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IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO IL PERSONAGGIO

Dieci anelli e una vita straordinaria: Phil Jackson LA TRADE

Lebron si affida a Shaq...Howard a Carter LA PARATA

La celebrazione e la parata del 15° anello gialloviola IL DRAFT

Al microscopio tutte le prime trenta chiamate MADE IN ITALY

L’approfondimento sulla Lega Italiana ON THE ROAD

Welcome to Denver

That’s Griffin time


Chi riuscirĂ

nell’impresa di


arrivare al titolo


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Le voci delle ultime settimane tra gli addetti ai lavori si sono trasformate in realtà. Ferry prova a fare l’ultimo sforzo per regalare l’anello a LBJ

Lebron ci prova con Shaq

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D OMENICO P EZZELLA

Serviva un tonico. Serviva un rigenerante, uno di quelli che ti permette di ritornare in campo per il secondo tempo e vincere la partita cosi come si sente negli ultimi tempi all’interno di un noto spot pubblicitario americano e trasmesso anche sui nostri schermi. Insomma un qualcosa che potesse togliere

qualche pensiero dalla mente di Lebron (per metterne forse altri e ricordatevi queste parole in vista dell’approfondimento che potrete leggere tra poco ndr) e permettergli di dimenticare quanto successo nello scorso fine maggio nelle sei partite contro i Magic. Un po’ quello che Danny Ferry e la dirigenza di Cavs avevano fatto un anno prima mettendo tra ‘le mani di LBJ’ Mo Williams e veterani di tante battaglie come Ben Wallace e


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Szczerbiak. Molto probabile che le sue parole ed i suoi pensieri fossero tornati ad affiorargli la mente addirittura dopo la prima sconfitta casalinga dei playoff contro i poi campioni della Eastern Conference, per poi prendere il sopravvento definitivamente nel vedere il 23 di James allontanarsi senza salutare gli avversari, qualche tifoso suo personale che anche alla Amway Arena non è mancato ed aver completamente snobbato la sala stampa, giornalisti e quelle che molto presumibilmente sarebbero state le domande più difficili a cui rispondere (anche perché forse nella sua mente riecheggiavano ancora quelle espresse durante la cerimonia

rifirmando un condottiero impavido come Delonte West. A quanto apre il destino e lo sforzo profuso dai Cavaliers non è bastato nella maniera più assoluta considerando che il risultato finale, poi, è stato comunque lo stesso dell’anno prima. A dire il vero vista la stagione regolare e visto i primi due turni di playoff, all’interno della stanza dei bottoni dell’Ohio tutto potevano pensare tranne che organizzarsi per organizzare una trade di queste dimensioni e che avrebbe portato a Cleveland quello che attualmente è l’ultimo tentativo di mantenere in vita un matrimonio che a partire dalla prossima stagione sarà al suo ultimo anno di convivenza forzata, dopo di che la decisione di continuare a ‘vivere sotto lo stesso tetto’ spetterà solo ed esclusivamente alla ragione per cui Shaquille O’Neal ha dovuto fare di nuovo i bagagli e passare dall’Arizona all’Ohio dai Suns ai Cavs, da Phoenix a Cleveland. Per onor del vero quella che è andata a buon fine qualche giorno fa era una trattativa che ha rischiato di essere conclusa anche nella stagione appena conclusa e che non andò in porto solo ed esclusivamente perché in quel momento Danny Ferry in primis riteneva che i suo Cavaliers avessero fatto degli ottimi passi in avanti come squadra e come potenziale aggiungendo poi al tutto la voglia di non voler rinunciare ad un giocatore importante per la chimica di squadra come Wally


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di premiazione per il trofeo di Mvp della stagione in quel di Akron rispondendo alla domanda di un giornalista che definì la sua stagione come una missione ndr). Da quel giorno, costato tra l’altro come sanno tutto ben 25.000 ‘bigliettoni’ a The Chosen One, la ricerca di aggiustamenti a quello che non andava è stato un qualcosa di spasmodico, anche perché un altro anno era passato e le voci di quel 2010 e le sirene dei New York Knicks iniziano a farsi sentire con più forza. Ecco che le voci di mercato legate alla franchigia dell’Ohio hanno iniziato a rincorrersi come un cane fa con la propria coda con alcune con il chiaro compito di sviare il tutto. Prima fra tutte quelle che volevano i Cavs interessati addirittura ai Yao Ming () vista la recente acquisizione di una parte del pacchetto azionario (il 15%) ad opera di una cordata di imprenditori cinesi. Nemmeno il tempo di distogliere lo sguardo di approfondire il tutto e dirigere gli interessamenti degli addetti ai lavori verso il Texas che ecco che la trattativa è già sul tavolo dei Phonix Suns che nel frattempo stavano cercando di smobilitare anche l’atro pezzo pregiato Amare Stoudemire (attualmente al centro di tante voci alimentate ancor di più da uno dei suoi status sull’ormai network preferito dai giocatori Nba ovvero Twitter ndr). Non che dall’altra parte Steve Kerr ci abbia dovuto pensare più di tanto prima di accettare la proposta, ma que-

sta volta si è andato oltre al semplice Wally. In cambio di The Big Diesel il team dell’Arizona ha ‘preteso’ qualcosina in più: Ben Wallace, Sasha Pavlovic, una seconda scelta al Draft del 2010 ed un bonifico bancario di ben 500.000 presidenti spirati. IL PERCHÉ DELLA SCELTA. La buona sostanza di questo approfondimento è stato in parte spiegata in precedenza e volendo racchiudere il tutto in una sola parola potemmo utilizzare: incentivo. Incentivo nei confronti di un giocatore che fino a questo momento ha si sempre visto la buona volontà della società a volerlo accontentare a volerlo coccolare come una mamma con il suo unico figlio, ma che ha raccolto davvero solo le briciole ed è tornato a casa sempre con delusioni grandi più o meno come una casa. Con l’arrivo di Shaq ai piani alti della squadra si pensa di dare quella soddisfazione che ancora manca all’ex St. Vincent and St. Mary per legare definitivamente la propria mente e la propria anima a questi colori e a questa città. E’ detto risaputo che le vittorie sono la migliore medicina per guarire da periodi bui dovuti da delusioni, ed allora ecco che il nome di un pluri campione come Shaq ed una stella assoluta del valore di The Big Aristotele (cosa che mancava in maniera assoluta all’interno del roster dei Cavaliers) può essere più che una garanzia in questo senso. Insomma si prova a dare a Lebron ‘lo zuccherino’

I PRO ED I CONTRO DELLA SCELTA DI CLEVELAND E DI DANNY FERRY Un’altra ‘star’ al fianco e al servizio di ‘The Chosen One’ Lebron James A Miami nel 2006 l’ultimo anno vincente dell’ex stella di LSU PRO. Dal punto di vista tattico un arrivo che elimina in maniera assoluta uno dei problemi che ha attanagliato Cleveland all’interno della serie con Orlando e non solo in questi playoff, ma anche durante la stessa stagione regolare: il post basso. L’anello debole della catena dei Cavaliers in tutte e sette le partite con i Magic nonostante i nomi su cui potevano contare Mike Brown e lo stesso Lebron non fossero poi degli sconosciuto o degli sprovveduti. Zidrunas Illgauskas, Ben Wallace, Joe Smith e Anderson Varejao. L’ex Detroit e Bulls ha già fatto le valigie, mentre per gli altri tre quella che inizierà ad ottobre con la consegna degli anelli ai Lakers, dovrebbe essere un anno di riscatto ancora in maglia Cavs. Un trio che forse con Shaq riuscirà a garantire maggiore rendimento e ad incastonarsi definitivamente l’uno con l’altro. Già perché il brasiliano è un lottatore, instancabile, ma ha dimostrato di essere troppo piccolo per restare costantemente a contatto con i big man e troppo poco mobile di piedi per restare sul perimetro contro ‘power forward’ mobili o tattici come per esempio Rashard Lewis. Qualcosa in più avrebbe dovuto e potuto dare il ritorno di Joe Smith, ma la parabola del figliuol prodigo per l’ex prima scelta di Golden State non ha avuto però la stessa buona fine di quella biblica chiudendo la sua seconda esperienza in maglia Cleveland nello stesso modo in cui chiuse quella dell’anno prima e cioè con una sconfitta (contro Boston in gara7 nell’anno precedente prima di essere ceduto ed essere tornato a febbraio con il compito di aiutare Lebron a vincere il titolo ndr). Stesso risultato da anni, ormai, per Illgauskas ovvero l’unico big man di ruolo su cui Mike Brown poteva contare. Ma sistematicamente nel momento del bisogno le prestazioni del centro proveniente dal Vecchio Continente ha sempre deluso o quanto meno giocato al di sotto di quel par e di quella soglia che invece avrebbero potuto permettere ai Cavs di rivoltare il tutto come un calzino. Devastato letteralmente da Howard all’interno di questi playoff e sceso in campo con l’unica arma a sua disposizione (il jump shot dalla media distanza che avrebbe costretto il Superman dei Magic a fare qualche passo in più verso di lui per evitare di prenderle sonoramente sulla faccia, invece che verso l’anello arancione dove James se l’è ritrovato praticamente sempre davanti in aiuto) per regalare spazio a centro aria a King James, caricata a salve. Avere Shaq, quindi, permette a coach Brown di mischiare meglio le carte. Gli permette di avere lo stesso un uomo d’aria di peso quando Illga è in difficoltà con affianco un ‘4’ di ruolo quale Varejao o Smith che possa dargli una mano in termini di rimbalzi. Di Avere una presenza in più e più ingombrante al centro dell’area e poi diciamoci la verità, avere un altro giocatore di peso e di spessore, e questa volta il tutto è rivolto non al peso, in campo sul quale gli avversari dovranno posare gli occhi altre ovviamente a James e al duo di esterni West e Williams.

CONTRO. Beh dal punto di vista tattico un po’ quelli che negli ultimi anni hanno accompagnato O’Neal nelle sue varie avventure: età, condizione fisica (anche se quella dell’ultima parte di stagione a Phoenix di sicuro non era malaccia ndr) e difficoltà di adattamento in squadre che prediligono la corsa. Da quest’ultimo punto di vista non è certo un mistero che il suo arrivo ai Suns di D’Antoni abbia rallentato il ritmo forsennato di quella Phoenix guidata da Nash e fatta da centometristi e non da giocatori di basket. Non è mistero che dopo che Porter aveva tentato di metterla sul gioco ragionato e a metà campo anche per sfruttare lo stesso Shaq i risultati non sono stati esaltanti, anzi sono costati il posto all’assistente dello stesso D’Antoni (e a quanto apre generando anche qualche mugugno di troppo da parte del maggior fautore di quel gioco veloce e sfavillante e cioè Steve Nash). Non un mistero che proprio la sua ‘lentezza’ dovuta ovviamente alla mole e all’età venisse messa in evidenza in squadra che amano la velocità come ha dimostrato di essere Cleveland in questa stagione e nei primi turni di playoff. Dulcis in fundo ci sarebbe poi un fattore psicologico che da ora all’eventuale titolo verrà spiattellato su ogni forma di media, in ogni conferenza stampa: il fattore Shaquille O’Neal. Lo stesso fattore che Kobe Bryant ha impiegato ben 5 anni per scrollarsi di dosso, lo stesso che ancora attanaglia Dwayne Wade e che solo a Phoenix ha dato qualche segno di cedimento: il fattore di pensare che poi vincere non è stato tutto merito tuo, ma che c’è voluto lo zampino di Shaq. Forse è per questo che O’Neal resterà e guadagnerà20 milioni per la sola prossima stagione in quel di Cleveland. Per permettere a Lebron di ingolosirsi con il titolo e per poi non veder minata la propria superstar con la presenza ‘ingombrante’ di Shaq e provarci immediatamente da solo magari con un bel contratto pluriennale sulle spalle.


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tanto agognato in questi anni per poi buttare tutto sull’attaccamento alla maglia, sull’attaccamento ai colori e ad una società che gli ha regalato la sua prima vittoria a livello di campionato. Certo il tutto verrà corredato da altri temi mettendo sul piatto della bilancia la fedeltà che altri grandi hanno mostrato nei confronti del loro primo team quali per esempio Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird e Kobe Bryant tanto per indicarne qualcuno, ma l’argomento più importante e fondamentale per la buona riuscita del tutto resterà la possibilità di essere al centro del campo nel match inaugurale della stagione immediatamente seguente e vedere lo stendardo con su scritto’…Nba Champion…’ salire fino al soffitto e ricevere il famigerato anello quello che ti consacra nell’Olimpo definitivo dei grandi e non ti lascia nel limbo degli incompiuti. Facile da comprendere che questo, quindi, rappresenta l’ultimo tentativo, la classica ultima spiaggia; a mali estremi, estremi rimedi e quale estremo rimedio migliore di quello di mettere O’Neal al fianco di Lebron per tentare il tutto per tutto.

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Ritorno all’infanzia per Shaq che per la sua avventura con i Cavaliers ha scelto il numero del liceo e del College Un ritorno all’infanzia. Cosi può essere definita la scelta di Shaq del numero di maglia che lo accompagnerà nella sua esperienza ed avventura in Ohio. Ritorno all’infanzia perché il 33, il numero scelto, è lo stesso che Shaq indossava ai tempi sia dell’High School che del college a LSU prima di passare pro. Dal 1994, infatti, due i numeri adottati il 32 ad Orlando, Miami e Phoenix ed il 34 a Los Angeles per l’impossibilità di utilizzare sia il 32, ritirato per Magic, che il 33, ritirato per Kareem Abdul-Jabaar. Una sorta di gesto scaramantico che potrebbe anche portargli bene.


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Tutti i partner di The Big Aristotele L’argomento che forse lo ha sempre seguito da per tutto sia stato e sia andato, sin dal suo primo approdo nella Nba. Da quel 1994 che lo mise al fianco di uno degli astri nascenti della Lega con il quale qualcuno ad Orlando aveva già pronosticato anni ed anni di vittorie ed invece sono arrivate solo sconfitte di cui una proprio in Finale. Insomma da Penny Hardaway a Kobe Bryant, da Dwayne Wade a Steve Nash fino ad arrivare a Lebron James. Sempre una Super Stare

al suo fianco, sempre un giocatore di grande talento che però hanno tutti in un modo o nell’altro deciso di provarci da soli dopo il successo. E’ accaduto cosi con Kobe tra il 2000 ed il 2002, cosi come è accaduto cosi con il Flash di Miami nel 2006. Il canadese e Hardaway rappresentano un lato da questo punto di vista da non sottovalutare e cioè dei non vincente. Due anni di strapotere per poi perdere in finale nel ’95 contro i Rockets e nel ’96 in finale di Conference contro i Bulls del rientrante Jordan. Solo insuccessi e mugugni in quel di Phoenix che sono coincisi con poco e niente anche a livello di playoff. A questo punto come soleva affermare un noto presentatore italiano: ‘la domanda nasce spontanea’: a quale categoria apparterrà Lebron a quella dei vincenti o quella dei perdenti? Come al solito ‘..ai posteri l’ardua sentenza..’.


