il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano TU TTO SU L DRAFT E SU LLE NUO VE L EV E D ELLA NBA 201 0/11
Sara’ ancora
‘Re’ a Miami?
NBA FINA LS - LA FESTA DI L.A. P ER I LA KE RS
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L ’ AN ALI S I - L A RI NA SCI T A DEI NE W J E RSEY N ETS
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I L P E RS ON A G GI O 2 AL JEFFERSON N B A N E WS A R O U ND T H E US A
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Stars ‘N’ Stripes ideato da: scritto da:
Domenico Pezzella
NBA FREE A GENC Y LA SCELT A DI LEBRON
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NBA FREE AGENC Y - A MIA MI IL NUOVO ‘BIG THREE’
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R EP ORT AGE - ALLEN IVER SON ‘COME BACK’ PAR T I II
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NB A FR EE AG ENC Y - THE S TAT S I L PI ON IER E D EI NU O V I K NI CK S
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NB A FR EE AG ENC Y - JOH NS O N I L ‘P APE RO NE’ D EG LI HA WK S
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DOSSIER IL ‘G EN IO RIBELLE’: RASHEED WALLACE
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Alessandro delli Paoli
Bennedetto Giardina Raffaele Valentino
Nicolò Fiumi
Domenico Landolfo
Stefano Panza
Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco Stefano Livi
info, contatti e collaborazioni:
Lorenzo de Santis
domenicopezzella@hotmail.it
IL PERS ON A GGIO: JOSE C ALDERON
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DRAFT 2010 T UT TO S U L PR I MO GI R O
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La motivaz ione: «A S outh Bea ch per vincere subito l’anello» NBA FREE AGENCY
Come molti oramai ben sapranno, il Calendario Maya prevede, nel 2012, un evento che in un qualche modo sconvolgerà il nostro mondo. Ora, qualcuno ritiene si tratterà della fine del mondo, altri semplicemente parlano di un evento che cambierà per sempre il modo di ragionare e la concezione della vita avuta fino a quel momento. Bene, dopo la prima decade di luglio possiamo arrivare ad affermare che il 2012 Maya dell’NBA, per certi versi, potrebbe essere questa torrida estate 2010. Perché? Chiedetelo ai tifosi dei Cavaliers, quando l’8 di luglio intorno alle 20:25 ora locale hanno sentito pronunciare a LeBron James le seguenti parole: “Il prossimo autunno mi trasferirò a South Beach, per giocare nei Miami Heat.” Chiedete ai tifosi dei Cavaliers se a loro quelle parole non sono parse assimilabili alla fine del mondo cestistico, ma non necessariamente solo di quello. Non credete alla fine del mondo? Quanti allora, dopo quelle fatidiche parole, arrivate dopo un bailamme di voci e incontri
più o meno segreti, non hanno cambiato idea e percezione nei confronti di James, e volendo anche della NBA in generale, tenuta in scacco dalla decisione di un singolo talentuoso come pochi, forse nessuno, ma ancora privo di argenteria alle dita? Non c’è un dubbio che quest’estate verrà ricordata come una delle più strane e attese della storia della Lega, e questo lo si sapeva e diceva già da tempo. Se sarà anche una della estati più determinanti a livello di risultati nella storia, quello solo il tempo ce lo dirà. Intanto ripassiamo tutti d’un fiato questi assurdi otto giorni, partiti dal primo incontro di LeBron James nei suoi uffici di Cleveland, e terminati a Greenwich, Connecticut, nulla a che vedere con il Greenwich di britanniche longitudini, ma lo stesso centro del mondo per una notte. Riavvolgendo il nastro si torna al primo di luglio, al primo pomeriggio di quel giorno, all’IMG Building di Cleveland, di fronte al quale il front office dei Cavs ha fatto appendere un
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N ICOLÒ ICOLÒ F IUMI IUMI Fonte foto: facebook.com
cartellone pubblicitario di svariate decine di metri quadrati di area con su scritto semplicemente “Home”, giusto per ricordare a qualcuno che l’Ohio è la propria terra natia. E la terra natia non la si abbandona tanto facilmente. Cartellone che altro non era che un semplice tassello di una campagna pubblicitaria portata avanti per convincere James a non andarsene, tappezzando la città di scritte del tipo: “Community”, “Mission”, “Commitment” e appunto “Home”, tutto molto americano, ma anche tutto molto indicativo del peso che un giocatore come James avrebbe avuto per l’intera città di Cleveland e non solo per la squadra di basket. Ma dicevamo degli incontri con le 6 precedenti. Nets e Knicks il primo giorno, Heat e Clippers il secondo, Cavs e Bulls il 3 luglio. Partono i cugini da New York. Agli exit pool vanno meglio i futuri Brooklyn Nets. Jay-Z presenzia e propone a James svariate partnership (vestiti, profumi, musica), Prokhorov gli racconta per sommi capi che, avendo
guadagnato tutti quei soldi nella giungla del petrolio, si sente abbastanza fiducioso di fare bene nel mondo della pallacanestro. I Knicks, invece, vanno a vuoto. Nonostante una puntata dei Soprano’s montata apposta per lui, nonostante le parole di Mike D’Antoni che gli spiega la sua idea di attacco in campo aperto, nonostante la presenza speciale di Allan Houston, che gli fa un discorso da atleta a atleta. L’inghippo è la voce che impazzisce in quelle ore, secondo cui i Knicks avrebbero offerto un contratto di una certa rilevanza a Amarè Stoudemire. Il rumors costringe il front office della Grande Mela a incontrarsi nuovamente con l’agente di Bron il giorno seguente. Che è poi il giorno di quel volpone di Pat Riley, che la notte prima ha già buttato le basi del suo capolavoro, parlando in anteprima con l’entourage del ragazzo da Akron. Arrivano lui, Spoelstra, il proprietario Mickey Arison e Zo Mourning, che anche se non parla la sua influenza la fa sempre sentire. Tre ore tre. 180 minuti di
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cui si verrà a sapere poco o niente. Poi, sfiga, tocca ai Clippers. Animo ragazzi, ci sarà tempo per rifarsi. La franchigia più iellata della Lega arriva con soli due rappresentanti, fra cui il GM, Neil Olshey, che James lo avrebbe allenato anni fa a un camp, quando il ragazzo era ancora all’ultimo anno di high school. Il destino si diverte parecchio. Subito dopo Pat Riley, subito dopo la franchigia che si porterà a casa James, tocca ai poveri Clippers. Le dichiarazioni di Olshey successive all’incontro, che a differenza degli Heat dura solo un’ora, tutti segni della scarsa confidenza dei Clips di potercela fare, le lasceremo anche perdere. Terzo giorno e, mentre i Nets si dichiarano entusiasti dell’andamento del colloquio, è il momento dei Cavs. James arriva di buon ora ai suoi uffici, e trova ad attenderlo centinaia di tifosi posizionati lì dalla dirigenza che lo pregano in ginocchio di rimanere. Poi arrivano i dirigenti della squadra. Incontro lungo, toccante e divertente dicono i presenti. Si passa da un cartone animato in stile Griffin con James ovvio protagonista, alle parole di Byron Scott in video al discorso del proprietario Dan Gilbert, certamente più dolci di quelle sentenziate dopo l’addio dell’ex numero 23. E poi sotto con i Bulls , arrivati con il presidente Jerry Reinsdorf, il GM Gar Forman, coach Thibodeau e John Paxson e accolti non esattamente con petali di rosa dai tifosi di Cleveland presenti. Anche in questo caso poche informazioni e parole a riguardo. La voce del momento è che Dwyane Wade parrebbe interessato a indossare la maglia che fu di Michael Jordan. Illusions… Passano tre giorni in cui si parla di tutto. Ognuno fa la sua previsione. Un momento LeBron sembra più vicino ai Cavs, a New York giurano che andrà a Chicago, nella Windy City alzano spallucce occhieggiando Boozer per tirare dalla propria parte il Prescelto. I Clippers? Dai, non scherziamo… Poi, improvviso, il fulmine a ciel sereno. Irrompe sui siti la seguente notizia: “Chris Bosh sembra intenzionato a raggiungere Dwyane Wade e a giocare per i Miami Heat.” Che rimane una notizia ufficiosa per poche ore, perché il 7 luglio i due diretti interessati ne danno conferma in diretta televisiva, rigorosamente su ESPN. Carlos Boozer, nel frattempo firma a Chicago, e i Knicks ingaggiano Stoudemire per davvero. Pensare a LeBron a Cleveland è compito per noi romantici. Intanto nuovo colpo di scena. LBJ fa sapere, con regale distacco, che annuncerà il suo destino in uno speciale televisivo di un ora in diretta su ESPN, alle 21 ora locale della suddetta
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Greenwich, in Connecticut, che non è troppo lontana dal New Jersey, quindi ovviamente qualcuno ci ha sentito puzza di marcio sotto. Illusions… L’attesa a questo punto si mischia con un minimo di fastidio. In molti cominciano a pensare che questa storia stia andando un pò troppo oltre. Ma intanto è già l’8 di luglio. Ed è mattina in Italia quando su tutti i siti americani specializzati si cominciano a rincorrere le voci sulla decisione di LeBron. Miami Heat, South Beach, Dwyane, Chris, sole, anelli, Kobe permettendo. Illusions.. per niente questa volta. Arriva l’orario fatidico, James entra al Boys’n’Girls Club di Greenwich. Sono le 3:18 ora italiana quando comincia un intervista di circa una decina di minuti che si concluderà con le parole sopracitate e di cui vi riportiamo nel box a parte tutti i passaggi. Il dopo decisione è stato: maglie di LeBron James in fiamme a Cleveland il passo è breve. Aggiungeteci qualche ora per la lettera ai tifosi in cui Dan Gilbert appella LeBron come un “codardo che si è tirato indietro in tanti momenti importanti dei playoffs”. James, come in effetti ha analizzato nella sua intervista, sa che questa scelta avrà inevitabilmente due effetti, opposti più che mai. Da un lato l’attrattiva di giocare in un trio con Wade e Bosh è in effetti una prospettiva che alletterebbe chiunque e a cui non è semplice dire di no, perché è ragionevole pensare che già da ora, momento in cui gli Heat hanno a contratto 4 giocatori, Miami sarà una delle favorite al titolo non solo per la prossima stagione, ma per un considerevole numero di stagioni future. Dall’altro c’è quella percezione generale che la gente avrà di lui. Abbandonare Cleveland per andare in casa di Dwyane Wade è stato visto da tutti come un arrendersi all’evidenza che da solo non ce l’avrebbe potuta fare e ha tolto ulteriormente alone di onnipotenza a un giocatore che per anni è sembrato un predestinato a prendersi in mano la Lega, mentre ora deve chiedere il permesso a Wade e l’aiuto di Bosh. Certo qualcuno potrebbe obiettare che se ti venisse offerto di passare da una situazione dove le tue prime due spalle si chiamano Mo Williams e Antawn Jamison a una dove queste rispondono ai nomi di Dwyane Wade e Chris Bosh e tu non accettassi potresti essere ritenuto un pazzo da un ragguardevole numero di persone. Ma rimane comunque il dubbio che un titolo vinto a Cleveland avrebbe avuto più significato di quanti mai ne potrà vincere in Florida. Alla fine di tutto ciò, probabilmente, l’uomo che ne esce, nuovamente, vincitore, è Pat Riley. Portarsi a casa
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tre stelle di questo calibro, che già hanno giocato insieme in nazionale, riuscendo ad avere comunque un discreto spazio salariale per completare la squadra è un colpo che definire da maestro è semplicemente riduttivo. La convivenza tra Wade e James potrebbe non essere delle più semplici, giocatori di potenza e penetrazione con poco tiro da fuori, mentre Bosh come terzo violino è un lusso che in NBA non si permettono
nemmeno i Lakers. Ma intanto andatelo a spiegare alle difese che ogni sera dovranno prepararsi contro una squadra che sarà senza nessun dubbio la più seguita, chiacchierata e discussa del prossimo anno. Una squadra dove giocherà un Re che ha abdicato per raggiungere l’agognato anello. Perché, anche se sei un sovrano, la pallacanestro rimane pur sempre un gioco di squadra.
INTERVISTATORE: Allora LeBron, com'è procede l'estate? JAMES: «Ovviamente penso solo alla free agency». I: Cosa ne pensi di tutto questo? J: «Due anni fà sono stato io a prendere una decisione per essere in questa situazione quest'anno e poter valutare le offerte di diverse squadre, potendo così scegliere quella migliore per me». I: Non hai avuto la possibilità di essere reclutato al college perchè sei passato direttamente alla NBA dalla high school. Ti è piaciuta questa esperienza? J: «Si, me la sono goduta. E voglio ringraziare tutte e sei le squadre con le quali mi sono potuto sedere a parlare. E' stata davvero una grande esperienza, emozionante». I: Abbiamo visto cartelloni pubblicitari per te, squadre che hanno svuotato il salary cap solo per avere una chance di ingaggiarti, cartoni animati in tuo onore, addirittura Barack Obama ha fatto sapere di volerti nei Chicago Bulls. Come hai reagito, cosa ti aspetti come conseguenza di tutto questo? J: «Sono cose su cui io non ho controllo. Ho solo sperato che tutto ciò portasse al fatto di potermi sedere al tavolo con le diverse squadre e parlare con loro di come aiutarci a vicenda per vincere. Ed è esattamente quello che è successo e che speravo potesse succedere». I: Quante persone conoscono già la tua decisione? J: «Non molti, un numero ristretto, all'interno della mia famiglia». I: Quando hai preso la decisione? J: «Questa mattina. Per giorni mi sono svegliato con idee sempre diverse in testa. E' stato un processo lungo in cui mi sono sempre chiesto quale fosse la migliore opportunità per me. Ma questa mattina mi sono svegliato e ho avuto una conversazione chiarificatrice con mia mamma, e dopo questo non ho più avuto dubbi». I: Quindi hai cambiato idea ieri per l'ultima volta? J: «L'ultima volta in cui ho cambiato idea è stato probabilmente questa notte mentre sognavo! E quando mi sono svegliato stamattina sapevo qual'era la decisione giusta da prendere». I: La squadra in cui giocherai conosce già la tua decisione? J: «Si, hanno avuto modo scoprirlo...» I: Chi ha avuto maggiore influenza su di te in questa decisione? J: «Ho ascoltato molto la mia famiglia e i miei amici. Il mio agente Leon Rose è stato molto importante. Sono tutte persone che ascolto nei momenti in cui devo prendere decisioni rilevanti. Mi hanno ricordato che è una decisione di grande interesse per me e la mia famiglia, ma che alla fine deve comunque rendermi felice». I: Quel'è stata la motivazione che ti ha spinto maggiormente verso questa scelta? J: «La possibilità di vincere da subito e anche nel futuro. Per me vincere è la cosa più importante. Voglio aiutare i miei compagni a migliorare e vincere. Non c'è niente di più importante per me». I: Quanto a fondo hai pensato al futuro nella tua prossima squad ra ? J: «Una cosa che non puoi controllare è ciò che accadrà in futuro. Quello che puoi fare è metterti nella migliore posizione possibile, ma nonostante questo non puoi sapere con certezza se vincerai il titolo l'anno prossimo, o quello dopo o quello dopo ancora. Devi metterti in una posizione in cui sei competitivo e puoi essere più vicino a quello per cui stai giocando». I: Hai qualche dubbio sulla tua decisione? J: «No, non ho alcun dubbio». I: Ti mangi ancora le unghie? J: «Sì, un pò ancora». I: Beh, c'è parecchia gente in questo momento che se le sta mangiando nervosamente. Quindi credo che sia il momento di porti la domanda che tutti aspettano, LeBron, quel'è la tua deicisone? J: «Quest'autunno (pausa scenica), è davvero difficile dirlo, mi trasferirò a South Beach e giocherò con i Miami Heat».
