IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO
La maledizione
colpisce ancora: fuori gli Spurs
P
ora prova
Partita la ‘crociata’
vate a fermarlo
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di
D OMENICO P EZZELLA
E finalmente giunge il momento di John Stockton, David Robinson, Jarry Sloan e sua maestà Michael ‘Air’ Jordan
‘Hall of Fame’ classe 2009 Finalmente avrà urlato qualcuno. E’ il giusto riconoscimento di una carriera al di sopra di ogni singolo commento altri avranno detto. Fatto sta che la classe del 2009 della Hall of Fame ha fatto contenti davvero tutti quelli che hanno un briciolo di amore per questo sport e per questa Lega. Il perché è giustificato dai quattro nomi che da soli potrebbero anche identificare la Nba del loro tempo del loro periodo o perché no anche quella contemporanea, visto che uno dei ‘celebrati’ è ancora in giro per gli States per giocarsi partite, vittorie e quant’altro, anche se dalla panchina. John Stockton, David Robinson, Michael Jordan ed il signore che è ancora in attività come allenatore: Jerry Sloan. La decisione da parte del Naismith Memorial Basketball Hall of Fame è stata praticamente inutile, visto che i quattro ‘moschettieri’ sono stati eletti praticamente subito alla loro prima ‘candidatura’ (per essere eletti risultano essere necessari 18 su 24 voti disponibili ndr) e alzi la mano chi magari non si fosse aspettata una cosa del genere. MICHAEL JORDAN. «Per un giocatore e una persona competitivo come me essere qui questa sera e ricevere questo riconoscimento, non è la cosa più facile del mondo perché prendi coscienza che la tua carriera è completamente e definitivamente terminata. Il mio pensiero è
stato sempre quello di essere in grado di ritornare e giocare a Basket a questo livello, ma ora e dopo questo riconoscimento è come se fosse arrivata la scritta game over. Ma detto questo è un onore essere nella Hall Of Fame e per me si tratta di un riconoscimento che va dedicato a Dean Smith, visto che senza di lui nessuno avrebbe mai potuto vedere Michael Jordan giocare a basket». JOHN STOCKTON. «Se devo essere sincero nella mia vita non avevo mai pensato di finire qui ed entrare nella Hall of Fame del Basket, quello che mi interessava era solo studiare ed andare a scuola. Ancor più sincero quando dico che non c’ho pensato durante la mia carriera, e questo è l’unico momento in cui sto realizzando quello che mi sta accadendo. DAVID ROBINSON. «Se dovessi scegliere una notte nella mia carriera, sarebbe probabilmente camminare fuori dal campo come un campione, e sapendo che stava per essere il mio ultimo ricordo di pallacanestro». JERRY SLOAN. Non presente alla cerimonia, ma per lui due parole le ha spese John Stockton: «Per me non è stato solo un allenatore, un mentore o una guida, ma soprattutto un amico. E’ un uomo incredibile e per me è stato un onore aver trascorso la mia carriera con lui in panchina».
‘Nba Awards Coach of The Year’: la statuetta va in Ohio nella bacheca personale di Mike Brown Con la girandola e con la giostra dei playoff in pieno svolgimento è tempo anche dei primi riconoscimenti a livello personale. Il clou lo si raggiungerà ovviamente quando a saltare fuori sarà il nome dell’Mvp della Lega, ma per il momento ci possiamo anche accontentare del primo ‘Awards’ e cioè quello che dell’allenatore dell’anno che va ad un allenatore che da quattro anni sta cercando di portare la sua squadra a quel famoso e ambito anello. Dopo aver guidato nell’ultima regular season a un numero record di vittorie Cleveland, 66, il coach dei Cavaliers Mike Brown è stato nominato allenatore dell’anno. Al suo quarto anno ai Cavs, dalla giuria di giornalisti sportivi di carta stampata e televisione di Stati Uniti e Canada Brown ha ricevuto 355 punti ed è stato votato 55 volte al primo posto. Nettamente staccato il secondo di questa classifica, Rick Adelman degli Houston Rockets con 151 punti, terzo Stan Van Gundy degli Orlando Magic con 150 punti. «Mike Brown è una
di quelle rare persone chef a sempre la cosa giusta al momento giusto - dice il proprietario dei Cavaliers Dan Gilbert -. E’ intelligente, disinteressato e gran lavoratore. E’ curioso e voglioso di imparare. E’ filosoficamente preparato e le sue decisioni derivano dal suo forte pensiero filosofico. Rimane fermo alla sua strategia del “primo, difendere” quando sarebbe più facile non ricorrervi. Come essere umano, Mike tratta tutti con rispetto, non importa chi sono o da dove vengono». Mike Brown. «Io non mi sento come uno motivatore - Brown ha detto di recente. Io non ho voglia di dare una rah-rah discorso o qualcosa di simile ai miei ragazzi, mi limito ad allenare. Ho iniziato come allenatore della difesa per due anni prima di arrivare a Cleveland e ora tutti d'un tratto, ho avuto modo di fare non l’allenatore, ma il capo allenatore. Mi ci è voluto un po’ di tempo per imparare fino in fondo e fare al meglio il mio dovere, ma alla fine ne è valsa la pena».