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D OMENICO P EZZELLA

Dopo cinque anni trascorsi con la maglia dei Nets, Vince Carter torna in Florida, per lui che è natio di Daytona Beach i Magic sono l’ultima spiaggia per per il titolo

Vincredible’s come back

Nemmeno una decina di giorni per rilassarsi, nemmeno una decina di giorni per poter tirare le somme e considerare quelle che potevano essere le possibilità per il prossimo anno e per la prossima stagione. Immediata la risposta dei Magic alla sconfitta nell’atto finale contro i Lakers e movimento di mercato che ha portato in Florida una ‘star’ riconosciuta dall’intero panorama, ma che però in tanti anni di carriera deve

ancora vincere un qualcosa di importante. Molto probabile che Othis Smith e la dirigenza di Orlando avessero acceso la macchina ed il motore del mercato ancor prima che le Finals avessero avuto il suo normale e naturale epilogo. Molto probabile che il colpo del 3-1 (ma anche alcune facce arrendevoli che si sono viste durante la decisiva gara5) gialloviola abbia fatto scattare immediatamente la molla nella mente degli


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successori o eredi di Michael Jordan e non solo per il nome impresso sulle maglie della sua Università (North Carolina ndr). Il 2004 l’ultimo anno di presenza di Carter nello stato canadese dopo aver raggiunto il massimo della sua carriera e di quella della franchigia nel 2002 e precisamente nella gara7 persa nella semifinale di Conference contro i Sixers di Allen Iverson che poi giunsero alla Finale giocata e persa contro i Lakers del duo Shaq and Kobe. Di li in poi solo riconoscimenti personali, solo stagioni

addetti ai lavori dei Magic pronti a lavorare nel silenzio con telefoni cellulari e fissi più in azione del dovuto. Il perché? Beh chiaro restare una delle formazione di vertice della Eastern Conference, restare una squadra di vertice e provare a rifare l’intero cammino fatto in questa stagione e riprovare a giocare una Finale, ma con qualche cambiamento nel copione. Molto più facile a dirsi che a farsi, visto quello che si è mosso e quello che è successo negli ultimi giorni, ma per il momento quello che è cambiato è il roster con un nome in entrata e tre in uscita. New JerseyOrlando circa 2000 chilometri di distanza e voli che si sono incrociati per i vari Vince Carter in direzione Florida, Courtney Lee, Rafer ‘Skip to May Lou’ Alston e Tony Battie con quella del NJ ed East Rutherford impressa sul tagliando di volo. Uno scambio che da tanti addetti ai lavori era stato considerato come necessario per una sorta di motivazione tecnico-tattica legata al tiro dalla distanza o media distanza e quindi dare quella doppia dimensione in maniera costante ad una squadra che ha pagato a caro prezzo l’incostanza da questo punto di vista. Insomma un bel modo per iniziare la nuova annata, la nuova rincorsa verso la terza finale della storia della franchigia dopo aver centrato anche la prima vittoria in una Finals. La nuova era dei Magic, quindi riparte da Vincredible che da figliuol prodigo torna nella sua Florida per lui che è cresciuto a Daytona Beach ed giunto ormai alla sua terza maglia Nba. Scelto (1998-99) e giocato per 5 anni in Canada dove gli hanno addirittura dedicato il nome della struttura dove i Raptors giocano attualmente, l’Air Canada Center in onore proprio a colui che in uscita dal College era stato considerato uno dei


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trascorse tra canestri, cambi di maglia, qualche infortunio e tanti All Star Game da titolare, ma nessun’altra soddisfazione particolare a livello di squadra o di opportunità vera ne con i Raptors, ne con i New Jersey Nets dove fu appunto scambiato nel 2004 per comporre con Jason Kidd e Richard Jefferson (ora entrambi altrove ndr) il Big Three di East Rutherford. Cinque stagioni ai Nets, altre convocazioni ai successivi week end delle stelle, ma nessun salto di qualità ne per lui ne per i Nets. Una sorta di frustrazione continua legata al fatto di essere considerato quel tipo di giocatore incapace, da solo, di portare lontano la sua squadra, una frustrazione legata alla considerazione di essere una ‘star’ solo a livello personale, ma che togliendo quell’excursus nel 2002 ha avuto pochi picchi e molti medi e bassi se cosi possiamo chiamarli. Ora però ‘Vinsanity’ ci riprova, ci riprova come parte di un insieme, come pedina fondamentale all’interno di un sistema di gioco che di squadra ha dimostrato di poter arrivare fino in fondo, ma che si è reso conto che nonostante tutto qualcosa mancava. A mancare era quel tipo di giocatore capace di mettere tiri impossibili, di aprire in due le difese (non che Turkoglu o Lewis fossero dei brocchi, ma giocatori che possiamo definire quasi costantemente sul perimetro con il solo turco propenso a cambiare le sue vedute partendo dal pick

and roll che resta il suo marchio di fabbrica per penetrare ed arrivare al ferro ndr) con entrate fino all’anello e magari chiudere con una poderosa schiacciata di quella che fanno alzare in piedi le Arene anche se non è la tua. Si sono resi conto che il sistema dello ‘spacing’ delle spaziature, del movimento della palla da lato forte al alto debole per liberare tiratori sul perimetro, cosa che tra l’altro ha fatto la fortuna dei biancoblù durante questi anni e l’ultima stagione, va bene ma non benissimo. Insomma serviva una sorta di via di mezzo tra il gioco perimetrale e quello interno legato al nome di Superman Dwight Howard, via di mezzo ritrovata ed individuata nel nome proprio nell’ex talento dei Tar Heels. Tattica, dunque, la scelta di portare ‘a casa’ Vince Carter da parte di Orlando, anche se qualcuno non è propriamente d’accordo. Una trade, che infatti, per molti sa di addio da parte di un altro giocatore che in chiave e previsione futura avrebbe comunque giocato nello stesso ruolo e che guarda caso è free agent a partire da questa estate. Che il turco avrebbe esercitato la clausola per uscire dal contratto e trattare per un adeguamento del suo ingaggio, non era certo un mistero e la mossa di cui si sta leggendo è forse l’espressione che i Magic abbiano fatto una scelta che porta lontano da Hedo Turkoglu.

I PRO ED I CONTRO DELLA SCELTA DI ORLAND E DI OTHIS SMITH Indiscusso All Star da ormai 8 anni e capace di alternare gioco sul perimetro a voli a canestro, ma pur sempre una stella incompiuta PRO. Facili da individuare e da mettere in mostra e in buona parte già illustrati precedentemente. Un giocatore che a livello di talento non ha mai avuto bisogno di presentazioni e di schede informative. Un giocatore capace di mettere assieme due aspetti del gioco dal punto di vista dimensionale. Capace ed in grado di punire da fuori con un tiro dalla distanza che nel corso degli anni da professionista, dieci, di Vince si è assestato attorno al 37% abbondante con clamorosi colpi da bazzer beater che nel New Jersey fanno venire ancora i brividi. A quanto detto, poi, Vincredible aggiunge quello che è sempre stato il suo marchio di fabbrica, anche se forse ora un tantino sotto a livello di scala generale ma solo per età e qualche piccolo acciacco: l’atletismo. Una facilità disarmante a salire di quota nelle vicinanze del canestro per chiudere con conclusioni ad alta percentuale di difficoltà con o senza il difensore davanti sia sugli scarichi, sia su passaggio che partendo dal palleggio in uno contro uno. Una caratteristica che potrebbe essere la chiave di volta per Orlando che quindi aggiungerebbe quel pizzico di imprevedibilità in un attacco che troppe volte è finito per essere scontato e letto in anticipo dagli avversari. Un pizzico di imprevedibilità che però potrebbe tornare utile anche al sistema dal momento che le mani da passatore di Carter non sono certo da snobbare con scarichi a sua volta che potrebbero finire nelle mani dei ‘shooters’ pronti a sparare dalla distanza. E dulcis in fundo una guardia (anche se può essere utilizzato da numero tre) di una certa statura, 1.90 cm, altra pecca che durante le finali è stata la croce dei Magic e la delizia dei Lakers con Courtney Lee coraggioso ed eroico, ma troppo piccolo di statura per marcare il numero 2 avversario e nello specifico Kobe, relegando, quindi tutto il lavoro al francese Mickael Pietrus. Non che Carter fosse questo specialista in difesa, ma almeno non gli si mangia in testa cosi facilmente per mancanza di centimetri. CONTRO. Altrettanto facile come per i pro. Escludendo il trofeo legato allo Slam Dunk del 2000, otto partecipazioni praticamente consecutive al weeekend delle stelle con inizio proprio nell’anno del trofeo di cui sopra, una medaglia Olimpia a Suidney sempre nel 2000 e la cavalcata vincente nei playoff del 2002 con i Raptors conclusa con quel tiro allo scadere di gara7 che ha traballato sul ferro e che ha determinato il passaggio del turno di Iverson e di Phila, il palmares del diretto interessato dice poco e niente. Poco e niente come leader, come giocatore capace di guidare da solo alla vittoria la squadra se non per singola gara e singola situazione. Le escursioni al di sopra dei 20 a sera durante questi 10 anni di carriera sono figlie di un enorme talento che fino a questo momento, però, ha prodotto davvero poco. Quella di Orlando per Carter rappresenta, l’ultima possibilità di dimostrare di essere anche parte di un progetto e non singola stella di una squadra. L’ultima possibilità di ritrovare quella ‘magia’ e quella chimica che lo portò all’annata magica di Toronto e di scrollarsi di dosso quella nomea di solista che lo ha accompagnato fino a questo momento e che in tante occasioni ha cozzato con l’ego di altri giocatori emergenti e di talento portando a qualche piccolo problema di coesistenza.


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Il primo ad essere messo sul piatto offerto ai Nets. Per Skip ora un’altra avventura da affrontare vicino alla sua NY Skip to my lou. Va bene non ha entusiasmato oltre quella gara3 fenomenale, va bene non ha dato il contributo che aveva anche dato in precedenza per portare la squadra fino all’atto finale, ma da qui a pensare che i Magic per fare un passo in avanti dovevano per forza di casa liberarsi del suo contratto e di Skip to my Lou non era certo un percorso facile da digerire ed assimilare. A dire il vero il polverone in questione si era addirittura alzato durante le stesse Finals con il ritorno di Jameer Nelson che a quanto pare ha oscurato la stella di Alston, quella che lo stesso ex Rockets ha messo in evidenza nell’unica partita in cui Van Gundy gli ha dato fiducia assoluta e carta bianca di giocare il suo basket. Critiche non propriamente dolci o se vogliamo costruttive, ma che puntavano tutte il dito contro la leggenda del Rucker che da par suo ha dimostrato di non voler o se vogliamo non poter reggere il ruolo di cambio alle spalle di Nelson. Ed è qui che si è basata o si basava tutta la questione, sul rapporto e sulla posizione nel roster della prossima annata. L’Orlando Sentinel il giornale che più ha appoggiato ed avanzato questa tesi ovvero quella di un futuro senza Skip per i Magic, avrà fatto salti di gioia dopo la trade di qualche giorno fa. Però ad onor del vero tutti i torti al Sentinel non vanno certo dati, visto che tanto infondata poi la polemica non è. In più di un’occasione, ma forse non ce ne era nemmeno bisogno, si è sottolineato che Nelson è il futuro della squadra nel ruolo di point guard e ce Alston è stato portato in Florida solo per rimpiazzare lo stesso giocatore infortunato ad una spalla ed il cui recupero si pensava fosse preventivabile per la preseason della stagione prossima o quanto meno a campionato con-

cluso. Il rientro anticipato di Nelson non ha fatto altro che anticipare una questione che di sicuro sarebbe stata sollevata più avanti, anche perché a giochi conclusi e anello perso è uscita dal coro la voce di un altro scontento, uno che fino all’atto finale era stato decisivo in alcuni momenti per giocare le Finals stesse: Anthony Johnson: «Nella mia carriera ho vissuto tanti alti e bassi, tanti momenti particolari, ma di sicuro questo è il più difficile di tutti. Aver contribuito a centrare l’accesso alla finale e non giocarne nemmeno un minuto è veramente difficile da mandare giù e da metabolizzare». Una tegola ed una dichiarazione con la quale Van Gundy, il giemme Othis Smith e la dirigenza dei Magic hanno dovuto fare i conti e scegliere se vogliamo quello che era il male minore ed il male minore in questo caso portava il nome di Anthony Johnson un giocatore che da sempre ha accettato lo status di riserva senza mai per questo diminuire di intensità e di rendimento. Per Alston, finito nel New Jersey dove dorvà fare i conti con un’altra situazione irreale quella al fianco di un altro point guard che ama avere la palla in mano come Devin Harris, solo il bel ricordo di un finale di stagione concluso con la sua prima partecipazione ad una finale Nba. Certo non è come vincere l’anello che per un giocatore come lui e con la sua storia alle spalle avrebbe avuto un significato ed un valore addirittura da film (il ‘figlio della strada’, la legenda ‘del’ playground che sul tetto del massimo campionato cestistico statunitense ndr), ma almeno è un passo in avanti all’interno della sua crescita e della sua esperienza personale e magari tra i denti e nella sua mente è sempre li che pensa: «Alla faccia di chi non pensava che potessi essere da Nba».


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La decisione di Hidayet Turkoglu Circa dieci milioni di dollari. Questa dovrebbe essere la cifra preferita o meglio auspicata dal Brother Hedo per il prossimo contratto. Quello conclusosi con lo scorso 1 di luglio era un multi-years (6 anni) da 36 milioni di ‘verdoni’ complessivi e di 7,3$ guadagnati nell’ultima stagione («A partire dal primo luglio vedremo quello che offre il mercato in coerenza alle richieste del giocatore» le parole dell’agente di Hedo, Bobby). La sua faccia al termine di gara5 non era certo quella di chi si guardava introno e invitava la gente a non disperarsi promettendo magastri di tornare sugli stessi palcoscenici nella prossima stagione. Una cosa, a dire il vero, che non si sarebbero nemmeno aspettati i tifosi dei Magic che erano ben consapevoli che il turco avrebbe esercitato la propria clausola per uscire dal contratto e firmarne un altro, probabilmente l’ultimo, ad alte cifre in termini di guadagno. Tifosi che però ci speravano che la dirigenza e la franchigia potesse per la prima volta nella sua storia varcare la linea che delimita la luxury tax per rimettere sotto contratto Turkoglu e lasciare al squadra cosi come era e cosi come è arrivata alla finale. La trade e l’arrivo di Vince Carter sembra essere la dimostrazione, però che i Magic vogliano solo pensarci e non più di tanto, a spendere i soldi e a concedere i 10 milioni al Most Improved Player di due stagioni fa, cautelandosi proprio con l’arrivo di Vinsanity. Portare a casa Carter, però potrebbe anche essere una sorta di via per sviare chi pensa che Orlando almeno per un anno non voglia provare a pensare in grande magari in preda ad una sorta di delirio di onnipotenza. Già perché quella di portare a casa Carter e

firmare Turkoglu è una possibilità remotissima per tanti motivi, ma non del tutto scartata a priori visto lo scenario che si potrebbe delineare in Florida. Quale scenario? Beh quello di una squadra ricchissima di talento e di pedine per ritornare alla carica delle Finals e dell’anello con uno starting five ed un roster da far paura all’intera Eastern Conference, quello che per intenderci vedrebbe partire Nelson, Carter, Turkoglu, Lewis e Howard nel line up e con i vari Johnson, Pietrus, Reddick e via dicendo dalla panchina. Un solo anno per poi provare a smobilitare il tutto in caso di mancata realizzazione del sogno. Forse stiamo sognando noi ragionando da puri amanti del fantabasket, ma per qualche settimana tutto è possibile, almeno fino a quando le prime contendenti (si vocifera già di Portland pronta a portarsi a casa il giocatore da mettere al fianco dei vari Roy, Aldridge e Fernandez ndr) non presenteranno le prime offerte e quel tetto massimo di ingaggio non sarà raggiunto da altra formazione che non sia quella della Florida.


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N ICOLÒ F IUMI

Come da copione il primo a stringere la mano a David Stern è Blake Griffin. Thabeet segue a ruota, mentre Ricky Rubio scivola alla numero 5

Et voilà: la classe del 2009 HASHEEM THABEET. Connecticut, centro, 221cm, 118 kg. (13.6 punti, 10.7 rimbalzi, 4.2 stoppate) Se contasse solo il talento, probabilmente non sarebbe nemmeno nei primi 15, ma la penuria di lunghi ha portato il tanzaniano di Uconn direttamente al secondo pick. A livello di intimidazione difensiva è già ritenuto di alto livello NBA, il problema è in attacco dove è a malapena all’ABC. Memphis, inoltre, non sembrava avere tutto questo bisogno di un centro, dopo l’ottima annata d’esordio di Marc Gasol e si è presa un bel rischio. VOTO: 6-.

JAMES HARDEN. Arizona State, Guardia, 196 cm. 99 kg. Probabilmente il giocatore più completo del draft. Ha ottime doti di realizzatore, ma porta il suo contributo anche negli altri aspetti del gioco, come testimoniano le cifre. Difensore di ottimo livello sembra anche essere un ragazzo serio e con la testa sulle spalle. Il sogno dei Thunder era Thabeet per porre un falla dopo il mancato arrivo di Tyson Chandler, ma in sua assenza non ci poteva essere scelta migliore. E chissà che un giorno, Sam Presti e soci, non si trovino a benedire la chiamata dei Grizzlies. VOTO: 9.

BLAKE GRIFFIN. Oklahoma, Ala Grande, 208 cm. 113 kg. Consesus first pick. Molto semplicemente. I Clippers lo avevano detto pochi istanti dopo la lottery. La loro prima scelta sarebbe stata spesa per il ragazzo che nell’ultima stagione ha messo a ferro e fuoco le aree di tutta la Ncaa. Riconosciuto da tutti come il miglior giocatore del draft, ha costruito le sue statistiche con dominando nel pitturato. Il dubbio più grande è se potrà riproporre questo stile di gioco anche al piano di sopra. VOTO: 8.

Le Statistiche PPG RPG FG

22,7 14,4 66%

Le Statistiche PPG RPG BLK

13.6 10.7 4.2

Le Statistiche 20.1 5.5 4.2

punti rimbalzi assists


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RICKY RUBIO. Joventut Badalona, Playmaker, 191 cm. 82 kg. Il giocatore più atteso del draft dopo Griffin finisce inaspettatamente alla quinta posizione. Dopo i proclami del suo manager che lo voleva al caldo della california, il golden boy spagnolo dovrà ora vedersela col freddo del Minnesota. Sempre che a Minnesota decida di andarci. Ragazzo incredibilmente maturo per la sua età (18 anni, classe 1990) è un play puro con trattamento di palla e decision making già di livello superiore. Da migliorare ci sono il tiro da fuori e un fisico di per sè non particolarmente atletico. I T’Wolves se lo sono trovati tra le mani senza aspettarselo. Se decide di giocare con loro è un colpo. VOTO: 8.