I: Perchè i Miami Heat? J: «Come ho detto in precedenza, credo che sia la situazione migliore per pensare di poter vincere da subito e per gli anni a venire. Non solo vincere in regular season, ma vincere dei titoli, che è quello che voglio più di tutto». I: E' stato da subito nei tuoi piani andare a giocare con Dwyane Wade e Chris Bosh? J: «Ci avevo pensato, ma non posso dire che sia da sempre nei miei piani, perchè non avrei mai pensato che sarebbe stato possibile. Ma dopo quello che Miami ha fatto per liberare spazio salariale per tutti e tre era difficile dire di no. Sono due grandi giocatori. E con me potremo costruire un'ottima squadra attorno». I: Voi tre ora dividerete le luci della ribalta. In un certo senso sarete in casa di Dwyane Wade che ha già vinto un titolo. Come pensi che riuscirete a inserirvi in questa situazione? J: «Secondo me non si tratta di dividere le luci della ribalta. Piuttosto ognuno avrà le proprie. Faremo quello che è meglio per la squadra». I: Come spieghi questa scelta alla gente di Cleveland? J: «Per me è molto dura. In questi 7 anni ho dato tutto me stesso a questa franchigia. Gli oltre 20 mila spettatori che c'erano ad ogni partita mi hanno visto crescere da quando avevo 18 anni, non me ne sarei mai voluto andare e il mio cuore apparterrà sempre a quella zona. Ma sento anche che la sfida più grande per me è quello di andare avanti per un altra strada». I: Quel'è stata la motivazione principale che ti ha spinto a lasciare i Cavaliers? J: «Non vedo questa cosa come un lasciare Cleveland, ma piuttosto come un unire le forze con altri due grandi giocatori. Sento che abbiamo una grande chance per vincere molti titoli tutti insieme. E' un momento molto importante per me e per i tifosi. Avrei voluto restare, perché come io ho fatto molto per loro, loro hanno fatto altrettanto per me. Ma semplicemente sentivo che era venuto il momento di cambiare». I: Che reazione ti aspetti dai tifosi di Cleveland? J: «Non ne sono sicuro. Penso che sarà un mix di emozioni. Ci sarà chi mi incolperà e non capirà la decisione, e ci saranno i veri amici che mi supporteranno lo stesso. Ma per me Akron e l'Ohio saranno sempre la mia casa». I: Erik Spoelstra sarà il tuo allenatore. Hai parlato con Pat riley di un suo possibile ritorno in questa stagione? J: «No, Pat ha detto che Erik sarà il coach. E' giovane e molto preparato, e ha un grande mentore come Riley a cui può chiedere consigli in ogni momento. Ho grande rispetto per coach Spoelstra e per tutto il coaching staff e sono convinto che daranno il massimo per consentirci di vincere il più possibile». I: Rifaresti tutto questo da capo? J: «E' stata dura... Perchè ho avuto la sensazione di deludere molte persone, ho alzato ulteriormente le aspettative che la gente ha nei mie confronti. E' stata una scelta difficile perchè io sono una persona onesta, ma una cosa che mia ha detto mia madre è che alla fine di questo processo decisionale avrei dovuto scegliere quello che era meglio per me e che mi avrebbe reso felice, perchè alla fine sarei stato io a dover convivere con la mia decisione e le sue conseguenze. E, visto che considero mia madre come una delle mie guide, è stata facile decidere a quel punto». I: Quel'è stata l reazione di tua madre quando le hai comunicato la tua scelta? J: «Pensavo che avrebbe avuto un altra reazione, invece mi ha detto di aver fatto la scelta giusta perchè mi avrebbe reso felice, aldilà del fatto che avrei giocato a Miami o che avrei giocato con Chris e Dwyane. E queste parole sentite dalla sua voce sono state un sollievo per me».
Tutta l’intervista in diretta Tv
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Lebron, Dwyan Il nuovo ‘Big Th
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L ORENZO
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DE
S ANTIS
L'Nba e` un mondo strano, molto strano, basti pensare che gli Heat passeranno in una sola estate da un manipolo di ragazzi volenterosi ma obbiettivamente non adatti alla corsa per il titolo, ad una squadra additata da tutti come papabile di passare alla storia come una delle piu` dominanti delle ultime decadi. Fino a 10 giorni fa, Dwane Wade, guardandosi intorno, vedeva un futuro nebuloso, fatto di un solo titolo, peraltro definito fortunoso da molti, mentre oggi vede al suo fianco due superstar assolute come James e Bosh, e la squadra che tutto il mondo muore dalla voglia di veder giocare. I dubbi nella testa di Flash non sono stati molti a dire il vero, il desiderio principale della medaglia d’oro olimpica a Pechino è sempre stato quello di rimanere a Miami, troppo legato all’ American Airlines Arena, spesso da lui definita come “casa”, troppo legato al suo mentore Pat Riley, troppo riconoscente alla franchigia che l’ha reso uno dei migliori giocatori della lega. Le voci si sono comunque susseguite, e Wade ha in ogni caso ascoltato attentamente le offerte pervenute in particolare da Knicks e Nets, oltre che dai Bulls, che hanno utilizzato come arma principale nel tentativo di convincimento, prima ancora che le prospettive tecniche (pur ottime) , le origini del giocatore, cresciuto proprio nei sobborghi di Chicago e chiaramente legato emotivamente a quelle terre e a quella citta`. Wade pero` e` rimasto a casa per vincere con la SUA squadra, tanto che ha aiutato Riley ad allestire una superpotenza esponendosi in prima persona ,contattando i giocatori ed essendo disposto eventualmente anche a rinunciare a qualche soldo, sapendo bene che a 28 anni suonati le prossime 3-4 stagioni sono decisive per entrare nella storia di questa fantastica
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lega chiamata NBA con uno o due trofei alzati. La consulenza di Wade e` stata indubbiamente decisiva nel convincere il Re, ma anche Chris Bosh, in quel famoso weekend in cui i tre si sarebbero incontrati per discutere del loro futuro. La partenza del numero 4 da Toronto ( a Miami indossera` la casacca numero 1) era data quasi per scontata , tanto che persino il gm Bryan Colangelo aveva ammesso in tempi non sospetti che la sua permanenza in Canada sarebbe stata “molto difficile” , e molte squadre da quel momento sono state accostate all' ex Georgia Tech. A partire dai soliti Chicago Bulls, che avrebbero voluto firmare Bosh in breve tempo, in modo da poter offrire anche a LeBron James uno scenario allettante (cosa che poi ha fatto Miami). Oltre alla franchigia dell'Illinois, anche i Rockets avevano individuato in Bosh il loro principale obbiettivo di mercato, considerandolo il perfetto complemento a Yao Ming, che proprio in questi giorni ha deciso di rimanere a Houston rinunciando alla possibilità di diventare free agent. Il general manager Daryl Morey aveva difatti dichiarato che con Bosh la squadra avrebbe potuto vincere addirittura 60 partite nella competitiva Western Conference. Ci sono stati anche rumors di un possibile sign & trade con i Lakers che coinvolgesse Bynum
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e Odom. Alla fine pero` Bosh ha deciso di firmare con Miami, e la scelta dell'ex Toronto , a conti fatti, e` stata la piu` facile,visto l'altissimo potenziale della squadra; probabilmente il 5 volte All Star ha capito di poter essere il perfetto complemento a un'altra superstar, o addirittura ad altre due, dato che non ha mai dimostrato di poter reggere il peso di un'intera franchigia sulle spalle, nonostante nelle interviste precedenti alla sua scelta avesse affermato di voler essere un leader e il terminale offensivo numero 1 in qualunque squadra per cui avrebbe firmato. Tra l'altro il giocatore aveva anche cercato di confondere le acque, dichiarando al Miami Herald riguardo la possibilità di vederlo in maglia Heat con il chosen one: “Non credo che possa succedere. Non so nemmeno se potrebbe funzionare. Posso sbagliarmi ma la vedo difficile”. Ovviamente queste parole sono stato frutto di pretattica, per guardarsi in giro e vedere quale sarebbe potuta essere la soluzione piu` conveniente. I Raptors, a conclusione del sign & trade, ottengono due future scelte al primo giro del draft 2011 ma quel che e` conta di piu` e` che CB4 giochera` , a partire dal prossimo autunno, all'American Airlines Arena, nella casa di Wade e ora anche di LeBron James.
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Ecco i nuovi Heat: ‘Ai poster l’ardua sentenza’ La citta` di Miami ha assistito con trepidazione allo speciale di un'ora sulla scelta di LeBron James, e quando il prescelto, al termine di una maratona estenuante di almeno un paio d'anni in cui non si parlava d'altro se non dell'estate 2010 e della scelta del Re, ha reso nota la sua decisione di firmare per gli Heat, per le strade si sono scatenati dei veri e propri caroselli, come se la squadra avesse vinto un titolo e anche alla presentazione dei due nuovi acquisti oltre che del confermato Wade, una folla di oltre 10000 persone si e` riversata all'American Airlines Arena e ha mostrato tutta la sua trepidazione per vedere i tre in azione. Adesso resta da definire il roster completo, dato che l'unico giocatore certo di vestire la casacca rossonera l'anno prossimo, oltre ovviamente ai tre All Star, e` Mario Chalmers, che si dovra` calare nella parte che fu di Rajon Rondo nel 2008, quando al suo secondo anno nella lega (Chalmers iniziera` il suo terzo) guido`da playmaker i big three al titolo. L'ex Kansas ha dimostrato di poter competere ampiamente nella NBA, ma ora e` chiamato al passo successivo, quello di farsi trovare sempre pronto per dare il suo apporto ; nessuno si aspetta 10 o 15 tiri di Chalmers nella squadra di Wade, Bosh e James, quello che ci potremmo aspettare, e che servira` per arrivare fino in fondo, sono 6-8 assist a partita, qualche tiro pesante nei finali di gara, e soprattutto tanta difesa e fosforo. Teoricamente anche Micheal Beasley e` ancora sotto contratto con gli Heat, ma appare pressoche` certa la sua partenza, in quanto Riley lo scambiera` con una squadra con spazio salariale in cambio di qualche scelta al draft(ma non giocatori) in modo da trovare i soldi da dare ai 3 pezzi da novanta. Proprio Riley, che con questi acquisti ha dimostrato di essere un grandissimo comunicatore, in grado di vendere sempre al meglio il prodotto che ha da offrire, e` ora chiamato a completare il roster. Paradossalmente pero` proprio ora viene la parte difficile del suo lavoro, in quanto dovra` firmare almeno 8 giocatori al minimo salariale per permettersi le tre medaglie d'oro nel 2008. L'intuito dell'ex coach dei Lakers dovra` portare i pezzi giusti per completare il puzzle, ma va detto che con questo backcourt, che ha tra l'altro una media di appena 26 anni, non ha l'acqua alla gola nel dover vincere subito, anche se ovviamente tutti si aspettano Miami campione NBA gia` nel 2011. Altro capitolo
spinoso, che riguarda Riley piu` che da vicino, e` quello del coach, dato che in molti si aspettano che il 5 volte campione NBA torni a sedersi in panchina. Per ora sembra che Erik Spoelstra, in ogni caso un buon allenatore, resti al suo posto, ma sembra piu` che probabile che alla prima difficolta`o al primo mugugno di uno dei tre Riley tornera` in pista, magari gia` prima dell'All Star Game. Anche perche` non sarebbe credibile pensare che James e Bosh abbiano firmato senza avere comunque ampie garanzie da Riley circa il suo impiego da coach qualora “Spo” dovesse fallire la piu` grande occasione della sua pur breve carriera. In ogni caso sono i giocatori a vincere i titoli, e possiamo tranquillamente affermare che gli Heat hanno preso due giocatori formidabili, tra cui un 2 volte Mvp, cosa non certo usuale e ricorrente se pensiamo che l'ultimo Mvp a cambiare casacca fu Moses Malone nel 1982, passando dai Rockets ai Sixers. Ora Wade, James e Bosh dovranno dimostrare di potersi bene amalgamare insieme; vero che i tre hanno gia` vinto una medaglia d'oro olimpica, ma convivere nella stessa squadra per un anno intero e` sicuramente una cosa diversa. Con la loro scelta, James e Bosh hanno intrapreso una scorciatoia per arrivare al titolo, entrando a far parte di una superpotenza, ma hanno rinunciato, in particolare il prescelto, alla fama dell'immortalita`.Chiaro che un titolo vinto e` pur sempre un titolo vinto (tra l'altro bisogna sempre attendere il verdetto del campo), ma a 25-26 anni si presuppone che un giocatore di questo livello lo provi a vincere “da solo”. L'esempio piu` che calzante e` quello di Kobe Bryant, a cui e` stato dato realmente credito solo dopo che ha vinto un titolo senza Shaquille O' Neal al suo fianco. Per Wade il discorso e` diverso, dato che lui un anello l'ha gia` portato a casa da protagonista assoluto nel 2006 e inoltre si trovera` a giocare per la sua squadra, da idolo dei tifosi e probabilmente da giocatore piu` rappresentativo. Sicuramente Bosh e James tutto questo l'hanno messo in preventivo e sono pronti a rinunciare alla gloria personale per vincere e non vorremmo essere nei panni degli altri allenatori NBA, quando nel quarto periodo dovranno decidere chi raddoppiare. Se tutti e tre riusciranno ad evitare gli infortuni e si caleranno al meglio in un ruolo comunque nuovo per loro, allora all'American Airlines Arena ne vedranno delle belle, e a quel punto avranno si` la licenza di fare i caroselli piu` rumorosi d'America.
