il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano TUT TO SUL T ERZO TUR NO D EI PLAYOFF NBA
IL MON DO D I LEBR ON
L a ru b r i c a c h e s e gu i ra ’ T he C ho s en O ne f ino al l a s c el t a d ef i n i t i v a
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SPURS: ‘RIFONDARE’ CON CAUTELA
Dall’enigma della presenza per la prossima stagione di Tim Duncan fino alle scelte future della società. L’unico punto fermo è Manu Ginobili
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FOC US ON THE COURT EUROPE STYLE, L E ‘Z O N E ’ D E I S UN S
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Stars ‘N’ Stripes ideato da: scritto da:
Domenico Pezzella
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LOS ANGELE S LAKERS VS PH O ENI X SU NS
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Alessandro delli Paoli
Bennedetto Giardina
Raffaele Valentino Nicolò Fiumi
Domenico Landolfo
Stefano Panza
Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco
info, contatti e collaborazioni:
L’ A NA LI SI - DA LL A RUS S I A C ON FUR OR E: C AR LO S DEL FINO
Stefano Livi
domenicopezzella@hotmail.it
FINALI NBA LOS A NGELES LAK ERS VS BOSTON CELTICS (PREVIEW )
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F INALI NBA LOS A NGELES LAK ERS VS BOSTON CELTICS (TROU GH TH E YEARS)
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AROUND THE NC AA ROAD TO DR AFT 201 0
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FOCUS
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Fonte foto: http://upload.wikimedia.org
N ICOLÒ F IUMI
Ogni Lega che si rispetta ha i suoi clichè. La squadra storicamente perdente, la squadra a cui non ne va giusta una, quella vincente, quella che in qualche modo riesce sempre a spuntarla e quella che, anche nelle situazioni più difficili, riesce a trovare lati positivi che altri non riuscirebbero a scorgere. Prendiamo ad esempio due squadre che, geograficamente, distano pochi chilometri, per gli standard statunitensi, come i San Antonio Spurs e i Dallas Mavericks. All’ombra dell’Alamo tutto, ma proprio tutto, comincia nel 1996. Anno in cui David Robinson si infortuna, la squadra è allo sbando e perde 62 partite. Al draft di giugno arriva la prima scelta e con lei Tim Duncan. Risultato: anelli messi al dito nel 1999, 2003, 2005, 2007. A Dallas, invece, l’uomo della svolta arriva nel draft del 1998. Dirk Nowitzki esordisce con la canotta dei Mavs nella stagione breve 1998/1999. Ci mette un po’ di più ad affermarsi, ma alla fine diventa l’All Star che è oggi. Anelli al dito? Nessuno. Anzi, peggio. Uno sfiorato, o meglio buttato via dopo averlo praticamente già infilato nel 2006, quando, avanti 2-0 contro i Miami e con un cospicuo vantaggio nel terzo quarto di gara 3, i texano videro la serie svoltare improvvisamente, presa in mano da un Dwyane Wade jordaniano che quasi da solo portava in Florida il Larry O’Brien Trophy. Conseguenze? Una stagione seguente da 66 vittorie culminata con l’eliminazione al primo turno dei playoff per mano dei Warriors, ottava testa di serie. In mezzo svariate stagioni da più di 50 vittorie e precoci fallimenti in post season. L’ultimo quest’anno. Secondo posto finale nella Western Conference e perentoria eliminazione per 4-2 contro la settima testa di serie, proprio i San Antonio Spurs. Perché questo parallelismo? Per dimostrare come, in certe situazioni, una buona organizzazione e il cosiddetto “saper fare pallacanestro” possono salvare situazioni che sembrano compromesse,
gli Spurs
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mentre in altri contesti squadre di maggiore talento possono finire vittime della situazione opposta. Ed è quello che si è visto al primo turno di playoff. Una squadra, Dallas, che arrivava lanciata, con un ottima posizione nel tabellone, con nuovi giocatori come Butler e Haywood che avevano avuto impatto in stagione regolare, contro una, San Antonio, reduce da un anno difficile, che dava a tutti l’impressione di essere il canto del cigno di una franchigia che negli ultimi dieci anni aveva costruito una vera e propria dinastia (cosa, peraltro, pronosticata anche su queste pagine), con infortuni ai giocatori più importanti a minarne il cammino. Ma una volta alzata la palla a due i pronostici si sono presto invertiti. Haywood e Butler, quelli che dovevano essere i plus per i Mavericks, si sono sciolti come neve al sole, Ginobili e Parker, gli infortunati eccellenti degli Spurs, hanno dato lo sprint decisivo agli Spurs. E così a San Antonio, nonostante la seguente eliminazione contro Phoenix, si trovano ad analizzare una stagione che, alla fine dei conti, è andata meglio di quanto ci si potesse aspettare. I motivi sono presto spiegati. Come avevamo già detto nell’articolo di qualche numero fa sugli Speroni, c’erano grandi dubbi sulla tenuta atletica di un gruppo abbastanza vecchio. Arrivati ai playoff, invece, i primi a rispondere presente sono stati un clamoroso Manu Ginobili, perseguitato tutto l’anno dai problemi fisici, e Tim Duncan, dominante contro Dallas e a tratti contro Phoenix, pur se in certe fasi in debito d’ossigeno. L’apporto dei giovani era un ulteriore punto di domanda. E’ finita che la serie contro Dallas, per una buona parte, è stata vinta dal pazzesco George Hill di gara 4, che con le sue prestazioni potrebbe addirittura far finire sul mercato Tony Parker, mentre DeJuan Blair, sorpresa in stagione regolare, ha confermato i progressi anche in post season. Alla fine dei conti quindi, la dirigenza si ritrova una squadra con il leader riconosciuto, Duncan, in fase calante a livello fisico, che può contare più che mai su Ginobili come spalla, con l’argentino ulteriormente responsabilizzato dal rinnovo triennale a cifre molto importanti, e dunque continuerà a potersi gestire per avere più energia da spendere nei momenti caldi. A
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fianco a loro, il 2009/2010, ha regalato pure due giovani su cui poter costruire basi solide per il futuro come Hill e Blair. Il primo è il play degli anni a venire, il secondo destinato diventare uno dei lunghi di maggiore impatto venendo dalla panchina. Quadretto che continuerà ad essere incorniciato da uno staff tecnico di primissimo livello che consentirà alla squadra di giocare all’interno di uno dei sistemi più efficaci delle Lega e che ancora una volta ha permesso alla squadra di andare oltre a quelli che parevano essere dei limiti strutturali. E non inganni troppo lo 0-4 con Phoenix. I Suns si sono dimostrati sì più forti e più pronti, ma San Antonio ha sempre perso di poco, giocandosela, e venendo spesso punita degli episodi. E non và certo dimenticato il surreale Goran Dragic di gara 3, così la prova eroica di Steve Nash in gara 4. Chiaro che non ci sono solo luci in tutto questo. I problemi esistono e nessuno vuole nasconderli, com’è giusto che sia. A partire da Tony Parker, su cui lo staff comincia ad avere qualche perplessità, ingigantita dall’affidabilità che ha dimostrato George Hill nei momenti caldi. Parker continua ad essere un top player della Lega, ma nel suo ruolo non è tra i migliori. E’ un play atipico,con caratteristiche diverse da quelle dei vari Paul, Williams e Nash. E’ un ottimo realizzatore, nel sistema di Popovich ha imparato a far girare bene la squadra, ma se bisogna sacrificare qualcuno per trovare nuove forze per programmare il futuro al momento lui sembra il primo indiziato. Il rapporto con Popovich ha sempre vissuto di alti e bassi. Bassi nei primi momenti della carriera, alti tra il 2005 e il 2007, e ora nuovamente i rapporti sembrano essersi fatti tesi, dopo anche la serie di partite che il francese ha cominciato da sesto uomo nei playoff, digerendo il giusto la cosa. Le voci su una sua possibile partenza in direzione New York Knicks sono ogni giorno più insistenti, nonostante le solite smentite. Altro punto all’ordine del giorno è il da farsi con Richard Jefferson, senza alcun dubbio la delusione più grande di questa stagione. Arrivato per essere l’elemento in più, capace di portare sia tiro da fuori che atletismo, l’ex Nets ha deluso sia in stagione regolare che, in maniera ancora più
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netta, nei playoff, dimostrando di non essere integrato nel gioco di Popovich, andato giù pesante nei suoi confronti dopo gara 1 contro Dallas. L’involuzione accusata ha dell’incredibile e la mancanza di fiducia in certi momenti è stata lampante. San Antonio non può permettersi un giocatore del genere, che dovrebbe essere un atleta in grado di fare la differenza e invece si ritrova a commettere errori inspiegabili. Naturale che anche il suo nome venga speso in sede di discorsi di mercato. Mercato su cui San Antonio dovrà inevitabilmente muoversi. Appare chiaro, infatti, che il momento della ricostruzione, pur senza passare da annate di vacche magrissime, sia arrivato, e ritardarlo troppo potrebbe costare parecchio alla franchigia Texana. Se la serie con Dallas ha messo in luce la bontà del gioco organizzato degli Spurs, quella contro i Suns ha mostrato maggiormente quelle che sono le lacune. Dalle difficoltà di Tim Duncan a giocare ogni due giorni, a una rotazione lunghi piuttosto povera, passando per un pacchetto esterni che, stanti le difficoltà di Jefferson, ha mostrato il fianco alla pericolosità e alla freschezza degli uomini di Alvin Gentry. Serve almeno un uomo per reparto, possibilmente con gambe fresche da mettere al servizio, e non a caso la dirigenza sembra molta attiva nel cercare di muoversi verso le primissime posizioni del draft, dove sembra che uno dei candidati alla potenziale chiamata sia il lungo da Georgia Tech, Derrick Favors, mentre si rincorrono le voci che vorrebbero finalmente pronto allo sbarco negli States il centro brasiliano del Caja Laboral di Vitoria, Tiago Splitter, scelto da San Antonio qualche anno addietro, ma sempre rimasto in Europa a maturare esperienza. Se Blair, infatti, appare un uomo di valore anche per gli anni a venire, Duncan e McDyess devono inevitabilmente fare i conti con la carta d’identità. Per entrambi il problema comincia ad essere quello delle partite ravvicinate, perché la classe e il mestiere sono fuori discussione e quando possono giocare con un po’ di benzina nelle gambe sono ancora giocatori che fanno la differenza, con il dovuto distinguo da fare tra una superstar come Duncan e un rincalzo di lusso come Dyess. Proprio in questi termini andranno fatti ragionamenti importanti. Si è scelto di dare fiducia a Ginobili, investendo su di lui e sulle sue malandate caviglie molti dollari. Se uno guarda quello che l’argentino ha messo in campo negli ultimi due mesi di stagione non viene un singolo dubbio sul fatto che sia stata la mossa corretta, ma resta comunque un rischio, visti problemi fisici che hanno contraddistinto le ultime stagioni del numero 20. La fiducia a Duncan difficilmente verrà negata. Lui è il simbolo della squadra, l’uomo spogliatoio, quello che la momento del rinnovo di contratto ha preferito prendere un po’ di soldi in meno per dare alla società più mobilità sul mercato. Ma è anche innegabile come il campo abbia mostrato come riesca a rendere a livello massimo per periodi sempre più brevi nel corso di una singola partita. E non a caso in quei momenti gli Spurs assomigliano molto a quelli dominanti del 2005 e 2007. E’ un processo certo non semplice da gestire, quando si ha una squadra che, facendo leva su un nucleo base, per anni è andata avanti quasi in automatico e ora deve, gioco forza, cambiare qualcosa nel’assetto base. Sarà fondamentale effettuare le scelte giuste, ponderare bene pro e contro e soprattutto trovare giocatori adatti all’allenatore che è Popovich e quindi non solo buoni giocatori di basket, e Richard Jefferson ne è l’esempio lampante. San Antonio ha fatto scuola negli ultimi 15 anni nel fare le per bene, ora è il momento di mostrare ancora una volta tutte quelle capacità.