JOHNNY FLYNN. Syracuse, Playmaker, 182 cm. 86 kg. Ricalca alla perfezione il playmaker dei “giorni nostri”. Piccolo, rapido, intenso, maggiormente portato ad alzare i ritmi piuttosto che a controllarli. Nei due anni a Syracuse si è però rivelato come uno dei migliori interpreti nel suo ruolo. Nonostante l’altezza è molto esplosivo e riesce conquistare diversi tiri liberi a partita. La visione di gioco è migliorata nel suo secondo anno ma può fare passi in avanti, così come la gestione delle pale perse. Molto probabilmente Minnesota ha voluto tutelarsi contro i dubbi di Rubio con la sua scelta. Idea condivisibile. VOTO: 7,5.

TYREKE EVANS. Memphis, Play/Guardia, 193 cm. 99 kg. La prima grande sorpresa del draft. Tutti attendevano chiamato il nome di Ricky Rubio che sembrava promesso sposo dei Kings e invece la scelta dei californiani è andata su questo ragazzo uscito dopo un solo anno da un ottimo programma universitario come Memphis. Sul talento non c’è nulla da dire. Il ragazzo ha proprietà di palleggio, istinti realizzativi e buona leadership. Ora deve trasformarsi definitivamente in un playmaker e non galleggiare più fra due posizioni, oltre a migliorare il tiro da fuori. Dubbi sul carattere. VOTO: 5,5.

Le Statistiche 17.1 5.4 3.9

punti rimbalzi assists

Le Statistiche 10 6.1 39%

Punti Assists Al tiro

Le Statistiche 17.4 Punti 6.7 Assists 1.4 Palle rubate


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JORDAN HILL. Arizona, Ala Grande/Centro, 208 cm. 105 kg. Vista l’assenza di esterni di sicuro valore e affidabili, New York ha speso la propria chiamata vestendo di blu-arancio l’unico altro lungo di un certo spessore in questo draft. Hill è un ala/centro con spiccate doti atletiche che fà dell’attività sul rettangolo di gioco il proprio credo. Deve lavorare sui fondamentali, specie in post basso, ma in questi anni ad Arizona ha cominciato a costruirsi un discreto tiro dalla media-corta distanza che nel gioco di coach D’Antoni potrebbe venirgli utile. Scelta intelligente del front office. VOTO: 7.

DEMAR DEROZAN. USC, guardia/ala, 200 cm 95 kg. Scelta logica dei Raptors che dopo la partenza a stagione in corso di Jamario Moon vedevano lo spot di ala piccola pericolosamente vuoto. La scelta, sostanzialmente, era tra il prodotto di USC e Terrence Williams di Louisville, con un picco nello sviluppo probabilmente più basso, ma quasi certamente più affidabile. DeRozan è un talento in possesso di grande atletismo e tiro dalla media già molto affidiabile, specie dal palleggio. Il problema è che non sembra essere partciolarmente allenabile, avendo dimostrato in più casi scarsa attitudina al gioco dentro gli schemi. Una scelta scommessa, sperando che tutto vada per il verso giusto. VOTO: 6+.

STEPHEN CURRY. Davidson, Guardia, 187 cm. 82 kg. Golden State asseconda le voglie di run and gun di Don Nelson mettendogli in casa il miglior tiratore delle ultime due stagioni di college basketball. Dotato di un rilascio tanto rapido quanto efficace, Curry rischia però di soffrire oltremodo la propria taglia fisica, non adatta a giocare guardia in un contesto NBA. I più lo vorrebbero vedere trasformarsi in un play, ma non sembra un idea molto praticabile. Alla 7 è un azzardo non da poco. VOTO: 5,5.

Le Statistiche 28.6 Punti 38.7% da 3 punti 87,6% ai tiri liberi

Le Statistiche 18.3 11 1.7

Punti Rimbalzi Stoppate

Le Statistiche 13.9 Punti 5.7 Rimbalzi 52.3% al tiro


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TERRENCE WILLIAMS. Louisville, Guardia/Ala, 195 cm 96kg. Bel colpo dei Nets che si assicurano le prestazioni di un giocatore solido e che sembra già pronto per contribuire, anche se non da stella, a livello NBA. Assoluto all around player, come dimostrando le sue statistiche, darà un grande contributo difensivo potendo essere impiegato su 2/3 tipi di giocatori. Non è un attaccante nato, e in questa fase del suo gioco dovrà migliorare, ma può rendersi utile in tanti modi su entrambe le metà campo, specie ora che che la partenza di Vince Carter ha liberato tanti minuti. VOTO: 7,5.

BRANDON JENNINGS. Lottomatica Roma, playmaker, 184 cm. 76kg. La sua caduta verticale nella considerazione degli scout sembrava aver raggiunto il culmine proprio nelle ore precedenti al draft, tanto che il suo agente aveva preferito portarlo fuori dalla Green Room. E invece, con grande stupore dei più, i Bucks sono andati spendere la propria prima scelta per l’ex Virtus Roma. Le caratteristiche del giocatore sono note: istinti innati per la pallacanestro, velocità fulminea, ottime doti di passatore a cui fanno da controaltare scelte di gioco discutibili, una capacità limitata di coinvolgere i compagni di squadra e un tiro da fuori quasi inesistente. Aggiungiamoci anche che se in squadra hai già Ramon Sessions, un’altro playmaker da lanciare non sembra l’idea del secolo...VOTO: 4.

Le Statistiche 5.5 1.6 2.3

Punti Rimbalzi Assists

GERALD HENDERSON. Duke, Guardia, 193 cm. 97 kg. I Bobcats vanno sul sicuro prendendo un giocatore che viene da un sistema come Duke che storicamente fornisce all’NBA giocatori che magari non saranno stelle di prima grandezza (anche se ci sono valide eccezioni) ma sanno giocare a basket e non hanno problemi a mettersi agli ordini di un allenatore e a entrare in un preciso sistema di gioco. Dotato di grande atletismo e di un mid range game già di buon livello è anche difensore più che discreto. Da migliorare c’è il tiro da 3 punti, considerato che dovrà giocarsela da guardia. Ha fatto fatica a sviluppare una mentalità da go to guy al college, quindi rispecchia l’identikit del giocatore perfetto per coach Larry Brown (anche se viene da Duke...) VOTO: 6,5.

Le Statistiche 12.5 8.6 5

Punti Rimbalzi Assists

Le Statistiche 16.5 4.9 2.5

Punti Rimbalzi Assists


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EARL CLARK. Louisville, Ala piccola/Ala grande, 206 cm. 104 kg. Giocatore di grande potenziale che quest’anno a Louisville ha dato l’impresisone di non aver dimostrato tutto quello che può fare. Dotato di un apertura di braccia impressionante (218 cm) che lo rende difensore temibile sia in aiuto che sulle linee di passaggio, deve trovare una posizione stabile tra il 3 e il 4. Per giocare 3 dave migliorare il tiro da fuori, per giocare lungo deve aumentare di peso e evitare le pause mentali che hanno contraddistinto la sua carriera universitaria. Per ora è un giocatore da contropiede eccellente, con buona presenza a rimbalzo e doti intimidatorie apprezzabili. Dovrebbe trovare spazio nei Suns. VOTO: 6,5.

AUSTIN DAYE. Gonzaga, Ala Piccola, 207 cm. 86 kg. A nostro avviso uno dei giocatori più intriganti del draft. Lungo e smilzo, ricorda nelle fattezze Tayshaun Prince, suo prossimo compagno di squadra. Proprio per un fatto fisico potrebbe essere ancora a ½ anni dal poter stare in campo, ma a Gonzaga ha messo in mostra ottime cose. Anzitutto mani morbidissime e istinti puri per la pallacanestro combinati con una grande coordinazione che a livello collegiale spesso gli ha permesso di sopperire ai pochi chili a disposizione. Quello che si chiedono a Detroit è se, come fece Prince, riuscirà col suo gioco ad andare oltre ai limiti strutturali del suo fisico, che al momento sembrano il vero grande ostacolo che lo separa da una buona carriera da pro. VOTO: 6.

TYLER HANSBROUGH. North Carolina, Ala Grande, 204 cm. 107 kg. Indiana aveva bisogno di mettere un pò di sostanza sotto il canestro e ha deciso di spendere una chiamata relativamente alta per colui che con i Tar Heels ha riscritto buona parte dei record scolastici. Il punto di domanda più ingombrante sul ragazzo di Poplar Bluff è, come nel caso di Griffin, se riuscirà a riprodurre il suo gioco anche in Nba, dove dentro le aree finirà per scontrarsi con giocatori più grossi e validi tecnicamente. Dalla sua c’è un’agonismo e un amore per il gioco che lo potrebbero fare andare oltre i propri limti. VOTO: 6.

Le Statistiche 20.7 Punti 8.1 Rimbalzi 51.4% al tiro

Le Statistiche 14.2 8.7 3.2

Punti Rimbalzi Assists

Le Statistiche 12.7 Punti 6.8 Rimbalzi 42.9% da 3


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JRUE HOLIDAY. UCLA, Playmaker, 190 cm. 89 kg. Chiamata a rischio calcolato dei Sixers che, ancora incerti sulla riconferma di Andre Miller, prendono questo ragazzo da UCLA che ha certamente grandi margini di miglioramento. Nel suo unico anno di college ha spesso dovuto giocare da guardia per fare spazio a Collison da play, ma il suo vero ruolo è nello spot di 1. E’ ancora grezzo, deve migliorare innanzi tutto il tiro da fuori, ma è già un ottimo difensore, cosa di non poco conto. In campo si sbatte e sa essere altruista al momento giusto. C’è chi ritiene che un’altro anno di college avrebbe potuto giovargli parecchio, e va notato come alla scelta seguente sia arrivato un play sicuramente più pronto come Ty Lawson. VOTO: 6-.

TYWON LAWSON. North Carolina, Playmaker, 182 cm. 87 kg. Scelto originariamente dai Timberwolves è stato girato ai Nuggets che, mettendolo a fare dell’apprendistato dietro a Chauncey Billups, potrebbero aver fatto un bel colpo. Intanto arriva da un sistema vincente come campione NCAA, è un play puro, fisicamente dotato anche se non altissimo e che ha tirato da 3 con percentuali eccellenti (47.2%). Ha grande etica lavorativa e in campo sà passare la palla come testimoniano le sue cifre alla voce assists. Molti non sanno però come valutarlo dopo un’annata in cui UNC ha dominato per buona parte della stagione e uno dei dubbi è la capacità di gestire i ritmi della gara. Ma partendo dalla panchina senza particolari pressioni inizialmente non sarà un problema insormontabile. VOTO: 7+.

JAMES JOHNSON. Wake Forest, Ala Piccola, 199 cm. 118 kg. Scelta dubbia dei Bulls che spendono il pick per un giocatore che al college ha fatto bene soprattutto grazie al fisico, ma che a livello superiore avrà problemi di velocità contro le ali piccole e di stazza contro le ali grandi. Il tiro da 3 non è all’altezza e nemmeno i fondamentali sono abbastanza sviluppati. Gioca bene in transizione e può finire nel traffico grazie ai chili che si porta in giro, ma in sostanza và ad affollare un reparto che ai Bulls sembrava già discretamente coperto. VOTO: 5.

Le Statistiche 15 8.5 1.5

Punti Rimbalzi Stoppate

Le Statistiche 8.5 3.8 3.7

Punti Rimbalzi Assists

Le Statistiche 16.6 3 6.6

Punti Rimbalzi Assists


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ERIC MAYNOR. VCU, Playmaker, 190 cm. 73 kg. Bel colpo dei Jazz con Eric Maynor da Virginia Commonwealth. Al collegge, seppur non di primissimo livello come fanno notare i detrattori, ha letteralmente impazzato nell’ultima stagione, dimostrando di avere un gioco completo, con tiro da fuori e capacità di penetrare e subire contatti guadagnando viaggi in lunetta. Tutto senza mai perdere per strada i propri compagni, sempre coinvolti adeguatamente. Non è un grande atleta e difensivamente deve migliorare, ma ha grande etica lavorativa. Và a fare il cambio di D-Will in un sistema che lo può valorizzare. VOTO: 7.

JEFF TEAGUE. Wake Forest, Play/Guardia, 185 cm. 77 kg. Scelta che sà molto di polizza assicurativa contro la possibile dipartita di Mike Bibby. Problema: Teague non è esattamente il prototipo del play, anche se il fisico lo suggerirebbe. Gli istinti sono quelli di un realizzatore prima che di un passatore o comunque di un giocatore che possa coinvolgere i compagni. Dotato di una velocità e un’esplosività fulminea ha segnato sempre in doppia cifra quest’anno, ma tende a fidarsi troppo del suo tiro da fuori (44% da 3) piuttosto che muovere la palla e mettere in ritmo i compagni. Volendo fare un paragone, ricorda Monta Ellis. Dovesse andare così, comunque, gli Hawks avrebbero di che essere soddisfatti. VOTO: 6.

Le Statistiche 18.8 3.3 3.5

Punti Rimbalzi Assists

DARREN COLLISON. UCLA, Playmaker, 184 cm. 73 kg. New Orleans sembrava avere altre priorità in questo draft, ma ha comunque scelto di andare con il play da UCLA che ha completato il suo quadriennio universitario dopo essere uscito dal draft dell’anno scorso. Sembra un giocatore già abbastanza finito, con margini di crescita relativi. Punto di forza è senza dubbio la difesa e la pressione costante che può imporre sul diretto avversario, così come la capacità di controllare il gioco può fare di lui un cambio affidabile. Non eccelle nella costruirsi un tiro e la meccanica è rivedibile, per quanto quest’anno abbia fatto bene da dietro l’arco. VOTO: 5

Le Statistiche 22.4 3.6 6.2

Punti Rimbalzi Assists

Le Statistiche 14.4 2.4 4.7

Punti Rimbalzi Assists


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OMRI CASSPI. Maccabi Tel Aviv, Ala Piccola, 204 cm. 96 kg. Grande talento di scuola israeliana, è un’ala piccola vera, senza dubbi sulla sua posizione in campo. Rende al meglio se può giocare un basket dinamico con rapide transizioni offensive nelle quali può sfruttare centimetri è rapidità. Per la sua altezza ha un ottimo primo passo che gli consente spesso di arrivare al ferro. Affidabilissimo da dietro l’arco, deve, lui pure, completare il suo gioco che al momento manca di un affidabile arresto e tiro. In difesa è ancora indietro, specie lontano dalla palla e sulle rotazioni. Anche lui avrà il tempo di crescere in Europa. VOTO: 6,5.

BJ MULLENS. Ohio State, Centro, 214 cm. 118 kg. Chiamata “logica” dei Thunder, che dopo aver visto sfumare Thabeet, provano a porre rimedio con questo ragazzo uscito dopo un solo anno, non esaltante, di college. I pregi sono universalmente riconosciuti: mani morbide, grandi istinti realizzativi e movimenti da centro puro già ben sviluppati fanno di lui un giocatore potenzialmente molto promettente. Il rovescio della medaglia è nella sua attitudine al gioco. Criticato per essere troppo morbido mentalmente e fisicamente, nonostante non sia certo mingherlino, tende a soffrire eccessivamente i giocatori fisici ed energici. E in difesa deve fare grandi passi in avanti. In ogni caso, alla 24, è un rischio che si può correre. VOTO: 6,5.

VICTOR CLAVER. Pamesa Valencia, Ala Piccola/Ala Grande, 207 cm. 98 kg. Scelta per non appesantire il salary cap dei Blazers che proseguono la propria tradizione spagnola con un ragazzo dal futuro luminoso da lasciare parcheggiato in europa ancora per ½ anni. E’ un grande atleta che può correre bene il campo e finire nei pressi del canestro, così come ricevere fuori dall’arco e concludere con ottime percentuali. In questi anni dovrà definire il suo gioco e soprattutto la sua posizione, visto che al momento è sospeso tra lo spot di 3 e quello di 4, e nella NBA è probabile possa ambire a un ruolo da specialista. VOTO: 6.

Le Statistiche 8.3 Punti 4.5 Rimbalzi 41.5% da 3

Le Statistiche 8.8 3.1 45%

punti rimbalzi da3

Le Statistiche 8.8 4.7 1.1

Punti, Rimbalzi Stoppate


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TAJ GIBSON. USC, Ala Grande, 204 cm. 97 kg. Altra scelta enigmatica dei Bulls che si mettono in casa un giocatore doppione di Tyrus Thomas, rispetto al quale, và detto, ha meno atletismo e più tiro dalla media, dote comunque importante a livello pro. Dalla sua c’è un’apertura di braccia impressionante (addirittura 222 centimetri) che lo ha portato ad avere quasi 3 stoppate di media quest’anno. Non eccelle particolarmente in nessun fondamentale e dunque è anche difficile trovare grandi difetti. Una chiamata al primo giro, in ogni caso, sembra un pò altina. VOTO: 5.