Mike Brown con il premio destra i voti con i quali si è aggiudicato il titolo
Stars ‘N’ Stripes ideato da: Domenico Pezzella scritto da: Alessandro delli Paoli Leandra Ricciardi Tommaso Staro Nicolò Fiumi Michele Falco
info, contatti e collaborazioni: Il momento di mettere in mostra la maglia della Hall of Fame e alcuni scatti d’altri tempi
domenicopezzella@hotmail.it
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A soli 23 anni il centro degli Orlando Magic, Dwight Howard diventa il giocatore più giovane a vincere il ‘Kia Defense Player of the Year’
‘Superman’ spodesta Garnett ‘Nba Awards’: Come da copione la matricola dei Bulls, Derrick Rose, si aggiudica il ‘Rookie of the year 2009’ Diciamo che vale quanto un titolo di Mvp della stagione. Il riconoscimento più alto per chi entra a far parte della nuova famiglia e del nuovo sistema di gioco. C'è chi è più pronto, visti magari i trascorsi, in un sistema che di simile, forse ha solo l'intensità di alcune partite, e chi lo è di meno impiegando più tempo per sfondare e dimostrare tutto il proprio valore. Più che ricordare chi questo trofeo l'ha vinto negli ultimi anni, forse sarebbe molto più interessante indicare un paio di nomi che questo trofeo non l'hanno vinto, visto che alla loro prima esperienza non hanno certo fatto tuoni e fulmini. Vedi per esempio il caso di Jermaine O'Neal per mesi e mesi ha scaldato la fredda panchina dell'Oregon nel Rose Garden casa dei Trailblazers. E pure qualcosina questo giocatore l'ha pur dimostrata. Non allo stesso modo della power forward dell'Indiana, ma nemmeno il
primo anno Nba di un certo altro signore che di nome fa Kevin Garnett, fu entusiasmante, tanto da far dubitare in molti se il salto direttamente dall'High School non fosse stato troppo azzardato; provate a dirlo adesso. Insomma percorsi diversi ma non per questo l’ex Memphis non è destinato a diventare una superstar, anzi diciamo che il tutto è già scritto nel suo personale firmamento. DERRICK ROSE: «Sin dal primo momento in cui ho messo piede in questa Lega il mio pensiero e il mio intento è stato quello di portare a casa questo trofeo e ce l’ho fatta, nonostante la concorrenza». JOAKIM NOAH: «Penso che poche altre persone abbiano fatto quello che ha fatto Derrick quest’anno. Ditemi un solo giocatore che nella sua città ha portato la sua squadra ai playoff con tutte le distrazione che ci possono essere».