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L’ANALISI - 2
Dalla ‘Russia con furore’
Dalla Russia con Amore. Dopo un anno passato nelle file del Khimki di Mosca, ex team tra gli altri di GianMarco Pozzecco, Carlos Delfino from Santa Fe, Argentina, è tornato a giocare nella lega più bella e difficile del mondo, ritagliandosi da subito uno spazio da protagonista. Ripercorriamo però brevemente la carriera dell’argentino. Successore in maglia Viola Reggio Calabria di Manu Ginobili, passato alle V Nere di Bologna, Delfino inizia a mostrare lampi di talento chiudendo le 2 stagioni in Calabria con 8.8 e 13.5 punti di media che gli valgono la chiamata da parte della Fortitudo Bologna. Due grandi annate per Delfino e
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Carlos Delfino
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la squadra, che conquistano in tutto 3 finali: 2 di campionato, perdendole contro Treviso e Siena e una finale di Eurolega, sempre persa, contro il Maccabi di Anthony Parker (che sarà più tardi suo compagno ai Raptors). Nonostante le sconfitte, Delfino colleziona elogi su elogi, aumentando il suo livello di pallacanestro a seconda delle occasioni, e le ottime prestazioni fornite in Europa gli valgono la 25a chiamata al Draft del 2004 da parte di Joe Dumars, direttore sportivo dei Detroit Pistons, laureatisi campioni NBA proprio qualche settimana prima sconfiggendo i Lakers per 4-1. Ma il coach dei Pistons Larry Brown non stravede per lui e lo tiene in panchina spesso. Solo 30 gare giocate il primo anno per via di un problema al ginocchio e anche per via del fatto che Coach Brown nel suo ruolo preferiva giustamente campioni come Hamilton o Prince. Il coach lo esclude addirittura dal roster dei Playoff , che porteranno poi i Pistons nuovamente in finale , perdendo contro gli Spurs stavolta. Andato via Brown ci si aspetta che Delfino giochi di più sotto coach Saunders, ma il trend rimane invariato per le successive 2 stagioni. Le deludenti stagioni in Michigan dove Delfino si deve accontentare delle briciole lasciate dai titolari (3.3, 3.6 e 5.8 i punti di media in tre anni) si chiudono quando nell’estate del 2007 viene acquistato dai Toronto Raptors in cambio di due seconde scelte nei successivi Draft. Qui Carlos si esprime al meglio, partendo dalla panchina e portando un mix di energia e aggressività che lo rendono parte integrante del sistema. I numeri parlano di 9 punti, il suo massimo in NBA all’epoca e 4.4 rimbalzi in regular season, mentre nel Playoff in 5 gare giocate chiude con 8.6 punti e 4.8 rimbalzi dimostrando di non sciogliersi nei momenti più difficili. Ma Delfino non si accontenta di questo e vuole un ruolo da protagonista, ruolo che i Raptors non possono dargli. Si accasa allora a Mosca, sponda Khimki assieme al compagno di squadra Garbajosa, firmando un contratto triennale da 8 milioni di dollari. Ma il soggiorno in Russia stenta a decollare. Il club attraversa un brutto momento dal punto di vista finanziario e Delfino entra in rotta di collisione con lo spogliatoio rifiutandosi perfino di entrare in una partita. Il successivo arrivo di Sergio Scariolo sulla panchina russa riesce a placare il bizzoso argentino che conclude la stagione regolarmente in Russia, trascinando i suoi alla finale di Eurocup (persa come tutte le altre) contro il Lietuvos Rytas. Delfino decide comunque di lasciare la fredda Russia e approda ai Milwaukee Bucks. I Bucks lo acquistano dai Raptors che detenevano i suoi diritti per l’NBA, insieme all’ex Roma Ukic in cambio di Sonny Weems e Amir Johnson. Fortemente voluto da coach Skiles che lo fa partire in quintetto per la maggior parte della stagione (66 partite su 75 giocate) e che Carlos ricambia con 11 punti e 5 rimbalzi ad allacciata di scarpe. La fantastica stagione di Milwaukee sorprende anche i più accreditati giornalisti sportivi, in quanto tutti si attendevano una stagione perdente per il team che fu anche di Kareem Abdul-Jabbar (allora Lewis Alcinodor). Partiti senza alcuna aspettativa, hanno chiuso la stagione regolare al 6° posto nella Eastern Conference, grazie al rookie delle meraviglie Jennings, a John Salmons (arrivato a metà stagione da Chicago), al pivottone australiano Bogut (alla sua migliore stagione in carriera) e anche grazie a Carlos Delfino. Nei Playoff i Bucks hanno affrontato gli Hawks, grandi favoriti, e sono riusciti a portarli a gara 7, essendo anche stati in vantaggio per 3-2 dopo aver vinto gara 5 ad Atlanta. Grande protagonista di quella vittoria è stato proprio Delfino che ha messo a segno il tiro della vittoria quando, a meno di un minuto dalla fine, ha scagliato una tripla allo scadere dei 24” secondi portando Milwaukee sul più 4. Delfino ha chiuso i playoff con 10 punti e 4.4 rimbalzi a partita, con un massimo di 22 punti nella vittoriosa gara 4. Poco importa se poi i Bucks sono usciti perdenti dalla serie, quello che è certo è che sono usciti a testa alta e che Delfino si è dimostrato un giocatore molto importante per l’alchimia di una squadra Nba. Vedremo se l’anno prossimo riuscirà a confermarsi agli stessi livelli di quest’anno o magari ci stupirà ancora una volta, in un ambiente ideale per lui come Milwaukee e con tutta la fiducia possibile da parte del proprio coach, migliorando ancora di più il proprio stile di gioco.
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FOCUS ON THE COURT Fonte foto: http://ladiesdotdotdot.files.wordpress.com
‘Europe st yle
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di
D OMENICO P EZZELLA
Molto probabile che nemmeno in Europa si sia visto negli ultimi anni tanta difesa a zona come arma per fermare gli avversari. Non un’arma tattica da buttare li sul campo anche mascherata per disorientare chi ti sta di fronte, ma una vera e propria scelta di ‘vita’, la regola e non l’eccezione. Eppure lo scenario è quello a stelle strisce della National Basketball Association e non quello di una sfida delle Final Four di Eurolega oppure di Eurocup. Ma del dove si trovava si è curato poco Alvin Gentry che dopo le due scoppole ricevute in terra losangelina dove i Lakers hanno fatto praticamente tutto quello che volevano in ‘single coverage’ ha pensato bene di provarci, di fare un tentativo anche solo per vedere come reagiva la sua squadra, ma soprattutto gli avversari. Mai segnale migliore per uno dei discepoli del ‘run and shoot’ di Mike D’Antoni visto che dopo i risultati più che positivi di gara 3 nel ‘Planet Orange’ della Us Airline Center di Phoenix, la difesa a zona è diventata una sorta di credo cestistico per i Suns e lo stesso Gentry. Un credo cestistico a
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cui sono state dovute applicare delle regole particolari e degli accorgimenti che hanno dimostrato come lo stesso Gentry sia un coach che sa quello che fa in attacco (anche se tutti saprebbero quello che stanno facendo quando in campo con lo spaulding tra le mani c’è un signore come il canadese appassionato di calcio con il numero 13 sulla canotta ndr), ma che soprattutto ha dimostrato di sapere quello che stava facendo anche in difesa. Una serie continua di cambi di difesa anche perché le regole difensive della Nba non permettono nella maniera più assoluta lo stile puro di questo tipo di
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difesa, per cercare di arginare i centimetri ed il talento dei gialloviola specialmente sotto le plance. Un continuo cambiare faccia ad una ‘zone defense’ che per due partite ha fatto letteralmente impazzire i gialloviola che però al terzo episodio di fila hanno imparato la lezione e l’hanno praticamente fatta a pezzi. Ma quello lanciato da coach Gentry è un segnale tangibile che in un certo senso potrebbe anche cambiare il volto della Nba anche da questo punto di vista e rendere la Lega Americana sempre più verso quell’area Fiba dalla quale in tanti considerano lontana anni luce e che inve-
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ce Gentry ha avvicinato di qualche migliaia di chilometri. Non di più, anche perché tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare e nonostante la buona volontà la faccia difensiva della zona del timoniere dei Suns ha avuto un senso sempre e solo quando in campo c’erano giocatori abituati a questo tipo di scelta tattica per provenienza. Dalla 2-3 ad una 1-3-1 mascherata o ‘matchata’ per mascherare quella regola dei 3 secondi difensivo che in alcune occasioni portava al movimento del giocatori in punta o nella linea arretrata a muoversi verso il tagliante od il portatore di palla cambiando fisionomia e faccia alla difesa. Addirittura a tratti, anche se molto timidamente, si è anche visto un accenno di ‘box and one’ quando Dudley seguiva come un segugio il 24 in gialloviola. Incompatibili agli avversari e alle regole Nba le altre come per esempio la zona fronte dispari, visto che in questo modo i vari Gasol e Bynum od anche Odom sarebbero andati davvero a nozze nell’area considerata anche l’inabitudine dei giocatori, americani, dei Suns a giocare questo tipo di situazioni nella propria metà campo. Ed allora quella fronte pari e quella che praticamente era di passaggio per evitare infrazioni difensive della 1-3-1 sono state le più cavalcate e a trastti le più efficaci specie con l’ingresso in campo del secondo quintetto, quello delle riserve. Tutt’altra storia quando in punta c’era il duo Barbosa-Dragic che forse più abituati a questo tipo di difese aggredivano con continuità i portatori di palla sul perimetro costringendo sempre al passaggio di troppo i Lakers senza per questo farsi battere e superare la prima linea. Cosi come molto più efficace la coppia sloveno-brasiliana (rispetto a quella formata da Nash e Richardson ndr), per movimenti laterali sui tre esterni piaz-
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zati da coach Phil Jackson. Cosi come meglio interpretata, in alcuni momenti, la parte dietro della zona vista l’energia e la voglia di sacrificio specialmente di Amudson e di un Dudley che all’occasione è stato dirottato nelle retrovie e nelle vicinanze del canestro. Insomma una scelta che ha dato i suoi frutti, che ha mostrato i suoi lati positivi, ma che come ogni cosa ha sempre una seconda faccia della medaglia. Troppo prevedibile se fatta con continuità assoluta (in dalla gara4 in poi è stata schierata praticamente per circa 30’ ndr) troppo morbida se non concepita nello spirito di sacrificio integrale che una difesa del genere chiede. Senza contare il dato che poi ha fatto la differenza in gara6 a favore dei Lakers, che squadre come Los Angeles ci mettono davvero poco ad adattarsi e trovare le opportune contro misure, specie se poi dal settore lunghi ci sono giocatori del talento di Pau Gasol e non solo dal punto di vista realizzativo (nel close out game di Phoenix il catalano ha davvero dispensato palloni d’oro che hanno mosso come da manuale la zona di Gentry per tiri comodi negli angoli ndr) o di Lamar Odom (a tratti il penetra e scarica di Lamarvelous è sembrato quello di un lungo europeo abituato a muoversi tra le linee della 2-3 o della 1-3-1 ndr). Sarebbe bastato,poteva bastare, se non che poi i gialloviola avevano anche lui il ‘black mamba’ che ha dato una sua interpretazione all’attacco alla zona. Morale della favola? Gentry ha lanciato il sasso, le prime onde sono state generate con tutti i pro ed i contro che ne possono derivare, ed ora c’è solo bisogno di aspettare di sapere se quello del coach dei Suns è stato un caso isolato o se lo stagno potrebbe anche riempirsi per i tanti sassi lanciati dagli altri colleghi.