D EMA R R E C A R R O L L . Mi s s o u ri , Ala piccolo/Ala grande, 201 cm. 93 kg. Altro ragazzo che non ci si aspettava di vedere scelto al primo giro. Giocatore che nell’ultimo anno a Missouri aveva iniziato la transizione da 4 a 3, che, peraltro, è ben lungi dall’essere finita. Ha senza dubbio migliorato le doti di palleggio, benchè ci sia ancora lavoro da fare, mentre da 3 punti al college era discreto, ma la meccanica è ancora troppo lenta per venire considerata affidabile a livello pro. Non è un grande atleta, ma cerca di sopperire a questa mancanza con l’aggressività in campo. VOTO: 5.

RODRIGUE BEABOUIS. Cholet, Playmaker, 187 cm. 81 kg. Giocatore che gode della stima di moltissimi scout e che ai provini ha confermato le attese. Grande ball handling e velocità ne fanno un giocatore da alti ritmi che Dallas prova a far diventare l’uomo per il dopo Kidd. Queste stesse caratteristiche lo portano spesso ad essere fuori controllo con conseguenti palle perse. Il tiro da fuori è ancora in fase di costruzione. Probabilmente c’erano giocatori più pronti. VOTO: 5.

Le Statistiche 10 2.5 2.3

Punti Rimbalzi Assists

Le Statistiche 14.3 9 2.9

Punti Rimbalzi Stoppate

Le Statistiche 16.6 Punti, 7.2 Rimbalzi 36.4% da 3 punti


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TONEY DOUGLAS. Florida State, Playmaker, 184 cm. 82 kg. Difensore dell’anno della ACC nell’ultimo campionato è anche un’ottimo attaccante, specie dal palleggio per arrivare fino al ferro. Al collegge guadagnava tanti tiri liberi che trasformava con alte percentuali, in NBA non è detto che ci riesca. Può colpire col jumper, anche da 3 punti, ma il problema più grande è che fino ad oggi non è stato un vero playmaker, avendo FSU principalmente bisogno dei suoi punti. Da pro non può pensare di giocare da guardia, dunque è necessario che cambi, prima di tutto, mentalità. VOTO: 6,5.

CHRISTIAN EYENGA. Joventut Badalona, Guardia/Ala piccola, 194 cm. 95 kg. Altro momento da ricordare nel draft la chiamata di questo ragazzo direttamente dalla seconda squadra della Joventut che in pochissimi conoscevano e fra questi di certo non c’era David Stern, in evidente imbarazzo nel pronunciare il suo nome sul palco. Scelta difficile da commentare da parte dei Cavs che avrebbero avuto almeno due o tre giocatori papabili per il proprio sistema di gioco e hanno preferito buttarsi su un atleta spaventoso che, però, a parte saltare, al momento non sembra saper fare molto altro. VOTO: 4.

WAYNE ELLINGTON. North Carolina, Guardia, 194 cm. 91 kg. Alla 28 potrebbe essere davvero una sorpresa questo ragazzo fresco campione NCAA con UNC. Le sue statistiche, maturate come terza opzione offensiva della squadra, ci raccontano di un ottimo attaccante che, a causa di un atletismo non esuberante e di un fisico esile, predilige le conclusioni dal perimetro sia piedi per terra (già da distanza NBA) sia in uscita dai blocchi. In difesa è pericoloso sulle linee di passaggio ma deve migliorare lontano dalla palla. Potrebbe avere problemi contro avversari più grossi o più veloci, ma se non gli si chiede la luna non dovrebbe deludere. VOTO: 7.

Le Statistiche 15.8 Punti, 4.9 Rimbalzi, 41.7% da 3

Le Statistiche 21.5 3.9 2.9

Punti Rimbalzi Assists

Le Statistiche 0,8 0 0

punti rimbalzi assists


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DI

A LESSANDRO

DELLI

PAOLI

Parafrasando il film di Tim Burton, vi raccontiamo la carriera di Coach Zen o come è stato ribattezzato dopo la conquista del decimo titolo, Coach Ten

‘Big Phil’, storie di una vita incredibile Il cappellino celebrativo del maestro zen è molto semplice, essenziale, ma, al tempo stesso, bello. E’ giallo con una grande X viola; la X raffigura il dieci romano, i dieci anelli di Phil Jackson. Raffigura 3 titoli vinti a Chicago con un Jordan che finalmente esplodeva e diventava il numero uno indiscusso della Lega; la X rappresenta il secondo three-peat nella Windy City, del ritorno di MJ e della scommessa Dennis Rodman, vinta come tante sfide affrontate da ‘Jax’; in quella X ci sono gli anelli vinti ad Hollywood, un altro three-peat con Shaq al vertice del ‘Triangolo’ e Bryant come fed el e s cu d i er o; è i l ti to lo de l 2008/2009, quello di Kobe finalmente leader; la X è una croce a tutte le polemiche di chi, per gelosia ed invidia, riteneva che Jackson fosse ‘solo’ un allenatore per squadre già pronte per vincere. Così non è. «Ognuno di questi 10 anelli è un grande traguardo, ciascuno di questi è venuto in modo differente, con vittorie importanti in casa o in trasferta. Una cosa per me davvero appagante è vedere giocatori fortissimi che si trasformano in giocatori di squadra. Vedere un gruppo di giocatori che durante l’anno si uniscono e finiscono per supportarsi l’uno con l’altro, questo è davvero importante per me. Ora per festeggiare penso che mi accenderò un sigaro in onore di Red Auerbach, è stato davvero un grande». C’è tutto Phil Jackson in questa dichiarazione. Tutta la sua carriera, il suo Zen e la filosofia di gioco dell’allenatore più vincente della storia del basket. «Non c’è niente di più difficile che vivere a New York. Ma se avrai successo qui, avrai successo ovunque». Queste furono le parole con cui fu accolto ‘Jax’ nella Big Apple. Fu Red Holzman a pronunciarle. Poco dopo aver prelevato il giovane Phil dall’aereoporto di La Guardia – New York, dirigendosi verso Manhattan, l’auto con a bordo i due fu colpita da un sasso lanciato da un cavalcavia. Holzman non si scompose più di tanto e, con una freddezza polare si rivolse verso Jackson fornendogli la prima regola fondamentale per sopravvivere a New York, affrontare le difficoltà con calma e ponderatezza. E’ il 1967 e Phil Jackson aveva appena terminato il suo ciclo di studi alla North Dakota University. Studi e basket ovviamente. Nelle tre stagioni disputate sotto gli ordini di coach Bill Ficth, Jakcson viaggiò ad una media di quasi 20 punti a partita. Lungo atletico, 2.05 per 105 kg, veloce e rapido nei movimenti, fu ribattezzato ‘Swift Eagle’, aquila veloce, proprio per la


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capacità di muovere rapidamente le braccia lunghe ed intercettare qualsiasi pallone vagante. La difesa come arma principale del suo repertorio sia da giocatore che, in seguito, da allenatore. Fu lo scout dei Knicks, Red Holzman appunto, a notarlo e a decidere di sceglierlo con il numero 17 del draft. Phil non era propriamente una stella ma avrebbe comunque fornito atleticità, grinta e dinamismo ad una squadra che aveva le carte in regola per tentare l’assalto al titolo NBA. Se in campo ‘Jax’ rappresentava il classico lottatore che sputa sangue e sudore, fuori dal parquet incarnava lo spirito di quegli anni. Hippie, capelli lunghi e baffoni, aspetto trasandato, contestatore di qualsiasi forma di autorità, capo allenatore in primis. Jackson ha sempre avuto una mente brillante e aperta a qualsiasi tipo di esperienza, fosse quella della filosofia, della religione e della psicologia, di cui era appassionato studioso, o anche solo l’esperienza delle droghe, anche quelle ‘meno leggere’. Un figlio di fiori per i Knicks, quanto di più lontano ci possa essere dal Jackson attuale, o forse no. La svolta, per quei Knicks, e soprattutto per ‘Jax’ arriva nel corso della stagione 1969-70 quando il managment di New York decide di licenziare, a metà anno, il coach Dick McGuire e di affidare la squadra proprio a Red Holzman, l’ex scout. Holzman in breve tempo divenne il mentore di Jackson. I suoi metodi e il suo credo cestistico influenzarono pesantemente il giovane allievo che, successivamente, adottò quei principi e li pose come elementi fondamentali della sua idea di basket, insomma stava nascendo ‘Coach Zen’. Difesa e basket di squadra. Capacità di mediare all’interno degli spogliatoi, di trattare le stelle del team allo stesso modo

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rispetto agli altri pur considerando il loro status di stella appunto. Risolvere i dualismi e gestire il gruppo verso il traguardo comune. In quello stesso anno ‘Swift Eagle’ si opera ad un’ernia al disco ed è costretto a saltare l’intera annata. Holzman, che evidentemente aveva visto ben oltre l’immagine di hippie intuendo le capacità di coaching, gli propone di svolgere un ruolo molto vicino a quello di assistant coach. Nel frattempo Phil si appassiona all’arte della fotografia realizzando numerosi scatti da bordo campo e collaborando con il New York Post. L’annata è un successo. I Knicks volano in Finale e vincono il primo titolo della loro storia, battendo i Lakers 4-3 con Willis Reed leader indiscusso ed MVP delle finali. ‘Jax’ in borghese ma vincitore comunque. Un anno a seguire gli insegnamenti di Holzman, forse una vittoria ancora più importante dell’anello di campione NBA. Nel 1973 i Knicks, con la fantastica coppia Frazier e Monroe, e il ‘solito’ Willis Reed, bissarono il successo di qualche anno prima e, questa volta, ‘Aquila veloce’ non era solo il discepolo di coach Holzman ma anche un valore aggiunto alla squadra. 8.1 punti di media in regular season conditi con 4.3 rimbalzi catturati a partita e tutta la sua energia contribuirono alla cavalcata di New York che, in finale sconfissero i Lakers 4-1. Dopo la vittoria del secondo titolo i Knicks non si ripeterono più. Phil ebbe comunque delle buone stagioni in maglia newyorkese prima di passare ai Nets di Kevin Loughery. Con la carriera da giocatore ormai agli sgoccioli, fu proprio coach Loughery ad offrirgli il ruolo di assistant coach. «Phil allenatore? Non l’avei mai detto. Ero convinto che si sarebbe rifugiato in qualche angolo remoto del mondo a coltivare, allevare


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il cibo che poi avrebbe mangiato». Evidentemente la capacità di predire il futuro di Walt Frazier era decisamente inferiore alle sue qualità di giocatore. ‘Clyde’ non avrebbe mai immaginato che il suo compagno di squadra più ribelle avrebbe vinto anelli su anelli. Forte degli insegnamenti di Holzman e dell’esperienza con Loughery, nel 1982 Jackson diventa head coach nella CBA, con gli Albany Patroons. Qui inizia a mettere in pratica le sue idee di basket egalitario e democratico. Impone lo stesso minutaggio per tutti i giocatori e cerca di offrire le medesime possibilità di gioco a tutti. Il sistema ha successo, nel 1984 i Patroons vincono il campionato e Jackson è nominato allenatore dell’anno. Con la positiva esperienza in CBA alle spalle, ‘Jax’, nelle pause estive, decide di andare in Portorico dove si rende subito conto che le sue idee rivoluzionarie applicate al ‘baloncesto’ sono difficilmente conciliabili con le attitudini locali. Ad ogni modo la lega portoricana arricchisce il coach, soprattutto per quanto riguarda la capacità di relazionarsi con giocatori dal carattere difficile, elemento che gli tornò poi utile nel corso della sua carriera. «Il primo obiettivo quando diventai capo-allenatore dei Bulls era trattare Jordan il più equamente possibile grazie al nostro sistema di gioco. Ma fuori dal campo ho sempre realizzato che non sarebbe stato possibile pretendere che fosse come tutti gli altri. Non può nemmeno scendere nell’atrio di un hotel senza essere assediato dalla gente». Ad un certo punto della sua vita, Jackson si ritrova senza panchina e con la solita voglia di sperimentare e provare nuove esperienze. Certo che ‘Coach Zen’ nei panni del principe del foro sarebbe stato uno spettacolo tutto da gustare, pari quasi al colloquio di lavoro a cui si presentò in perfetta tenuta da figlio dei fiori: camicione a fiori, appunto, e cappello con tanto di piuma. Grazie le faremo sapere, saranno state le parole del datore di lavoro. E’ in questo preciso istante che sulla scena compare tale Jerry Krause, l’uomo che gira sempre con in tasca alcuni centesimi di dollari, in modo tale da controbattere a chiunque gli avesse detto di non valere quattro centesimi. ‘Crumbs’, così soprannominato per via delle briciole di snack che spesso gli si ritrovavano sulla camicia, già nel 1967 aveva notato ‘Jax’ e voleva portarlo ai Baltimore Bullets, squadra per cui svolgeva l’attività di scout, ma

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non ci riuscì. Rimase, però, in contatto con lui e, nel 1987, da General Manager dei Chicago Bulls, offrì a Jackson il ruolo di assistente allenatore alle spalle di Doug Collins, stappandolo così ad una carriera forense quanto mai improbabile. Dopo due anni come assistant coach, nel 1989, complice i dissidi interni al team, principalmente tra la stella assoluta Jordan e Doug Collins, quest’ultimo viene licenziato e la squadra affidata a Phil Jackson. La leggenda di ‘Coach Zen’ stava per iniziare. Come spesso capita in una squadra professionistica, i giocatori finiscono per legarsi al vice allenatore in modo più stretto che non con il capo che rappresenta, in fine dei conti, pur sempre un’autorità cui sottostare. Andò proprio così con Jackson che cominciò a stringere un legame molto forte con Jordan, legame che negli anni successivi si trasformò quasi in un rapporto padre-figlio. ‘Jax’, cominciò ad applicare tutte le teorie Zen e i suoi studi filosofici ai propri schemi di gioco. L’attacco fu affidato all’anziano Tex Winter, promotore del ‘Triple post offense’, Jackson si occupò della difesa. Fu attuata una vera e propria rivoluzione nei metodi di allenamento, porte chiuse anche per le sedute di tiro e sessioni di meditazione e di Yoga. All’inizio non fu certo facile. I giocatori, Jordan in primis, guardavano con diffidenza tali metodi ipotizzando anche un sonnellino rigenerante nel corso delle meditazioni. Dal punto di vista del gioco, poi, il ‘Triangolo’, sistema che prevede una distribuzione dei tiri equa, rischiava di sminuire le qualità e la voglia di primeggiare di MJ. Il sistema, inoltre, non era di facile comprensione e i tempi per assimilarlo furono piuttosto lunghi. Quando i risultati cominciarono ad arrivare e quando ‘Air’ comprese che il ‘Triangolo’ finiva per valorizzare il suo talento ed indirizzarlo verso un gioco di squadra vincente, ogni scetticismo fu vinto. ‘Coach Zen’ si conquistò la fiducia di tutti. «Realizzatori come Jordan e Pippen possono essere eccezionali in qualunque tipo di attacco, ma quello che questa filosofia fa è aiutare i giocatori che in uno contro uno non hanno talento come il loro a trovare soluzione offensive». Due anni furono sufficienti per assorbire le regole egalitarie del ‘Triangolo’, amalgamare il team e fargli fare il definitivo salto di qualità. Due sconfitte contro i futuri campioni dei Detroit Pistons, fondamentali per far acquisire ai giocatori l’esperienza necessaria per vincere le gare decisive nei play-off.