«Come vuoi che tutti ti ricordino come un grande saltatore, come colui che ha vinto la gara delle schiacciate con il mantello di Superman o vuoi essere ricordato per qualcosa altro?». «Vorrei essere ricordato come uno dei migliori giocatori». «Bene allora inizia con la difesa». Questo il dialogo che il ‘Superman’ della Florida ha intrattenuto con uno dei ‘Big Man’ più importanti della Lega Dikembe Mutombo. E visto come è andato a finire la votazione per il Kia Defensive Player of the Year il discorso fattogli dall’africano dei Rockets deve essere servito e come. Miglior rimbalzista dell’NBA con 13,8 a partita e ha anche il maggior numero di stoppate a partita, 2,9. Numeri che lo mettono in grandissima compagnia per quanto riguarda i giocatori che nella stessa stagione hanno portato a casa la classifica dei rimbalzi e delle stoppate. Una categoria esclusiva nella quale compaiono i nomi di Bill Walton, Kareem Abdlu-Jaabar, Hakeem Olajuwon e Ben Wallace, ma solo perché le stoppate sono state inserite nel conto ufficiale delle statistiche a partire dal 1973. Numeri hanno aiutato gli Orlando Magic a raggiungere il terzo posto nella Eastern Conference. Nella speciale classifica stipulata per mezzo dei voti di 111 giornalisti di carta stampata e televisione di Stati Uniti e Canada il tre volte All-Star ha preceduto LeBron James (Cleveland) e Dwyane Wade (Miami). Howard diventa cosi il più giovane cestista a vincere il trofeo di Difensore dell’Anno succedendo in
Derrick Rose al momento di ricevere il premio
Alle due estremità i risultati delle votazioni del Rookie of The Year e Miglior Difensore. In mezzo Dwight Howard
ordine di tempo a Kevin Garnett che lo scorso anno più o meno di questo periodo alzò la prima statuetta al cielo per poi alzare quella più importante di tutte. OTIS SMITH: «Probabilmente la cosa più importante e più impressionante di questo riconoscimento sta nel 16esimo posto di Turkoglu e il fatto che lo stesso Howard abbia iniziato e finito questa stagione con un pensiero fisso nella mente: essere il miglior difensore dell’anno. E ora c’è riuscito». COACH STAN VAN GUNDY: «Essere arrivato a conquistare la statuetta e il riconoscimento di miglior difensore dell’anno è una cosa rimarchevole e di enorme importanza per un ragazzo di 23 anni. Generalmente il lato difensivo viene fuori col passare del tempo, e da questo punto di vista credo che Dwight abbia bruciato più di una tappa, ma nel senso buono del termine». LEBRON JAMES: «A dire il vero ci tenevo molto più che quest’anno che negli anni scorsi. Non che in passato non mi curassi o non mi preoccupassi del lato difensivo del gioco, ma solo che quest’anno l’ho curato ancora visto che era una parte del tutto per migliorare sempre di più». Ed infine come non poteva arrivare la dichiarazione da ‘joker’ del bambinone in maglia numero 12 che cosi conclude la sua conferenza stampa: «Sono grato e devo ringraziare i miei compagni che permettono ai loro uomini in difesa di arrivare fino al ferro e permettermi, in questo modo, di stopparli…».
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D OMENICO P EZZELLA
Decisione facile e praticamente unanime che ha visto trionfare il folletto dei Dallas Mavericks. Battuti JR Smith e Nate Robinson
Jeson Terry miglior sesto uomo Molto probabilmente la decisione più scontata da prendere al momento dell’assegnazione dei premi di fine anno. Non poteva essere altrimenti ed allora nella stanza dei bottoni, ma anche e soprattutto da parte di chi di questo sport ci vive, c’è stata una unanimità sconcertante e devastante che ha assegnato al cecchino del Texas Jason Terry il riconoscimento di ‘Sesto uomo dell’anno’. Per l’ex Atlanta il riconoscimento è arrivato come avvenne per lo stesso Manu Ginobili, al termine di una stagione in cui l’esterno dei Dallas Mavericks è stato ‘costretto’ a scalare di posto e quindi passare dallo starting five alla panchina, ma non per demeriti, ma solo per essere utilizzato come arma tattica o se vogliamo come ‘killer’ della partita. Il risultato? 576 dei possibili 605 punti, compresi 111 dei 121 voti da primo posto, da un insieme di giornalisti (per entrare in questa speciale classifica i giocatori devono essere partiti dalla panchina in più della metà delle partite disputate nella stagione appena conclusa sesto uomo in 63 delle 74 partite da lui giocate nella regular season, Terry ha totalizzato 19,6 punti, 2,3 rimbalzi e 3,4 assist di media a partita per i Mavericks.