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L’ANALISI
Cometa o stella l Gerald Wallace, da riserva sottovalutata ai Kings ad uomo di punta dei Charlotte Bobcats di ‘Sua Maestà’ Michael Jordan
In una lega come l'NBA, dove ogni anno entrano ragazzini non ancora ventenni con potenziale straordinario, è raro vedere gente consacrarsi definitivamente in età "avanzata", ma questo non è il caso di Gerald Wallace. 27 anni, da Sylacauga, Alabama, Wallace ha mosso i primi
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lucente? passi nella NBA da eterna riserva nei Kings, ai tempi una delle principali corazzate della lega, e a parte qualche sprazzo di atletismo, nulla faceva presagire un futuro roseo nella NBA per lui. La svolta arriva nel 2004, con la chiamata dei Bobcats, e con la crescita esponenziale di minutaggio e livello di gioco, fino ad arrivare a questa stagione, quella della consacrazione. Negli anni abbiamo imparato ad apprezzare pregi e
difetti di questo giocatore, versatile come pochi in fase difensiva, discontinuo, al limite dell'inaffidabile, quando la palla scotta in attacco. Proprio per questo la dirigenza dei Bobcats ha deciso di affiancargli già da tempo un accentratore offensivo, ma se l'alchimia con Jason Richardson non ha funzionato al meglio, quella con Stephen Jackson è stata decisiva per l'approdo ai playoff di Charlotte. Con al fianco un giocatore con caratteristiche complementari alle sue, Wallace ha disputato una stagione straordinaria, culminata con una doppia doppia di media in regular season (18.2 punti e 10 rimbalzi) e con la convocazione per l'All Star Game, ma ai playoff è affondato insieme ai compagni sotto i colpi dei tiratori di Orlando. Da questa serie è nato un punto interrogativo che sicuramente attanaglia l'intera dirigenza dei 'Cats: Wallace ha la classe e il carisma del go-to-guy o è solo un ottimo secondo violino? Quando si parla di un giocatore che sul parquet fa praticamente di tutto, in entrambe le fasi, è difficile etichettarlo a priori come secondo violino, anche se di lusso. In fase difensiva, dove riesce ad essere un fattore, Wallace è uno che può marcare senza problemi guardie, ali piccole e all'occorrenza anche ali grandi, non è semplicemente un difensore da statistiche, ma è riuscito ad inserirsi ottimamente in un sistema difensivo di alto livello come quello imposto da coach Brown. Oltre a questo, il suo atletismo gli permette di essere un rimbalzista di alto livello, tra i migliori della lega, riuscendo a rendersi minaccioso sul pitturato, ma la nota dolente è la fase offensiva. Anche qui, sfruttando le proprie doti fisiche, Wallace riesce a farsi rispettare, ma siamo ben lontani dal poter parlare di un fattore. L'aver messo su un più che decente gioco in post non basta, anche perché non ha la stazza per poter essere una minaccia costante sotto le plance, e il bisogno di essere affiancato da un tiratore affidabile in attacco penalizza lui e l'intera squadra. Lo sweep al primo turno dei playoff contro i Magic ha evidenziato maggiormente le lacune offensive di Wallace, che non è stato capace di alzare il suo livello di gioco nei momenti più importanti, ma soprattutto ha evidenziato la sua incapacità nel trascinare la squadra, che ha dovuto trovare in Jackson l'uomo del tiro pesante, forse il vero go-to-guy del team. In definitiva, in questo primo turno dei playoff possiamo trovare la risposta al nostro interrogativo, e sicuramente Wallace non può essere considerato il trascinatore di Charlotte, ma solo una straordinaria spalla per una stella di primo piano, che al momento manca al team del North Carolina. Se i Bobcats vogliono puntare in alto, farebbero bene a cercare una stella da affiancare al duo JacksonWallace, o in alternativa sacrificare l'ex Warriors per arrivare ad un giocatore con caratteristiche simili e di maggior livello, altrimenti per i prossimi anni Charlotte potrà ambire solo alla qualificazione ai playoff senza poter fare il salto di qualità, vista anche l'età media della squadra.
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Rod rigu e Beau bois DI
ROOKIE TIME
Quando sul playground della sua città natale di Guadalupe stava giocando e divertendosi, nonche incantando il placoscenico, non avrebbe mai potuto immaginare che a guardarlo c'era la star Nba Mikeal Pietrus, Air France. La vita di rodrigue Beaubois sarebbe cambiata di colpo. Da giocatore di strada, disordinato, iperdinamico, a geometra e costruttore di una squadra Nba. Nessuno avrebbe scommesso un quarto di dollaro su di lui, che per caso, dopo essere scelto dai Thunder si ritrova sparato a Dallas, che ha come sua Point Guard titolare sua maestà Jason Kidd e come backup JJ Barea, giocatore discontinuo ma di sicuro talento. Avrebbe imparato molto da entrambi. Dal veterano di sicuro i tempi di gioco e le sue variazioni, dal portoricano l'esplosività e quella mano "caliente" che quando si accende genera sfracelli. In un anno si impegna tanto e da rookie semisconosciuto diventa un panchinaro di lusso. Al suo primo anno, abbatte molti record con alcune prestazioni eccellenti, come quella dei 40 punti e del 9/11 da tre contro i Warriors che gli valgono molta visibilità e soprattutto quel rispetto da parte dei giocatori americani. Più volte sul campo perde palla, sembra frenetico, ossessivo, uno che agisce d'istinto, ma col crescere del minutaggio e con l'incedere delle partite, quelli che sembravano difetti sono diventati
D OMENICO L ANDOLFO
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pregi e quindi a mo' di squadra Nfl egli è dovenuto il leader di quello "special team" di Carslile quando bisognava alzare il ritmo della partita, quando bisognava aprire il campo con penetera e scarica e quando bisognava cercare dei pick and roll in transizione. A conclusione della sua speciale annata l'incontro scontro, con quello che è il mentore di tutti i play francesi, Tony Parker. Due giocatori di caratura diversa sia ben chiaro, ma che in quanto a talento non hanno niente da invidiare. Beaubois ha cercato da solo di provare a forzare le situazioni contro la difesa degli Spurs, specie nelle gare all'At&t center di San Antonio, ma il suo contributo non è bastato a salvare la sua franchigia dall'eliminazione. Ma alla fine della stagione arriva la convocazione per la nazionale
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Francese, in cui come play di riserva potrebbe risultare di sicuro più efficace come aiuto di Decolo. Giocatore che non ha il grande fisico dei caraibici, ma che fa dell'esplosività e dell'atletismo le sue armi migliori per rendersi protagonista in qualsiasi situazion di gioco. Di sicuro le sue mani veloci, se abbinate a un costante lavoro alle situazioni difensive potranno risultare determinanti in proiezione futura. La giovane età però, consegna alla Nba un giocatore già maturo e che se avesse un minutaggio alla Jennings per intenderci, di sicuro avrebbe aumentato le sue medie e percentuali. E' un leader che non si tira mai indietro, e merita una squadra che dai suoi ordini, dalle sue genialate, dalle sue pazzie possa costruire gioco e spettacolo.
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LE STATISTICHE DELLA STAGIONE IN TEXAS
...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...
