franchigia a Houston che, a differenza di Los Angeles, aveva approvato finanziamenti pubblici per la costruzione di uno stadio. Nei quindici anni successivi nuomerose squadre hanno minacciato di lasciare la propria città per trasferirsi in California. Nel 2006, Paul Tagliabue, nel suo ultimo anno da commissioner NFL, giurò che L.A. avrebbe avuto di nuovo la sua franchigia per la fine della decade, ma seppur ambiziosi, questi piani non diedero i frutti sperati. Allora perchè Los Angeles è stata per così tanto tempo senza un team? Dal secondo dopoguerra ha ospitato più di una dozzina di squadre, iniziando dai Los Angeles Dons, per non parlare poi dei Trojans USC e degli UCLA Bruins, le cui partite nella Pac-10 Conference attirano folle che nulla hanno da invidiare agli incontri NFL. Alcuni sostengono che, semplicemente, L.A. non vuole supportare il football, dimenticando però che mezzo secolo fa oltre cento mila persone si presentavano allo scontro tra Rams e 49ers. Anche se non manca chi sostiene che ci sia una cospirazione da parte dei proprietari NFL, la ragione più probabile sembra essere la prolungata assenza di football nella città che oltre ad aver causato la formazione di un'intera generazione cresciuta senza la squadra di casa è anche causa della mancanza di una moderna sede. Per anni la speranza della città è stata quella di migliorare il Coliseum, costruito nei lontani anni '20. Ma col passare degli anni lo stadio è diventato sempre più malconcio. L'ex proprietario di Browns e Ravens, Art Modell, parlando della possibilità di riportare il Coliseum agli standard NFL, disse che far indossare un nuovo abito da sera ad una vecchia prostituta non è il modo migliore per andare a ballare. Tutto ciò crea la classica situazione dell'uovo e la gallina. L' NFL non ha intenzione di concedere la rilocazione di una franchigia a L.A. fin quando non ci sarà uno stadio adatto dove giocare. Dall'altra parte non c'è nessuno disposto a spendere centinaia di milioni di dollari per far costruire uno stadio senza la sicurezza di avere una squadra che ci giochi dentro (come accaduto a Kansas City, dove la popolazione locale ha stanziato 220 milioni per la costruzione di un palazzetto per le partite NBA e NHL da quasi 20mila posti. Ma non avendo ancora alcuna squadra, lo Sprint Center è attualmente usato solo per seminari o concerti

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rock). Attraverso il referendum i californiani hanno fatto capire di non voler usare soldi pubblici per costruire o rinnovare stadi. Difficoltà si trovano anche per permettere l'uso di "soldi esterni", in quanto è richiesta la maggioranza dei due terzi dei votanti. Non è una coincidenza se gli stadi più vecchi in NFL sono quelli di San Diego, Oakland e San Francisco. Recentemente è intervenuto il governatore della California Arnold Schwarzenegger che ha autorizzato la costruzione di uno stadio da 75000 posti a 15 miglia a Est di Los Angeles incaricando proprio la Majestic Realty di Ed Roski e annullando l'azione civile intrapresa dagli abitanti della zona, preoccupati dell'impatto ambientale dell'impianto. Tuttavia Roski assicura di mantenere un occhio di riguardo sia per la qualità dell'aria che per il traffico; inoltre lo stadio sarà costruito sul fianco di una collina in modo da non dover utilizzare enormi quantità di acciaio. A questo punto sorgerebbe un altro problema: quale franchigia si trasferirebbe a Los Angeles? Tra le squadre che stanno cercando un nuovo stadio o che hanno problemi con l'affluenza di tifosi, l'impresa di Roski ha identificato alcune candidate che includono Jaguars, Chargers, Vikings, Bills e due vecchie conoscenze come Raiders e Rams. Le città che più probabilmente dovrà salutare la proprie franchigie sembra essere una tra Jacksonville e Buffalo. Entrambe giocano in città con un mercato poco sviluppato che limita il loro potenziale, ed entrambe hanno poche speranze di costruire impianti più grandi nelle loro zone. I Jaguars nell'ultima stagione sono riusciti soltanto una volta su otto partite casalinghe a riempire lo Stadio Municipale di Jacksonville, comportando l'oscuramento delle altre sette partite sulle TV locali. I Bills, invece, sono stati costretti a giocare qualche partita interna a Toronto, cercando di ampliare il loro mercato. Wayne Weaver e Ralph Wilson, rispettivamente i proprietari di Jaguars e Bills, hanno respinto con fermezza ogni proposta di vendere o trasferire le loro squadre. Per quanto riguarda le altre franchigie considerate, la Majestic Realty ha affermato di non voler intraprendere un approccio con loro finchè non saranno loro stesse a voler cercare una nuova sistemazione, ritenendo poco corretto interferire con i loro sforzi di restare nei loro mercati. Il piano di Roski è quello di trovare proprietari disponibili a vendere la propria franchigia ad un consorzio di investitori da egli guidato, piuttosto che acquistare una quota di minoranza di una squadra che si trasferirebbe a Los Angeles con l'attuale proprietario al timone. Comunque qualcosa si sta muovendo nella città degli angeli. Non si tratta di NFL ma della resurrezione della vecchia United States Football League, la vecchia lega operativa dal 1983 al 1985. A Los Angeles ci si sta impegnando a creare una nuova franchigia per cercare di rilanciare la New USFL in attesa dell’arrivo di una squadra NFL. Nel frattempo gli appassionati si dovranno accontentare del football di “serie b”.