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Sotto gli ordini di coach Jackson, Jordan e i Chicago Bulls vincono tre titoli NBA in fila, 1991, 92 e 93, il primo Three-peat. L’estate del 1993 segna l’abbandono di Jordan e l’arrivo di Tony Kukoc. Questa fase della storia dei Bulls mette in luce ancor di più le qualità di ‘Jax’. L’opera di convincimento verso MJ per farlo ritornare a vestire la canotta numero 23 e la capacità di gestire le situazioni difficili e i dualismi. Quello tra Pippen e Kukoc raggiunse l’apice nel momento in cui il primo si rifiutò di scendere in campo perché il coach aveva affidato il tiro finale, quello decisivo (peraltro realizzato), al croato piuttosto che a lui. Phil, che aveva assorbito le qualità di mediatore dal suo mentore Holzman, che ai Knicks aveva il suo bel da fare con personalità del calibro di Frazier e Monroe oppure Cazzie Russel e Bull Bradley, riuscì a ricucire lo strappo. Da grande comunicatore, poi sminuì l’episodio agli occhi dei media, affermando che, in fin dei conti, il campo è sufficientemente grande per consentire a due giocatori della stessa squadra che non sono in sintonia tra loro a collocarsi uno dal lato forte e l’altro al lato debole. Restituito Jordan ai campi da basket, ‘Coach Zen’ era pronto ad una nuova sfida. «Fui io a sceglierlo e io a convincere

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Michael e Pippen che avevamo bisogno di lui. Sotto certi aspetti Dennis è un caso sociale ma se gli lasci libertà in certe situazioni sai che poi verrà il campo a dare tutto; averlo firmato è stato decisivo nella nostra corsa a questi tre titoli». La sfida aveva il corpo tatuato e i capelli colorati di Dennis Rodman. Soprannominato ‘The Worm’, il verme, Dennis era davvero un ‘caso sociale’ così come lo descrisse Jackson. Indisciplinato, aggressivo, arrogante, insomma il giocatore che nessun allenatore avrebbe mai voluto in squadra, un disturbatore. Ma ormai è piuttosto chiaro che coach Jackson non è un allenatore come tutti gli altri. Rodman era comunque speciale, difensore eccelso e rimbalzista sopraffino, ideale nel ricoprire il ruolo di power forward nel ‘Triple post offense’. «Il mio lavoro è tirare fuori il meglio da ogni singolo giocatore, facendo quel che serve per raggiungere il traguardo». Il traguardo, in questo caso, è il secondo Three-peat del 1996, 97 e 98. Rodman risulterà essere essenziale. ‘Jax’ esige disciplina in campo ed è disposto a chiudere un occhio o anche due sulle scappatelle del Verme sui ring del Wrestling, su allenamenti in ritardo, e in generale sugli eccessi del suo giocatore. La convivenza con gli

altri riesce. Il ‘Triangolo’ è al suo massimo splendore. Il sesto anello, però segna la fine della dinastia Bulls. Jackson decide di non rinnovare il contratto, anche perché in contrasto con la società, e Jordan, che dichiara di non voler essere allenato da nessuno che non si chiami Phil Jackson, si ritira. ‘Coach Zen’ si rifugia nel suo ranch in Montana per un anno sabbatico, lontano dal mondo della NBA e dall’attenzione di tutti. La meditazione, la filosofia e lo Yoga a fargli da compagnia. «Rinunciare ad allenare è come non utilizzare il talento che Dio mi ha dato». Solo un anno e Phil torna in pista. Il ‘talento’ andava assecondato e così, ‘Jax’ accetta le avances di Jerry West e si tinge di gialloviola. I Los Angeles Lakers, reduci dallo sweep contro gli Spurs, laureatisi poi campioni nell’anno del lock-out, sono un team forte e competitivo a cui, però, manca qualcosa per fare lo step finale verso il titolo. Jackson trasferisce ad Hollywood tutte le sue teorie e concetti di basket. Lo staff è, in gran parte, quello dei Bulls sei volte campioni; Jim Cleamons, Frank Hamblen, il fisioterapista Chip Schaefer e ovviamente Tex Winter. L’idea di giocare il ‘Triangolo’ con un centro dominante quale Shaq è stuzzicante. Poi c’è Bryant. Uno dei tanti eredi designati di MJ, da modellare, da far


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crescere e maturare. «Quando per la prima volta ha parlato di meditazione di yoga o ha cominciato a distribuire libri, ci siamo guardati attorno domandandoci di cosa stesse parlando, ma non si può discutere il successo, avevamo un allenatore con 6 titoli Nba e uno Cba e sapevamo che Jordan e Pippen avevano rispettato i suoi metodi come potevamo discuterli noi?». Convincere Brian Shaw, come gli altri Lakers, della bontà dei metodi di allenamento fu forse più in facile che in passato. Il carisma del vincente, o forse, visto che si parla di ‘Coach Zen’, il ‘karma’ del maestro influenzò subito tutto l’ambiente. Shaq si abbandonò allo Zen e i risultati arrivarono molto presto. 67-15 in regular season, miglior record a ovest e la finale della Western Conference contro gli arrembanti Trail-Blazers da affrontare. La cavalcata dei Lakers inzia proprio dalla famosa gara 7 contro Portland. Sotto di 13 punti a metà del quarto periodo, coach Jackson decide di chiamare time-out. Solitamente ‘Jax’ è contrario a chiamare la sospensione nel corso della partita convinto che l’allenatore svolge il suo lavoro nel corso della settimana e, se in par-

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tita i giocatori dovessero andare in difficoltà, questi devono essere abbastanza maturi e responsabili da capire le ragioni delle difficoltà e agire di conseguenza. Spesso sono gli assistenti di Jackson a spingerlo a chiamare time-out, quasi come extrema ratio. Fatto sta che in quella gara ‘Jax’, sull’orlo dell’eliminazione, chiede il time-out e chiama a raccolta i suoi giovani e ancora inesperti giocatori. Il risultato è il parziale dei gialloviola che li porta in Finale contro i Pacers. E di nuovo anello. Ne seguiranno altri due per un nuovo Three –peat, questa volta sotto i riflettori di Hollywood. Tra un libro personalizzato consegnato ai giocatori per spedire loro un messaggio implicito e qualche immagine di film introdotta nei video delle partite, tra il divorzio dalla moglie June e la relazione con Jeany Buss ex coniglietta di Playoboy nonché figlia dell’owner dei Lakers Jerry Buss, Phil Jackson eguaglia il record di titoli NBA di Red Auerbach, nove. Stratega e grande motivatore o arrogante manipolatore? Le invidie di molti cominciano a concentrarsi su di lui. La critica principale è quella di diventare allenatore solo di squadre già ‘pronto uso’, team costruiti da altri e pronti a vincere con stelle di prima


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grandezza quali Jordan, Pippen, O’Neal e Bryant. In parte vero, ma è comunque coach Jackson a far vincere squadre che altri non hanno saputo condurre, è ‘Coach Zen’ a conquistarsi la fiducia delle stelle, trattandoli come uomini, spiegando loro come avere successo e tirando fuori il meglio da se stessi. E’ sempre lui ad elevare un insieme di buoni giocatori ad una ‘squadra’ nel senso più profondo del termine; a motivare un gruppo ed instillare loro una mentalità vincente attraverso un sistema di gioco che, se appreso in tutte le sue sfaccettature, è semplicemente perfetto; è lui a gestire gli attriti tra le stelle e tenere sotto controllo i suoi uomini, a farsi amare da loro al punto tale da fargli dichiarare di non voler essere allenati da altri all’infuori di lui. «Penso proprio che questa sconfitta segni definitivamente la chiusura del mio ciclo ai Lakers». La storia di ‘Jax’ ai Lakers si conclude nell’estate del 2004. La sconfitta in finale contro i Pistons segna il primo fallimento della sua carriera. Il tentativo di portare i big four, Shaq & Kobe con Malone e Payton (acquisiti in estate), al titolo finisce male a causa di qualche infortunio di troppo e dei dissidi interni, esplosi questa volta in maniera fragorosa ed irreparabile. Bryant, che mal sopporta il ‘Triangolo’ e le idee di Jackosn, vuole prendere il sopravvento dal punto di vista tecnico ed emotivo sul team ma è Shaq il vero leader del gruppo. ‘Coach Zen’, sempre pronto a mediare, finisce per sbilanciarsi in maniera decisiva verso il 34 che ricambia la stima definendo il suo coach come ‘papà bianco’. ‘Inallenabile’ è invece il termine che ‘Jax’ riserva al figlio di Jelly Bean nel libro che scriverà durante l’anno di pausa. Le strade di Jackson e dei Lakers si dividono, anche Shaq lascia la California. Nel ‘duello’ tra le stelle del team, Buss preferisce la linea ‘bryantiana’ cedendo O’Neal il quale, si accontenterà di vincere il quarto anello agli Heat di Pat Riley. Passa un anno e ‘Coach Zen’ ritorna in panca. Dove? Che domande ai Los Angeles Lakers, c’è una sfida da vincere: costruire dalle fondamenta la squadra e, sfida ancor più fascinosa, fare di Bryant un leader, un campione. «Ha imparato a diventare un leader in un modo che incoraggia gli altri a seguirlo. E' importante che abbia capito di dover dare per poter ricevere, non è solo un leader che chiede. E' splendido per lui ed è splendido da vedere». ‘Jax’ vince ancora. In tre anni rigenera i Lakers, convincendo Kobe a seguire le regole del ‘Triangolo’. Bryant è finalmente un giocatore maturo. Con Lamar Odom e Pau Gasol, che si inseriscono a perfezione nel sistema di gioco del ‘Team Jackson’, Los Angeles raggiunge la finale contro i Celtics, nel 2008. Nella riedizion e d el l e s fi d e s to ri c he de gli anni 8 0 , v i nc e Boston. I Losangelini non sono ancora pronti, peccano di inesperienza. Ma ormai è questione solo di tempo. Si materializza così il decimo titolo. Con una squadra creata a immagine e somiglianza di ‘Coach Zen’, la sua squadra. Quella in cui un Trevor Ariza o un Derek Fisher qualsiasi si elevano a protagonisti, in cui anche Luke Walton può decidere un match. Quella squadra in cui il miglior giocatore, questa volta si, è Kobe Bryant ed è pronto a sacrificare il suo ego per il bene comune, per i propri compagni. Cosa puo’ volere di più un allenatore con dieci anelli? Cos’altro può chiedere Jackson alla sua carriera? Ci possono venire in mente le parole di un altro vincente del mondo dello sport, Enzo Ferrari: “La vittoria più bella è quella che deve ancora arrivare”. Ecco, siamo sicuri che coach Jackson la pensa allo stesso modo. Sicuramente, con i Lakers attuali, il back-to-back non sembra impossibile. L’ostacolo principale è rappresentato dallo stato di salute di ‘Jax’. A settembre compirà 64 anni e soffre, da molto tempo ormai, di svariati acciacchi fisici, fascite plantare in principal modo. In estate si sottoporrà all’ennesimo intervento all’anca per risolvere i problemi di deambulazione che lo affliggono. Dunque il suo futuro è ancora incerto. Recentemente ha prospettato la possibilità che i Lakers, per alcune gare in trasferta, siano guidati dall’assistente Kurt Rambis, segno che la volontà di continuare ad allenare e “non perdere il controllo del team” è ancora forte. ‘Coach Zen’, la pensione può aspettare.

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Dalla parata con partenza allo Staples Center fino al Coliseum con più di 80.000 tifosi a quella in tv con i ‘puppets’ e per finire il Jimmy Kimmel Live

La festa di LA per i Lakers Due miglia circa il percorso stabilito; undici del mattino l’orario impresso nella mente di ogni singolo tifoso gialloviola, 11sima strada e Figueroa o indirizzo meglio conosciuto come quello dello Staples Center, il luogo del ritrovo e poi…e poi via ai festeggiamenti via a quella che forse è stata la parata più importante degli ultimi titoli. Otto pullman a due piani con quello superiore scoperto. I campioni NBA divisi per ‘bus’ vista l’enorme affluenza di parenti amici ed affini. Su di uno, il primo, si scorgono i due senatori della squadra Kobe Bryant e Derek Fisher con quest’ultimo che ripetutamente fa gesto che è tutto per loro, che questo trofeo l’hanno vinto e portato in California anche per loro. Ai lati dei pullman due cordoni di polizia in moto, dietro un altro pullman che segue alla fine dell’ultimo scoperto e dulcis in fundo anche il classico camion della caserma dei pompieri di LA con sopra le Lakers Girls. Come se non bastasse poi il tutto è condito da dietro le transenne da due fiumi di persone, uno a destro ed uno a sinistra, alcuni dei quali praticamente hanno seguito l’intera parata fino alla destinazione: il Los Angeles Memorial Coliseum. (LA VOCE DEI TIFOSI. «Sono stato qui nel 2000 e nel 2001. Mi sono perso quello del 2002 pensando beh fa niente ci sarò il prossimo anno ed invece ho dovuto aspettare sette anni per rivivere tutto questo, ma ora ci sono e me la godo»…«E’ un giorno bellissimo, ci mescoliamo alla folla senza troppo pensare e ci facciamo camminando tutta la strada verso il Coliseum»…«Sono incinta di sei mesi e mezzo, speriamo che alla fine ne valga la pensa…»…«Non c’era altro modo per festeggiare se non all’interno del Coliseum e questa di sicuro è una dimostrazione di forza dello sport»…«Sono un fan dei Lakers da sempre e cerco di trasmetterlo alle generazioni future. Questo è il mio bambino volevo chiamarlo Kobe, ma la mamma non ha voluto»…). Alla fine è stato questo il regalo che il sindaco di Los Angeles ha voluto mettere su di un piatto d’argento per celebrare i neo campioni. Dopo tante chiacchiere, dopo tante critiche ecco che il primo cittadino californiano mette a disposizione della celebrazione dei gialloviola una struttura da ben 95.000 persone. Trasportato all’interno e direttamente dallo Staples Center il classico parquet di gioco losangelino con alle spalle un vero e proprio back stage. Sugli scalini tappeto viola e simbolo Lakers, sugli spalti non occupati gigantografie dello stesso stemma e logo oltre quella che raffigurava il Larry O’Brien Trophy con la scritta celebrativa per i Lakers. Poi alzi la testa e quello che vedi è solo ed esclusivamente un insieme di teste, un insieme di persone, una chiazza giallo e viola estesa a circolo per tutto il Coliseum. Un massa umana accompagnato da un’alternanza di brusio a voci e cori scanditi che urlano come dei forsennati MVP, MVP come se il premio non fosse già stato assegnato. Bandiere, vessilli, striscioni (Kobe Diem uno di questi ndr), parrucche colorate, trombette e tante bevande in attesa di un solo momento: la passerella della squadra con il Larry O’Brien Trophy. L’attesa è snervante, le voci su possibile inizio si rincorrono come un cane con la coda fino a quando si alza il primo boato, un misto di liberazione per l’inizio del tutto (il sole come al solito splendeva forte sulla città più invidiata e sognata del globo terrestre ndr) e ringraziamento per aver regalato a tutti loro questo momento. Passo dopo passo, scalino dopo scalino ecco prendere il proscenio e microfono Antonio Villaraigos al secolo il sindaco di Los Angeles che da il via alla festa: «Per la quinta volta campioni Nba negli ultimi dieci anni i Los Angeles Lakers». Stessa frase ripetuta anche qualche secondo dopo ma questa volta con la voce classica dello speaker dello Staples Center, e via alla festa. Urla, folla in visibilio e dal backstage arrangiato ecco i primi passi della squadra che qualche giorno prima ha battuto gli orlando


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Magic on gara6. Musica a palla con ‘I love LA’, cappellini e maglietta che variava da quella celebrativa dei quattro titolo con una mano puppets con quattro anelli come quella indossata da Bryant e Fisher, a quella normale che viene consegnata al momento del successo o poco dopo, fino a quella celebrativa dei festeggiamenti. Il primo ad uscire? Logicamente tutti avrebbero pensato a lui il padrone di casa, il nuovo re di LA Kobe Bryant ed invece il figlio di Jeally Bean si è mescolato nel gruppo forse già consapevole che il suo momento da solista prima o poi sarebbe arrivato. E allora sono Jordan Farmar e Trevor Ariza ad aprire le danze a fare gli onori della ‘scala’ e dietro di loro tutta la ciurma, che a loro volta passo dopo passo, scalino dopo scalino conquistano il meritato palcoscenico prendendosi tutti gli applausi degli 80.000 presenti. Saluti, abbracci, sorrisi, spalla contro spalla come spesso accade nella presentazione della squadra durante un match (Shannon Brown il più attivo da questo punto di vista ndr). Mani al cielo da una parte all’altra a ritmo di musica, cellulari e tele camerine ben piazzate sulla massa umana fino a quando la traccia di sotto fondo è stata sfumata cosi come i primi bollori ed allora è stato il tempo delle celebrazioni individuali. «E ora ho il piacere di presentarvi e chiamare al centro del palco il migliore, semplicemente il migliore: Kooobbeeeee Bryaaaaaantt». Parole, quello dello speaker, alle quali è praticamente successo di tutto: urla, cori Mvp MVP, canotte che sventolano e sul palco il volto e la faccia di un giocatore che raramente ha mostrato cosi tante emozioni e felicità in una volta sola. Sorriso raggiante, felicità che si poteva spalmare come burro sul pane, tanti i classici ‘give me five’ ai compagni di squadra pronti a congratularsi con lui e poi le prime domande. Arrivato ai Lakers 13 anni fa tre anelli, ma questo come hai detto a Fisher quello più significativo.. «Assolutamente. Sono arrivato nel 1996, ho vinto tre anelli negli anni scorsi, sono cambiate tante cose dall’ultimo e pure siamo ancora qui, siamo tornati al top è incredibile. Nonostante tutto non ci sentiamo appagati, abbiamo ancora fame di successi, abbiamo ancora fame di vittorie, ma anche ancora fame di questo magnifico pubblico ed allora vogliamo farlo e rifarlo ancora, vogliamo ritornare qui il prossimo anno e festeggiare di nuovo come oggi». Ci fossero state delle agenzie pronte a quotare le parole di esordio di Kobe, quelle menzionate non sarebbero state nemmeno quotate. Un tantino più in alto le quotazioni di quelle che invece gli escono dalla bocca poco dopo e relative all’argomento più spinoso che lo riguarda e che tutti gli avranno chiesto: l’opzione per uscire dal contratto. Stu Lantz analista della Tv dei Lakers ci ha provato a stuzzicarlo e Kobe ha cosi risposto: «Dove vuoi che vada? Questa è la mia casa, questa è la mia città…Dove posso andare …però ora voglio chiedervi una cosa di ripetere al mio tre quello che noi ci diciamo prima durante e dopo una partita. E’ il nostro motto e quindi al tre tutti voi urlate con noi ‘vincere’…». Non quotato nemmeno l’ennesimo tripudio generale ed allora si va avanti con le parole dei protagonisti. «Siamo un gruppo giovane e cresciuti tantissimo. Abbiamo appena iniziato a vincere e di sicuro non ci fermeremo, vogliamo farlo ancora e siamo già pronti per ricominciare». Quelle di Pau Gasol. Timida l’apparizione dell’ormai leggenda del parquet dal punto di vista dei coach. Coach Zen o coach Ten come è stato soprannominato, infatti, non ha partecipato alla parata sui bus con la squadra attendendo la carovana al Coliseum con il suo ormai inseparabile capello con una bella X stampata sopra che in numeri romani vuol dire 10, come le dita e gli anelli da infilare. Timida e non certo appariscente come quella di Kobe anche la sua dichiarazione ed il suo intervento con il quale il dieci volte campione Nba ha prima di tutto ha detto: «Vincere è la culminazione di un viaggio. Noi abbiamo compiuto un bel passo molto importante migliorando noi stessi giorno dopo giorno fino ad arrivare all’anello». Poi smettendo di parlare di se stesso: «Siamo sbalorditi e senza parole, davanti alla vostra devozione. Vorrei solo aggiungere una cosa che questa festa sia un qualcosa di creativo e non di distruttivo. L’organizzazione ha fatto di tutto per garantire la sicurezza e quindi noi non dobbiamo far altro che divertirci nel miglior modo possibile per quello che ci hanno regalato questi ragazzi. A loro voglio dire solo una parola:

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anello. Quello che io ho al dito e che molto presto ognuno di loro avrà attorno al loro dito. Infine ringrazio la mia famiglia per il supporto durante tutti i 10 titolo, ma soprattutto personalmente ringrazio Jeanie Buss per avermi permesso di essere qui ed allenare questa squadra ancora una volta». «E’ la sensazione più bella del mondo, un momento che rivivo nella mente attraverso questi momento. Certo tempo fa non c’era questa organizzazione ma le cose vanno avanti. Da parte mia tanti complimenti ad un grande team, ad un grande proprietario come Buss, ad un grande coach, ad un grande giocatore come Bryant. Dalla scorsa stagione e dalla finale persa contro i Celtics sono cresciuti molto e sono diventati una squadra più solida e penso che questo tema se resterà cosi com’è potrà essere per lungo tempo sulla cresta dell’onda della Nba. Ma due parole devono essere spese per chi in questo momento sta riempiendo il Coliseum per chi ha riempito le strade per tutto il tragitto che ci ha portato qui, insomma a tutta la città di Los Angeles che può essere definita come una grande famiglia». Le parole appena sceso dal bus scoperto di Magic Johnson. PUPPETS CELEBRATION. Il successo che hanno riscosso anche senza giocare un singolo minuto della tanto attesa finale dell’anno, non ha fermato la Nike di continuare nel suo viaggio attraverso la dualità tra Kobe e Lebron sottoforma di puppets. Dopo quelle che si davano appuntamento alla finale, dopo quello in cui Kobe chiedeva spasmodicamente ad un Lebron impegnato alla console della playstation se avesse visto i suoi tre anelli conquistati, ecco che alla fine non poteva mancare quello della celebrazione. Musica a palla anche in questo caso il Bryant Puppets che cammina in una stanza con cappellino e spara coriandoli in mano gridando ‘four’, poi nell’attraversare una stanza dove c’è James il tutto cambia, il Bryant Puppets diventa serio, saluta Lebron per poi ritornare e rimutare nella stanza successiva con tanto di musica e nuovi coriandoli con LBJ a guardarlo e scuotere il capo da una specie di fessura. LA CELEBRAZIONE AL JIMMY KIMMEL LIVE. Detroit 2004 Finali Nba, Jimmy Kimmel costretto a scusarsi per aver lanciato qualche parolina di troppo e fuori luogo circa una sorta di rogo che avrebbero dovuto fare della città del Michigan se i Pistons avessero battuto i Lakers, e si era solo all’intervallo del secondo episodio con scuse da parte del conduttore, poi, per aver esagerato. Un piccolo aneddoto per spiegare il perché della presenza dei neo campioni Nba al celebre show della ABC ambientato proprio nella città degli angeli. Un atto dovuto insomma, una tappa inevitabile che inizia proprio come era iniziata la festa al Coliseum, ovvero con la presentazione e l’ingresso, questa volta sul palcoscenico, ma pur sempre corredato da telecamere, del Kimmel Show dei protagonisti assoluti con in sottofondo il motivo musicale di We Are The Champion: Trevor Ariza, Pau Gasol, Derek Fisher ed ovviamente Kobe Bryant con il Larry O’Brien Trophy tra le mani. Immancabile il coro ‘Mvp, Mvp’ con Kobe che commenta «Siamo allo Staples Center», cosi come immancabile, prima delle congratulazioni di rito, la prima battuta della serata da parte del conduttore dal quale prende il nome lo show stesso: «Allora cosa si prova ad essere il primo Mvp afroamericano delle Finali Nba…» ilarità generale e show che prende il via. Scontata la battuta sulla possibilità di Bryant di mettere il trofeo come ornamento in macchina, cosi come quello dedicato al paragone con quanto accade nell’hockey dove la squadra vincente beva champagne dalla coppa e che abbia il trofeo tutto per se. «Beh c’erano delle miniature della coppa» commenta Bryant, «Si ma non ce le hanno certo offerta abbiamo dovuto comprarle, almeno io tu non so…» replica Fisher tra una risata e l’altra e rivolgendosi a Kobe. Veloce ed incalzante il ‘talk’ passa al pronostico del presidente Obama: «Il presidente aveva pronosticato una vostra vittoria in 6 partite, avete vinto in 5 pensato di averlo contraddetto o contrariato?». Cosi come incalzante e veloce lo spostamento su Derek Fisher ed il suo Big Shots al quale il commento di Bryant è stato e riportiamo in lingua madre: «He had a biggest ‘cojones’…». Imbarazzanti o se vogliamo nello spirito dello show quelle rivolte al catalano Pau Gasol legate al nome o meglio sulla pronuncia del suo nome e un eventuale amore con Kobe che diverte anche uno scatenato Derek Fisher che poi imita l’intercalare più usato da Trevor Ariza, prima

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che l’ex di turno possa rispondere sulla classica domanda sul cosa si prova a vincere contro la sua ex squadra. Qualche minuti di risata ancora sul ritorno e sulla parata che è tempo di presentare anche gli altri invitati: Jordan Farmar (con un discutibile pullover marroncino a rombi ndr), Josh Powell, Adam Morrison, Dj Mbenga e Shannon Brown. Tutta carne a cuocere per il conduttore che mette sotto torchio i presenti prima sulla parata e sul peggior vestito della festa, Mbenga quello indicato da tutti, poi sul film e sulla valenza di guardare un film su proposta del coach dopo la sconfitta di gara3 («I don’t know» .a risposta corale ndr), sul preferito del coach, quello che più lo fa irritare, e la cosa che più odia coach Phil Jackson. Tutte risposte ed altro che potrete trovare on line, ovviamente in lingua originale, digitando Kobe Bryant&Los Angeles Lakers on Jimmy Kimmel Show, un qualcosa davvero da non perdere.

L’AZIENDA La GLsolarEnergy s.r.l. nasce nel 2000 come società specializzata nel settore fotovoltaico progettando e producendo un’ampia gamma di moduli fotovoltaici sia per applicazioni “stand-alone” che “grid-con nected”, dotati di certificazioni TUV in conformità alle norme IEC EN 61215 e IEC EN 61730. L’azienda si avvale del proprio ufficio tecnico, costituito da un’equipe di qualificati progettisti e tecnici, e di una sua unità di produzione, entrambi siti nella zona industriale ASI sud di Marcianise (Caserta). Il personale, altamente qualificato, usufruendo di attrezzature e di conoscenze tecniche all’avanguardia applica un sistema di gestione per la qualità conforme alla norma ISO 9001:2000. Partendo dalla Produzione di moduli fotovoltaici, la GLsolarEnergy progetta e realizza impianti fotovoltaici per privati, aziende ed enti pubblici valutando tra la partecipazione a Bandi pubblici oppure l’ade sione al Conto Energia, garantendo un’accurata e sicura assistenza durante tutte le fasi che determinano l’iter burocratico del progetto. In particolare, in riferimento agli appalti pubblici, la società si avvale di attestazione di qualificazione rilasciata dalla ITALSOA s.p.a. relativa mente alle seguenti categorie: OG9 (impianti fotovoltaici); OS30 (impianti elettrici); OS28 (impianti termici e di condizionamento); OS3 (impianti idrici e antincendio). Inoltre la GLsolarEnergy, ente accreditato dalla Regione Campania sia per la formazione finanziata che per la formazione autofinanziata (codice organismo N° 1657/05/08), organizza corsi di formazione professionale rivolti a pro fessionisti, operatori del settore nonché studenti che vogliano sempli cemente approfondire in modo concreto alcuni dei temi più discussi sulle Energie rinnovabili. Il 70% dell’energia elettrica utilizzata all’in terno della struttura aziendale proviene da fonti rinnovabili grazie alla presenza presso la propria sede, di un impianto fotovoltaico da 50 kWp. La GLsolarEnergy ha realizzato impianti per una potenza com plessiva di 631 kWp, per una produzione media annua di 883.567 kWh/anno, consentendo un risparmio di combustibili fossili pari a 220.859 kg/anno e evitando di immettere anidride carbonica pari a 469.144 kg/anno (aggiornato a maggio 2009). L’obiettivo è dunque quello di promuovere lo sviluppo delle energie pulite nel rispetto delle compatibilità ambientali e di affrontare con efficienza e serietà la sfida rappresentata dalle evoluzioni tecnologiche.

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S TEFANO PANZA

Quella che si è conclusa con la sconfitta sonora e con lo ‘sweep’ contro i Cleveland Cavaliers, ha chiuso un’era per la formazione di Joe Dumars

Detroit, è ora di ricominciare È finito un ciclo. I Detroit Pistons, campioni NBA 2004 e sempre almeno finalisti di Conference nelle successive quattro stagioni, sono arrivati quest’anno alla rottura completa tra giocatori, staff, società e tifosi. Se n’è parlato a lungo, tanto, forse troppo, ma la trade tra Iverson e Billups ha cambiato non solo i destini delle due squadre convolte, Denver e Detroit, ma probabilmente anche quelli dell’intera NBA. I Pistons, reduci da quattro vittorie consecutive nelle prime quattro uscite stagionali, accettano di inserire nel proprio roster Allen Iverson in cambio di Antonio

McDyess (poi tornato subito alla base) e soprattutto di Chauncey Billups. I Nuggets, prima di questo scambio, avevano vinto soltanto una gara su quattro. Dopo aver chiuso la regular season con 39 W e 43 L, l’epilogo dell’avventura per la franchigia del Michigan è stato una tristissima débacle contro i Cavs al primo turno dei playoff, mentre quella del Colorado è giunta sino alla finale di conference, dando non pochi pensieri ai Los Angeles Lakers. Il valore della perdita di Billups è dunque chiaro a tutti, così come il contributo nullo, se non deleterio di Iverson. Per “The

Answer” si tratta dunque della fine di un mito. L’intento della dirigenza dei Pistons ovviamente non era rivolto esclusivamente a questa stagione, anzi. Il suo contrattone da 21 milioni è in scadenza, cifra che Detroit detrarrà dal suo elevato monte stipendi (72 milioni nella stagione appena passata). Come se non bastasse ci sono anche i 13 milioni di dollari di Wallace da sottrarre al salary cap. Citiamo per completezza anche il contratto in scadenza di Herrmann (2 milioni) e Kwame Brown (4), che ha però un’opzione per rinnovare di un altro anno la sua permanenza a Detroit.


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Ecco dunque che i Pistons si presentano a questa estate con un potenziale enorme, perché con 33 milioni è senz’altro una delle squadre con maggiore flessibilità per mettere sotto contratto i prossimi free agent. Due di questi, accostati spesso alla squadra di MoTown, sono Ben Gordon e Hedo Turkoglu. Il primo è in uscita da Chicago, potrebbe partire dalla panchina come sesto uomo di lusso sostituendo Hamilton, oppure prendere proprio il posto di quest’ultimo, magari destinato altrove. Parlando di partenti c’è Tayshaun Prince con le valigie già pronte: Turkoglu infatti, autore di quattro serie spettacolari dei playoff, potrebbe strappare il contrattone della vita proprio ai Pistons. I punti fermi dovrebbero essere Rodney Stuckey, dichiarato incedibile dal gm Joe Dumars già lo scorso anno quando ancora doveva dimostrare per intero il suo valore, e dopo una stagione da 13.4

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punti a gara e 5 assist sospettiamo che una sua eventuale cessione sia ancora meno probabile. Dovrebbero restare anche Afflalo e Maxiell, che hanno assicurato oltre 10 punti in coppia e che rappresentano il futuro di questa società, anche se finora il loro rendimento è stato piuttosto incostante. Chi invece sperava in una eventuale riconferma di Iverson, magari a cifre inferiori rispetto a quelle attuale, resterà senz’altro deluso. L’amore tra l’ex Sixer e i Pistons non è mai sbocciato, e nelle ultime uscite era addirittura in borghese, segno di una rottura definitiva con la squadra. Da verificare la posizione di McDyess, certamente il più positivo – o forse bisognerebbe dire il meno negativo – nella serie contro Cleveland. Una cosa certa è che il pubblico di Detroit è senz’altro molto ambizioso, e dopo una stagione definiamola “di transizione”, i Pistons sono pronti a rituffarsi nelle zone alte della classifica, magari già dalla prossima stagione. Con la consapevolezza però, come detto, che un ciclo è finito.


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D OMENICO P EZZELLA

Peggiorata tantissimo la frattura al piede sinistro rimediata dal centro cinese nella serie contro i Lakers. E ora si teme il peggio

Yao Ming rischia la carriera «L'infortunio ha il potenziale per fargli saltare la prossima stagione e potrebbe addirittura mettergli a rischio la carriera». Questa la dichiarazione shock che ha fatto il giro del mondo in ottanta secondi e che potrebbe cambaire la storia di una franchigia e di un giocatore. Insomma da infortunio da non sottovalutare ad una vera e propria catastrofe. Questo è quello che si sta realizzando in casa Rockets che di punto in bianco potrebbe ritrovarsi senza uno dei punti cardini, se non il punto cardine della propria squadra e dover cominiciare tutto da capo dopo aver impiegato anni per la costruzione di un roster e di un gruppo che potesse fare qualcosa di impor-

tante e di significativo, ma soprattutto in gradi di sfatare il più gande tabù texano ovvero quello del primo turno di playoff. Ed è stato proprio quello il guaio, quella la maledizione, dal momento che proprio al secondo turno, nelle semifinali di Conference il gigante cinese si è procurata la fratture al piede sinistro che da qui a qualche settimana potrebbe addirittura costargli la carriere professionistica dopo essere uscito indenne e senza particolari problemi e conseguenze da altre situazioni difficili alle ginocchia. La speranza è l’ultima a morire e speriamo che in questo caso continui a sopravvivere per molto tempo ancora.

Gli Spurs mettono le mani su Richard Jefferson, Parker il più entusiasta di tutti. «E’ una grande cosa per noi» «E' una gran cosa per noi. Ci aiuterà. E' quello che volevamo, inserire qualcuno più giovane, molto atletico, ora qualcosa succederà. Ci hanno chiesto cosa ne pensavamo e poi ci hanno chiamati quando la trattativa si è chiusa. Sono molto felice di questa aggiunta di talento. Non possiamo avere la stessa squadra ogni anno. Ora vedremo cosa succederà perché tutto l'Ovest è agguerrito. Dobbiamo migliorare. Tutte le squa-

dre dell'Ovest sono forti”. Gli Spurs, almeno per ora, lo sono più della maggior parte delle squadre, dobbiamo dimostrarlo sul campo». Questa la raffica di dichiarazioni che il franceso ha reso dopo aver appreso la notizia dell’arrivo dell’ex New Jersey Nets. Una sorta di ventata d’aria fresca, quindi in Texas in vista di quella che sarà la sfida più importante degli ultimi anni, tornare più forti di prima.