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Il mondo di Lebron DI
LA RUBRICA
E finalmente ci siamo! La stagione NBA in realtà non è ancora finita e, anzi, siamo nel momento clou, con le Finali a poche ore dal via, ma in realtà per tanti, tantissimi appassionati (o fanatici, decidete voi) il vero momento caldo della stagione è cominciato subito dopo la sirena di gara 6 tra Boston e Cleveland. Quell’attesa che dura ormai da un anno, l’estate che potrebbe cambiare per sempre i destini della Lega, la free agency più intrigante di ogni tempo, in quel preciso istante ha preso ufficialmente il via e lo ha fatto nel modo che la maggioranza, Cleveland e abitanti esclusi, sperava. Ovverosia con Il Re nuovamente giù dal trono, neanche vicino a mettersi sul capo la corona di padrone della Lega, eliminato dall’esperienza dei Boston Celtics, senza trovare aiuto dai compagni e addirittura fischiato dai sudditi della Quicken Loans Arena in una gara 5 già nella storia come una delle più enigmatiche partite di playoffs di una Superstar NBA. E si è aperto come nemmeno uno sceneggiatore hollywoodiano avrebbe potuto pensare questo attesissimo capitolo della storia NBA. Si diceva, presentando i possibili scenari futuri per James in pre stagione, che se i Cavs avessero vinto il Titolo la permanenza a Cleveland non sarebbe stata minimamente in dubbio, mentre in caso di mancato trionfo, invece, ci si sarebbe potuti cominciare a divertire con teorie e congetture. Come detto, il Titolo non è arrivato, e, addirittura, i Cavaliers non ci si sono nemmeno avvicinati, uscendo alle semifinali di playoffs, dopo essere stati avanti 2-1 con una gara 3 vinta di 30 segnando 120 punti a Boston, cui hanno fatto seguito 3 sconfitte filate, inclusa quella casalinga in gara 5, dove James è sembrato quasi volersene stare ai margini della contesa, scatenando, come detto, i “booo” di diversi tifosi sul finire dell’incontro. Noi di Star’n’Stripes vi terremo compagnia per tutta l’estate con questa rubrica di approfondimento, per aggiornarvi sulla situazione di LeBron, sugli sviluppi di una situazione che, in effetti, avrà ripercussioni notevoli su tutta la Lega, anche perché, come vedremo, sarà una decisione che non riguarderà solo il Prescelto. Partiamo, dunque, vedendo che cosa ci hanno detto queste prime settimane di off-season per LeBron James. E cominciamo proprio dalle ultime due misteriose partite della serie contro i Celtics, dove LeBron è sembrato improvvisamente perdere quel chè di sovraumano che accompagna le sue apparizioni sul parquet. In gara 5, a dire il vero, è parso volersene stare al di fuori della partita, segnando il minimo in carriera nei playoffs e non aggredendo una partita che Boston, da metà tempo in poi, ha letteralmente dominato, mentre in gara 6, pur registrando una tripla doppia, ha tirato molto male dal campo ed è parso sfiduciato, senza quel fuoco interiore necessario, e mostrato più volte in passato, a questo punto del campionato. Nelle ore successive all’eliminazione dei Cavs si è sparsa la voce secondo cui, il misterioso calo di James, sarebbe stato dovuto alla notizia, appresa poco prima di gara 5, per cui Delonte West stesse portando avanti una storia sentimentale con Gloria, la madre di LeBron. Ci sono state solo smentite e nessuna conferma ufficiale, ma questo, obiettivamente non sorprende. Le prestazioni di James in campo e il parecchio tempo passato in panchina da West nelle ultime due sfide, però, potrebbero farla pensare diversamente. Di sicuro, quindi, la città di Cleveland non ha cominciato bene la sua corsa alla conferma del Re, assommando i fischi e le polemiche post eliminazione alla querelle Gloria-Delonte. La dirigenza, allora, ha cercato subito di “accorciare la distanze” annunciando la separazione ufficiale da coach Mike Brown, reo di aver sprecato per due anni consecutivi l’occasione di conquistare, se non l’anello, quanto meno la partecipazione alle Finals. Sempre stando alle voci di corridoio, mossa gradita a LeBron che non aveva più un feeling particolare con l’ex assistente di Gregg Popovich. A questo punto ci si è trasferiti nuovamente su giornali e siti specializzati, nel frattempo invasi di articoli e approfondimenti sul tema. La prima notizia sdoganata è stata l’intenzione di James di muoversi solo in coppia, avvalendosi della compagnia dell’attuale coach dell’Universtià di Kentucky, John Calipari. Un primo indizio che ha portato a definire i Chicago
N ICOLÒ F IUMI
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Bulls, attualmente con il ruolo di Head Coach vacante, come attracco perfetto per la carriera del futuro numero 6. Se non fosse che lo stesso Calipari, seguito a ruota da Maverick Carter, agente di James, e William Wesley, consigliere dello stesso e uomo con le mani più in pasta di tutta la Lega, hanno immediatamente smentito la voce, con il coach mentore di Derrick Rose e John Wall pronto a rinnovare il suo impegno con i Wildcats. Nonostante questo, c’è la convinzione che, dove LeBron atterrerà, la sua voce sarà la prima ad essere ascoltata al capitolo allenatore, e intanto avrebbe già confidato di voler giocare in attacco la Triangle Post Offense dei Lakers. Parlavamo di Chicago. I Bulls, in questo momento, sembrano essere gli indiziati numero uno per aggiudicarsi i servigi del Re. Le motivazioni sono molteplici: c’è spazio salariale in abbondanza, la squadra ha giocatori giovani e di talento come Derrick Rosa, Joakhim Noah e Taj Gibson, Chicago è la città più grande degli Stati Uniti, quindi un mercato potenzialmente infinito, c’è la sfida col passato nelle vesti di Sua Maestà Michael Jordan e come già detto un posto di allenatore ancora da assegnare. Non bastasse ci si è messo pure Barack Obama che, in un intervista rilasciata alla TNT, ha fatto sapere che “Rose e Noah sono un buon nucleo per i Bulls e credo che LeBron si inserirebbe piuttosto bene”, tradendo un po’ la sua fede per i rossoneri della Città del Vento, ma aggiungendo anche che “la cosa migliore per LeBron è trovare un ambiente con un coach che rispetta e dei compagni con cui lavorare duro e che si preoccupino per lui, e se questo sarà a Cleveland, allora sarà giusto per lui rimanere coi Cavs. Se invece non sarà così, allora la situazione migliore per lui sarà altrove”. La pista Bulls, come detto, sembra la più calda, ed è anche quella più gettonata da molti GM che, come al solito, si celano dietro il muro dell’anonimato. Ma a metterci un po’ di ghiaccio sopra ci ha pensato David Falk, niente meno che l’agente di Michael Jordan quando questo vestiva ancora canotta e calzoncini. “Penso che Chicago sarebbe la soluzione peggiore in assoluto per LeBron – le sue parole – Se si dovesse trasferire ai Bulls, vivrebbe tutta la sua carriera venendo confrontato a Jordan e se alla fine non dovesse fare meglio allora sarebbe un fallimento. Meno di 6 titoli NBA? Fallimento. Meno di 5 MVP? Fallimento. Ugualmente Los Angeles (sponda Clippers, e spieghiamo il perché tra poco) sarebbe una scelta suicida, perché finirebbe per essere in costante competizione e paragone con Kobe Bryant. LeBron deve trovare una situazione dove lui può essere solo se stesso, senza essere paragonato o confrontato con nessuno.” Si diceva di Los Angeles e dei Clippers. Già perché gli sgangherati Clippers, a ben vedere, avrebbero tutte le carte in regola per firmare LeBron. Una città tra le più affascinanti del mondo, spazio salariale, giocatori giovani e di valore da affiancargli (Griffin, Gordon, Kaman, Davis) e anche qui un allenatore da scegliere. Ma, alla fine dei conti, i Clippers sono pur sempre i Clippers e subiscono sempre il fascino negativo della loro storia. L’essere i cugini poveri di L.A, 17 stagioni perdenti sulle ultime 18, un proprietario restio a spendere. Insomma, l’operazione pare complicata, più per motivi extra cestistici che per altro. Nonostante tutto i tifosi dei Velieri, guidati dal Capo Ultrà Clipper Darrell (385 partite consecutive presenziate allo Staples Center), hanno dato vita a una parata con cori inneggianti a James nei momenti precedenti alla gara 5 fra Lakers e Suns, sperando così di far capire al nativo di Akron il proprio amore nei suoi confronti e fargli superare le barriere psicologiche che potrebbero spingerlo a non prendere nemmeno in considerazione l’idea. Cosa che certo non accadrebbe, e non accadrà, con i New York Knicks, la grande indiziata da mesi a questa parte, che negli ultimi due anni ha fatto il possibile per svuotare il salary cap e creare lo spazio per firmare LeBron più un altro top player. Ma in realtà, per ora, la squadra della Grande Mela è stata piuttosto attendista, senza sbilanciarsi più di tanto. I
motivi per cui LeBron potrebbe scegliere i Knicks, sono innumerevoli e più volte ripetuti. La città più importante del mondo, dove vincere un titolo vorrebbe dire diventarne ufficialmente il capo, un allenatore stimato come D’Antoni, la possibilità di giocare con un'altra stella, vista la situazione salariale. Al momento il supporting cast non pare stellare, ma ci sono comunque Danilo Gallinari, Wilson Chandler, più le scoperte dell’ultimo finale di stagione, Toney Douglas e Bill Walker, entrambi in doppia cifra nelle ultime partite e con percentuali da 3 punti ragguardevoli, dettaglio di non poco conto. Come detto, però, i Knicks al momento non si sbilanciano, consapevoli che la corsa a LeBron è complicata e, di conseguenza, non volendo bruciare eventuali altre piste, come Chris Bosh o Dwyane Wade. Che apre il capitolo Miami di questa puntata. Pat Riley, infatti, sta giocando forte per creare la coppia Wade – LBJ che entrerebbe direttamente nella storia come una delle più devastanti e inarrestabili del gioco. Lo spazio salariale è ampissimo, la città e le spiagge fanno gola a chiunque, la squadra è già in questo momento da playoffs. Ma è lo stesso Wade ad avvertire che “molte delle decisioni saranno prese sulla base di quello che deciderà ognuno di noi free agent, quindi non è semplicemente una mia scelta, ma una decisione che andrà presa parlando tutti insieme”, pare infatti che sia prossima una riunione tra Wade, James, Joe Johnson e Chris Bosh per parlare e decidere sul da farsi per il futuro, vista la portata delle loro scelte sul futuro della NBA. A Cleveland potrebbero aggiungere che in ballo non c’è il semplice futuro sportivo di un Lega, ma di una intera città. Come è già stato detto da più parti, la scelta di James avrà effetti estremi, in positivo o negativo, sulla città dell’Ohio e sulla sua economia. La sua permanenza manterrà Cleveland sulla mappa, nonostante sia storicamente, e per ammissione poco amichevole di Joahkim Noah, una delle località meno ambite del globo. Il palazzo dello sport continuerà ad essere esaurito, il merchandising proseguirà a far segnare incassi record e così via. Al contrario, la sua dipartita farebbe nuovamente calare le tenebre, deprimendo un ambiente che vive in una specie di aura celeste dal 2003. Tra l’altro, la situazione della squadra non sarebbe per niente semplice, avendo la dirigenza riempito al massimo il salary cap nel tentativo di acquisire giocatori validi per la conquista dell’ anello. Un’altra duellante che partiva agguerrita sono i New Jersey Nets, che fino a prima della Lottery aveva dalla sua parte la potenziale prima scelta. Fino a prima della Lottery…. Che ha premiato Washington, relegando i Nets alla terza chiamata e raffreddando istantaneamente la strada che porta a James. Al momento le motivazioni che potrebbero spingere The Chosen One verso la seconda squadra della Grande Mela sono quasi tutte extra cestistiche. Intanto l’arrivo del multimilionario Michail Prokorov, deciso a investire seriamente nel suo nuovo giocattolino, poi l’amicizia con Jay-Z azionista di minoranza dei Nets e poi il futuro approdo a Brooklyn punto strategico a dir poco. Anche qui lo spazio salariale non manca, qualche giocatore discreto (Devin Harris, Brook Lopez, Terrence Williams) c’è, ma al momento l’opzione New Jersey non pare tra le più probabili. Così come quella Dallas Mavericks. Mark Cuban, nelle settimane scorse, si è sbilanciato davanti ai microfoni dichiarando che i Mavs avrebbero fatto il possibile nella corsa a James, incorrendo in una multa di 100 mila dollari inflitta dalla Lega, per aver violato la regola per cui è vietato parlare pubblicamente dei free agent, dichiarando le proprie intenzioni, prima dell’inizio del periodo di contrattazione. I Mavs potrebbero arrivare al Re solo attraverso un sign and trade, ma sembrano davvero l’ultima delle possibilità in questo momento. Per chiudere questo primo appuntamento vi lasciamo con un’ideale classifica dei possibili approdi di LeBron, alla luce di quanto visto finora. In attesa di news da approfondire alla prossima uscita.