Secondo e nettamente distanziato la guardia dei Denver Nuggets JR Smith con 155 punti seguito da Nate Robinson dei New York Knicks con 113 punti. Questo l’albo d’oro: 1982-83 Bobby Jones, 76ers 1983-84 Kevin McHale, Boston Celtics 1984-85 Kevin McHale, Boston Celtics 1985-86 Bill Walton, Boston Celtics 1986-87 Ricky Pierce, Bucks 1987-88 Roy Tarpley, Dallas 1988-89 Eddie Johnson, Phoenix Suns 1989-90 Ricky Pierce, Bucks 1990-91 Detlef Schrempf, Pacers 1991-92 Detlef Schrempf, Pacers 1992-93 Clifford Robinson, Portland 1993-94 Dell Curry, Charlotte Hornets 1994-95 Anthony Mason, New York 1995-96 Toni Kukoc, Chicago Bulls 1996-97 John Starks, New York 1997-98 Danny Manning, Phoenix 1998-99 Darrell Armstrong, Orlando 1999-00 Rodney Rogers, Phoenix 2000-01 Aaron McKie, 76ers 2001-02 Corliss Williamson, Pistons 2002-03 Bobby Jackson, Sacramento 2003-04 Antawn Jamison, Mavericks 2004-05 Ben Gordon, Chicago Bulls 2005-06 Mike Miller, Memphis 2006-07 Leandro Barbosa, Phoenix 2007-08 Manu Ginobili, San Antonio 2008-09 Jason Terry, Dallas Mavericks
I Kings licenziano Natt, Washington si affida alle mani di Flip Saunder per la nuova rinascita e gestire Arenas Flip Saunders è ufficialmente il nuovo allenatore dei Washington Wizards, reduci da una delle peggiori stagioni della loro storia. Ha firmato un contratto quadriennale da 18 milioni di dollari. Saunders e I Wizards avevano raggiunto un accordo verbale più di una settimana fa, il 54enne tecnico ha firmato il contratto martedì sera. Sarà ufficialmente presentato in una conferenza stampa giovedì. Saunders succede al coach ad interim Ed Tapscott che ha portato a termine la stagione a seguito dell’esonero di
Eddie Jordan dopo una vittoria e 10 sconfitte. Saunders ha un record di 587 vittorie e 396 sconfitte in 13 stagioni NBA, 10 con Minnesota e 3 con Detroit. Vanta sette stagioni da 50 vittorie e ha raggiunto le finali di Conference quattro volte, una volta coi Timberwolves e tre con i Pistons. Resta vuota, almeno per il momento, invece, la panchina dei Kings dopo la decisione del front office californiano di licenziare coach Natt e tutto il suo staff. E ora parte il più classico dei toto allenatori.
L’ex timoniere di Timberwolves e Pistons Flip Saunders
Immagini del nuovo vincitore del titolo di sesto uomo dell’anno: Jason Terry
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L’infortunio durante gara2 in Oregon contro i Trailblazers, potrebbe essere l’ultima goccia di una carriera lunga 18 anni
Dikembe Mutombo: True Hero Davvero difficile trovare il punto di inizio principale dal quale poi iniziare a parlare di un uomo che seppur vincendo poco o quasi niente, è destinato ad essere un grande di questo gioco, un grande di questa Lega per quello che ha dato dentro e fuori dal campo. A dire il vero per quello che il lungo africano ha dato, ha fatto e ancora fa fuori dal campo necessiterebbe un articolo o meglio un numero di Star n Stripes interamente dedicato a lui. Semplici e non pienamente rispecchianti quella che è la sua attività umanitaria non solo in America in quella che generalmente viene indicata e chiamata con il nome di ‘Nba Cares’, ma soprattutto quella che l’uomo dai tanti nomi (Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba JeanJacque Wamutombo ndr) è riuscito a fare per il suo Zaire e perchè no per la sua Africa. Ormai non si contano i ‘presidenti spirati’ che dall’America hanno preso come destinazione lo stato Africano per la costruzione di Ospedali,
Due immagini che ritraggono tutto l’impegno di Dikembe Mutombo al di fuori del parquet di gioco
scuole e tutto quello che può servire per una vita decente. Il tutto potrebbe sembrare un atto o un gesto bello e dovuto, ma il tutto va oltre visto che Dike non ha mai dimenticato da dove è venuto e come si è costruito tutto quello che attualmente gli è attorno. Inventore del ‘Not in my House’ con il gran ditone che si agitava al seguito di ogni stoppata quando era in maglia Nuggets. Eroe silenzioso nella lotta contro il gigante Shaquille O’Neal nella serie Finale dei Sixers contro i Lakers del 2001. Una serie che forse meglio incarna quello che è il Mutombo uomo: tante botte, tanti contatti e mai una parola fuori posto, mai una lamentela, ma solo parole di sprono e di coraggio per i compagni. Etica lavorativa e morale che ne hanno fatto una sorta di ‘guru’ una sorta di uomo saggio o se voglia o di ‘vecchio saggio’ cosi come era usanza nei villaggi africani. Lo stesso ruolo di saggio che in questa stagione Houston (a dire il vero la stessa proposta gli era arrivata anche da Boston ma l’africano ha deciso di tornare in Texas ndr) gli aveva chiesto di svolgere a 38 anni di età e alla sua 18esima stagione da professionista, specie nei confronti di chi magari aveva bisogno in certi momenti di una parolina in particolare per gestire un carattere non proprio da angioletto (vedi Ron Artest) o magari dispensare quei consigli da ‘vecchio marpione d’aria’ che tanto servivano e che di sicuro serviranno ancora anche ad un giocatore dotato dal punto di vista del talento come Yao Ming. Insomma una figura che l’Nba è abituata a vedere anche se solo in panchina dalla quale ha sempre avuto qualcosa da dire ai suoi compagni. Quella caduta sotto il tabellone di Portland Trailblazers, che gli è costata oltre un infortunio al ginocchio, ma addirittura qualche lacrima per il tanto dolore, sembra aver fatto scattare quella molla che forse in pochi pensavano potesse scattare: il ritiro. Questa l’idea immediatamente dopo il fatto con tanto di dichiarazioni: «Per me il basket fa già parte del passato, mentre ero a terra ho pianto ma poco dopo ho ringraziato il signore per questi 18 anni di carriera». Il condizionale però è d’obbligo. Certo la componente fisica è quella principale, l’età è quella che è ma con un combattente come lui nessuna strada è preclusa, persino quella di rivederlo ancora in campo.