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New York riparte dall’ex Phoenix Suns che riabbraccia coach Mike D’Antoni
Amar’e: il‘pioniere’ dei Knicks
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D OMENICO P EZZELLA “I sogni son desideri…ma se credi intensamente un giorno realtà diverrà”. Una delle più famose frasi tratte da un’altrettante famose colonna sonora di una pellicola animata della Walt Disney. Segni, desideri e realtà. Questo il percorso che i Knicks si auguravano si verificasse per l’arrivo in blu arancio del ‘Re’ Lebron James. Ed invece quando i sentori, le intuizioni hanno portato a capire che senza un primo tocco di classe lo stesso ‘Re’ non si sarebbe scomodato a sedersi sul trono della ‘Grande Mela’, allora lo scenario è cambiato ed è stato fatto il primo passo. La prima pietra è stata posta. Dopo mesi ed anni di distruzione, di demolizione con tanto di bulldozer e scavatrici, per mettere al tappeto la costruzione malsana e pericolante in tutti i lati dei suoi predecessori, il presidente Donnie Walsh stringe la mano al primo vero passo verso il futuro (anche se la decisione è arrivata qualche sera prima ad Hamptons alla fine di un parti a casa di James Dolan, proprietario dei Knicks, al quale Stoudemire era presente con il suo agente Happy Walters). Completo elegante, cappellino azzurro con logo rigorosamente arancione sulla parte anteriore, occhi vispi e contenti come chi era pronto a considerarsi come rinato o come un bambino a cui si è regalato un pacco di caramelle, anzi facciamo 100 milioni di caramelle. «The Knicks are backs». Questa la primissima dichiarazione che lo stesso Amar’e Stoudemire ha avuto modo di dire agli organi di stampa più affamati di successi dell’intero pianeta Nba. Ed in parte come dargli torto. Lui rappresenta il nuovo che avanza, nonostante i 27 anni di età. Rappresenta la voglia della società di dimostrare che una volta ripulita l’area è giunto il momento di porre delle nuova fondamenta al fianco di quelle già presenti e lasciate intatte al loro posto nei lavori di ricostruzione, come per esempio coach Mike D’Antoni e Danilo Gallinari (tanto per citarne qualcuno). Come dargli torto se si pensa che in un sol colpo e 100 milioni di dollari in cinque anni - con l’ultimo in cui The Stats andrà a guadagnare oltre venti milioni di dollari - New York si è portata a casa una delle ali
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forti più poderose della Lega. Un giocatore che nell’immeditato - senza che bisogna aspettare crescite o speranze sopravvalutate - è in grado di apportare alla causa un bottino di oltre venti punti conditi da quei otto, nove rimbalzi di media, quando gli va male in serata e tenere botta in un settore dove forse nemmeno sapevano cosa era una vera ‘power forward’ il popolo newyorkese. Ovviamente si sta parlando del passato cestistico recente della città della Grande Mela. Basta con i vari Zach Randolph (mandate indietro la mente a quando ‘The Big Z’ era a New York e non a quello ammirato in questa stagione a Memphis che si è conquistato anche un posto nella sera delle ‘stelle’ a Dallas ndr), basta con i vari Eddy Curry, Al Harrington o chi più ne ha o più ne metta. Ma molto probabilmente basta anche con un tipo di giocatore che ha fatto il bene della squadra nei tempi bui, ma che non era certo in grado di far fare il salto di qualità: David Lee. Insomma avere per anni una squadra fatta di soli esterni, fatta di giocatori ‘ibridi’ da adattare nei vari ruoli della front line, ha portato i Knicks a buttarsi a capofitto sui due nomi principalmente appetibili: Chrsi Bosh e appunto The Stats. Le lungaggine relative alla decisione dell’ex Raptors, cosi come si sarebbe detto per un mancato ingaggio al di qual dell’oceano, poco sono piaciute alla dirigenza arancio blu che hanno preferito la voglia di accettare la sfida da parte dell’ex Phoenix. «La cosa che più ci ha colpito è stata la voglia di accettare la sfida e di vestire questi colori. Mettetegli un ostacolo sulla sua strada e lui di sicuro trova il modo di superarlo» le dichiarazioni di un D’Antoni più che soddisfatto. «Si era arrivati ad una situazione [quella della free agency] in cui nessuno voleva fare la prima mossa. Di fronte all’offerta dei Knicks, mi sentivo fiducioso ed ho fatto la prima mossa. Sono eccitato all’idea di essere parte di una nuova era qui a New York e sinceramente mi sento una sorta di ‘pioniere’ in una città dove voglio mostrare tutta la mia leadership.
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Ma soprattutto voglio ringraziare tutta l’organizzazione dei Knicks che mi ha dato la possibilità di sfruttare questa occasione e di venire in una città bellissima come New York». E non poteva iniziare nel modo migliore la sua avventura all’ombra della ‘signora’ più famosa al mondo l’ex Suns. Già perché queste parole sono come l’odore del sangue per uno squalo, come carne fresca per un leone: i giornalisti e la stampa newyorkese (tanto per farvi un’idea basta dare un’occhiata a quello che si è detto a NY dopo la decisione di Lebron di andare a Miami ndr). Certo non adesso, certo non ora dove tutto è bello e tutto è ancora rose e fiori, ma al primo cenno di difficoltà sicuramente la parola ‘pioniere’ e ‘leadership’ verranno spedite a caratteri cubitali su giornali, siti web e quant’altro. Ma questa è New York; questa è la stampa di New York, della quale si narra di essere stata una delle motivazioni della mancata scelta dei Knicks da parte di ‘The Chosen One’ per non avere poi questo fardello sempre sulle spalle, quello di non sbagliare per poi essere criticato. Ma del rapporto con la stampa ci sarà tempo per parlarne. Almeno per adesso anche gli addetti ai lavori sono consapevoli che New York si ritrova tra le mani un giocatore che sicuramente può essere dominante nelle prossime 4-5 stagioni, ma che per arrivare dove si vuole arrivare ha bisogno di avere al proprio fianco qualche altro pianista pronto a dargli il cambio nella parte di assolo, nei ‘concerti’ al Madison Square Garden. Almeno per adesso sono consapevoli di essersi messo in casa un giocatore veloce come Kevin Garnett e forte come Rashard Lewis e superiore forse a qualsiasi altro giocatore di front line nella Eastern Conference. Una power forward capace di attirare i raddoppi necessari per favorire le praterie e gli spazi necessari a Danilo Gallinari per colpire dalla distanza o con il quale giocare il pick and roll con ottimi risultati, dal momento che le mani dell’ex Milano, in quanto ad assistenze, non sono certo male. Di sicuro non sono quelle di Steve
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Felton c’è, Melo e CP3 nel mirino Ormai è inutile piangere sul latte versato. Ormai è inutile pensare a come sarebbe stato se Lebron avesse scelto di abbraccia New York e non Miami e di spalleggiare Amar’e e non la coppia Wade-Bosh («Mi meraviglia come Lebron non abbia accettato la sfida di divenire il ‘Re’ del Madison» ha dichiarato addirittura Walter Frazier). E’ inutile guardarsi indietro. Un quadro nel quale va compreso assolutamente anche tutta la querelle sulle dimissioni di Walsh per il mancato arrivo di Lebron. Il presidente Operativo dei Knicks, però, non sembra essere a stato a guardare nelle ore e nei giorni successivi alla decisione di Lebron. Il primo ‘regalo’ fatto a coach mike D’Antoni è stato l’arrivo del playmaker dopo la decisione di Duhon di andare in Florida (anche lui!) ma sponda Orlando. Sarà dunque Raymond Felton a guidare le danze dei Knicks, mentre già tutti pensano a quando si potrà costruire un futuro brillante anche senza Lebron ed allora ecco spuntare Tony Parker e Carmelo Anthony.
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LA ‘SHOOTING SELECTION’ DI AMAR’E
Nash; e qui si apre uno dei tasti dolenti o se vogliamo una delle parti buie della scelta newyorkese. A Phoenix i più maligni hanno messo sul piatto della bilancia proprio la considerazione che gran parte degli ‘score’ personali a sera di Stoudemire siano stati in gran parte, se non in tutto, opera delle geniali assistenze del canadese con la passione del calcio. E che quindi di repertorio gli rimarrebbero le schiacciate, che ne fanno attualmente uno dei più poderosi e formidabili ‘dunker’ della Lega, e canestri da rimbalzi. Dimostrare il contrario (anche se non ce ne sarebbe nemmeno bisogno dal momento che nella stagione 2003-04 con Steph Marbury in cabina di regia il conto personale di punti era di 20 abbondanti ad allacciata di scarpa ndr), dunque, sarà la principale sfida di Amar’e che avrebbe potuto restare ai Suns se la dirigenza dell’Arizona non avrebbe posto il proprio veto negativo sulla possibilità di firmare al massimo salariale e per sei anni l’High Schooler natio della Florida. Veto arrivato dopo un’attenta analisi su uno dei dubbi che è stato piazzato sotto il naso anche di Walsh sin dall’annuncio: le condizioni fisiche di The Stats. Condizioni fisiche legate principalmente alle operazioni subite ad ognuna delle due ginocchia e marginalmente anche ai problemi agli occhi. Situazioni ritenute non preoccupanti dal front office newyorkese, di grande rilevanza, tanto da puntare sull’estensione di Channing Frye e l’arrivo di Hakim Warrick, per la dirigenza dei Suns. Tutto questo potrebbe bastare per chiudere il capitolo dei ‘contro’ alla scelta del nuovo numero ‘1’ dei Knicks, ma ci sarebbe un ultimo paragrafo da affrontare: la difesa. Una caratteristica che non è mai stata eccelsa durante la sua carriera, ma che nell’ultima stagione ha avuto un netto miglioramento. Che in squadra non si sia messo il nuovo Charles Oakley o il Patrick Ewing dei bei tempi per quel che
« Mi
sento un pioniere. Voglio dimostrare la mia leadership. I Knicks sono tornati
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riguarda la propria metà campo, Mike D’Antoni lo sa bene, cosi come sa bene che il 2005 con lui alla guida lo stesso Stoudemire ha avuto la sua migliore stagione di sempre. La ‘run and jump’ o se vogliamo la ‘seven second or less’ sono strategie e filosofie che ti portano a segnarne uno più degli altri e quindi un difetto bypassabile, l’importante è avere All Star che sappia fare il suo dovere in attacco e in questo l’ex Olimpia Milano può dormire sonni tranquilli. «La decisione finale – ha commentato Donnie Walsh - è arrivata dopo aver visto la sua voglia di essere parte di questa squadra e quindi noi non abbiamo fatto altro che esaudire questa sua richiesta e prenderci un giocatore che fa al caso nostro». Ed allora ‘Welcome in New York e good luck Amar’e.
L’analisi a TNT dell’ex Gm Steve Kerr
«Con ogni probabilità il migliore ‘finisher’ nel traffico della Nba». E’ partita da questa frase la lunga chiacchierata su Tnt con Steve Kerr in occasione del suo ritorno dal momento che prima di accettare il ruolo di Gm dei Suns lo stesso Kerr era stipendiato dalla tv a stelle e strisce come analista televisivo. Ed una delle principali emittenti via cavo e non d’America, non poteva scegliere un protagonista migliore per affrontare uno dei primi ‘agreement’ della tanto attesa ‘free agency’ del 2010 (tanto attesa che la Nba sul proprio sito ufficiale ha dedicato un’intera sezione denominata ‘Decision’ in cui si parla solo ed esclusivamente di quelle che potevano essere le decisioni dei vari protagonisti anche se come in una classica pubblicità occulta il tutto era stato creato per la decisione finale di Lebron ndr). «Ovviamente al suo fianco dovranno mettere altro talento ed altri giocatori, ma di sicuro New York ha fatto un grosso passa in avanti assicurandosi Am’are». Fin qui tutto normale e tutto liscio come in un normale discorso di commiato, ma da ex addetto ai lavori dei Suns e quindi ex general manager di ‘The Stats’ non poteva certo esimersi dal
disquisire su quella che è stata la questione posta alla base, in chiave polemica ovviamente, del quinquennale milionario intascato da Stoudemire: gli infortuni. «Diciamo che le perplessità, anche se minori, e le rassicurazioni sulle sue condizioni fisiche sono stati gli elementi determinati per arrivare alla decisione di non offrire il massimo a Phoenix in sei anni ad Amar’e. Diciamo che l’offerta si aggirava attorno ai quattro anni. Credo che questo sia l’unico rischio che New York si è assunto e che forse Phoenix non ha voluto assumersi, per il resto è uno dei migliori di questa Lega». Rischio sul quale è intervenuto in maniera molto laconica il capo delle operazioni newyorkesi, Donnie Walsh: «Non so se c’è davvero questo rischio, ma siamo disposti ad affrontarlo».
LE STATISTICHE DELLA STAGIONE IN ARIZONA ...QUESTI I NUMERI IN CARRIERA...
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Joe John so n: il nu ovo ‘ Pa perone’ degli Atl an ta Ha wk s
I primi giorni di mercato sembravano scorrere in maniera sinistramente tranquilla, con rinnovi su rinnovi, facendo temere tutti gli appassionati che la tanto agognata estate 2010 sarebbe trascorsa senza fuochi d’artificio. Joe Johnson doveva essere il “premio di consolazione” per quelle squadre che non erano state in grado di accaparrarsi i pezzi pregiatissimi del mercato. Per lui si parlava soprattutto di New York o Chicago. Più esattamente si supponeva che Johnson avrebbe giocato nella franchigia, tra le due, che non fosse stata in grado di ingaggiare LeBron. Come un premio di consolazione, appunto. Invece dopo pochi giorni di mercato è arrivata forse la conferma meno attesa, quella che assicurava Johnson agli Hawks per altri 6 anni e per una cifra vicina al massimo mai offerto ad un giocatore: 119 milioni di dollari. Ovviamente agli occhi di tutti appare una cifra spropositata per un giocatore di ormai 29 anni, che dunque occuperà 20 milioni del salary cap degli Hawks anche a 34 o 35 anni, certamente nel periodo di fase calante del
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S TEFANO TEFANO PANZA ANZA
rendimento. La dirigenza ha senz’altro ritenuto Johnson in grado di interpretare il ruolo di uomo-franchigia nel corso dei prossimi anni. La squadra già quest’anno ha dimostrato di valere le prime piazze ad est, dunque non sono necessari stravolgimenti per puntare a qualcosa in più. Si parla di un contratto offerto a Shaquille O’Neal, uno che potrebbe fare la differenza a livello di playoff, laddove gli Hawks hanno mostrato le maggiori lacune. Ma perché Johnson, verso cui fioccavano offerte da squadre certamente più affascinanti e potenzialmente ben più ambizione degli Hawks, ha accettato di rimanere in una squadra con pochissime chance di vincere qualcosa a breve, spesso snobbata da stampa e tifosi e con uno degli appeals più bassi della lega? Per soldi, certamente. Atlanta è l’unica che avrebbe potuto offrirgli un contratto di 6 anni anziché 5, e dunque si è garantito, come detto, una ventina di milioni di stipendio anche nel suo 35esimo anno di vita. Non poco. Poi senz’altro per il cambio della gestione tecnica. Atlanta ha salutato con sollievo coach Mike Woodson, il cui servizio in Georgia era virtualmente finito ben prima dello scorso maggio, per sostituirlo con Larry Drew, uomo di fiducia della società e dei giocatori in quanto presente nello staff della franchigia da ben 17 anni. Forse questa mossa è stata decisiva per convincere JJ a restare in Georgia. Johnson ha chiuso la sua stagione con 21.3 punti a partita, 4 in più rispetto alla sua media in carriera. È nei playoff però che doveva dare continuità di rendimento e dimostrazione del suo reale valore. Nelle sette gare di primo turno contro i Bucks ha toccato i 21 punti, seppur con troppi alti e bassi. È contro i Magic, però, che le quotazioni dell’ex Sun sono precipitate: 12.8 punti di media, mai entrato in partita in nessuna delle quattro gare di semifinale. Da qual momento in molti hanno ipotizzato che non si avesse a che fare con un giocatore vincente e di carattere, non il leader di una squadra ambiziosa. Invece è arrivata l’inattesa riconferma in maglia Hawks. Starà a lui dimostrare di meritare tale ingaggio faraonico, e starà a lui elevare il proprio livello di gioco con l’innalzarsi della posta in palio.