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OCCHI PUNTATI SU...
G UGLIELMO B IFULCO Questa estate sono due le possibilità più ricorrenti riguardanti il futuro della Lega: da un lato c’è la possibilità che tutte le voci di mercato finora assordanti e riecheggianti nelle stesse prestazioni dei diretti interessati finiscano col concludersi con un gran nulla difatto; dall’altro lato abbiamo la concreta possibilità di assistere ad un vero e proprio cataclisma, ad una sorta di rivoluzione copernicana dei giorni nostri, che può completamente ribaltare gli scenari di rilievo nel mondo NBA: squadre come New York Knicks, New Jersey Nets, Chicago Bulls, Los Angeles Clippers, Miami Heat promettono scintille autentiche di mercato, per provare a capovolgere le gerarchie della lega, da 3 anni a questa parte esclusivamente Lakers e Celtics centriche. Sul piatto e all’asta sono serviti giocatori di cui finora si è parlato a sproposito, assillantemente e costantemente lungo tutta la durata della Regular Season: i nomi che tutti conosciamo sono quelli di LeBron James, Joe Johnson, Dwyane Wade, Chris Bosh, Amar’è Stoudemire, Manu Ginobili, Ray Allen, Carlo Boozer, oltre a quelli non in scadenza, ma in probabile uscita, quali Chris Paul, Carmelo Anthony, oltre a nomi di coach quali lo stesso plurivittorioso Phil Jackson, John Calipari, Avery Johnson, Jeff Van Gundy, Tom Thibeaudeau. Quello che molti davano per scontato, invece, era l’estensione che Dirk Nowitzki avrebbe firmato per la sua squ adra di sempre, che lo ha elevato ad uomo franchigia, stella di riferimento attorno alla quale elaborare le strategie tecniche della squadra; quei Dallas Mavericks che in queste ultime stagioni, partendo dal 2005 ad oggi, gli hanno riservato un numero incalcolabile di delusioni; il progetto di Cuban, perennemente in procinto di esplodere, regredisce fisiologicamente annualmente in primavera con una sorprendente continuità: partendo dalle cocentissime sconfitte in finale contro Miami nel 2006 ( dopo aver condotto 2-0 ed essere ad un passo dal 3-0),
L’estate calda di ‘WunderDirk’
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e al primo turno dell’anno successivo per mano dei Golden State Warriors( dopo aver stabilito il miglior record assoluto della lega e mostrato una schiacciante superiorità sia offensiva che difensiva lungo tutto l’arco della regular season), fino ad arrivare alle deludenti eliminazioni delle ultime stagioni per mano, rispettivamente, di New Orleans Hornets, Denver Nuggets ePhoenix Suns. La carriera del tedesco da Wurzburg è costellata di continui appuntamenti mancati con la consacrazione assoluta nell’elitè della lega. Difficile stabilire i limiti e il peso delle sue responsabilità in questi insuccessi: di certo Dallas ha avuto parecchia sfortuna, buoni giocatori ne ha sempre avuti, head coaches altrettanto, ma è sempre mancato il penny per completare il dollaro. Palesemente frustrato di questi continui scherni sportivi, il buon Dirk dall’alto dei suoi 211 cm, avrebbe seriamente preso in considerazione l’ipotesi di cambiare aria, di provare a guardarsi intorno cercando eventualmente progetti più concreti di quanto non lo siano stati quelli comunque sensati e sacrificati del management texano. Difficile prevedere quale possa essere la sua destinazione, potrebbe integrarsi bene nel sistema D’Antoniano, oppure andare ad affiancare uno tra Wade e James, calzerebbe a pennello per i Chicago Bulls o anche per i Phoenix Suns. Scenari aperti dunque a qualunque possibilità, ciascuna delle quali potenzialmente dal peso specifico abnorme nelle sorti della lega: Dirk Nowitki è pur sempre una superstella tecnicamente e offensivamente superiore alla media dei migliori lunghi NBA che può spostare vari equilibri ovunque vada a giocare. Consapevoli del rischio di tale perdita, nel management di Dallas ha preso il comando della situazione il gm Donn Nelson, che avrebbe speso parole di speranza e fiducia relativamente al futuro del suo franchise player: “ Mi sembra difficile
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immaginare Dirk vestito con una canotta diversa da quella dei Dallas Mavericks, che sono l’unica squadra per la quale ha giocato, alla quale ha dato molto e dalla quale ha ricevuto molto. Perdere un giocatore come Dirk sarebbe disastroso per il nostro futuro, ma sono fiducioso che, anche dopo aver osservato i movimenti del mercato, Dirk si renderà conto di quanto il nostro progetto sia sempre il migliore e il più adatto a lui: mettiamoci anche le questioni di cuore..”. Ottimismo palesato spudoratamente dal dirigente Mavs, figlio probabilmente del desiderio di mostrare un fronte solido e determinato a ricostruire prontamente attorno al tedesco per mantenersi ad elevati livelli. Ottimismo probabilmente anche fasullo, perché Dirk facilmente può trovare contesti migliori di quello in cui ha operato finora e di certo le sue credenziali sono comunque di primo livello, considerato il talento, le stratosferiche esibizioni offensive mostrate anche sotto pressione, pur avendo sempre fallito l’obiettivo finale: Kevin Garnett ha trovato la propria redenzione con il gioco alla veneranda trentaduesima candelina spenta, riuscendo ad abbandonare i suoi affetti e la squadra con cui era cresciuto e che aveva fatto crescere, ma il prezzo da pagare, per quanto alto, è valso a consacrarlo nell’olimpo dei vincitori dell’anello. Pur con una maglia diversa da quella dei Minnesota Timberwolves. Dirk ha tutto il diritto di provare ad emularlo, visto che gli rimangono comunque non più di 3-4 stagioni di primo livello atletico. Tralasciare le proprie priorità sportive favorendo un amore più platonico che materialistico può essere sicuramente da uomini leali e di onore, ma sicuramente anche da fessi. Aspettiamoci dunque qualche scintilla in più rispetto a quelle già preventivate.