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Altro giro altra corsa, altra serie di playoff ed altra sconfitta per CP3. Quella contro i Nuggets potrebbe addirittura minare il suo rapporto con i suoi New Orleans Hornets
My names is Paul, Chris Paul
DI
A LESSANDRO
DELLI
PAOLI
Non viene dalla Russia, ma da un paesino della provincia americana: Lewisville, e il suo amore è il basket. Una cascata, magari non di diamanti, ma comunque di dollari, gli è precipitata addosso nel momento del suo arrivo nella NBA. Missione Gold(finger), l’ha centrata l’estate del 2008, a Pechino, portandosi a casa la medaglia d’oro olimpica. Non sappiamo se abbia anche la
licenza d’uccidere come James Bond, il personaggio romanzesco e cinematografico di Ian Felming, ma, solo per i nostri occhi, smazza assist pregiati che i suoi compagni di squadra trasformano in canestri spettacolari. CP3 il suo nome in codice, Paul, Chris Paul, il suo vero nome. Chris è un predestinato al successo. Nasce a Lewisville il 6 magio del 1985 e, a 17 anni, vince già il suo primo trofeo di MVP quando prende parte al torneo AAU con il team del ‘Kappa Magic’. Frequenta la locale West Forsyth
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per emergere anche nei ‘pro’: 1.80 cm per 79 kg, ball hadling di pregiatissimo livello, mani veloci in difesa come dimostrano i record abbattuti al college per palle rubate, visione di gioco e capacità di finire in tripla doppia sinistramente simili a quelle di Jason Kidd, un mostro sacro nel ruolo di play. Paul non delude: primo quintetto rookie e il titolo più ambito per un primo anno
High School che trascinerà al record di 27 vinte e 3 perse, nel suo anno da senior, fermandosi solo alle Eastern Regional Finals. Nella sua carriera ai ‘Titans’ realizza una media di 30,8 punti, 8 assist, 5 rimbalzi e 6 rubate a partita e, al suo ultimo anno viene eletto Mr. Basketball dello stato del North Carolina, premio assegnato dal ‘Charlotte Observer’, inserito sia nel quintetto ideale che nell’elenco dei migliori prospetti di High School di tutti gli Stati Uniti e indicato da Associated Press come miglior giocatore di High School del North Carolina. Ma più di ogni altro riconoscimento o premio, è un episodio verificatosi all’inizio del suo ultimo anno all’High School a catalizzare l’attenzione dei media. Chris Paul realizza 61 punti nella partita d’esordio. 61 come gli anni di suo nonno Nathaniel Jones, ucciso da alcuni malviventi qualche sera prima. Paul entra in campo con tutta la rabbia che ha in corpo e la indirizza nel verso giusto, sfoderando una prestazione super. Raggiunta quota 61, Paul decide di sbagliare il tiro libero concessogli per un fallo subito e cristallizzare così il punteggio sulla cifra esatta degli anni dell’amato nonno. Da miglior prospetto dello stato, Paul sceglie il programma cestitico della Wake Forest University e si affida alle cure di coach Skip Prosser. Nel suo primo anno in maglia ‘Demon Deacons’, Chris esprime tutto il suo potenziale, riscrivendo alcuni record dell’ateneo. Conclude con 14.8 punti a gara (con il 46.5% da oltre l’arco dei 3 punti e quasi il 50% dal campo), 6 assists a gara, 3.2 rimbalzi e 2.7 recuperi ad incontro in 33.5 minuti di utilizzo a
serata. Numero uno per recuperi, 84, nella storia del college di Wake Forest, nonché dell’intera Atlantic Coast Conference, ma anche per gli assists (183), per la percentuale da tre punti e per quella dei tiri liberi (con l'84.3%). E il freshman che ha avuto più minuti di utilizzo nella storia dell’ateneo, superando Frank Johnson nel 1977 ed è terzo per numero di partite disputate, dietro a Tim Duncan e Josh Howard. Nominato Rookie dell’anno della ACC; il suo nome e’ inserito nel primo quintetto ideale All-Defensive Team della ACC e nel terzo All-ACC. Convocato dalla nazionale USA Under 20, concluderà la sua esperienza ai