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Scontro a ‘alta quot
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N ICOLO ICOLO’ F IUMI IUMI Le Finali NBA ci hanno regalato, oltre a 7 partite intensissime, una serie di storie all’interno di esse che come al solito solo la Lega Americana ci può fornire. Si potrebbe pescare a caso e si avrebbero i due disfunzionali per eccellenza come Artest e Rasheed Wallace, giovani lunghi in rampa di lancio come Bynum e Perkins fermati dagli infortuni, una Mamba alla ricerca del trionfo per entrare definitivamente nella storia dei Lakers, e da qui si potrebbe andare avanti per ore. Noi ci fermeremo, invece, al duello sotto le plance, tra uno spagnolo da Barcellona, precisamente dal quartiere di Sant Boi de Llobregat, e un nord americano da Mauldin, Carolina del Sud. Pau uno, Kevin l’altro. Gasol per i Lakers, Garnett per i Celtics. E’ stato il duello diretto che più ha fatto brillare gli occhi agli appassionati. Perche è stato un duello totale, sia in attacco che in difesa. Livelli che non hanno raggiunto altri match up. Per esempio, Kobe Bryant in attacco ha subito le cure di Ray Allen, ma in difesa si è andato a “riposare” su Rajon Rondo, mentre il veterano di mille battaglie, Derek Fisher, faceva assaggiare i suoi rudi metodi a “He Got Game”. Paul Pierce ha dovuto assaggiare il trattamento Artest, che però in attacco, gara 7 a parte, non gli è mai stato neanche lontanamente vicino. Garnett e Gasol, invece, si sono fronteggiati costantemente (salvo variazioni sul tema a firma Rasheed Wallace). In attacco uno in difesa l’altro, per poi ricambiarsi il favore dall’altra parte del campo. Una sfida fra due personaggi lontani anni luce come cultura. Gasol spagnolo più losangeleno di quanto non ti aspetti. Cresciuto in una famiglia
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di buone tradizioni, ti può sorprendere con le sue conoscenze culturali, parla un inglese perfetto e ha un fratello che prova a seguire le sue orme a Memphis. In campo è un trattato di pallacanestro applicata a un lungo. Tiro dalla media, gancio, semi gancio, passo e tiro. Tutto effettuato con un ambidestrismo paurosamente naturale. Lotta da anni contro la fama di essere un giocatore un morbido nei momenti “calienti”. Garnett, dal canto suo, ha alle spalle una storia sentita già altre volte. Divorzio tra i genitori, nuovo matrimonio della madre e gioventù spesa sotto le cure di una figura maschile diversa da quella paterna. Salta dall’high school direttamente ai Pro. In campo lui pure è dotato di una classe sopraffina. Può colpirti dalla media, mettere palla a terra in maniera sorprendente per un 2.11, segnare in fade away nei pressi del canestro. Ed è uno dei duri più duri di tutta la Lega. Nota a margine, l’età comincia a farsi sentire e le ginocchia lo hanno già tradito nella post season 2009. La Finale 2010 non è stato il loro primo incontro su un parquet NBA. Le storie si erano già fatte tese in passato. Sin dalle prima gare tra Minnesota Timberwolves (prima squadra di Garnett) e Memphis Grizzlies (iniziale militanza di Gasol). Garnett stava raggiungendo l’apice del suo sviluppo individuale, mentre Gasol era appena entrato nella Lega. Da buona tradizione “The Big Ticket” non ha mai risparmiato qualche colpo extra a nessuno, figurarsi allo spagnolo appena arrivato con il numero 3 assoluto al
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draft. Andava dato il benvenuto al ragazzo bianco e fighetto. Che però, sotto l’aria apparentemente paciosa e inoffensiva, ha mostrato da subito una notevole faccia tosta. Le risposte alle mazzate di Garnett non sono mai mancate, e la giocata che ha definitivamente battezzato lo spagnolo la potete trovare ovunque in giro per la rete. Minuti finali di terzo quarto in una partita dove i T’Wolves banchettano alla Piramide di Memphis. Gasol riceve in post basso marcato da Garnett. Fronteggia canestro, si impadronisce della linea di fondo e pianta una schiacciata a due mani poderosa sulla testa di Garnett e di altri compagni giunti in aiuto difensivo, con fallo a condimento. Dal -21 al -19, in quella circostanza, ma è quello che conta di meno. Gasol aveva dimostrato di poter stare al passo con una delle prime tre ali grandi della Lega. Da quel momento è passata parecchia acqua sotto i ponti. Compresa una Finale NBA dove Garnett ha alzato il suo primo titolo NBA proprio sotto il naso del numero 16, che l’anno dopo si è rifatto alle spese degli Orlando Magic. La Finale di quest’anno è stata un’appendice perfetta alla storia di questi due giocatori, che ovviamente nelle sette partite giocate ha aggiunto un ultimo e succosissimo capitolo. Gasol ha dominato le prime due gare, chiuse a 24 punti, 10 rimbalzi e 5 stoppate di media con il 60% abbondante dal campo, mentre KG arrancava tremendamente. Nel mezzo la dichiarazione ormai celeberrima di Pau: “Garnett ha perso parte dell’esplosività che aveva due stagioni
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fa. Ora tira molto di più da fuori. In passato aveva un primo passo devastante e quando entrava in area era molto più aggressivo. Il tempo passa per tutti, in un modo o in un altro paghiamo tutti il conto.” Che poi avrebbe anche aggiunto: “Ma KG resta un grandissimo giocatore e sono certo che ci darà ancora filo da torcere in questa serie”, neanche entrato nelle orecchie dei giornalisti presenti in sala stampa, già pronti a correre da Garnett per riferire l’affronto verbale. Segue un “no comment” del numero 5 dei Celtics e una solenne arrabbiatura di Gasol con i media per aver manipolato a piacimento le sue parole (e non si vede come dargli torto). Ma vaglielo tu a spiegare ai tifosi dei Celtics a quel punto. Che tra gara 3 e gara 5 sul proprio campo vedono Gasol evaporare in maniera proporzionale alla crescita di Garnett, che esalta il popolo bianco verde con una gara 5 da 18 punti, 10 rimbalzi, 5 palle recuperate e un dominio difensivo come ai tempi belli. Il Catalano incassa sul campo le giocate di KG, e in panchina le frecciate, più simili e vere e proprie sciabolate, di Phil Jackson. Ma, a coronamento di una serie pazza e incomprensibile nel suo svolgimento anche per i più grandi esperti, si torna a Los Angeles e i destini si ribaltano. Boston nemmeno ci prova a portarsi a casa l’anello in gara 6 e Gasol sfrutta l’occasione per farsi perdonare dal suo pubblico sfiorando la tripla doppia, mentre Garnett scrive a referto un triste -18 di plus/minus. Poi la stupenda gara 7 cui tutti abbiamo testimoniato. Pensi che sia il terreno di Garnett, e per due quarti e mezzo sembra proprio così. Poi si alza dalla mediocrità giallo viola Ron Artest, portandosi in scia Pau Gasol, mentre la maglia rosa, Kobe Bryant, arranca sulle pendenze vertiginose di una partita senza domani. Proprio una stoppata dello spagnolo su un’entrata di Garnett, che con lo stesso movimento lo aveva bruciato già due volte, cambia definitivamente l’inerzia della partita. Bryant fa giocare i compagni, guadagna qualche libero importante e lascia tiri pesanti a Fisher e Artest. Ma nel finale le due giocate che lanciano i festeggiamenti giallo viola sono del numero 16. Prima un canestro in traffico con tre Celtics a cercare di stopparlo, poi un rimbalzo offensivo sull’ennesimo errore di Bryant a 27’’ dalla fine con Los Angeles a +3. La definitiva conferma che il nomignolo “Gasoft” lo si può tranquillamente riporre in cantina. Andando a vedere le statistiche finali della serie non si può negare come Gasol abbia fatto decisamente meglio del rivale (18.6 punti, 11.6 rimbalzi e 2.6 stoppate col 48% dal campo contro 15.3 punti e 5.6 rimbalzi di
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Garnett), dato espresso in maniera profonda dal plus/minus totale dei due giocatori: nelle 7 gare di Finale Gasol ha totalizzato un +12, a fronte di uno sconcertante -30 di Garnett, pesantemente penalizzato, va detto, dal -16 e -18 di gara 1 e gara 6. Subito tornano in mente le parole di Gasol dopo gara 1, in cui si faceva riferimento alle condizioni fisiche del numero 5 bianco verde, che alla fine hanno inciso inevitabilmente. Piaccia o no, Garnett sta accusando, come è normale per un essere umano, il peso dell’età, e l’infortunio occorsogli lo scorso anno non ha certo aiutato. La mancanza di esplosività nelle prime due partite è stata lampante, specialmente in gara 2. L’aria di casa ha poi risvegliato il leone che se n’era stato dormiente fino a quel momento e lo abbiamo visto giocare, a tratti, come il giocatore dominante che vinse l’MVP nel 2003, generando, come effetto non secondario, il tracollo di Gasol, oscurato dalla difesa dell’ex T’Wolves. Gara 6 però, non giocata dai Celtics, è costata molto a Doc Rivers e compagnia. Con Boston così arrendevole, Gasol ha potuto amministrarsi in una partita tranquilla e rientrare mentalmente nella serie arrivando a gara 7 pronto fisicamente e psicologicamente a banchettare contro una frontline orfana di Kendrick Perkins. Dal canto suo Garnett ha risposto da campione quale è, giocando alla grande per 3 quarti. Ma nel momento della rimonta Losangelena non ha potuto nulla, vuoi per stanchezza, vuoi per alcuni limiti che anche a lui vengono imputati nei momenti caldi. In sostanza, se queste Finali dovevano darci un responso sui due giocatori in questione, di sicuro l’ago della bilancia pende a favore del lungo dei Lakers, che nell’arco della serie è stato più costante nei momenti decisivi, e ha avuto picchi di rendimento maggiori rispetto a un Garnett autore di grandi prestazioni in gara 3 e 5, ma assente ingiustificato in almeno 3 partite. La carta di identità parla decisamente a favore dell’uomo di coach Phil Jackson (30 anni contro i 34 di KG) e in una serie finale dove si gioca ogni due o tre giorni, con alle spalle già un centinaio di partite tra regular season e playoff è un dato di non poco conto. E sarà un dato di cui anche la dirigenza Bostoniana dovrà tenere conto per il futuro della squadra che deve far fronte a un nucleo (Pierce, Allen, Garnett, Wallace) parecchio in là con gli anni. La storia dei Big Three in quest’estate potrebbe terminare, mentre a Sant Boi de Llobregat si preparano a festeggiare qualche altro titolo nel giro di poco tempo.