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We l c o m Larry O’Brie
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me to: en ‘Rumble’
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Quando una serie è decisa in un secondo. Tante volte è accaduto nella storia di questo giochino, ma quanto è accaduto in gara 5 tra Lakers e Suns ha davvero del clamoroso. Ron Artest, unico innesto estivo dei campioni in carica, dopo una stagione dal rendimento decisamente sottotono e autore di una post-season non certamente all’altezza delle aspettative, è riuscito finalmente a far parlare di sé per questioni prettamente cestistiche. Riassumere questo episodio, di fatto, equivale a sintetizzare un po’ l’intera serie: a pochi secondi dallo scadere i Suns hanno l’occasione, con una tripla, di impattare a quota 111 una gara scoppiettante. Ci prova Nash, non va, ma il pallone resta in attacco. Ci prova Richardson, non va, ma Frye mantiene ancora vivo l’attacco e innesca ancora Richardson che da lontanissimo, stavolta, infila la retina dopo una tabellata non dichiarata. Sul cronometro restano 3.5 secondi grazie ai quali i Lakers possono costruire un’azione discreta. Ma il tiro che scaturisce dalle mani di Bryant
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è corto, cortissimo, tanto da non sfiorare neanche il ferro. L’unico ad accorgersene in anticipo è però Ron Artest che cattura la sfera ancora a mezz’aria ed infila il canestro in concomitanza col suono della sirena sotto gli sguardi sbigottiti degli avversari e tra le urla festanti ed incredule di tifosi, giocatori e staff gialloviola. Artest fino a quel momento stava disputando forse la peggiore partita stagionale, avendo siglato 2 soli punti frutto di 1/8 al tiro in oltre 30 minuti d’impiego. Anche se il suo compito di arginare Richardson era stato svolto con i soliti buoni risultati. Il resto della serie si può raccontare con poche parole: le prime due gare di Los Angeles scontate e noiose, con i padroni di casa in netto dominio e già con i giornali che pronosticavano – ed auspicavano – un remake della finale 2008 contro i Celtics. Il viaggio in Arizona ha invece cambiato tutto. Stoudemire, fino a quel punto abbastanza nel pallone specialmente difensivamente, si riscatta prontamente insaccando 42 punti nel canestro
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avversario, rivelandosi una vera incognita per i lunghi avversari, fino a quel momento assoluti dominatori. Anche gara 4 se la aggiudicano i Suns in maniera abbastanza netta, e dunque la sopracitata gara 5 assumeva contorni pirotecnici perché avrebbe permesso a Phoenix, con l’inerzia dalla propria parte e sull’onda dell’entusiasmo, di ribaltare finalmente il fattore campo e raggiungere una finale che ad inizio anno nessuno si sarebbe sognato di pronosticare. È andata come abbiamo raccontato, con i sogni di finale di un due volte MVP come Nash ancora una volta infranti. Con le mani nei capelli di quasi tutta la squadra dei Suns che aveva lottato fino all’ultimo secondo, anzi al penultimo, per cercare il colpaccio allo Staples. Eppure il basket è anche questo, senza dimenticare però che per i ragazzi di Alvin Gentry c’era ancora la chance casalinga di gara 6 ed eventualmente la decisiva gara 7. Il ritorno allo US Airways Center è però più complicato del previsto, con i Lakers davvero indemoniati e capaci di
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andare fino al + 18 prima che il secondo quintetto dei Suns, nell’ultimo quarto, ricucesse lo strappo fino ad arrivare a meno di due possessi di distanza. Alcuni canestri incredibili di Bryant hanno tuttavia archiviato del tutto la contesa, davanti al sorriso amaro di coach Gentry, come a sottolineare che dinanzi a simili prodigi è inutile creare uno schema, è inutile imporre una marcatura, perché finchè il 24 gioca per gli altri bisogna solo rassegnarsi. Bryant ha chiuso la serie contro i Suns alla devastante quota di 33.7 punti a gara, valicando sempre quota 30 punti eccetto in gara 2, quando si è “limitato” a smazzare 13 assist, utili comunque ai fini della vittoria. Bel messaggio inviato all’amico/nemico LeBron, da molti ritenuto – giustamente – il più grande giocatore di pallacanestro di sempre, ma ancora ben lontano dall’essere in grado mettersi al timone di una squadra vincente. Nulla a che vedere invece con Kobe, che fa della leadership (acquisita, non innata) la sua dote principale, che vale ai Lakers la
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31esima finale della loro storia. Il 24 gialloviola ha alzato la sua media realizzativa in ogni serie, partendo dai 23 contro i Thunder per arrivare ai 32 contro i Jazz e i 33.7, come detto, nella finale di Conference. Come dire, quando il gioco si fa duro…Il vero grimaldello per scardinare la – non eccelsa, a dire il vero – difesa dei Suns è stato però Lamar Odom, partito sempre dalla panchina ma rimasto in campo oltre 34 minuti a gara. L’ex Heat ha garantito, oltre ad una serie di canestri preziosissimi (14 punti di media nella serie), una quantità imbarazzante di rimbalzi e doppie opportunità: 11.8 i suoi rimbalzi totali arpionati, 4.3 solo in attacco. Si capisce come la modesta front line di Phoenix, nonostante il rientro del buon Robin Lopez, non abbia potuto arginarlo, già impegnata a tarpare le ali di un Gasol ancora una volta immenso (19.7 a gara). Determinante anche l’apporto occasionale di Fisher, Farmar, Brown, autori di canestri importantissimi per mettere la sveglia ai compagni e
fermare i tentativi di rimonta - o di allungo – avversari. Nel complesso, insomma, una squadra completa, con il miglior allenatore di sempre. Jackson insegue infatti l’11esimo titolo della sua gloriosa carriera da allenatore. Per Bryant sarebbe invece il quinto. C’è soltanto da valicare l’ostacolo Celtics… I Suns tornano a casa a testa altissima, dopo aver offerto un basket davvero sensazionale. Gli interrogativi sul futuro riguardano ovviamente la permanenza in Arizona di Stoudemire. Qualora dovesse rimanere, le possibilità di ritentare l’assalto all’anello non sono da sottovalutare. È vero che Nash avrà un anno in più, ma dopo una post-season giocata a questo livello verrebbe da paragonare il canadese a del buon vino, che più invecchia e più diventa buono. Inoltre non dimentichiamoci del suo sostituto, quel Goran Dragic che ha dimostrato di possedere personalità e faccia tosta per guidare una squadra di livello.
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Bryant: «La sfida è vincere il titolo e battere i Celtics». Gentry: «Inutile la difesa su Kobe» GARA 3 «La mia passione per il gioco non dovrebbe mai essere messa in questione» ha detto Stoudemire. «Do sempre il 100%. Stasera sono sceso in campo con una scimmia sulla spalla in quella che per noi era una gara da vincere a tutti i costi». Il coach di Phoenix Alvin Gentry era certo che Stoudemire avrebbe reagito. "Sapeva di non aver giocato bene a L.A.». «Certamente non siamo riusciti a giocare come volevo all'inizio," ha detto il coach dei Lakers Phil Jackson, "e certamente non abbiamo giocato nel modo che volevo alla fine». GARA 4 «Vi avevo detto che non mi sarei fermato, e i miei compagni hanno creduto in me», ha detto Frye, eroe della serata. «Abbiamo tirato col 49%, o sbaglio? A me sembra buono… Il nostro attacco non ha nessun problema", ha detto Jackson. "Non abbiamo problemi con la zona, abbiamo problemi con la nostra difesa. Loro sono stati più aggressivi a rimbalzo, e ciò ha portato a conseguenze spiacevoli per noi».
GARA 5 «Ero determinato e ho cercato di ottenere la vittoria - ha detto Nash -. E 'stata una partita folle». «Torneremo qui per Game 7». Non è andata proprio così. Su Artest: «Si è redento proprio lì», ha detto Shannon Brown. GARA 6 In vista della finale contro Boston: «La sfida" è quella di vincere il campionato «, ha detto Kobe Bryant «I Celtics sono la via". «Abbiamo impostato una grande difesa su di Kobe» ha affermato il coach dei Suns Alvin Gentry «Ma è andato giù duro colpo su colpo. Ho sempre pensato che fosse il miglior giocatore di basket. Non è molto lontano dall'esserlo». «Questo è stato l'anno più divertente della mia carriera di allenatore» ha proseguito poi Gentry. «Abbiamo avuto ragazzi dal carattere elevato. ... E abbiamo giocato in maniera molto intensa. Non ho mai avuto attorno a una squadra così, con questa chimica, nei miei 22 anni in campionato. Abbiamo dato tutto».
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Qualcuno ci sperava, nessuno ci credeva. E allora chiamiamola pure impresa. I Boston Celtics approdano alla finale Nba. Due anni dopo il titolo del 2008. Non da favoriti, ma da “underdog”, da sottovalutati. L’ultimo atto di questa entusiasmante cavalcata ha messo di fronte a Paul Pierce e compagni, gli Orlando Magic. Il risultato lo conoscete già, addentriamoci quindi nei meandri della serie. Il sistema difensivo dei Boston Celtics ha battuto il sistema offensivo degli Orlando Magic. I Celtics con la loro difesa erano perfetti per mandare all’aria il piano partita dei Magic. Con Garnett a presidiare il pitturato e i vari Perkins e Wallace in missione anti-
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Superman, coach Doc Rivers e il “defensive coordinator” Tom Thibodeau hanno sguinzagliato la letale difesa sul perimetro, che ha attanagliato le mani e la mente dei tiratori dei Magic. Un sistema difensivo perfetto, che è andato a contestare ogni tiro sul perimetro, ma lo ha fatto con giudizio, ovvero senza cadere nel tranello del recupero sul tiratore ad ogni costo, cosa che avrebbe scatenato l’ancor più micidiale penetra e scarica di Orlando. Ovviamente tutto questo è possibile solo se ad occupare l’area c’è il miglior Kevin Garnett. Nella vittoria in trasferta ottenuta in gara -1 (Orlando 88-Boston 92), questo assunto è venuto fuori prepotentemente. Il 22.7 % (5/22) da tre punti dei
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Magic è stata la chiave del successo di Boston, molto di più dei 25 punti di Rajon Rondo e di 22 di Paul Pierce. Il copione si è ripetuto in gara -2 (Orlando 92-Boston 95). Il 38% da tre punti è sicuramente percentuale migliore, ma la chiave questa volta riguarda non tanto le triple mandate a bersaglio, ma quelle tentate (18). Un numero troppo basso per le abitudini della squadra di Stan Van Gundy, che ha trovato in Dwight Howard (30) il go to guy, eppure non è bastato. Dall’altra parte la coppia Pierce-Rondo, con il contributo di Garnett e Perkins ha piazzato la zampata decisiva. Gara 3 a Boston non ha avuto storia (94-71). Le paure dei Magic sono diventate autentici incubi, materia-
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lizzatesi in Rashard Lewis e Vince Carter, completamenti inesistenti se non dannosi, incapaci di fornire un benché minimo contributo alla squadra. Boston non deve neanche sforzarsi troppo. Sotto per 3-0, Van Gundy si affida alla retorica. Nello storia della Nba mai nessuno in una serie di playoffs è mai riuscito a rimontare. L’allenatore sosia di Ron Jeremy (celebre pornoattore, ndr) ci crede, sprona i suoi, che in gara -4 grazie ad un immenso Jameer Nelson (23 punti, due triple fondamentali nell’overtime), alla potenza squassante di Howard (32 punti e 16 rimbalzi) e al contributo di un grande JJ Redick (12), vincono al supplementare 96-92 evitando lo sweep. Sul 3-1 si torna in
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Florida. In gara -5 Orlando va via sul velluto. Il match ter- Orlando abdica, Boston torna in finale contro gli odiati mina 113-92. Nelson (24), Howard (21) e un redivivo Lakers. Lewis (16) regalano ad Orlando la speranza. Una fiammella prontamente spenta da Boston in gara 6. I Celtics giocano da Celtics. I Magic si sciolgono e ognuno va per conto proprio. Sono i soli Howard e Nelson a lottare sino alla fine. Lewis e Carter abbandonano la contesa. I Celtics si aggrappano al loro Capitano (31), alla classe di Ray Allen (20) e alla follia di Nate Robinson (13 punti che spaccano in due la partita a fine primo quarto). Sotto per 30-19 al primo mini riposo, i Magic non trovano più il filo di Arianna. E’ finita.
HANNO DETTO...