campionati di categoria con l’oro. Nel suo secondo anno in maglia bianconera Paul incrementa le proprie statistiche: 15.2 punti (col 45.1% dal campo, il 47.4% da oltre l’arco e l'83.4% dalla lunetta), 6 assists, 4.5 rimbalzi e 2.4 palle rubate con la media minuti pressoché invariata. L’anno da sophomore però sarà ricordato per il pugno rifilato a Julius Hodge di North Carolina, episodio che a CP3 costerà la squalifica e a Wake Forest l’eliminazione dai quarti di finale della ACC, proprio a causa dell’assenza del proprio play, punto di riferimento. Paul decide che due anni di college sono sufficienti e si rende eleggibile al draft dell’anno di grazia 2005. Le dinamiche di un draft NBA sono fuori da ogni comprensione logica ed il talento di Chris Paul scivola alla quarta posizione. Prima di lui Milwaukee sceglie Bogut, Atlanta, Marvin Williams e Utah il play Deron Williams, poi New Orleans poi Chris Paul. CP3 ha tutte le qualità
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NBA, vale a dire il Rookie of The Year 2006 conquistato alla media 16.1 punti (con il 43% dal campo e l'84.7% dalla lunetta), 7.8 assists, 5.1 rimbalzi e 2.2 palle rubate a partita. Insomma, al solo primo anno, Chris si candida a simbolo di una franchigia e di una città, New Orleans in fase di ricostruzione, sportiva e sociale. Lui non si tira indietro e risponde con le sue giocate spettacolari, in campo, e fuori, partecipando alle varie iniziative per le vittime dell’uragano Katrina. Il rendimento degli Hornets nel corso delle successive stagioni cresce parallelamente alle sue cifre (17,3 punti , 8.9 assists, 4,4 rimbalzi e 1,8 rubate a partita al secondo anno; 21,1 punti, 11,6 assists, 4,0 rimbalzi e 2,7 rubate nell’anno della sua consacrazione il 2008). Il rendimento dei ‘calabroni’si innalza vertiginosamente, Tyson Chandler, David West e Peja Stojakovic beneficiano della vicinanza e delle assistenze di CP3. Paul vince la classifica degli assist con 11,6, viene inserito nel primo quintetto NBA e nel secondo quintetto difensivo. Trascina di forza gli Hornets alla post season ed è in lizza per il trofeo di MVP della regular season. Ai play-off sono i San Antonio Spurs, campioni in carica, a negargli la finale della Western Conference, ma solo a gara 7 e, come capita ai grandissimi di questo sport le sue cifre crescono al crescere dell’importanza delle gare (24.1 punti, 11.3 assists, 4.9 rimbalzi, 2,3 rubate
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nelle 12 gare disputate). Discorso diverso per il titolo di MVP. Il riconoscimento va a Kobe Bryant che nell’ultima parte della stagione porta i suoi Lakers al primo posto della Eastern Conference a scapito proprio dei New Orleans Hornets. La stagione è comunque trionfale per Chris e si concluderà nel migliore dei modi all’Olimpiade di Pechino, con la medaglia d’oro al collo e la consapevolezza di essere considerato il numero uno dei playmaker dell’intero globo terrestre. La dirigenza Hornets capisce le potenzialità della squadra e inserisce un James Posey nel motore. L’obiettivo è raggiungere nel più breve tempo possibile il titolo NBA. La sfida è dura, la Western Conference lo è ancora di più. Al momento i ‘calabroni’ sono in lotta per il titolo della Southwest Division e il rendimento di Chris Paul è da MVP: nelle 72 gare disputate finora, 22, 5 punti, 11 assist, 5,4 rimbalzi e 2,8 rubate ed è saldamente in testa alla classifica degli assist. Nel’ultimo mese ha guidato gli Hornets ad un record di 11-5 meritandosi il titolo di Western Conference Player of the Month. Tutto questo forse non basterà per ottenere il riconoscimento di MVP dell’anno. Paul finirà per essere vittima della grande sfida Kobe vs. LeBron. State tranquilli perché CP3 non si arrenderà facilmente, come James Bond, porterà a termine la sua missione. Sia essa il titolo di MVP o l’anello NBA.