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Domenico Pezzella

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Il suo contratto in scadenza sta diventando una pedina fondamentale per le tante richieste provenienti dal mondo Nba. In pole i New York Knicks

Tutti pazzi per Tracy McGrady Boozer scioglie ogni tipo di velo e decide di giocarsi la carta della free agency per un contratto migliore...ma con i Jazz Mehmeto Okur e Carlos Boozer hanno deciso di esercitare la clausola che li legherà agli Utah Jazz. Boozer, che ha prodotto una stagione da 16.2 punti e 10.4 rimbalzi nelle sole 37 gare disputate causa infortuni, guadagnerà 12.7 milioni di dollari. Discorso diverso per Okur. Il turco aveva deciso di esplorare il mercato ma le squadre interessate, Pistons, Grizzlies e Thunders, o rappresentavano una scelta rischiosa perché ancora in fase di ricostruzione (le ultime due), o il contratto offerto non soddisfava pienamente le richieste di ‘Memo’. Quindi sarà ancora Salt

Lake City, la città mormone, ad ammirare le gesta del nazionale Turco (17.0 punti e 7.7 rimbalzi nella regular season 2008/2009). A questo punto occhi puntati, in casa Jazz, su Paul Millsap che è restricted free agent. Pistons, Grizzlies and Thunder, sempre loro, sono fortemente interessate al giocatore e possono offrire un contratto con cifre che si aggirano tra gli 8 e i 10 milioni di dollari; Utah vorrebbe trattenerlo ma la luxury tax incombe, così come la free agency, la prossima estate, di Boozer, Kyle Korver and Matt Harpring. Occhio al salaray cap!

La stagione appena conclusa aveva dato qualche indicazione in questo senso. Per la prima volta senza Tracy McGrady i Rockets hanno fatto strada e sono arrivata ad una gara7 dall’eliminare i Lakers dai playoff e quindi dalla corsa al titolo. A dire il vero o meglio per onor del vero va anche detto che i texani hanno fatto bene e dato del filo da torcere ai gialloviola poi campioni Nba anche senza il cinese Yao Ming in panchina e fuori per infortunio, ma paradossalmente per la prima volta senza il 7 volte All Star ex Magic, Houston è sembrata essere una squadra diversa. Qualcuno aveva già vociferato durante la stagione e durante gli stessi playoff che qualcosa sarebbe potuta accadere in questo senso, visto che il campo aveva dato il suo responso e cioè i Rockets vincono e giocano bene anche senza TMac. Certo è anche che i rumors di questo periodo dell’anno e di questi tempi lasciano il tempo che trovano, ma a volte non tutto quello che viene messo ‘in piazza’ è solo fumo negli occhi, nel caso di specie ancor di più. Già perché dopo le chiacchiere e dopo i se, i ma e le tante smentite, dal quartier generale dei Rockets sembrano essere pronti a parlare e a discutere di qualsiasi tipo di offerta preliminare per Mcrady. Offerte preliminari e sondaggi che a quanto pare non dispiacciono ai New York Knicks, che invece avrebbero già bussato alla porta dei biancorossi per avere informa-

zioni su una possibile trattativa da imbastire. Qualcuno a New York o in giro per la Nba avrà nell’immediato gridato allo scandalo o pensato che dalla stanza dei bottoni del team della grande Mela abbiano perso la trebisonda e vogliano commettere gli stessi errori degli anni passati con giocatori incerti e logorati dagli infortuni, ma poi se si guarda bene infondo alla questione un motivo per cui la scelta dei Knicks può essere di un certo livello c’è e come: la scadenza del contratto. Quello che andrà ad iniziare, infatti, sarà l’ultimo anno di contratto di McGrady nel quale guadagnerà circa 23 milioni di presidenti spirati. Un valore eccessivo per un giocatore che è stato negli ultimi anni martoriato dagli infortuni (ultimo in termini di tempo quello al ginocchio che lo ha costretto alla resa di questa stagione ndr), ma con il condizionale legato al fatto che il suo contratto scade proprio nell’anno della free agency più ambita degli ultimi anni quella del 2010 e quella in cui l’obiettivo numero uno, Lebron James, potrebbe cambiare le sorti della franchigia e 23 milioni in meno sul monte salario non è mica roba da poco, anche perché nel caso James dovesse dare ‘buca’, sul mercato ci sarebbero anche altri pezzi pregiati, stile Dwayne Wade.


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D OMENICO P EZZELLA

Sembrava che i Pistons dovessero ripartire dal coach della passata stagione, ed invece viene licenziato. Joe Dumars: «Era necessario un cambiamento»

Colpo di scena: Curry licenziato Che si era in aria di cambiamenti lo s sapeva, che si era in aria di fine di un ciclo anche, ma che addirittura si ripartisse assolutamente da zero questo è una novità assoluta. Nell'apprfondimento che si trova su queste stesse pagine si parla di Detroit, si parla di quella che è stata la stagione e del fatt che Curry sarebbe dovuto essere uno dei cardini della prossima stagione e della nuova versione dei Pistons. Ed invece ancora una volta Joe Dumars ha sorpreso tutto e tutti con un colpo di scena dell’ultimo momento e dell’ultima ora, in relazione al

tempo di uscita di questo numero per un qualsiasi tipo di cambiamento nel pezzo precedente. Queste le parole dei diretti interessati. Michael Curry: «Se ci sono delle cose che avrei fatto diversamente? Assolutamente si, ma il bello della vilta è questo, imparare dai propri errori». Joe Dumars: «E’ stata una decisione difficile da prendere. Vorrei prima di tutto ringraziare Michael per tutto il lavoro e la dedizione che ha messo in questo progetto, ma in questo momento ho deciso di dare una svolta di peso».

Rasheed Wallace avvistato in Texas per tutto un weekend. Vacanze, vicende personali o trattativa con Mavs? Di questi tempi ed in queste situazioni nulla scappa e nulla sfugge alla dura legge del fanta mercato o di coloro sempre a caccia di scoop e di notizie sconvolgenti. Questa in questione non sarà sconvolgente, ma di sicuro ha lasciato più di un punto di domanda all’interno degli addetti ai lavori. Il tarlo è

stata la presenza in Texas e specificamente a Dallas di Rasheed Wallace. Vacanze od affari personali, ma quello che i ‘corridoi’ della Nba ci ha visto sotto è una presenza dell’ex Portland e ormai anche Pistons per un accordo con i Mavericks in vista della prossima stagione al fianco di Dirk Nowiztki.


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Dopo essere usciti senza una point guard dal Draft il duo D’Antoni-Walsh sono alla ricerca di un playmaker di valore come l’ex Phoenix Suns

I Knicks hanno puntato Kidd I Charlotte Bobcats sono ufficialmente sul mercato. Michael Jordan in pole per mettere le mani sulla franchigia Il proprietario degli Charlotte Bobcats, Bob Johnson,, ha deciso di mettere in vendita la franchigia di sua proprietà. Michale Jordan si è detto interessato all’operazione: "Mi piacerebbe creare una squadra di soci per farlo, sì”. His Arirness, che già detiene una piccola percentuale del club, vorrebbe dunque incrementare le proprie quote di partecipazione. I Bobcats, nati nel 2003, furono acquistati da Johnson, fondatore della Black Entertainment Television, per una cifra di 300 milioni di dollari e divenne, così, la prima persona di colore proprietario di una squadra professionistica sportiva. La crisi economica che ha colpito gli States, lo scarso interesse verso la

squadra della città e il mancato appoggio degli sponsor hanno determinato grosse perdite. Da qui la volontà di Johnson di cedere la franchigia (la rivista specializzata Frobes ha valutato il valore dei Bobcats intorno ai 284 milioni di dollari). Jordan, che dal 2006 è GM del team, potrebbe risollevare l’interesse attorno a Charlotte. Larry Brown in panchina, scelto proprio dall’ex 23 dei Bulls ha già cominciato a far migliorare il rendimento Bobcats; nella stagione appena conclusa il record è stato di 3547, perdente certo, ma il miglior risultato della breve vita di questa squadra. Il futuro potrebbe essere più che roseo, il nome Jordan è sinonimo di successo.

Una delle squadre e delle formazioni più attive sul mercato e sempre pronte a prendere visione di tutto. Dopo aver sondato il terreno per milioni di cose, tra cui anche la possibilità di mettere le mani su McGrady, o meglio sul contratto di McGrady, New York torna alla carica per un playmaker ovvero quel giocatore che durante lo scorso Draft gli è sfuggito per colpa degli eventi e diciamocela tutta anche per colpa dei Minnesota T’Wolves che ne ha fatto una razzia. Alla fine I knicks si sono dovuti accontentare, si so dovuti guardare intorno per capire quello che il mercato gli poteva offrire e a quanto pare sono pronti ad un bel modo di accontentarsi. Il duo

D’Antoni-Walsh, infatti, sembrano essersi presentati (nel senso figurato del termine ndr) alla porta dei Mavericks, di Cuban e di Jason Kidd per vagliare la possibilità di portare nella grande mela il giocatore che fu capace praticamente da solo di portare i Nets a due finali Nba consecutive. Un flirt che a dire il vero non dispiacerebbe nemmeno al giocatore che ha manifestato un certo interesse ed una certa propensione a vestire la maglia di New York senza nessuna paura. Il nome dell’ex Suns, però, sembra essere finito sul taccuino di tante altre formazioni del panorama a stelle e strisce tra cui quello ambiziosissimo dei Portland Trailblazers.


Lente di

ingrandimento sulla LegaA


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Sciopero e mercato: contraddizioni del basket ‘made in Italy’ Continua la guerra fredda tra la Federazione e la Lega; una situazione grottesca che rischia di far passare in secondo piano i movimenti di mercato in vista di un campionato, a questo punto, assai incerto

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Si dice che esiste la stagione per tutto: per l’a- annata sportiva e di negare, con decorrenza immediata, la dispo-

TOMMASO S TARO more, per il successo, per la riflessione, per la nibilità dei giocatori a rispondere alle convocazioni per le

crescita. Ebbene, quella che sta vivendo il basket dello “spaghetti-circuit” è probabilmente la peggiore che ogni tifoso o addetto ai lavori avrebbe potuto immaginare. Una situazione balorda sintetizzabile in un’unica ed eloquente parola: marasma. Sì, proprio così; perché, in effetti, ciò che sta andando in scena nei piani alti del basket-system italiano è qualcosa che rimanda al caos, al disordine, ad una forza entropica difficile da giustificare, ancor più da decifrare, quasi impossibile da calmierare. Uno stato di cose figlio di una linea di condotta sempre border-line tenuta da coloro chiamati a sedere sugli scranni della “politica” della palla a spicchi; una gestione poco chiara e, sopra ogni cosa, per nulla lungimirante che ha rappresentato il seme della discordia. Il gelo sceso tra la Legabasket presieduta da Valentino Renzi e la Federazione capeggiata da Dino Meneghin è da rinvenire nella delibera n. 276 adottata dal Consiglio Federale sulla eleggibilità dei giocatori per le prossime stagioni agonistiche e, in particolare, sul numero di atleti stranieri ed italiani da poter tesserare (e, quindi, schierare) a partire dal campionato 2010/2011. Proprio quest’ultimo nodo ha dato il la ad uno scontro a distanza culminato con la “minaccia” della Lega di bloccare la prossima

Nazionali giovanili. Ma non finisce qui. Perché sempre la Lega, coerentemente al proprio convincimento, ha paventato addirittura l’ipotesi di organizzare autonomamente, a partire dal prossimo anno, un campionato giovanile parallelo, con l’obiettivo di sviluppare ulteriormente il proprio impegno nei vivai e assicurare al contempo a questa attività la adeguata visibilità. E’ guerra fredda, insomma. Un astio che ha trovato nelle dichiarazioni ufficiali dei vertici della pallacanestro italiana le punte di un iceberg enorme che speronare ed abbattere non sarà impresa facile. «La maglia azzurra -ha dichiarato Meneghin- la si ama indossandola, non evitandola. Sono assolutamente indignato. Io ho cominciato a giocare in Nazionale a 16 anni e non posso accettare che si possa impedire ad un ragazzo, che lo merita, di giocare in Nazionale. Abbiamo lavorato con il presidente della Lega Valentino Renzi per otto mesi e adesso ci ricattano con i ragazzi. Non è qualcosa che posso accettare. Se rinunciare ad un solo giocatore italiano in più, fra due stagioni, è un problema così grande, che allora decidano di non giocare. Noi andremo avanti comunque, non posso accettare di continuare a stare sotto continuo ricatto. Di certo non siederò più a nessun tavolo di trattativa fin-


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ché continueranno in questo atteggiamento». Parole forti che non si prestano ad alcun equivoco interpretativo; parole forti come quelle del presidente di Lega. «Il nostro punto di vista è semplice -ha dichiarato Renzi- la delibera che è stata assunta è demagogica e di facciata: è fuorviante che per un italiano in più si sia creata tutta questa confusione. La realtà è che la scelta di cambiare extracomunitari con italiani porterà solo dei costi aggiuntivi. Noi volevamo tenere due anni di 3 extracomunitari e 3 comunitari, e avere una maggiore gradualità nel passaggio. La Federazione ha scelto di passare direttamente al 3+2 (tre americani e due europei) o 2+4 (due americani e quattro europei), a discrezione delle singole società. Ci rendiamo conto che è una soluzione dura -ha proseguito Renzi- ma quando le società di vertice e la Lega chiedono alcune cose e non si riesce a incidere, quando nel Consiglio federale la rappresentatività è inesistente e ci si trova a essere battuti 18 a 2, tutto questo rappresenta una situazione anomala. In futuro, bisognerà lavorare per arrivare a un contesto che possa prevedere una diversa rappresentatività delle società. Nonostante tutto, anche oggi auspico che venga fatto un passo in avanti». Affermazioni circostanziate che hanno provocato la controreplica di Meneghin: «Non penso -ha detto il presidente della F.I.P.- che le società possano impedire ai giocatori di andare in Nazionale, ma questo lo stanno valutando gli avvocati. Certo mettere in mezzo un minorenne, che potrebbe coronare il suo sogno di vesti-

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re la maglia azzurra, mi semba una cosa pazzesca. E non voglio adoperare altri termini. Non mi sembra di chiedere la luna se voglio un italiano in più dalla stagione 2010-11. Se ne avessi chiesti dieci capirei.. E se è vero che gli italiani costano più degli stranieri, spetta ai club trovare un modo per pagarli di meno, mettendo un salary cap o qualcosa del genere». Non c’è che dire: una matassa complicatissima da districare che mette seriamente a repentaglio il regolare svolgimento di un campionato in proiezione del quale, comunque, più di una società si sta muovendo con trattative, strategie e qualche colpo di mercato già messo a segno. E’ il caso della Benetton Treviso che ha ufficializzato in panchina Frank Vitucci al posto del partente Oktay Mahmuti. Novità anche per quanto concerne il roster dove troveranno spazio il lituano Mantas Kalnietis (contratto triennale), la stella Daniel Hackett che non ha brillato al draft NBA (per lui, in ogni caso, garantita la clausola “escape” già al primo anno) oltre ai confermati Gary Neal, Andrea Renzi, Sandro Nicevic e, con ogni probabilità, C.J. Wallace. Aria di forti cambiamenti a Roma. I giallorossi potrebbero anzitutto mutare location trasferendosi nel più accogliente PalaTiziano ed abbandonando, così, il dispersivo PalaLottomatica. Sul fronte squadra, saluteranno la corte del confermato Nando Gentile, tra gli altri, i vari Sani Becirovic, Ibrahim Jaaber, Primoz Brezec, Andre Hutson e Brandon Jennings (scelto al n. 10 del primo giro dai Minnesota Timberwolves); in entrata si lavora alacremente per acquisire i servigi di Peppe Poeta, del 22enne Milos Teodosic (forse in uscita dall’Olympiakos Pireo) e di Alessandro Gentile, enfant-prodige di soli 17 anni ed accreditato, unitamente a Niccolò Melli, come il prospetto italiano più interessante e futuribile. Tra le file dei campioni d’Italia tutto tace; o quasi. Il deus ex machina Ferdinando Minucci proverà a trattenere per un’altra stagione nella città del Palio l’m.v.p. Terrell McIntyre, alle cui orecchie sono da tempo giunte le sirene ammalianti provenienti dalla Grecia. Chi potrebbe dismettere la canotta