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Y Yo ou u c ca an n’’tt c c m me e A LESSANDRO

LA RUBRICA

¡ Que viva España ! Dopo aver conquistato l’America (vabbè si fa per dire) ed aver esaltato il palato fine dei cestofili cinesi (ok stiamo esagerando anche qui), il novello eroe dei due mondi, meglio noto con il nome di Stephon Marbury, si appresta a ‘matare’ anche il pubblico spagnolo. Voci incontrollate provenienti dalla penisola iberica, danno per quasi fatto lo sbarco nella ACB della ‘Freccia di Coney Island’.

ideato da:

DELLI

DI

PAOLI

La trattativa potrebbe ben presto andare in porto. Il club interessato è quello del Xacobeo Blu di Vigo e, ad ulteriore conferma del rumor di mercato, sono giunte le parole del presidente del club spagnolo, José Angel Docobo che, ai microfono di Radio Galena ha dichiarato: “Non possiamo dire che abbiamo concluso, c’è una forte concorrenza ma non siamo esclusi”. Come ce lo vedete ‘Starbury’ nella celebre Plaza de Toros in piena Corrida?

Stars ‘N’ Stripes

scritto da:

Domenico Pezzella

Alessandro delli Paoli

Bennedetto Giardina Raffaele Valentino

Nicolò Fiumi

Domenico Landolfo

Stefano Panza

Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco

info, contatti e collaborazioni:

Stefano Livi

domenicopezzella@hotmail.it

E D V N H W W D Q G R L W Q H ZV L PPD J L Q L F X U L R V L W j W X W W R T X H O O R F K H Q R Q W L D V S H W W L G D O PR Q G R G H O O D S D O O D D V S L F F K L


S TAR S ‘N’ STR I PES

F I G H T CL U B J AM ES Quanti di voi avranno giocato al mitico ‘Street Fighter’ prima, e ‘Mortal Kombat’ poi? Qualche simpatico devoto del vecchio videogioco ha immaginato il ‘Prescelto’ del basket nei panni di ‘Raiden’, piuttosto che ‘Reptile’, a sfidare il massimo esponente del ‘Fight Club’, l’attore Brad Pitt. I due, in un filmato che ricostruisce il video-

WHO’S GONNE RIDE THE WILD HO-R-S-E? Gli U2 ci perdonino il rapimento oltraggioso di canzone e gli dei del Tennis perdonino Dwayne Wade per aver preso in mano una racchetta. Eh si perché ‘Flash’ ha sfidato, o è stato il contrario, questo è ancora da accertare, il tennista Andy Roddick sul duplice terreno di gioco. Prima qualche scambio di dritto e rovescio

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game, facilmente reperibile in rete, si sfidano a colpi di ‘ciak’ e di palle da basket. Il buon Pitt ci prova, sfoderando un colpo ‘di famiglia’ con la pericolosa’ Jolie e i bimbi adottati scagliati verso l’avversario, ma King James reagisce da par suo e sfodera una ‘mortality’ slam dunk che chiude i conti. Due a zero e tutti a casa. Prima regola del fight club?

in cui il giocatore degli Heat ha mostrato il peggio di se e, poi, la sfida al cosiddetto H-O-R-S-E. In pratica un giocatore si produce in uno specifico tiro a canestro e l’altro deve ripetere l’esatto movimento, fino al completamento della parola ‘Horse’. A-Rod se l’è cavata piuttosto bene, Wade si è divertito parecchio ed il simpatico evento è stato apprezzato un po’ da tutti. D’altronde si sa a ‘caval’ donato non si guarda in bocca!



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