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D OMENICO P EZZELLA
Ad LBJ lo scettro della Nba futura Rapido excursus attraverso quelli che saranno i protagonisti dei prossimi anni. Lebron guida la spedizione, Howard, Durant, Paul e Roy i principali antagonisti Il passato è per i nostalgici, il presente è per chi non vuole ne guardarsi indietro ne prolungare lo sguardo troppo avanti. E il futuro? Beh il futuro è riservato a chi magari va avanti di qualche fotogramma su tutto, trasportando quello che è in quello che presumibilmente sarà o se vogliamo sicuramente sarà. La Nba è il mondo ideale per tutti e tre i tipi di soggetti. Un mondo in cui c’è spazio per chi ancora non riesce a togliersi dalla mente le giocate o i nomi dei mostri sacri o di coloro che hanno reso possibile l’evoluzione attuale della Lega: c’è posto per chi ha messo per un attimo nell’angolino della memoria quanto successo negli anni addietro e si gode il presente di un campionato che nonostante tutto e i campioni che ormai appartengono al ricordo, resta sempre uno dei più spettacolari di questo ‘pianeta’ dal punto di vista cestistico. Ed infine c’è chi, invece, si diverte nel prendere quello che accade oggi e spostarlo un po’ più in la nel tempo. Come? Prendendo cosa? La risposta è molto facile: prendendo chi magari oggi ha ancora un’età tale da essere considerato quanto meno giovane e con ancora tanti anni di carriera davanti e cercare di spedirli in un’altra data cosi come Martin McFly faceva con la
2009 Season Statistics PPG RPG APG
28,4 7,6 6,5
sua Delorian. Noi l’abbiamo fatto e quello che ne è venuto fuori è che tra meno di un lustro la National Basketball Association si ritroverà catapultata in un’altra era dove quelli che ora sono i campioni di oggi e con età un po’ più avanti saranno il ricordo del passato, mentre i giovani rampante un presente molto più roseo di quanto si possa immaginare. Un discorso che per alcuni potrebbe anche essere considerato campato in aria, ma bastano un paio di esempi per dimostrare come questo piccolo esperimento ha più di una fondamenta e più di una ragione per essere fatto. Lebron James (24), Dwight Howard (23), Chris Paul (23), Kevin Durant (20), Brandon Roy (24), Deron Williams (24), Derrick Rose (20), Andrew Bynum (21), senza contare chi in questa Lega cio deve ancora entrare. E se l’età non basta a convincervi beh allora di seguito riportiamo le statistiche di ognuno di questi giocatori che tra non molto si cuciranno (per qualcuno è cosa già fatta basti pensare a ‘The Real Chosen One’ o Chirs Paul o ancora Dwight Howard ndr) addosso definitivamente l’etichetta di superstar assoluta in un mondo cestistico che si ripopolerà di più di una rivalità anche se poi alla fine solo uno sarà il ‘Re dei Re’.
2009 Stagione Regolare PPG RPG APG
Nei playoff PPG RPG APG
33,5 10,5 6,5
20,6 13,8 1,4 Nei playoff
PPG RPG APG
21 13 2
2009 Stagione Regolare 2009 Stagione Regolare PPG RPG APG
25,3 6,5 2,8 Nei playoff Non qualificato
2009 Stagione Regolare PPG RPG APG
22,6 4,7 5,1
PPG RPG APG
Nei playoff PPG RPG APG
21 2 2
21 5 11
2009 Stagione Regolare PPG RPG APG
Nei playoff PPG RPG APG
22,8 5,5 11
14,3 8 1,4 Nei playoff
PPG RPG APG
7 3 0,7
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2009 Stagione Regolare PPG RPG APG
19,4 2,9 10,7
2009 Stagione Regolare PPG RPG APG
Nei playoff PPG RPG APG
19,4 2,9 10,7
16,8 3,9 6,3 Nei playoff
PPG RPG APG
18,3 4,3 6,7
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Dubbio amletico per coach Phil Jackson specialmente alla luce della serie giocata dal numero 17 contro gli Utah Jazz. E ora si spera nei Rockets e Yao