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IL DOSSIER
Il ‘genio ribel
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V INCENZO
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G UIDA
Da dove cominciamo? Iniziamo dalla fine. Rasheed Abdul Wallace (Philadephia, 17 settembre 1974) dopo 15 stagioni di militanza nella Nba ha deciso di ritirarsi. Ecco la notizia, quella che un buon cronista deve sempre dare. Poi però c’è il resto. Si può parlare di un giocatore che in carriera ha viaggiato a 14.6 punti e 6.7 rimbalzi, con un anello di campione Nba al dito, ma senza mai andare neanche lontanamente vicino a vincere il trofeo di Mvp, come di uno dei più grandi talenti mai apparsi su un campo di pallacanestro?. Si può, e se avete delle obiezioni a riguardo non vi voglio neanche conoscere. Il confine tra genio e follia è piuttosto labile e Sheed era capace di attraversarlo più volte nell’arco della stessa partita. O lo si ama o lo si odia. Niente mezze misure. Talento, carisma, personalità, follia in dosi debordanti. Se solo avesse avuto una testa più “stabile” allora non ce ne sarebbe stato per nessuno, e oggi se qualcuno c’avesse domandato di Tim Duncan, avremmo risposto in massa, “Tim Duncan chi?”. La gara -7 di finale contro i Lakers è stata il suo canto del cigno. Dominante in post basso con movimenti enciclopedici (superbo giro e tiro sul piede perno) tali da irridere un letterato come Pau Gasol. Devastante in difesa, fondamentale nel quale elevava la sua metà geniale e azzerava quella folle. E poi quella tripla dall’angolo sinistro con le mani quasi fuori dal campo. La bomba della speranza per i Celtics, la pennellata sul suo affresco da tramandare ai posteri. Questo è Rasheed. L’uomo capace di portare una squadra al titolo ma anche il giocatore recordman per falli tecnici, specialità affinata negli anni di Portland ed elevata a scienza esatta a Detroit. Un 2.11 per 104 kg che trasudava pallacanestro. Il prototipo del numero 4 moderno. Ma Sheed era anche di più. Poteva fare tutto su un parquet grazie ad una tecnica individuale mai vista in giocatore di quell’altezza. Classe purissima, quasi abbacinante, come quando decideva di andare spalle a canestro in attacco a dare lezioni, oppure quando iniziava seriamente a difendere rendendo ogni tiro avversario un’avventura. Carattere problematico. Un giorno sua madre gli disse: “ Attento Rasheed perché in molti non ti capiranno”. Mai frase fu più profetica. Cresciuto a Philadelphia, si svezzò cestisticamente alla Simon Gratz una fra le migliori scuole non solo di Philadelphia, dove oltre al basket praticava anche l’atletica leggera (400 metri). Il talento di Rasheed era già bello limpido e Dean Smith a North Carolina non resistette al suo fascino. Due anni a Chapel Hill, una final four Ncaa nel 94-95, una stagione chiusa a 16.6 punti, (63% dal
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campo), 8.2 rimbalzi e con il record della Atlantic Coast Conference (ancora imbattuto) di maggiori stoppate fatte durante una stagione con 93. Al draft è la quarta chiamata assoluta per gli allora Washington Bullets, subito dietro al compagno di squadra Jerry Stackhouse che va a Philadelphia. I Sixers non lo scelsero e Rasheed non lo dimenticherà. E’ una chiamata strana quella dei Bullets che nel suo ruolo avevano già Chris Webber e Juwan Howard. L’anno dopo si passa a Portland dove stagione dopo stagione diventa una stella. L’apice con i Blazers arriva nel 2000 quando la franchigia decide di dare l’assalto al titolo. In fina-
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le di Conference Portland va sotto 3-1 con i Lakers, ma grazie all’esplosione di Rasheed pareggia il conto e si guadagna il diritto a disputare gara -7. Allo Staples Sheed domina per tre quarti mandando i Lakers a un passo dal baratro. Portland è avanti di 15, sembra fatta. Kobe Bryant non la pensa così. Neanche Shaq. Wallace non segnerà più nel quarto periodo e Portland sprofonderà sotto i colpi della “Shaw-Shaq Redemption”. Il resto è storia. Negli anni in Oregon, Sheed apprende tantissimo in campo dai vari Scottie Pippen, Steve Smith e Arvidas Sabonis. Purtroppo fuori frequenta tipetti come Isaiah Rider, Ruben Patterson,
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Bonzi Wells, Qyntel Woods. La sua personalità border line esplode. I problemi fuori dal campo si acuirono e il rapporto con la città si deteriorò. I Trailbalzers vennero ribattezzati JailBalzers (Jail significa galera in inglese). Wallace si superò quando nella stagione 2002/2003 a Portland c’è anche il centro camerunese Ruben Bountje-Boumtje. Durante un allenamento, il pivot africano stava svolgendo una seduta individuale di fondamentali d’attacco con un assistente allenatore dei Blazers. Dall’altra parte del campo ci sono Sheed e Bonzi Wells, che così, per ingannare il tempo, decidono di scommettere su chi sarebbe riuscito a centrare il povero Bountje-Boumtje con una pallonata in faccia da 28 metri. Ci riesce Rasheed (ovviamente) e Bountje-Boumtje se ne va in ospedale con il naso fratturato. Inarrivabile. Arriva il 2004 e si passa a nuovo indirizzo. A febbraio viene ceduto ad Atlanta, che lo spedisce dopo una partita ai Detroit Pistons. A Motown c’è Larry Brown, ci sono Chauncey, Rip, Tayshaun e Ben. Il cerchio si chiude. Nella più classica riedizione del “ Davide batte Golia”, Rasheed costruisce l’upset del millennio. Scacco matto ai Lakers in quattro mosse e poi via liscio verso cinque finali di conference consecutive. I Pistons arrivano a un passo dal diventare una dinastia, senza mai riuscirci. Un titolo per Sheed e cinque finali di conference perse. Ma si può diventare leggenda anche senza vincere cinque o dieci titoli. Può diventare leggenda un Bad Boys che protesta con gli arbitri ad ogni fischio (ha aspettato gli arbitri fuori dallo spogliatoio alla fine di gara -7, per dirgli due paroline..), che si becca un tecnico in un momento cruciale, salvo andare in attacco e piazzare la tripla della vittoria? Può diventare leggenda un giocatore che ricevuta palla in post basso, con il suo pubblico che urla ,“Sheed, Sheed, Sheed”, infastidito la ridà fuori al playmaker, perché è lui, e solo lui
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che decide quando tirare? Può diventare leggenda un giocatore che all’interno di una conferenza stampa (a Portland) risponde a dieci diverse domande dei giornalisti con la stessa identica frase, “Both teams played hard” (entrambe le squadre hanno giocato duro), oppure (sempre ai Blazers) cimentandosi nella conduzione di un programma radiofonico di musica Rap, fomenta la faida tra Rap East Coast e Rap West Coast, perché da uomo di Philadelphia deve farsi rispettare?. La risposta a tutte queste domande è sì, perché Rasheed rappresenta l’altra faccia della luna, la metà oscura, quel misto di talento e follia che non può non affascinare. Ball dont’lie (la palla non mente). Da leggenda Rasheed è diventato mito per un episodio passato ormai alla storia. Siamo a Milwaukee ad inizio partita. Al nativo di Philadelphia viene fischiato un fallo su Andre Bogut (pivot australiano dei Milwaukee Bucks). Sheed non condivide per usare un eufemismo. Bogut va in lunetta per due liberi, sbaglia il primo e Wallace urla: “Ball don’t lie”. L’australiano tira il secondo ma sbaglia ancora e Rasheed ancora più forte: “Ball don’t lie”. In questo c’è tutto Sheed, per singola giocata, il giocatore più dominante della Nba. Al limitarne la grandezza un carattere così controverso che forse neanche il Dr. Freud ne sarebbe venuto a capo. E’ stato il numero uno (con il secondo indietro anni luce) nel concorso “avrebbe potuto essere ma non è stato”. Avrebbe potuto essere il più forte di tutti, ma è stato qualcosa di diverso. Forse qualcosa di meglio. Per questo lo ringraziamo. Ci mancherai Rasheed. Ball dont’lie. Dulcis in fundo Rasheed ha confidato a coach Doc Rivers che gli piacerebbe allenare i ragazzi all’high school perché non vuole avere a che fare con i giocatori Nba. Rivers gli ha risposto: «Non vuoi avere a che fare con te stesso Rasheed?».
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REPORTAGE
Iverson ‘come bac
Sette dicembre 2009. Questa l’ultima data. Questo il momento del secondo ritorno in campo, il primo nella città che forse non l’ha mai dimenticato dopo la decisione di andare via dai Sixers per approdare ai Nuggets in cerca di gloria che alla fine non è mai arrivata. Sette dicembre e nemmeno a farlo apposta gli avversari dei Sixers erano proprio i Nuggets che intanto l’avevano sbolognato ai Memphis Grizzlies via Detroit grazie al contratto in scadenza. Allora fu grande attesa. Attesa per un giocatore accolto come nella migliore rappresentazione del figliuol prodigo delle
parabole evangeliche. Un ritorno per il quale il ‘padre’- tutta Philadelphia ed i Sixers – avevano preparato nei minimi dettagli per non rendere lacrime e parole commoventi di qualche giorno prima in conferenza stampa un qualcosa di fine a se stesso. ‘The Little Man’, cosi come lo chiamava Larry Brown, aveva fatto venia di tutti i suoi errori compreso quello di aver lasciato forse l’unica città che aveva veramente amato lui e la sua famiglia tanto da definirla l’unico posto in cui si è sentito veramente se stesso. Dall’altra parte cosa arrivò? La jersey numero 3, il suo vec-
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D OMENICO OMENICO P EZZELLA EZZELLA DI
ck’ part III
chio posto negli spogliatoi e soprattutto una serata speciale tutta dedicata a lui con luci, ombre e occhi di bue pronti ad inquadrarlo nel momento in cui lo speaker pronunciava le fatidiche parole: «…and finally number 3 from GeorgiaTown University, 6-3 guard, Allleeeennnnnnnn Ivveerrrssonnnnn…». Dopo di che fu tutta una serie di normali conseguenze: pubblico in visibilio, entrata trionfale con tanto di bacio al logo a centro del campo per dare un senso pratico ed anche visivo a quello che lo stesso ‘Ive’ aveva detto nella conferenza stampa di cui sopra. Undici i
punti di quella serata. Poche le fiammate di un giocatore in evidente difficoltà a tenere il passo di una volta, ma si trattava solo della prima, le cose potevano solo migliorare, ed invece. Ed invece sono in un certo senso solo peggiorate. Il livello di ‘iversonite’ da quel sette di dicembre non è certo salito come tutti si aspettavano un po’ per una condizione non eccelsa, un po’ per gli anni che inevitabilmente passano per tutti (figuriamoci per un giocatore che non ha fatto altro che prendere botte per una carriera intera), un po’ per un sistema ed una squadra che faticava a stare dietro ad un ego spropositato a cui però mani e gambe non davano gli stessi risultati o, dulcis in fundo, per contro un giocatore che forse per troppa voglia di dimostrare di voler essere ‘uno qualunque’ ha un po’ strafatto ma nel senso contrario di quello che generalmente si può usare quando si parla di un giocatore Nba. Vuoi o non vuoi però quelle mani sono state fatte su misura per lo scopo principale di questo gioco. Vuoi o non vuoi sono stati 15,5 punti a dicembre. Vuoi o non vuoi sono stati poco sotto a gennaio (14,4) fino ad arrivare al momento dell’addio poco dopo il momento più esaltante della stagione a livello di spettacolo, ovvero il weekend delle stelle. Otto partite, quattro punti di media e alla serie di motivazioni precedentemente indicate una forse molto più grave: i problemi familiari. Certo gli acciacchi al gomito hanno avuto la loro parte, ma le condizioni di salute di Messiah, figlia di 5 anni, ed il rapporto con la moglie il cui divorzio fu archiviato la stessa settimana dopo la sua dipartita dalla città dell’amore fraterno, lo portarono al secondo addio nella stessa stagione. Questa volta in tanti avevano parlato di ritiro definitivo. Di uscita di scena, senza rulli di tamburi od onori del caso per uno dei più amati, per uno dei più straordinari talenti che il paese a stelle e strisce ha potuto offrire sui ventotto metri di campo, ma anche uno dei più controversi. Talmente controverso, che ormai dalla sua pagina Twitter – quella sulla quale a marzo rassicurò tutti i suoi fans relativamente al superamento degli ostacoli familiari – tutto ci si sarebbe aspettato tranne che un messaggio chiaro ed incontrovertibile come questo: «I want to return in Nba this season. And help any team that wants me…». Tradurlo sarebbe riduttivo per chi legge, ma la sostanza è una sola: Ci si avvia verso un ‘Come Back part III’. Un argomento che social network a parte (lo stesso utilizzato anche per promuovere il suo personale camp ed il documentario che lo riguarda personalmente ed intitolato ‘Deconstructing Allen Iverson’), non è stato ancora trattato dal diretto interessato con dichiarazioni ufficiali, ma a confermarne la veridicità e la voglia di ‘The Answer’ di tornare ad indossare canotta e pantaloncini, è stato lo stesso agente, Moore, che al riguardo ha rilasciato in giro per gli States testuali parole: «Allen sta lavorando duro ed intensamente per preparare il suo ritorno all’attività agonistica ed assolutamente proverà a giocare la prossima stagione. Per grazia di Dio la piccola Messiah sta molto meglio e quindi ora può concentrarsi di nuovo sul basket. Lui vuole tornare ed aiutare qualsiasi squadra voglia a vincere l’anello, ed è nelle condizioni di farlo». Parole pesanti, specialmente le ultime, da parte del manager di Iverson il cui futuro però non è completamente chiaro. A Philadelphia dalla dirigenza si parla di una scelta non ancora consapevole sul suo futuro. Dal Draft tra l’altro è arrivato anche il promettentissimo Turner. In lizza per un posto ci sono sempre Lou Williams e l’ex Ucla Jrue Holiday. Senza contare che in panchina ci sarà un allenatore, Doug Collins, i cui rapporti con le stelle non sempre gli sono rimasti tra le mani, anzi. Insomma il contorno da mettergli attorno è da valutare ancora nella sua pienezza, certo è che visto il fascino che ha suscitato nel rivestire quella maglia e le dichiarazioni spese prima di scendere in campo per il ‘Philadelphia Bis’, i Sixers dovrebbero o meglio dovranno essere l’ultima squadra a vederlo calcare un parquet. Ma a questo punto la domanda è: Phila sarà disposto ad accoglierlo ancora?
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IL PERSONAGGIO
La ‘furia russa’: Jose Claderon Playmaker unico nel suo genere, capace di competere con i gioctaori più forti nel suo ruolo di tutto il mondo, è l'ago della bilancia di una squadra altalenante come i Toronto Raptors. Josè Calderon, esploso a Fuenlabrda e poi all'ex Tau Ceramica, ha raggiunto una maturità. una sicurezza tale che, se la sua carriera non fosse stata falcidiata da troppi, costanti infortuni, di sicuro lo avrebbe già già visto in una finale per l'anello. Di sicuro è staoto uno dei primi spagnoli di livello a fare il grande salto dalla lega Acb alla Nba, fosre l'unico insieme a Gasol che ha lasciato davvero un'impronta. Ha la fortuna doi giocare in un squadra multietnica, dove la componente europea la fa da padrone. Un ambiente in cui le sue doti di abile game maker si sono combinate con un sistema di
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D OMENICO L ANDOLFO
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gioco aperto, con tiri costruiti e poco spazio per gli individualismi. I vari lunghi Bargnani, Nesterovic, Garbajosa, le guardie Parker (Maccabi), Belinelli, Turkoglu, sono solo alcuni delle colonne portanti di una squadra dal multiforme aspetto, capace di grandi sconfitte e di grandi vittorie, di prestigio, specie tra le mura amiche. Parlando con Gallinari, altermine della sfida contro i Knicks, l'ex Olimpia sottolineava come il play spagnolo fosse stato davvero il fattore determinante del gioco dei rossi canadesi. Perchè tutti gli altri esterni possono essere marcati, anticipati, portati all'errore, mentre per lo spagnolo ogni decisione risultava essere fallace e inutile, giacchè puniva un metro di spazio anche da oltre l'arco, e sse spinto al pressing riusciava a inventare assist davvero notevoli per i suoi
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compagni. E' stato il primo tra i non lunghi di marca spagnola a imporsi, dopo il fallimento di raul Lopez, e l'apripista per chi come Navarro, Rodriguez, Fernandez, ha calcato i parquet della lega americana con successo, anche se ora tutti costoro si ritroveranno in campionato con la maglia di Barca e Real sollo l'egida di Re Juan Carlos. I raptors attualmente sono un cantiere aperto, la perdita di Bosh potrebbe incidere notevolmente su chi dovesse arrivare a rimpiazzarlo, ma se ci sarà una soluzione più disciplinata da parte di Colangelo, senza una star pura, ma con un bel nucleo di giocatori talentuosi, di sicuro la classe sopraffina di Josè riuyslterà la chiave e il collante di una squadra che, destinata sempre al salto di categoria, tende a mancare puntualmente l'ultimo passo.
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LE STATISTICHE DELLA STAGIONE IN CANADA ...QUESTI I NUMERI IN CARRIERA...
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OCCHI PUNTATI SU...