Othis Smith: «Carter? La colpa non è solo sua, ma di tutti». Rivers: «Abbiamo vinto insieme» QUI BOSTON. Ad un certo punto della stagione, facciamo Gennaio, solo i tifosi dei Celtics più sfegatati avrebbero scommesso sull’approdo in finale della squadra di Rivers. Vecchi, stanchi, senza più il sacro fuoco negli occhi, e in più con il dilemma Rasheed Wallace. Il quadro era questo. E invece dopo l’All Star Game lentamente qualcosa è cambiato. Rivers ha guardato nell’animo dei suoi giocatori e ha rivisto la luce. Gli infortuni hanno lasciato in pace i veterani, la difesa ha ricominciato a essere quella del titolo del 2008, Rajon Rondo ha poi compiuto il passo decisivo per essere elevato al rango di superstar. “"Questo starting five non ha mai perso una serie, mai – ha detto con forza Doc Rivers dopo la fine della serie-. Abbiamo giocato insieme e vinto insieme e adesso ci ritroviamo sul palcoscenico più prestigioso. In molti ci avevano dato per morti, senza tenere nella giusta considerazione il peso che hanno avuto gli infortuni nella passata stagione e all’inizio di questa (leggi Glen Davis, ndr). Gli fa eco Paul Pierce. “ Siamo saliti di livello quando più contava. Noi veterani sappiamo come gestire i ritmi in regular season e cosa fare per cambiare passo. Stiamo bene fisicamente e mentalmente. Siamo pronti alla battaglia”. QUI ORLANDO. Che cosa non ha funzionato? Troppe cose. Il loro sistema sembrava inattaccabile, sembrava poter metabolizzare la partenza di Turkoglu e l’arrivo di Vince Carter. Ma il sistema è reso perfetto dagli interpreti. Rashard Lewis e Vince Carter
non sono stati all’altezza. Il primo, di quello fatto vedere l’anno scorso, il secondo non è riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di perdente. Gli Houston Rockets nel bienno ’94-95 hanno dimostrato di poter vincere con un sistema che prevedesse la presenza di un centro dominante (Olajuwon) e tanti buoni tiratori da oltre l’arco. Ma Howard non è “The Dream”, Lewis non è Horry, e soprattutto le difese non sono più quella di una volta. L’esperimento Carter non ha funzionato, non rispetto a Turkoglku, non ha funzionato e basta. Su Lewis la giuria è ancora in camera di consiglio. “ Sono stati più forti noi, più pronti, più determinati – ha commentato un provato Stan Van Gundy al termine della serie -. Sul 3-2 ci credevamo, ma abbiamo completamente sbagliato l’approccio di gara -6. Alla prima difficoltà ci siamo disuniti e ognuno ha pensato di vincere la partita da solo piuttosto che farlo come squadra. Errori che a questo livello non puoi permetterti”. Sul banco degli imputati ci va anche il caro Stan. Ha dimenticato per troppo tempo in panchina Pietrus. Ha causato il malcontento di Barnes. Insomma la lista è lunga, diversamente dalla sua permanenza sulla panchina di Orlando, che potrebbe essere arrivata al capolinea, anche se per ora secondo il g.m. Otis Smith non ci saranno stravolgimenti. “ La squadra va migliorata non stravolta. Non credo ci saranno partenze eccellenti. Vince Carter? "Penso che lo stesso Vince direbbe che avrebbe voluto avere una stagione diversa. Ma la colpa non è sua, è di tutti".
S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S
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GARA4
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#1
Power Ranking
Los Angeles Lakers
FISHER
Pau Gasol
NBA PLAYOFF
P PO OIIN NT T G GU UA AR RD D
L’esperienza contro la giovinezza. L’estro contro la concretezza. Due giocatori diametralmente opposti ma che in comune hanno una sola cosa: essere potenzialmente il giocatore barometro, l’ago della bilancia delle rispettive squadre. L’ex Kentucky lo ha iniziato ad essere da quando è iniziata la post season, per il numero 2 in maglia gialloviola è una sorta di normalità e consuetudine. Penetrazioni, assist al bacio e sfuriate all’interno dell’area colorata da una parte, gestione, raziocinio e tiri pesanti nei momenti che contano dall’altra. Un confronto dal punto di vista dell’attacco che potrebbe anche essere pari se messe assieme l’importanza delle rispettive giocate, ma sarà in difesa che il tutto avrà un peso maggiore. Maggiore presenza di Fisher in giochi di 1vs1 per mettere in evidenza la non perfettissima ed impeccabile difesa del pari ruolo saranno fondamentali per i Lakers che lo devono tenere occupato nella propria metà campo (molto probabile che questa in esame sia una prerogativa che verrà chiesta più e più volte a giocatori tipo Farmar o Brown ndr). Dall’altra parte in questi playoff lo stesso Fisher ha dimostrato di soffrire un tantino di trappole point guard dinamiche, veloci e che attaccano il ferro.
RONDO
R.Artest
D.Fisher A.Bynum
TUTTI GLI APPUNTAMENTE DELL K.Bryant
G AR A G AR A G AR A G AR A
1 2 3 4
GIO DOM MAR GIO
3/6 6/6 8/6 1 0/ 6
@L A @L A @BO @BO
S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S
DI
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Boston Celtics
D OMENICO P EZZELLA
S SH HO OO OT TIIN NG G G GU UA AR RD D
B R YA N T
L’accoppiamento meno gradito da Kobe in questi playoff. Un accoppiamento che porterà il figlio di Jelly Bean a correre per il campo dietro alle sfuriate sui tanti blocchi che il playbook dei Celtics prevede per le mani dolcissime di ‘He Got Game’. L’accoppiamento che porterà il Black Mamba a spendere qualche energie in difesa e sperare magari di poterlo avere più stanco in attacco dove fa più male. Il rovescio della medaglia è che dall’altra parte, quella difensiva dei Celtics, l’ex Sonics dovrà fare altrettanto per evitare che poi il numero 24 possa accendersi (una staffetta su Kobe o un sistema molto più di squadra da parte del genio della difesa biancoverde, Tom Thibodeau o, con aiuti sistematici magari del lungo o magari di un giocatore proveniente dal lato debole specie quando il figlio di Philadelphia parte dal gomito o dirtto per dritto per arrivare al ferro non sono certo alternative da scartare a priori, anzi ndr) e consumare una vendetta che aspetta ormai da due anni. Una prova di ‘maturità’ difensiva per due veterani con tanti anni di partite decisive alle spalle per una sfida che potrebbe incoronare l’uno o l’altro come eroe tra le righe di tutta la serie.
P.Pierce
#4
Power Ranking
ALLEN
K.Garnett
R.Rondo
L’ATTO FINALE DELLA STAGIONE GARA 5 GARA 6 GARA 7
DOM MAR GI O
1 3/ 6 1 5/ 6 1 7/ 6
@BO @LA @LA
R.Allen
K.Perkins
S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S
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#1
Power Ranking
Los Angeles Lakers
NBA PLAYOFF
S SM MA AL LL L F FO ORWA RWAR RD D
Quello di ‘show stopper’, quello di mastino da mettere sulle orme del terminale offensivo principale, cosi come aveva fatto in passato con l’attuale compagno di squadra Kobe Bryant, è stato l’argomento principale per cui lo stesso Phil Jackson ed in generale i Lakers hanno accettato in estate (sorvolando per un attimo su tutti i ‘problemi’ dal punto di vista caratteriale che lo stesso giocatore ormai si porta dietro da una carriera che definire turbolenta è un vero e proprio eufemismo e che almeno per il momento non è parsa troppo in auge, per fortuna del front office gialloviola ndr) di portare ad Hollywood Ron Artest. Ad essere sinceri l’idea era quella di accaparrarsi il figlio di Queensbridge per piazzarlo sulle tracce di Lebron James in modo tale di avere un giocatore che per stazza e forza potesse contrastare The Chosen One. Ora però lo scenario è cambiato. Niente Lebron, niente Cavs, ma di fronte l’ex Houston Rockets si ritroverà altro cliente non facilissimo: Paul Pierce. Sarà una vera e propria crociata quella di ‘Ron Ron’ contro ‘The Truth’. Una sfida nella sfida ed un Artest in missione speciale nel limitare The Captain. Dall’altro lato evitare di farsi trascinare in qualche situazione particolare sarà l’imperativo principale per il leader dei Celtics in una serie che si preannuncia lunga e dispendiosa. Senza contare che ‘Double P’ dovrà tenere sempre gli occhi aperti e vigili su di un giocatore che in un amen potrebbe accendersi, infiammarsi e risolvere una singola partita, per informazioni chiedere ai Suns di gara6.
A RT E S T
PIERCE
LOS ANGELES LAKERS - BOSTON CELTICS: SEASON MATCHUP
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DI
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Boston Celtics
D OMENICO P EZZELLA
P PO OW WE ER R F FO ORWA RWAR RD D
GASOL
Una delle tanti chiavi che risolse, a favore dei Celtics, la Finale Nba del 2008. Un duello che The Big Ticket Kevin Garnett dominò in lungo ed in largo nei confronti di un Pau Gasol poco presente e poco determinate rispetto a quello visto ed ammirato nella scorsa stagione e nella scorsa edizione delle Finali. Un duello che in quell’occasione fece sorgere qualche dubbio di troppo nei confronti della solidità del catalano che di sicuro vorrà riprendersi la propria rivincita. Un duello che promette scintille tra due giocatori dal repertorio tecnico su ambo i lati davvero senza eguali. Per la prima volta in questi playoff lo spagnolo avrà a che fare con un lungo capace di stare con lui in ‘single coverage’ sia nei movimenti fronte che spalle a canestro o in quelli laterali quando la ‘furia rossa’ parte sulla riga di fondo con i suo soliti ‘spin’, giro e tiro e quant’altro. Ma ancora più importante un lungo che non gli regala centimetri importanti per tirargli sulla testa. Ma le preoccupazioni, non vengono certo solo ed esclusivamente dalla difesa che Garnett può riservargli (marcatura che potrebbe cambiare solo ed esclusivamente quando Jackson spedirà in campo Lamar Odom da numero ‘4’ spostando Gasol nello spot di numero ‘5’ costringendo magari Rivers ad adeguamenti necessari inserendo Rasheed Wallace privandosi della presenza a centro aria di Perkins ndr ), visto che dall’altra parte l’ex Minnesota di sicuro non gli darà pace. Mai come in questa serie l’ex Memphis non potrà certo permettersi di difendere un possesso si ed uno no o magari scegliere in quali momenti essere determinante anche in difesa. I flash back al 2008 potrebbero essere un qualcosa di nuovamente attuale e se i Lakers vogliono puntare al primo ‘back to back’ del dopo Shaq hanno bisogno anche e soprattutto di Gasol.
#4
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GARNETT
LOS ANGELES LAKERS - BOSTON CELTICS: TEAM LEADERS
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#1
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Los Angeles Lakers
BYNUM
NBA PLAYOFF
C CE EN NT TE ER R
Uno scontro di facciata. Un faccia a faccia che potrebbe durare davvero il tempo di uno schiocco di dita e certo non direttamente da parte dei Celtics. Fino a questo momento la post season di Andrew Bynum non è stata certo entusiasmante o se volessimo essere un tantino cinici e cattivi i Lakers non sono certo arrivati all’atto finale della stagione grazie a lui. Certo l’attenuante dei guai fisici alle ginocchia un tantino lo scusa, ma ancora una volta nei momenti cruciali della stagione il 17 non è certo il numero principale sulla ruota dello Zen in panchina, anzi. I problemi di falli di Gasol, cosi come è accaduto in gara6 contro Phoenix, l’unico motivo per cui Bynum potrebbe spendere qualche minuto in più rispetto a quello che ha giocato fino a questo momento. Una scelta tattica o meno (a voi la scelta del modo di vedere la questione ndr) che potrebbe, però, condizionare un tantino anche le scelte di Rivers. Tenere a lungo Perkins in campo nei momenti di Gasol da centro è un azzardo che difficilmente coach Rivers potrebbe permettersi pensando magari di esplorare in situazioni maggiori l’idea di mettere sul terreno di gioco ‘Sheed’ per un quintetto più leggero e simile a quello degli avversari. Ma senza Perkins Garnett sarebbe costretto ad alternarsi con l’ex Pistons (sperando che ‘Sheed’ possa piazzare nell’atto più importante della sceneggiatura la sua interpretazione migliore ndr) a fare a botte sotto le plance per i rimbalzi, cosa che invece Perkins fa per mestiere sera dopo sera.