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biancoverde è Romain Sato (oltre ad Henry Domercant) verosimilmente rimpiazzato da David Moss che, a sua volta, saluterà Teramo e coach Capobianco. Sfumato il sogno serbo Igor Rakocevic, passato dal Tau Vitoria ai turchi dell’Efes Pilsen (contratto triennale per complessivi 6 milioni di euro; “pochini” se paragonati ai 25 che quest’anno il presidente Tuncay Özilhan metterà sul tavolo per allestire una squadra cinque stelle lusso), alla MenSana interessa Andre Hutson oltre a Stefano Mancinelli, in uscita dalla Fortitudo; sul “Mancio”, a ben vedere, ha posato gli occhi anche l’Olimpia Milano che ha incassato parole al miele dallo stesso ragazzo, allettato eventualmente da un possibile trasferimento all’ombra della Madonnina in una squadra giovane ed ambiziosa. Milano che, nella persona del presidente Livio Proli, ha confermato coach Piero Bucchi, ha esercitato l’opzione per estendere di un altro anno il contratto di Mike Hall, ha proposto un succulento triennale da 1,2 milioni a stagione al “falco” David Hawkins, ha messo sotto contratto biennale il lungo lituano Marijonas Petravicius (ex Lietuvos Rytas Vilnius), continua a vigilare sul portoricano Guillermo “Superman” Diaz, ex Caserta, e sarebbe tentata a dare il benservito al deludente Luca Vitali. Avvolti da una fitta coltre di mistero, invece, gli eventi che stanno animando la piazza bolognese, sponda Virtus. Quando sembrava quasi in porto la trattativa per il passaggio di proprietà della società nelle mani di una cordata di imprenditori capeggiata da Stefano Tonelli, è rimbombato improvvisamente il “tuono” Sabatini, restio a cedere la propria creatura a persone ignote

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senza, oltre tutto, le necessarie garanzie economiche. Tutto congelato, insomma, mentre sulla panchina delle V nere arriva dopo un estenuante tira e molla Lino Lardo (per lui un biennale), si tratta per Eric Williams e di attende di ratificare per iscritto l’accordo verbale con Andre Collins (interessa, in verità, anche Jonas Jerebko che, però, dopo essere stato scelto dai Pistons con il n. 39, ha buone chance di essere inserito nel roster della Motown). Movimenti poco significativi per il momento a Teramo: il presidente Antonetti vorrebbe convincere Poeta a rimanere in Abruzzo e ad onorare il contratto che lo lega alla squadra biancorossa fino al 2011; piacciono anche Matteo Soragna, Marco Mordente e Michele Maggioli, vecchia conoscenza di coach Capobianco, complici i suoi trascorsi a Jesi. A Biella si lavora per rifondare la squadra dopo la partenza di Jerebko e quella probabilissima di Gist: tra i confermati dovrebbero figurare Jurak e Brunner mentre il primo acquisto porta il nome di Massimo Chessa, ex Sassari (contratto biennale con opzione anche per il terzo anno). Novità soprattutto per quanto concerne la guida tecnica a Cantù, Pesaro e Caserta. In Brianza il coach è Andrea Trinchieri che potrà sicuramente contare sul volto nuovo Jerry Green ma che dovrà fare a meno di Pinkney, Rich, Prato e Tourè; sulla panchina della Scavolini siederà, invece, Luca Dalmonte ed il primo obiettivo -scaricato, tra gli altri, il nigeriano Akindele- è Cinciarini; in Campania la new entry è Pino Sacripanti che ripartirà dalle certezze Di Bella, Martin, Michelori e strizza l’occhio proprio ad Akindele, alle sue dipendenze lo scorso campionato alla Vuelle.


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Ferrara riprenderà il filo del discorso da coach Valli e dalle verosi- Corteggiato anche Jobey Thomas che l’anno prossimo non indosmili conferme di Farabello, Nnamaka e Jamison; si prova a con- serà più la canotta griffata Armani Jeans. vincere Allan Ray a non spiegare le vele verso altri lidi anche se l’operazione non sembra poi così agevole. All’ombra del Castello anche il play 22enne Valerio Circosta, ex Ferentino. Senza particolari sussulti la situazione nelle rimanenti piazze che animeranno la massima serie: Montegranaro ha ufficializzato Fabrizio Frates e perderà i suoi pezzi migliori (Garris, Hunter e Minard); Avellino si affida alle mani esperte di Cesare Pancotto e dirà addio, tra gli altri, a Williams, Warren, Best e Slay; enigmatico il futuro di Rieti dove Meo Sacchetti potrebbe prendere il posto di Lardo. Per quanto concerne le neopromosse, Varese ritornerà a recitare sui palcoscenici della LegaA con Pillastrini, Passera, Cotani ed Antonelli; si spera nella conferma del “professore” Childress e di Giacomo Galanda. Soresina, infine, dopo la fusione con Cremona, avrà in Ario Costa il nuovo direttore generale; trovato l’accordo con Stefano Cioppi, si lavora per poter disporre ancora di pedine fondamentali come Troy Bell e Marco Cusin.


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Welcome to Denver: ‘The Mile High City’ DI

Chi di voi vuole fare un salto nella patria autobus fermano tutti al Denver Bus Terminal, subito a nord dello

L EANDRA R ICCIARDI dei Pionieri…Cowboy.. e indiani?? Beh State Capitol. In città è facile spostarsi. Autobus e taxi hanno prezzi Denver è la porta d’accesso naturale alla storia e al mito del West.. Incastonata tra panorami montani mozzafiato dove il sole splende per 300 giorni all’anno. Fondata nel 1858 dai cercatori d’oro, è situata alla base delle maestose Montagne Rocciose a 1609 metri sul livello del mare, esattamente ad un miglio di altitudine. Molto della ricca eredità Western è rimasta negli edifici e nei musei, a testimonianza della storia degli eroi del passato. Quando fu scoperto l’oro nella zona, Denver divenne una sorta di terra promessa…E' un luogo ideale per gli escursionisti ,gli amanti della mountain bike che qui partono verso i sentieri deserti e le praterie degli antichi cowboys o verso le foreste delle rigogliose montagne, ma è anche la destinazione perfetta per chiunque sia in dubbio se scegliere tra le distrazioni di una grande città e i piaceri più semplici della vita tra i boschi, Un luogo nel quale si può gustare un filetto di bufalo prima di una serata all'opera e concludere la giornata con un ultimo bicchierino in un bar art déco. COME ARRIVARE E COME MUOVERSI Denver International Airport (DIA) Situato 40 km a nord-est del centro, è stato costruito per essere uno dei principali centri aerei del Nord America, e infatti ora è servito da una ventina di linee aeree, anche se la maggior parte dei voli è garantita dalla United Airlines. Non dovreste avere quindi difficoltà a trovare un volo (o almeno una coincidenza).La Greyhound e l'affiliata TNM&O hanno frequenti autobus sia sulle linee che corrono lungo la Front Range sia su quelle che attraversano tutto il paese da costa a costa. Gli

abbastanza convenienti, ma il mio consiglio è sempre quello di noleggiare una macchina se restate più di una settimana (Consultate i siti www.enoleggioauto.it, www.alamo.it/USA, www.autoeurope.it e www.easyterra.it/denver) Per orientarvi dovete munirvi di una cartina oppure, collegatevi ad un sito di mappe online come: www.mapquest.it o www.yahoo.it e stampatevi il tragitto che vi serve. DOVE DORMIRE I prezzi sono, in genere, molto variabili e dipendono dal periodo dell’anno. C’è una vasta gamma di strutture suddivise per ogni genere di categoria e prezzo: da semplici ma accoglienti B&B a sfarzosi ed eleganti hotel di lusso. Sleep Inn Denver Tech Center: Greenwood Village, Denver, 9257 E Costilla AVE. L'hotel si trova a pochi minuti in auto o in treno da tutti i servizi e i vantaggi offerti da questa città cosmopolita. Potrete raggiungere facilmente a piedi il treno per la città o i numerosi negozi e ristoranti siti nelle vicinanze dell'albergo. Prezzi tra 35 e 40 a notte. Super 8 Motel Denver Stapleton: 7201 East Avenue, Denver Colorado. Comoda ubicazione a breve distanza dall'Aeroporto Internazionale della città. Questa struttura, ideale sia per le meritate vacanze che per i viaggi d'affari, presenta camere recentemente rinnovate e comodamente arredate per offrirvi un soggiorno piacevole. Prezzi tra 35 e 40 a notte. Holiday Inn Express Englewood: 7380 South Clinton Street, Englewood. Si trova in posizione strategica ed è facilmente raggiungibile dal Denver Tech Center, dall'aeroporto Centennial e dall'Inverness Business Park. Prezzi tra i 50 e 60 a notte. Hotel Crowne Plaza Denver City Center: 1450 Glenarm Place. Center si trova nel cuore di questa eccitante città, a pochi passi da LoDo, il quartiere antico più alla moda, e dai Denver Pavilions. Prezzi tra i 70 e 75 a notte. Hotel Teatro: quattordicesima st 1100 Denver. Situato nel centro di Denver, di fronte al Denver Center for


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Performing Arts. Prezzi da 180 a 190 a notte. Per altre info consultate i siti www.octopustravel.com, www.tripadvisor.it, www.venere.com e www.hotels.com/denver. IL TEMPO Il clima è semiarido, con le quattro stagioni ben distinte, ed estremi che vanno dal caldo secco al gelo pungente,è una città che offre motivi di richiamo tutto l'anno, per cui il periodo del viaggio è in relazione a ciò che cercate. Coloro che la visitano in primavera o in autunno troveranno giornate balsamiche e solari, con serate fresche.. Gli occhiali da sole in estate sono necessari Quando il sole tramonta però la temperatura potrebbe cambiare. Le serate possono essere fresche ed è consigliabile avere un maglione leggero a portata di mano. Le giornate invernali sono, di solito, una combinazione di sole caldo e aria fresca. Le temperature diurne possono passare da sotto zero a oltre 60º F (15º C);La neve cade raramente e quando cade, di solito sparisce rapidamente. Nelle zone montuose può essere molto freddo, ma spesso la calda luce solare rende superflui gli abiti pesantissimi. Il guardaroba dovrebbe, in ogni caso, comprendere anche un paio di stivali. Ricordate che, grazie al clima di Denver sempre asciutto e temperato, il golf e il tennis sono sport da praticare tutto l’anno! COSA VEDERE Denver Museum of Natural & Science: Museo di storia naturale fra i più prestigiosi degli Stati Uniti, fu istituito agli inizi del secolo per custodire la collezione di un naturalista del Colorado di nome Edwin Carter. Il museo è situato 5 km a est del centro, nel City Park. Nel complesso si trova pure un IMAX Theater, una sala con uno schermo gigante che entusiasma il pubblico con documentari sulla natura. Nei pressi c'è il Gates Planetarium, dove uno spettacolo di luci laser vi trasporterà in un viaggio verso galassie lontane. Chi va di fretta o vuole prendersi una pausa e distrarsi con cose più leggere può combinare una breve visita al museo con un salto al vicino Denver Zoo. Downtown Acquarium: un acquario interattivo con più di 15.000 animali tra squali uccelli e persino tigri di Sumatra. Larimer Square: Se cercate il motivo per cui Denver è diventata in tutti gli Stati Uniti una sorta di simbolo del nuovo sviluppo architettonico, iniziate a visitare la città da Larimer Square. Benché l'idea di addobbare gli edifici di inizio '900 con ghirlande di luci

'decorative' desti qualche perplessità, l'isolato al 1400 di Larimer Square offre un'allettante serie di distrazioni. Questo concentrato di boutique, ristoranti e pub che servono birra di loro produzione è infatti il luogo di ritrovo di folle eterogenee di persone, dagli yuppies ai punk. Larimer Square è situata ai margini sud-occidentali della griglia di strade del centro. Denver Art Museum: Simile a un carcere moderno a più piani, questo enorme museo ospita una delle più ricche collezioni al mondo d'arte nativa americana. Vi sono rappresentate tutte le tribù del paese e tutte le epoche, da quelle lontane migliaia di anni fino ai giorni nostri. Black American Western Museum & Heritage Center: Dedicato a correggere le storture della storia, il museo è ospitato da quella che fu la casa di Justina Ford, il primo medico di colore di Denver, che qui svolse la sua professione per ben 50 anni. La casa si trova a nord del centro, nel quartiere chiamato Five Points: i treni della linea metropolitana fermano proprio lì vicino. Red Rocks Park & Amphitheater: Sarebbe un vero peccato perdere questo sbalorditivo luogo di 243 ettari posto sulle colline subito a ovest di Denver, soprattutto se avete l'occasione di assistere a uno spettacolo sotto le stelle. Si tratta di un anfiteatro all'aperto

che si trova in mezzo a maestose rocce di arenaria rossa risalenti a ben 70 milioni di anni fa e alte 120 m. L'anfiteatro di 9000 posti fu costruito durante la Grande Depressione dai membri dei Civilian Conservation Corps, per sfruttare l'ottima acustica naturale del luogo. Boulder: Situata a breve distanza dalla capitale, è un'oasi di pace che ha saputo assorbire, armonizzare e riproporre in modo tutto suo le idee e le influenze che nel corso degli anni hanno attraversato la regione delle Grandi Pianure. Con un numero di cooperative di artisti e ristoranti vegetariani tale da far impallidire chiunque, questa cittadina è distante dal Colorado dei cowboy quanto lo è da... Denver. Se infatti la capitale risplende delle luci delle grandi città, la piccola Boulder è rimasta una tranquilla cittadina e si compiace dei suoi modi discreti. Morrison: La cittadina di Morrison sorge in una splendida cornice naturale, in mezzo alle spettacolari rocce rosse a ovest del Red Rocks Park. Gli scavi effettuati nel National Historic District hanno permesso di portare alla luce i resti fossilizzati di oltre 70 specie di dinosauro e, tra questi, quelli di due specie mai scoperte prima, l'allosauro e lo stegosauro. Le impronte di questi giganti preistorici si possono vedere con le visite guidate che organizza sporadicamente l'associa-


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zione Friends of Dinosaur Ridge. Golden: Gli amanti delle attività all'aria aperta utilizzano Golden come base per compiere escursioni verso i Denver Mountain Parks, ma il principale motivo di richiamo della cittadina è la visita guidata che porta alla Coors Brewery per vedere come viene prodotta una delle birre più insipide d'America. Sette chilometri a ovest della città si trova il Buffalo Bill Memorial Museum, aperto vicino al luogo dove Buffalo Bill fu sepolto nel 1917. Denver Pavilions: un centro commerciale ricco di locali, bar e ristoranti, tra cui l’Hard Rock Cafe. Il vicino Denver Performing Arts Complex ospita 10 teatri ed è sede di una compagnia teatrale, della Colorado Symphony Orchestra, di una compagnia operistica e di un balletto. Produzioni dei teatri di Broadway compaiono regolarmente in cartellone. A Denver ogni sera vi aspetta un grande evento. Ogni quartiere ha il suo tratto distintivo a Denver. Piccole comunità dove il viaggiatore curioso può trovare sorprese: locali, negozi e gallerie d’arte per ogni gusto. SPORT Denver è rappresentata in tutte le principali leghe professionistiche statunitensi: • I Denver Broncos (NFL - football americano) giocano all’ Invesco Field at Mile High . • I Denver Nuggets (NBA - basket) giocano al Pepsi Center • I Colorado Avalanche (NHL - hockey su ghiaccio) giocano al Pepsi Center . • I Colorado Rockies (MLB - baseball) giocano al Coors Field • I Colorado Rapids (MLS - calcio) giocano all'Invesco Field at Mile High

STARS ‘N’ STRIPES ON THE ROAD

CURIOSITA’ • Nell’aria rarefatta di Denver, le palline da golf si spostano del 10% in più. E così fanno anche i drink. Ad altezze superiori al livello del mare, le bevande alcoliche hanno un effetto maggiore. Il sole è più intenso, perché più vicino, ma il caffè è più freddo, perché l’acqua bolle a 202º F (94º C). • Buffalo Bill è sepolto lungo le pendici della Lookout Mountain, da cui si gode di una vista panoramica di Denver e delle Grandi Pianure. • Oltre ad essere denominata Mile High City (in quanto l’altitudine del centro è esattamente un miglio sul mare) Denver è indicata anche come Queen City of the Plains, per la notevole importanza rivestita dalle coltivazioni e dall’agricoltura. • Il Great American Beer Festival è un seguitissimo appuntamento annuale per appassionati di birra, nel corso del quale assaggiare e sperimentare decine di qualità di pregiato malto. • Secondo un sondaggio del Pew Research Center condotto su 2260 adulti la città prediletta dagli americani è Denver, Sarà forse per la sua posizione stragetica, fatto è che la maggior parte delle persone intervistate ha confessato che, potendo scegliere, andrebbe a vivere proprio lì. • Il ristorante dell’acquario è un bellissimo posto per cenare. Ci si trova seduti attorno a un immenso acquario, dove si può vedere una varietà di diverse creature marine tra cui il pesce sega e le mante...Allora… ricapitoliamo..non dimenticatevi gli stivali.. la macchina fotografica.. un bel cd con le colonne sonore di Ennio Morricone …e… BUON DIVERTIMENTO!!!!


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