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B ENEDETTO ENEDETTO G IARDINA IARDINA
Una cosa è certa: più in fondo di così non potranno andare. Si parla ovviamente dei New Jersey Nets, squadra che ha chiuso il campionato col peggior record di sconfitte, e ha accarezzato per lungo tempo l'idea di poter raggiungere il poco invidiato record di 63 sconfitte in stagione. Partiti come peggio non si poteva, i Nets hanno giocato per più di metà stagione già con la testa al draft, puntando alla prima scelta, ma anche qui, la lotteria ha preferito non premiare la franchigia del neo patron Mikahil Prokhrov, magnate russo dalle enormi disponibilità economiche, che si è trovata in mano la terza scelta. Reduci da una stagione imbarazzante e senza aver potuto prendere né Wall né Turner, i Nets possono pensare solo al mercato dei free agents del 2010, puntando, come già detto, sui petroldollari di Prokhrov, e sul secondo salary cap più basso della lega, trovandosi con uno spazio salariale da 30.5 milioni di dollari. La loro posizione, da questo punto di vista sembra essere tra le migliori, visto che possono contare anche su un gruppo giovane e di buon livello, pronto a riscattarsi da un'annata in cui è girato tutto storto. Al momento, quindi, si riparte da Devin Harris e Brook Lopez, unici punti fermi di questa squadra, e le cessioni di Chris Douglas-Roberts a Milwaukee e di Yi Janlian a Washington non fanno altro che confermare l'attuale politica dei Nets, ovvero liberare spazio senza distruggere quel poco che è rimasto del nucleo iniziale. Ad oggi i Nets presenterebbero un roster insufficiente, con un quintetto formato da Harris, Lee, Williams, Favors e Lopez, e i soli Boone, Humphries e Ross in
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panchina, e dal mercato si cercherà indubbiamente di rinforzare il settore esterni. La prima scelta dei Nets sarà ovviamente LeBron James, sogno proibito di mezza NBA, ma per sbaragliare la concorrenza degli altri team alla corte del Prescelto potrebbero non bastare gli sforzi economici di Prokhrov. L'ormai prossimo trasferimento a Brooklyn potrebbe essere una tentazione per James, che oltre a voler competere per il titolo, gradirebbe giocare in una grande piazza, ma a non convincere il due volte MVP sembra essere il roster. Come già detto, non è certo un gruppo malvagio, ma deve crescere e bisogna capire se il flop della stagione passata è stato un caso isolato oppure no, insomma, non è un gruppo che da le migliori garanzie per una vittoria immediata. Sempre per quanto riguarda gli esterni, la seconda scelta obbligata è Joe Johnson, visto che Wade sembra essere conteso solo dai Bulls e dagli Heat, ma prima di puntare alla guardia degli Hawks, probabilmente la dirigenza dei Nets proverà a correggere il tiro per puntare su Bosh o Stoudemire, rinforzandosi sotto le plance e per formare con Lopez una frontline di alto livello. Se dovesse arrivare un lungo, i Nets dovrebbero sperare nell'esplosione definitiva di Terrence Williams e Courtney Lee, senza dimenticare la possibilità di mettere sotto contratto un altro free agent di medio livello, lascian-
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do però poco spazio a Derrick Favors, terza scelta nell'ultimo draft, che giocando da ala grande troverebbe posto solo in panchina. Con un eventuale arrivo di Johnson, invece, il settore esterni sarebbe al completo, con Harris, Johnson e Williams nel quintetto di partenza, rimpiazzabili da Lee e Ross, mentre sotto canestro verrebbe data a Favors la possibilità di mettere in mostra tutto il suo valore, nella speranza che posa formare con Lopez una combo di alto livello in proiezione futura. Inutile discutere su quanto possa cambiare la sorte dei Nets se dovesse arrivare LeBron James, non tanto per le indubbie qualità del giocatore, quanto per la reazione a catena che potrebbe provocare questo trasferimento. Se James dovesse accettare la richiesta della franchigia di Prokhrov, difficilmente verrà da solo, quindi i Nets potrebbero mettere sotto contratto almeno un altro big, e in questo caso i Nets potrebbero ambire anche ad obiettivi ben più importanti della semplice partecipazione ai playoff, ma per il momento queste restano solo delle ipotesi. Resta la certezza che la dirigenza farà di tutto per rinforzare la squadra, per evitare che possa ripetersi una stagione fallimentare come quella passata, ma è ovvio che gli obiettivi possono variare a seconda dei nuovi arrivi. Riusciranno i Nets a convincere James e ritornare ai vecchi fasti di inizio millennio?
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IL PERSONAGGIO - 2
Sono passati ormai tre lunghi anni dalla trade che portò Kevin Garnett ai Boston Celtics. In quell’estate del 2007, la strada inversa fu percorsa da un allora giovane di belle speranze proveniente dal Mississipi. Il suo nome era Al Ricardo Jefferson, meglio conosciuto come “Big Al”. Big Al, come KG, era arrivato nel mondo NBA subito dopo il liceo, senza passare dal college, come solo i giocatori dal talento più cristallino avevano fatto in passato. Appena venuto a conoscenza del trasferimento che lo coinvolgeva, Al scrisse qualche parola sul suo blog per rin-
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R AFFAELE AFFAELE VALENTINO ALENTINO DI
Al-Jeff, alla cor te dei Jaz z
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graziare i suoi tifosi passati e per caricare quelli futuri del Minnesota. Jefferson è sempre stato un ragazzo, prima che un giocatore, riconoscente e leale verso staff e compagni e quelle parole furono accolte con grande felicità dalla città di Minneapolis, che aveva appena perso il pezzo più importante della propria storia. «Nessuno potrà mai rimpiazzare Kevin Garnett. Lo so, e non posso promettere di essere come lui. Posso solo promettere che mi impegnerò al massimo per essere il miglior giocatore possibile e che farò di tutto per aiutare questa squadra a vincere». La prima stagione in maglia T’wolves fu molto positiva per Jefferson. Grazie al suo talento offensivo, in particolare dal post basso, Big Al collezionò 21 punti a partita, condendoli con ben 11 rimbalzi a sera. Numeri che però non servirono ad evitare una pessima stagione per Minnesota, che chiuse l’annata con un record di 22-60. Ma il giocatore Jefferson cresceva a vista d’occhio. Il suo attacco diveniva man mano più efficace, il suo tiro dai cinque metri era sempre più continuo e il suo gancio destro stava diventando immarcabile. L’anno successivo i miglioramenti sembravano ancora più evidenti. Jefferson scrisse per cinquanta partite ben 23 punti a partita, con i soliti 11 rimbalzi, tanto per gradire. Il suo gioco complessivo continuava a migliorare e anche in difesa, da sempre il punto debole dell’ex Boston, si iniziavano a vedere dei progressi importanti. Ma la malasorte era in agguato. L’8 febbraio, a New Orleans, i Timberwolves giocavano contro gli Hornets una normalissima sfida di Regular Season. Partita equilibrata fino alle battute finali, con NO vittoriosa per 101-97. A trenta secondi dalla fine, però, Big Al si accasciò al suolo tenendosi stretto il ginocchio destro. Dopo gli accertamenti post partita, si scoprì che Jefferson aveva riportato la rottura di più legamenti e che sarebbe dovuto andare sotto i ferri. Stagione finita per il numero 25, e con la sua, quella della sua Minnesota che crollò completamente nella parte finale della season, chiudendo 24-58 l’anno, dopo aver mostrato sprazzi di bellissima pallacanestro. Dopo l’operazione, Jefferson superò una riabilitazione durissima per poter essere in forma per la stagione appena trascorsa. Effettivamente il ragazzo del Mississipi non saltò nemmeno l’opener game di Minnesota, ma la sua mobilità era evidentemente diversa. I suoi numeri e le sue prestazioni risentivano del lungo periodo di inattività e questo si rifletteva su una squadra già di per sé falcidiata da problemi tecnici ingenti. Nonostante ciò, Big Al ha chiuso la stagione 2009/2010 con 17.1 punti e 9.3 rimbalzi ad allacciata di scarpe. Cifre di tutto rispetto, considerati i problemi fisici avuti dal leader di Minnesota. La formazione di Minneapolis non ha vissuto, ancora una volta, una stagione esaltante, chiudendo con un pessimo 15-67. Per questo i T-Wolves hanno scelto di cambiare rotta, inserendo nel loro roster la talentuosa ala dei Miami Heat Micheal Beasley e cedendo Jefferson agli Utah Jazz in cambio di 2 future prime scelte e il centro greco Kostas Koufos. Ora tocca a Big Al dimostrare tutta la sua classe e la sua voglia di competere dopo anni e anni di lotteria. Jerry Sloan l'ha voluto come sostituto di Carlos Boozer, partito con destinazione Bulls, e questo già dovrebbe essere una garanzia. Siamo già pronti a pregustarci i suoi Pick'n'Roll con il maestro Deron Williams, le sue mani vellutate e i suoi piedi da ballerino lo aiuteranno molto. Utah lotterà sicuramente per andare ai Playoff e garantirsi una chance di lottare per il titolo. Per questo motivo è importante che Al Jefferson torni ad essere se stesso, in forma al 100%. E, potete giurarci, ci proverà con il massimo sforzo. Sulle orme di KG, sperando di calcarne i passi, magari a ritmo di musica. Jazz ovviamente.
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La festa di LA per i Lakers THE PARADE
Los Angeles ha vinto ancora. Nel modo più bello e gratificante: sconfiggendo i Boston Celtics. Ecco spiegata l’incredibile e indescrivibile festa gialloviola dal suono della sirena di gara7, fino alla chiusura della parata celebrativa di pochi giorni or sono. Sconfiggendo i Celtics, i Lakers raggiungono il loro sedicesimo trionfo nella storia della lega, uno in meno rispetto agli acerrimi rivali del Massachussets: diventa interessante, a questo punto, capire fin dove possano arrivare i gialloviola, forti di un roster con almeno altri 2-3 anni di estrema competitività, salvo imprevisti. Riuscire a vincere l’ennesimo threepeat nella stagione 2011 potrebbe voler dire un totale scompaginamento della geopolitica storica della NBA: agguantare gli eterni irragiungibili Celtics: per coach Zen l’eventuale dodicesimo titolo, e il vanto di aver conquistato più di un terzo degli innumerevoli titoli NBA effigiati ai piani alti dello Staples Center. Per Kobe Bryant vorrebbe dire il sesto titolo, eguagliando quantomeno nell’argenteria l’alieno da North Carolina. Partendo dai presupposti di gloria dei due uomini immagine di questo ciclo finora biennale di vittorie californiane, riusciamo ad inquadrare per il giusto verso il delirio che per transizione è stato trasmesso al resto della squadra e più in generale al tifoso gialloviola medio. I Lakers, intesi come franchigia, e questi Lakers aspirano al primato assoluto nella storia dell’NBA, e se il traguardo è così vicino, ad un solo titolo di distanza,molto lo si deve al trionfo del 17 giugno scorso alla fine di una serie massacrante per emozioni ed energie fisiche spese. E’ accarezzando questi di gloria che si riesce a capire cosa voglia dire per un Laker festeggiare questo titolo contro i biancoverdi. Bellissimi esempi abbiamo potuto osservarli durante la sfarzosa parata celebrativa ( a spese dei Lakers quest’anno; il sacrificio economico sostenuto dalla città lo scorso anno dopo la vittoria contro i Magic è stato a lungo ostracizzato, per via della crisi economica globale):in occasione del consueto rendez vous, oramai d’obbligo in qualsiasi disciplina sportiva, di osannazione pubblica per i vincitori. Il pullman dei Lakers in quel momento era il cuore sportivo della città: sul retro, adagiato accanto a Mitch Kupchak per gran parte della festa si ergeva l’onnipresente emblema dellafranchigia losangelina, quel Magic Johnson che tanto ha dato ai Lakers, in termini di vittorie e molto altro, e tanto continua a dare con la sua stessa presenza carismatica, temuta e rispettata sinceramente nello spogliatoio gialloviola. E il Mamba?..un Kobe Bryant molto rilassato, in continua interazione con i tifosi e al tempo stesso impegnato con le 2 figlie, non ha mancato di sottolineare nell’intervista di turno, la bellezza, il peso specifico e la gioia incommensurabile per aver sconfitto una squadra tradizionalmente imbattibile per i Lakers, come Boston. Poche parole, anche scontate e di facciata, ma sorrisi che spiegano molto di quanto le sue notti siano diventate tranquille e felici da qualche giorno a questa parte. Spettacolo hollywoodiano è
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Another day in ‘Paradise’
stato regalato anche da un motivatissimo Sasha Vujacic, showman dell’ultima ora, protagonista di una stagione inconsistente fino alla serie della finale di Conference contro Phoenix, fin quando, da lì in avanti, nel bene e nel male, il suo peso sulla squadra si è sentito, fino ai liberi della staffa in gara7 a coronare un ottimo sprint finale. Un Vujacic molto coinvolto dicevamo, protagonista di canti da stadio e da tifoso europeo di calcio medio, egocentrismo ostentato oltre i giusti limiti, ma comunque una presenza caratteriale forte nello spogliatoio apprezzata e riconosciuta dallo stesso Kobe, non necessariamente per essere il partner della divina Maria Sharapova. Era anche la sua festa, giusto così. Menzione onorevole per True Warrior, alias Ron Artest, da Quennsbridge: cappello da camorrista/pappone con tanto di sigaro celebratore al merito: di certo non siamo ai livelli del “ritratto di Red Auerbach”, ma l’immagine che Artest ha lasciato ai posteri riassume egregiamente il suo ruolo nella sceneggiatura di questi Lakers: un genio psicotico/tourettiano settato su un corpo di oltre 2 metri di altezza per 120 chili di muscoli, l’uomo della disgrazia e dello scempio sportivo in certe occasioni, della provvidenza in altre. Un dr.Jekyll & Mr.Hyde in campo, un uomo di una generosità e di valori, seppur discutibili su certi aspetti, solidi e coerenti: il tutto condito da una teatralità e un istinto comico di reale spessore. Artest a inizio stagione aveva rilasciato le seguenti dichiarazioni: «I Lakers hanno vinto il titolo contro i Magic, ma ora ci sono io al posto di Ariza: nel caso in cui i Lakers non vincano il titolo quest’anno, potrete tranquillamente ritenermi il colpevole dell’eventuale sconfitta». Così non è stato. Onore a Ron Ron. Giusto che sia stata soprattutto la sua festa. Ma non solo. Bei siparietti forniti anche dal “venerabile maestro” Derek Fisher, dal quasi coMVP delle finals Pau Gasol e da un istrionico Lamar Odom. Una corazzata pluricampione può abbattersi prepotentemente sulla lega nei prossimi anni; per ora siamo a 3 finali con 2 titoli vinti in tre anni. Basi buone e prospettive future ottimistiche possono portare alla luce una nuova dinastia, come da tempo non se ne vedevano. Oramai è ufficiale: i Lakers hanno messo la freccia. I Celtics sono avvisati.
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SPECIALE NBA DRAFT
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M ICHELE TALAMAZZI
Et voilà: la classe del 2010 La notte del draft Nba è magica perché è quella in cui si inizia a ‘sognare’ concretamente il futuro: tra le scelte scontate, quelle mirate, quelle a sorpresa fatte più in base al talento che alla funzionalità di un giocatore alla squadra che lo drafta, e tanti, tanti scontenti. Gli ‘undrafted’, alcuni previsti altri no; quelli che, una volta smaltita la delusione, si rimetteranno in gioco tra Summer League ed Europa. E pur se per diverse franchigie il ‘Futuro’ con la F maiuscola è iniziato solo il 1° luglio, data in cui LeBron e soci
(intenso come altri appetibilissimi free agent) sono diventati padroni del proprio destino, il draft 2010, che, a parte Wall e Turner, è forse senza stelle ma non certo sprovvisto di talento diffuso, ha stuzzicato parecchio interesse, anche al secondo giro. Proviamo ad analizzarlo a tutto tondo, con una menzione particolare per gli stravaganti pantaloni a quadretti di Wes Johnson e per il premio simpatia Al-Farouq Aminu, che tra gli occhialoni con montatura nera e la voce nasale sembrava il fratellone di Mars Blackmon.