PERKINS
THE COACH: P PH HIILLLL J JA AC CK KS SO ON N Il titolo dello scorso anno gli ha permesso di superare un altro Celtics quel Red Auerbach nel conto di anelli in tasca. Quella di quest’anno sarà una finale per allungare il passo si, ma soprattutto per rifarsi di una sconfitta e di una debacle che nemmeno lui ha digerito più di tanto cosi come le continue mosse difensive di Thibodeau. Mettere i gialloviola ad un solo titolo dai 17 assoluti dei Lakers sarebbe la giusta ‘consolazione’ per un
2008 amaro e che ha posticipato la sua cerimonia per il decimo titolo da head coach. Di sicuro rispetto al 2008 dovrà inventarsi qualcosa di più anche solo per sorprendere la panchina avversaria. Non è certo nello stile di Jackson improvvisare o cambiare registro all’improvviso, ma non farlo significherebbe dare troppo agio alla difesa di Boston di adeguarsi a tutte le varie situazioni tecnico tattiche sul terreno di gioco.
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DI
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Boston Celtics
D OMENICO P EZZELLA
T TH HE E B BE EN NC CH H
ODOM
Due panchine lunghe per l’invidia di Oronzo Canà che tanto aveva predicato questa prerogativa nella sua Longobarda nel celebre film l’allenatore nel pallone. Due roster completi, ma con due uomini simboli: Lamar Odom e Rasheed Wallace. Uno per parte. Ognuno l’ago della bilancia della propria squadra nel bene e nel male. ‘Lamarvelous’ è l’arma migliore che dalla scorsa stagione coach Jackson possa far uscire dalla panchina. Con lui in campo le partite vengono rivoltate come un calzino su tutti i ventotto metri di campo. Le doti di ‘all-around’ dell'ex Clipper ed Heat non le scopriamo certo oggi, ma il titolo del 2009 cosi come l’approdo alle finali per il terzo anno consecutivo è anche merito suo. Il suo nome, insieme a quello del catalano, fu uno dei tanti nomi messi sul banco degli imputati nella sconfitta 4-2 proprio contro i Celtics nelle ormai citatissime finali del 2008. Il suo nome, cosi come quello di Gasol, sarà sulla bocca di tutti in attesa che il newyorkese possa prendersi la personale rivincita. Dall’altra parte, invece, la stagione di Rasheed Wallace non è stata certo all’altezza delle aspettative o quanto meno di quelle che gli addetti ai lavori o tifosi si potevano immaginare. Sempre un tono sotto al ‘proprio tono di voce’ l’ex Pistons che ha giochicchiato per tutta la stagione per poi piazzare un paio di zampate e niente più, durante questa post season. Se la sua idea era quella di vincere un altro titolo da protagonista ed essere il vero ‘Fab Four’ di Boston è giunto il suo momento. L’atipicità dei lunghi gialloviola sono pane per i suoi denti non solo in attacco, ma anche in difesa. Tom Thibodeau e Rivers di sicuro si aspetteranno il definitivo ‘step up’ da parte sua per arrivare ad alzare l’ennesimo Larry O’Brien Trophy. Dulcis in fundo outsider da non sottovalutare: Tony Allen per le doti difensive messe in mostra contro Lebron James e Nate Robinson per la sfuriata decisiva in gara6 contro Orlando con Rondo in panca per i Celtics, ed il tris VujacicFarmar-Brown.
THE COACH: D DO OC C R RIIV VEER RS S Non sarà il decimo anello, ma allargare il divario del conto degli stendardi tra due rivali storiche del parquet a stelle e strisce di sicuro varrà quanto tutto il palmares del coach avversario per quanto riguarda il popolo di fede biancoverde. Mischiare le carte per non adattarsi troppo alle scelte offensive del dirimpettaio, sarà una mossa su cui l’ex Magic dovrà puntare se non vuole esse-
re risucchiato nelle trappole celate di Jackson. Esplorare la panchina a fondo, con magari utilizzo anche di giocatori non sempre visti oltre il riscaldamento, potrebbe essere un toccasana in una serie lunga. Dall’altra parte avere un fido scudiero che in difesa fa tutto il lavoro come il re della difesa Thibodeau è un gran bel vantaggio per chi ha altro a che pensare.
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Power Ranking
WA L L A C E
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Los Angeles Lakers ...Through t
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Bostons Celtics t h e Ye a r s . . .
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STAR S ‘N’ STR I PES
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AROUND THE NCAA
M ICHELE ICHELE TALAMAZZI ALAMAZZI DI
Road to Draft 20 10
l ‘futuro’ inizierà il prossimo 24 giugno al Madison Square Garden, teatro come ormai tradizione del Draft NBA, per antonomasia una della scienze più inesatte di questo pianeta. Giusto il tempo di respirare a pieni polmoni l’aria magica delle Finals tra Lakers e Celtics, poi la scena sarà già incentrata sulla prossima stagione. Su cosa farà LeBron, ovvio, ma anche sulle matricole, in un’annata che sembra davvero molto fertile di buoni giocatori. Ed una stella promessa come John Wall. Il ‘mock draft’ è un giochino vizioso, con altissime probabilità di essere smentito,
ma in fondo è il bello delle scelte: giocare con la fantasia, ipotizzare l’impatto di un primo anno in questa o in quell’altra squadra, scovare i possibili ‘bust’ o chi rimarrà deluso nella ‘green room’. Ci proviamo anche noi.
1. WASHINGTON WIZARDS In un’annata disgraziata, tra ferri proibiti in spogliatoio e la morte dello
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storico proprietario Abe Pollin, la sorte ha pagato il suo credito ai Wizards sottoforma di pick numero 1, e quindi sottoforma di John Wall. Scelta sicura da almeno un anno a questa parte a prescindere da chi avrebbe scelto, ora la domanda a Washington è ‘lo mettiamo di fianco ad Arenas o no?’. Probabilmente sì, per un back court potenzialmente fortissimo; se la risposta è negativa, tradare il ‘pistolero’ potrebbe portare qualche giovane di qualità per dare il via una ricostruzione attorno a Wall, che al Draft Combine si è rivelato anche fisicamente più imponente del Rose cui tutti lo paragonano. 2. PHILADELPHIA 76ERS Per talento il secondo giocatore di questo draft è senza dubbio Evan Turner, all-around di Ohio State che nell’ultimo anno di college ha avuto il vizio di flirtare, giocando in tutte e tre le posizioni di esterno, con la tripla doppia. E non a caso ha vinto il premio di Player Of The Year, facendo sorgere anche qualche dubbio (peraltro svanito alla svelta) sulla prossima pick numero 1. A Philly sembrano non esserci dubbi sulla seconda, ne sul fatto che giocherà prevalentemente 2 o 1, visto che la volontà è, ovviamente, quello di accoppiarlo con Iguodala nella speranza di tornare in fretta alla post-season. 3 . N E W J E R SE Y N E TS Tutto lascia pensare che i Nets, ‘trombati’ dalla lottery dove avevano più palline di chiunque altro, sceglieranno Derrick Favors. Perché anche se è reduce da una stagione ‘peggiore’ di quella di DeMarcus Cousins a Kentucky, l’ex Georgia Tech ha un potenziale maggiore, e perché con Brook Lopez tra gli uomini di punta della propria squadra Favors si accoppia decisamente meglio, avendo più gioco frontale. Nulla toglie, però, che non avendo certezze fra gli esterni a parte Devin Harris, si faccia un pensierino a Wes Johnson di Syracuse, ma francamente ci stupiremmo di una non scelta di Favors.
4. MINNESOTA TIMBERWOLWES Premesso che da una squadra che l’anno scorso scelse due point guard (per poi vederne una, quella più talentuosa, vincere l’Eurolega) di fila ci si può aspettare di tutto, il nome che David Kahn indicherà a David Stern per la chiamata numero 4 è forse il primo su cui ci sono diversi dubbi. Anche perché qualsiasi scelta venga fatta, probabilmente i Twolwes dovranno sacrificare qualcuno. Se sarà DeMarcus Cousins, uno tra Love e Jefferson è di troppo, se si sceglierà su un’ala solida come Wes Johnson da Syracuse, occorrerà puntare forte su lui e Brewer. 5. SACRAMENTO KINGS In linea di massima, chi fra Cousins e Johnson non verrà draftato dai Twolwes, non dovrebbe scendere oltre questo pick. Ai Kings manca un’ala piccola efficace su entrambi i lati del campo come potrebbe essere Johnson, ed in fin dei conti ha un discreto pacchetto lunghi con Hawes e Thompson. Per questo difficilmente chiamerà un altro lungo come Aminu o Monroe. Chiaro, però, che se ci fosse l’opportunità di scegliere Cousins, difficilmente si passerà la mano, perché il talento dell’ex
Kentucky e la sua ottima stagione da freshman valgono anche una chiamata più alta. Sotto la cinque si entra in campo molto meno definito, in cui tanti atleti si equivalgono e inizia a contare sempre di più ciò di cui una squadra ha realmente bisogno. Alla 6 sceglie Golden State, Aminu e Monroe sono due lunghi con doti perimetrali e quindi spendibili per il sistema di Nelson, sempre che non abbia colpi di testa europei (Motiejunas?); alla 7 Detroit dovrebbe puntare sul centrone bianco di Kansas, Cole Aldrich, per dare consistenza al proprio reparto lunghi. Tra il pick numero 8 e 10 scelgono LA Clippers, Utah e Indiana: anche qui, verosimilmente, caccia al lungo, con quel che rimane di Aminu o Monroe, Ekpe Udoh e Ed Davis. Monroe ai Jazz sarebbe perfetto con le sue doti di passatore; sinceramente, però, per noi andrà via prima. I Pacers avrebbero bisogno di qualcosa sul perimetro, ma a meno di andare su Xavier Henry o James Anderson, a queste latitudini c’è pochino.