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EVAN TURNER (PHILADELPHIA).
JOHN WALL (WASHINGTON).
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First pick scontatissima, su cui Washington getta le basi per ripartire l’ennesima volta. E’ la point-guard del futuro, tra atletismo, velocità, talento puro, istinto per il gioco ed un tiro da fuori da migliorare. Intanto, fra una comparison con Rose ed una con Wade, il 20enne di Raleigh ha già in cassaforte un quinquennale con la Reebok da 25 milioni di dollari. I capitolini hanno anche preso Kirk Hinrich e la scelta n° 17 dai Bulls, intenzionati a liberare spazio salariale nella corsa a James: il benservito ad Arenas è dietro l’angolo, basta solo la giusta contropartita.
Pochi dubbi anche qui: giocatore dell’anno nell’ultima stagione collegiale a Ohio State, versatilone con visione di gioco e istinto per il canestro di alto livello. Buon rimbalzista, atleta da campo aperto, la coppia con Andre Iguodala, quella che dovrà riportare in alto i Sixers, è intrigante ma forse un po’ complessa da assemblare. Il nuovo arrivato Doug Collins, però, ha preferito avere questa preoccupazione piuttosto che sentirsi dire un domani “e pensare che alla 2 potevano scegliere Turner…”.
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DERRICK FAVORS (NEW JERSEY)
Emblema di come al draft si scelga spesso il potenziale più che il rendimento certo. Perché Favors, entrato nel mondo collegiale come uno che doveva spaccare tutto, nell’annata a Georgia Tech è andato a corrente abbastanza alternata. Sia chiaro, schifo non ha fatto, ma le cifre sono normali e gli upside da portare a termine rimangono molti. E’ comunque il lungo ideale da affiancare a Brook Lopez per il miglior gioco fronte a canestro rispetto a Cousins.
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DEMARCUS COUSINS (SACRAMENTO) Bypassato da Minnesota con cui non aveva sostenuto alcun workout, dopo l’allenamento con i Kings invece Cousins era diventato la scelta designata di Petrie e soci. Nel suo unico anno a Kentucky ha stupito gli scettici per presenza e costanza, lui che era ed è considerato un po’ soft e tendente ad ingrassare. Passa da Wall a Tyreke Evans in uno strano giro di talenti Calipariani, può dare immediato valore al reparto lunghi dei californiani.
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WESLEY JOHNSON (MINNESOTA)
Solo un anno fa, forse, difficilmente sarebbe stato scelto così in alto. Però l’ultima stagione a Syracuse è stata solida che più solida non si può, tanto da ‘permettersi’ di presentarti sul palco per stringere la mano a David Stern con una mise ai limiti dell’imbarazzo generale. I Twolves hanno preferito andare sul sicuro colmando lo spot in ala piccola piuttosto che rischiare su un lungo, specie avendo in casa la coppia Love-Jefferson.
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E KP E U D O H ( G O L D E N S T A T E )
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Forse la prima vera sorpresa, la sua considerazione è cresciuta moltissimo se si pensa che un mese fa era ai margini della lotteria. Ma siccome Greg Monroe nella Baia aveva fatto storcere il naso a più d’uno per la scarsa tenuta difensiva in un workout contro l’egiziano Omar Samhan, i Warriors hanno pigiato il bottone per Udoh, uno che di secondo nome fa Friday (sì, Venerdì). Esploso dopo il trasferimento da Michigan a Baylor, migliorando non poco il proprio gioco offensivo dal post basso, sia fronte che spalle a canestro, resta comunque un’atleta di agonismo, forza ed energia con upside ridotti. La domanda poi è sempre la solita: quanto spazio gli darà Don Nelson?
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AL-FAROUQ AMINU (CLIPPERS).
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GREG MONROE (DETROIT PISTONS). Ala forte o centro poco importa, nel basket moderno. Il clone di Chris Webber, per movenze e visione di gioco, non ha i piedi per stare troppo sul perimetro, ed il suo meglio lo dà spalle a canestro o in post medio, dove le qualità di passatore sono assolutamente divine. Movimenti spalle efficaci quanto belli, IQ cestitico elevato, è sceso fino alla 7 perché considerato un po’ soft perché Golden State ha bypassato dopo un provino andato male. Dumars, che pare avesse promesso la propria chiamata a Ed Davis, non ci ha pensato due volte.
Combo-forward di quelle versatili, in grado di giocare sia fronte che spalle a canestro e di farlo con una naturalezza disarmante, unendo al tutto doti di rimbalzista sopra la media. Difficile riesca a convertirsi definitivamente in ala piccola, resta da vedere quanto riuscirà a sprigionare il suo talento a metà tra i due ruoli: scelto dalla metà sbagliata di Los Angeles, esploderà o, come tanti Clips, si perderà dopo qualche stagione? Oggettivamente, su lui, Griffin, Kaman, il Barone e le altre scelte (Bledsoe e Warren) si potrebbe anche costruire qualcosa di buono…
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GORDON HAYWARD (UTAH JAZZ).
La prima grande sorpresa. Accreditato al primo giro ma non nella top ten, Hayward è sicuramente un giocatore di talento, intelligente e perfetto per un sistema come quello di Jerry Sloan. Che, visto passare il treno Monroe (i Jazz erano dati sulle piste di un lungo, temendo di perdere Carlos Boozer), ha pensato bene di coprire lo spot di 3 con un atleta intelligente, divenuto fenomeno di culto quest’anno trascinando Butler alla finalissima con Duke. Chissà se fosse entrato quel suo ultimo tiro da metà campo…
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CO LE AL DRICH (OK LAHO MA CIT Y THUNDERS VIA NEW ORLEANS HORNETS). Scelto dagli Hornets e ceduto a OKC insieme a Morris Peterson per le scelte 21 e 26. Potrebbe essere uno degli affari dell’anno, visto che, avendo già talento in Russell Westbrook e Kevin Durant, il gm Sam Presti ha preferito andare a coprire lo spot di centro con un giocatore duro, sporco il giusto e abituato a vedere il pallone con il contagocce, tappando una falla nel roster dei Thunder con un role player potenzialmente di lusso.
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PAUL GEORGE (INDIANA PACERS) Altra scelta abbastanza sorprendente, ma va considerato anche che Bird sognava Hayward ad occhi aperti fino a pochi minuti prima. Ala piccola di stazza, con l’amico Danny Granger formerà una coppia di esterni di grande impatto fisico, sempre che non si pestino presto i piedi. Atleta super che ricorda un po’ il primo McGrady, il salto di qualità glielo hanno fatto fare i provini individuali, dove ha impressionato per il suo tiro in costante crescita.
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XAVIER HENRY (MEMPHIS)
Tiratore terrificante e buonissimo atleta che dopo un ottimo inizio ha visto la sua unica annata di college basketball andare un po’ in calando. Deve migliorare soprattutto nel palleggio e nella costruzione di un tiro in avvicinamento, ma ha tutto per fare bene. E, temendo di perdere Rudy Gay, a Memphis hanno preferito cautelarsi.
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PATRICK PATTERSON (HOUSTON) Terzo Wildcat in lotteria dopo Wall e Cousins, reduce da tre annate solidissime per cifre e soprattutto impatto sul gioco; quest’anno era un po’ il collante in mezzo ai talentuosi freshman di Calipari. L’ex compagno di OJ Mayo al liceo può costruirsi, da ala grande, una solida carriera NBA, purchè non gli si chieda di fare il protagonista.
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ED DAVIS (TORONTO RAPTORS)
Scelta a sorpresa: ala-centro molto attiva nei pressi del canestro, buon rimbalzista e stoppatore, da affinare come attaccante, ma con grossi punti di domanda in quanto ad affidabilità e continuità. Al netto del futuro ancora sconosciuto di Chris Bosh, pur se il suo meglio lo dà vicino a canestro non sembra proprio complementarissimo ad Andrea Bargnani.
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LARRY SANDERS (MILWAUKEE)
Con l’aggiunta di Corey Maggette e Chris Douglas-Roberts negli esterni, i Bucks hanno pensato bene di andarsi a coprire sotto le plance inserendo l’ex Virginia Commonwealth, centro di buona presenza a rimbalzo e in difesa ma molto bravo a correre per il campo. Conditio sine qua non per giocare ai ritmi dettati da Brandon Jennings.
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FINE PRIMO GIRO. Minnesota, alla sua seconda chiamata (16), ha scelto l’ala bianca Luke Babbitt per poi cederlo ai Blazers con Ryan Gomes ed arrivare a Martell Webster, mentre Chicago (17) ha ‘pickato’ l’unico europeo del primo giro, il francese Kevin Seraphin, cedendolo poi a Washington nell’affare Hinrich. Oklahoma City (18) ha draftato la scheggia Eric Bledsoe, quarta prima scelta da Kentucky, girandolo ai Clippers; è il primo di una discreta serie di esterni puri, tra cui il volitivo difensore Avery Bradley, finito a Boston (19), il bomber James Anderson, scelto a San Antonio (20) e il duttile Elliot Williams che giocherà Portland (22). I Thunder girano invece agli Hornets le due ali scelte alla 21 (Brackins) e alla 26 (Pondexter); altri esterni scelti a questo punto del draft sono il solido Trevor Booker (alla 23, ceduto da Minnie a Washington), l’esplosivo tweener Damion Jones (24, ceduto da Atlanta a New Jersey), Dominique Jones (25, ceduto da Memphis a Dallas) e il posterizzatore di LeBron, Jordan Crawford (27, ceduto da New Jersey ad Atlanta). Con la 29 il discusso Orton (quinta prima scelta da Kentucky) sarà back-up di Howard ai Magic, alla 30 Lazar Hayward si accasa a Minnesota nello scambio con Booker. La perla mancata di fine primo giro è Greivis Vasquez, scelto alla 28 da Memphis e inizialmente indiziato di passare a New York: oggettivamente, nessun sistema come quello di D’Antoni poteva essere migliore per esaltare la creatività del venezuelano da Maryland. Sarà invece back-up di Mike Conley ai Grizzlies.
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cui diritti finiscono poi ai Thunder; il pivot tedesco dovrebbe comunque rinviare la sua attraversata oceanica per restare nel Vecchio Continente. Interessanti le chiamate dei Miami Heat, che aggiungono peso e intimidazione in area con Dexter Pittman (32) e Jarvis Varnado (41), scommettendo poi sul recupero di Da’Sean Butler, il superbo allaround di West Virginia infortunatosi al ginocchio a fine stagione. Sacramento alla 33 sceglie l’intimidatore Hassan Whiteside, le cui quotazioni sono andate in ribasso dopo che lo stesso giocatore si è paragonato ad Hakeem Olajuwon…. Detroit alla 36 aggiunge l’atletismo di Terrico White, New York punta sul tiratore Andy Rautins (38) e sulla versatile ala di Stanford Landry Fields (39), ignorando l’ex ‘Born Ready’ Lance Stephenson, nativo di Brooklyn, che da predestinato diventa quarantesima scelta di Indiana. I Lakers pescano l’atletico Devin Ebanks da West Virginia con la 43 e Derrick Caracter alla 58: non due fenomeni, ma potenzialmente due buoni giocatori per il sistema losangelino. Solo lunghi o quasi nelle ultime posizioni: Gani Lawal a Phoenix (46), Tiny Gallon a Milwaukee (47), Latavious Williams a Oklahoma City (48), l’inglese Ryan Richards, vicino alla Virtus Bologna nei mesi scorsi, a San Antonio (49), mentre Solomon Alabi scivola sorprendente alla 50 (Dallas, poi ceduto a Toronto); Luke Harangody dagli Irish di Notre Dame strappa una chiamata a Boston (52), l’atletica ala di UConn Stanley Robinson, alla 59, finisce agli Orlando Magic. Alla 54 i Clips portano invece a casa la guardia Willie Warren, già compagno di Blake Griffin a SECONDO GIRO. New Jersey sceglie alla 31 Tibor Pleiss, i Oklahoma.
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I ‘TROMBATI’. General manager europei pronti a fregarsi le mani, anche se poi scommettere sui rookie è sempre molto raro ad altissimo livello e soprattutto nel massimo campionato italiano. Però la nidiata di ‘undrafted’ di quest’anno è particolarmente interessante e, se qualcuno magari strapperà un contratto attraverso la vetrina della Summer League, diversi varcheranno l’oceano in cerca di gloria. C’è Scottie Reynolds, campioncino da Villanova ignorato per carenza d’atletismo e probabilmente per ‘overscouting’ dopo quattro anni sotto i riflettori: completo, regista e realizzatore, ha tutto per una carriera da stella da questa parte dell’oceano. Occhio anche al play di Kansas Sherron Collins, uno con le stimmate del leader, al computerino di Gonzaga Matt Bouldin, all’ala forte da Seattle Charles Garcia, il primo underclassmen dichiaratosi per questo draft ed alla fine rimasto senza cappellino. ‘Trombato’ anche Sylven Landesberg, guardia ‘scappata’ da Virginia con la certezza di fare l’NBA ed ora pronto a sbar-
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care sul palcoscenico europeo grazie anche al passaporto israeliano in arrivo per le origini del padre. Così come potrebbe fare uno dei due campioni in carica non scelti, Jon Scheyer, pronto per il Maccabi Tel Aviv; l’altro è il centro Brian Zoubek. Snobbati anche Mikhail Torrance di Alabama, play puro con stazza (195 cm) di fronte al quale i gm NBA sono scappati per un problema al cuore, il fromboliere Aubrey Coleman (25.6 a partita nell’ultimo anno a Houston University), il duttile Jerome Dyson di GTown, il folletto di California Jerome Randle, il solido Manny Harris di Michigan e il problematico Tyler Smith, già in Europa con buone cifre nel finale di stagione (in Turchia, al Bornova); out anche Raymar Morgan di MSU e Elijah Millsap (fratello del Paul dei Jazz); tra i lunghi, a piedi anche l’ex prodigio di high school Samardo Samuels e l’australiano A.J. Ogilvy, così come l’egiziano di Saint Mary’s Omar Samhan, l’ex UNC Deon Thompson, Wayne Chism di Tennessee e il centrone di DePaul Marc Koshwal.
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NBA NEWS
Chandler a Dallas per Dampier I Dallas Mavericks acquistano dagli Charlotte Bobcats Tyson Chandler e Alex Ajinca spedendo a Charlotte Erik Dampier, Matt Carrol e Eduardo Najera. In un primo momento Dampier e il suo contratto non garantito da 13 milioni di dollari sembravano perfetti per arrivare a un Free-Agent di spicco, come Lebron o Bosh. Ora Charlotte avrà la possibilità di scaricare Dampier e il suo contrattone, eliminando 13 milioni dal proprio cap. In più c'è da segnalare il ritorno in Carolina del tiratore Matt Carroll che ha un salario di 11 milioni di dollari per i prossimi 2 anni, in virtù del contratto firmato proprio con i Bobcats qualche annetto fa e dell'acquisto di un energy-guy come Najera, che è il tipo di giocatore che fa impazzire Larry Brown. Mentre per Dallas l'inserimento di Chandler come dice il GM Donnie Nelson: "Porterà alla nostra Front-line Difesa, aggressività e intimidazione come non ne dirottato a New Orleans insieme a Caron Butler, per arrivare abbiamo mai avute.". Più che altro oltre le dichiarazioni del a prendere CP3, Chris Paul. Illazioni o verità? Ormai in queGM dei Mavs, si fa largo una voce che vede il neo acquisto sta pazza estate 2010 possiamo aspettarci di tutto.
Zidrunas Illgauskas non tradisce Lebron, il lituano lo raggiunge agli Heat Zydrunas Ilgauskas decide di lasciare Cleveland dopo 14 anni, per ritrovarsi con Lebron James in quel di Miami, alla ricerca del primo anello in carriera. Ilgauskas, 35 anni, ha firmato un biennale da 2.8 milioni complessivi, ma avrà garantito solo il primo anno (a 1.3 milioni). Il lituano era stato cercato anche dai Nuggets e dagli Hawks.
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Al Harrington ai Denver Nuggets Colpo a sorpresa dei Denver Nuggets, che si assicurano il free agent Al Harrington strappandolo in extremis ai Dallas Mavericks. L'ex ala dei New York Knicks (17.7 puntin e 4.4 rimbalzi nel 2009/2010) ha firmato un contratto di cinque anni da 34 milioni di dollari. Harrington porta in dote la capacità di segnare molti punti in pochi minuti, inoltre, rappresenta un'aggiunta importantissima per i Nuggets che nella prima parte di stagione dovranno fare a meno di Martin e Anderson per infortrunio.
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NBA NEWS
Fisher resterà al fianco di Kobe Tanto rumore per nulla. Derek Fisher resta ai Los Angeles Lakers. Dopo settimane vissute sul filo, il matrimonio con i Los Angeles Lakers prosegue, grazie alla mediazione dell'amico Kobe Bryant e sopratutto alla grande umanità del diretto interessato (che ha rinunciato a un contratto più vantaggioso dal punto di vista economico offertogli dai Miami Heat). Fisher firmerà un triennale. «Ho deciso di continuare a giocare con Kobe» ha detto Fisher. «Anche se non è il contratto più ricco che mi è stato offerto, è quello sicuramente più valido. Sono sicuro che continuerò ad essere un leader della squadra sia dentro che fuori dal campo» ha aggiunto Fisher, che ha concluso così. "Kobe Bryant mi ha chiesto di rimanere dicendomi che avrebbe accettato qualsiasi mia decisione. Abbiamo giocato insieme per 11 stagioni, stato un amico fedele. Insieme abbiamo vinto cinque titosiamo entrati nella NBA insieme da 'ragazzi' ed è sempre li».
I Phoenix Suns si consolano con Turkoglu e Childress Una notizia clamorosa giunge dall'Arizona. Come riporta l'Arizona Republic, i Phoenix Suns sarebbero vicinissimi a Hedo Turkoglu. L'ala turca arriverebbe dai Raptors attraverso una trade con Leandro Barbosa e Dwayne Jones. I Raptors a loro volta userebbero Jones imbastendo uno scambio con Charlotte (usando la trade exception derivante dal sign and trade con il quale Chris Bosh è approdato a Miami) per arrivare a Boris Diaw. Phoenix inoltre è a un passo dal restricted free agent Josh Childress, che ha giocato nelle ultime due stagioni in Grecia con l'Olymopiacos. Atlanta, proprietario del cartellino del giocatore dopo aver rifirmato Joe Johnson (contratto di sei anni per 120 milioni di dollari) non può pareggiare l'offerta dei Suns (quinquennale da 35 milioni di dollari). Phoenix completerebbe il sign and trade con gli Hawks cedendo una scelta al secondo giro del draft 2012.
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Duhon e Q-Rich ai Magic Quentin Richardson cambia indirizzo pur rimanendo in Florida. L'ala (8.9 punti di media e 4.9 rimbalzi nella passata stagione con i Miami Heat) ha firmato un contratto pluriennale con gli Orlando Magic. L'acquisizione di Richardson fa presagire la partenza certa di uno tra Matt Barnes e JJ Redick. Quest'ultimo ha firmato giorni ba un offer sheet con i Chicago Bulls e al momento i Magic non hanno ancora pareggiato l'offerta per trattenere il giocatore. Il playmaker Chris Duhon, free agent reduce da un'annata non entusiasmante a New York, ha raggiunto un accordo con gli Orlando Magic, sulla base di 15 milioni per i prossimi 4 anni. Duhon, che in carriera ha indossato anche la canotta dei Chicago Bulls, diventa così il secondo playmaker dei Magic, oltre al titolare Jameer Nelson. Col suo arrivo Orlando rimpiazza Jason Williams, che sembra destinato al ritiro dal basket professionistico.
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Basketball Coaches Clinic Partendo dai principi base per sviluppare una propria filosofia di gioco, in attacco ed in difesa, Ettore Messina tratterà argomenti come l’attacco alla zona, la costruzione di un attacco alla uomo e il contropiede primario e secondario. Al Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010, in programma dal 16 al 18 luglio al PalaRockfeller di Cagliari, il coach del Real Madrid svelerà alcuni dettagli della sua efficacissima metodologia, quella che l’ha reso uno dei coach europei più importanti e vincenti dell’ultimo ventennio. Organizzato dal direttore di Giganti del Basket, Giorgio Gandolfi, in collaborazione con il Comitato Regionale FIP Sardegna presieduto da Bruno Perra e con il patrocinio della Federazione Italiana Pallacanestro, del Comitato Nazionale Allenatori della FIP e della Scuola dello Sport Coni Sardegna, oltre al supporto della rivista Superbasket e dello sponsor Nike, il Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010 propone, oltre a quelle di Messina, si avvarrà anche delle lezioni tecniche di due personaggi ben conosciuti e stimati per il lavoro che svolgono oltreoceano. Rich Dalatri, assistente e player development dei New Jersey Nets della NBA, parlerà infatti di come aumentare la forza senza ricorrere alla sala pesi, di esercizi per migliorare la reattività e la velocità, della preparazione fisica su un campo da basket e del riscaldamento pre-alle-
Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010: il programma
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Basketball Coaches Clinic namento. Kevin Sutton, coach della Montverde Academy High School e assistente della Nazionale Usa Under 17, toccherà l’argomento a lui caro dei fondamentali spiegando come migliorare quelli degli esterni e quelli per i giocatori in post basso, per poi chiudere con i particolari della costruzione della difesa a uomo. Un clinic che offrirà quindi un ampio ventaglio di argomenti tecnico-tattici, potendo attingere alle conoscenze di tre personaggi al top nel loro settore e miscelando due diverse culture e metodologie di lavoro, quella europea e quella statunitense. Due le importanti novità a livello pratico: il Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010 assegnerà ai suoi frequentanti 4 crediti Pao che, per gli allenatori che avessero già sanato il Pao 2009/2010, varranno per la stagione 2010/2011. L’organizzazione ha poi reso note nei giorni scorsi le convenzioni con gli alberghi del luogo per gli allenatori che, frequentando il Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010, volessero soggiornare a Cagliari. Gli alberghi convenzionati con il Comitato Regionale Sardegna della Fip sono l’Hotel Califfo (www.hotelcaliffo.com, via Leonardo Da Vinci 118, 09045 Quartu S.Elena - Tel. 070 890131-2-3 – Fax 070 890134 – info@hotelcaliffo.com), l’Hotel Setar (www.hotelsetar.it, via Lipari 1/3, 09045 Quartu Sant’Elena - Tel. 070 892031 - Fax 070 890008 – info@hotelsetar.it) e l’Hotel Cagliari Santa Maria (www.ideahotel.it, Circonv. Nuova Pirri 626, 09134 Cagliari - Tel. 070 529060 – Fax 070 502222 - reservation.cagliari@ideahotel.it). La quota d’iscrizione è di 50 euro in pre-iscrizione e di 65 euro se l’iscrizione verrà effettuata in loco. E’ possibile iscriversi contattando il numero di telefono 070304464, via fax allo 070-304124 oppure tramite email agli indirizzi info@sardegna.fip.it e
cagliariclinic2010@gmail.it. Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010. Programma e orari. VENERDÌ 16 h. 16.00 Iscrizioni. h. 17.00-18.15 Rich Dalatri - Aumentare la forza senza usare la sala pesi. h. 18.30-19.45 Ettore Messina - Come sviluppare una propria filosofia in attacco e in difesa. SABATO 17 h. 9.00 Iscrizioni h. 9.30-10.45 Kevin Sutton - Miglioramento dei fondamentali degli esterni. h. 10.45-12.00 Rich Dalatri - Esercizi per la velocità e la reattività. h. 12.00-12.15 Break. h. 12.15-13.30 Ettore Messina - Concetti di un attacco alla zona. h. 16.00-17.15 Ettore Messina - Attacco alla uomo: come costruirlo e come insegnarlo. h. 17.15-18.30 Kevin Sutton - Miglioramento dei fondamentali dei post. h. 18.30-18.45 Break. h. 18.45-20.00 Rich Dalatri - Preparazione fisica sul campo da basket. DOMENICA 18 h. 9.30-10.45 Rich Dalatri - Riscaldamento prima dell'allenamento. h. 10.45-12.00 Kevin Sutton - Costruzione della difesa a uomo. h. 12.00-12.15 Break h. 12.15-13.30 Ettore Messina - Contropiede primario e secondario.
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AROUND THE USA
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ST TE EFA FAN NO O LI IV VI I DI
Kur t Warner ‘say goodbye’
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Dopo aver calcato i campi NFL per dodici anni, Kurt Warner ha annunciato, nel gennaio scorso, di volersi ritirare dalle scene. La sua storia non può non cominciare dal negozio di alimentari nell' Iowa perché,dopo tutti questi anni, si stenta ancora a crederci. Nel 1994 fu messo sotto contratto dai Green Bay Packers, dove copriva il ruolo di quarto quarterback dietro il leggendario Ty Detmer, ma venne ben presto tagliato e così fu costretto a tornare nella sua città natale, Cedar Falls, dove l'unica cosa che avrebbe potuto lanciare erano gli snack che vendeva. Mai nessuno si sarebbe aspettato che di lì a cinque anni Kurt, dopo l'esperienza nel football a otto dell'Arena League e una stagione in Europa nelle fila degli Amsterdam Admirals, avesso potuto giocare una delle migliori stagioni di sempre; oltre 4.000 yds lanciate, 41 TD che hanno i St. Louis Rams alla conquista del Super Bowl, nel quale fu eletto MVP oltre a vincere il premio come MVP della stagione. La stessa cosa accadde due anni più tardi, nel 2001, quando venne ancora eletto MVP della lega, alla conclusione di una stagione dove lanciò oltre 5.000 yds, portando il "Greatest Show on Turf", come venivano soprannominati i Rams, al loro secondo Super Bowl in tre anni, uscendo però sconfitti 17-20 cpntro Patriots. Nello sport, si sa, le favole durano poco. Gli atleti spuntano dal nulla, riescono a sorprendere per una stagione o due per poi tornare nell'oscurità da dove erano venuti. Così, dopo solo tre anni il suo secondo premio MVP, Warner tornò ad essere un giocatore scarso. Era naturale, un commesso di un alimentari non poteva essere un Brett Favre. Le due stagioni successive furono caratterizzate da atroci intercetti, continui fumbles e contornate da infortuni che accompagnarono Kurt ai 33 anni quando venne scaricato dai Rams per poi firmare per i New York Giants solo per essere rimpiazzato dal rookie Eli Manning durante la stagione. Molti spiegarono il suo successo durante la permanenza a St. Louis con la presenza di grandi ricevitori e con il grande gioco offensivo attuato da Dick Vermeil prima e Mike Martz poi, gli head coach dei due Super Bowl, che perfino io e te avremmo potuto mettere a segno quegli stessi numeri. Dopo l'esperienza newyorkese si trasferì in Arizona nel 2005 ma le cose non cambiarono di molto in quanto anche qua venne sostituito da un altro rookie, Matt Leinart. A quel punto molti atleti che si fossero trovati in quella stessa situazione avrebbero deciso di farla finita, appendendo gli scarpini al chiodo. Ma Kurt non aveva ancora finito, c'era ancora da giocare il secondo atto della sua carriera.m Leinart non era ancora pronto a caricarsi sul groppone la squadra e, nel 2007, Kurt Warner prese il suo posto da titolare e registrò le sue migliori statistiche dal 2001. Un anno dopo condusse i Cardinals non solo ai play off dopo nove anni di assenza, ma anche a giocarsi il Super Bowl contro gli Steelers uscendo però sconfitto. In questa stagione, l'ultima partita di Warner non è stata un successo, ma la penulitma, vinta contro i Packers 51-45, ha consacrato la sua entrata di diritto nella Hall of Fame. In quella partita Warner, a 38 anni, ha completato 29 passaggi su 33, per 379 yds, finendo la gara con più passaggi da touchdown (5) che intercetti (4). Warner non è stato mai il giocatore da far lasciare la bocca aperta o da farci cadere la birra dalle mani. A differenza di Favre non è mai stato un maestro dell'improvvisazione capace di farti tenere gli occhi incollati su di esso in ogni azione; non ha mai avuto il carisma di Tom Brady o la presenza di Peyton Manning. Kurt Warner era un chirurgo, che apriva le difese con una precisione quasi perfetta. Di cos'altro c'è bisogno in un quarterback? Fuori dal campo, in pochi erano migliori. E' devoto ai suoi sette figli e possiamo essere certi che non si andrà mai ad impelagare in situazioni "Tiger Woods style". Warner ha deciso di lasciare nel momento giusto, sebbene ha fatto intendere che sulla decisione di ritirarsi hanno influito molto gli infortuni, pensando alla salute a lungo termine. Kurt è stato vittima di cinque commozioni cerebrali durante la sua carriera; in dicembre è stato costretto a tenersi fuori dal campo perché si sentiva la testa “annebbiata” da un colpo ricevuto in precedenza. Gli infortuni al cervello stanno ricevendo particolari attenzioni in questo periodo, e Warner rappresenta un importante esempio per i milioni di ragazzi che praticano questo sport. Non c'è da meravigliarsi. Da quei giorni in cui lanciava gli snack nell'alimentari di Cedar Falls, Kurt è diventato fonte d'ispirazione.
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From the grocery to the turf