Bynum o non Bynum? di Domenico Pezzella E’ il dubbio amletico che al momento pervade ed invade la mente di coach Phil Jackson. Non che il timoniere Zen si faccia prendere dai cosiddetti ‘grilli per la testa’, ma quello legato al suo numero 17 è un rompicapo a cui deve essere trovata una soluzione ed anche in fretta, specie per il bene dei Lakers e per l’obiettivo comune: l’anello. Al momento del suo ritorno in campo e dalle sue ultime prestazioni di regular season era no in pochi a pensare che la gestione di Bynum sarebbe stata una specie di guaio per il tecnico dei gialloviola. Prestazioni di un certo livello di un certo fatturato (16 punti il 9 di aprile contro Denver, 13 contro Portland, 18 contro Memphis e 22 contro gli Utah prima dell’inizio della post season ndr) che avevano riportato nella vetrina losangelina un giocatore si proveniente da un infortunio serio, ma in grado di tenere il campo e di riprendersi il suo posto all’interno dello starting five di LA, ed invece...Ed invece quello delle ultime uscite di di regular season è stato solo fumo negli occhi. Una grossa nube alzata da soffi di vento rappresentati nella nostra metafora da canestri facili con palla generalmente alzata al di sopra del ferro con Kobe Bryant da questa parte dell'arcobaleno, da un ritmo di gara non certo elevatissimo ed in generale un andamento al limite del blando per favorire anche il suo rientro dal punto di vista psicologico. Tutto sembrava funzionare
nel verso giusto, tutto sembrava andare nella direzione migliore per i Lakers e per lo stesso Bynum, ma poi ecco arrivare i playoff. Un altro campionato, un altro tipo di gioco, un altro tipo di intensità e il dilemma di cui sopra ha preso vita in un amen. Il primo sintomo, ed anche quello più evidente, è stata l'esplosività. La serie con i Jazz poteva rappresentare il trampolino di lancio dello stesso Bynum contro una front line non certamente fisica ed alta o con un giocatore (il gemello Collins l’unica vera alternativa ndr) capace di contrastare la sua altezza in post basso. Gara1 e gara2 le unica ad essere timidamente considerate buone per lui, ma i segnali non erano certo incoraggianti. Ricezione profonda a pochi centimetri dal canestro tentativo di schiacciata e fallo subito. Per tutti poteva sembrare un’azione normale, ma non per chi era abituato a vedere i Lakers prima del suo infortunio o quanto meno per lo staff tecnico gialloviola. La sua esplosività non è nemmeno paragonabile a quella di una volta, quando si sarebbe portato palla e difensore sin dentro al canestro invece di arrivare addirittura sul primo ferro e subire il fallo. Se poi a tutto questo ci mettiamo che la mobilità dei lunghi dei Jazz e la sua staticità, allora il resto della serie è presto che spiegata: sette minuti in gara3 e gara4 dove ha chiuso con rispettivamente 4 e 2 punti. Sono stati 12, invece, i giri di lancette concessi da coach Jackson in quello che sembrava il ‘gar-
bage time’ di gara5, ecco sembrava. Nell’ultimo atto della serie Bynum ha dimostrato di non essere a posto non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Il suo atteggiamento in campo non è stato quello di un giocatore voglioso di scendere in campo, di mangiarsi gli avversari dopo i tanti minuti in panchina (motivazione ufficiale riservata alla mossa tattica legata all’utilizzo di Lamar Odom contro Okur e in generale un reparto lungo abbastanza mobile specie sui pick and roll che coinvolgevano Deron Williams e a turno Carlos Boozer o Mehmet Okur ndr). Insomma l’atteggiamento di chi era li per caso o comunque costretto ad essere in campo in una serie che non è mai stata la sua cosi come lo stesso Bynum si aspettava. Ed ora? Il compito più arduo: rimetterlo in piedi sia dal punto di vista fisico che mentale. All’orizzonte si proietta quella che potrebbe essere la serie che lo rilancerebbe contro un ‘big man’ di alto livello, contro un giocatore dove i suoi centimetri e la sua stazza potrebbero fare la differenza. Già ma Bynum avrà la forza mentale, dopo questo primo turno di rialzare la testa e di fare come gli comanda Phil Jackson sapendo che poi da un momento all’altro potrebbe di nuovo finire in panchina cosi come spesso accade nei momento chiave del quarto periodo? E come diceva una famosa canzone: «Lo scopriremo solo vivendo...» e nel caso di specie solo vivendo la serie con i Rockets.
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I ‘defender Champion’ dovranno scalare la montagna che porta alla conquista ‘back to back’ senza il suo leader che assisterà in borghese per tutti i playoff
Quant’è dura senza KG... Molto probabile che al momento della formazione del ‘Big Three’ chiunque in terra del Massachusetts, ma in generale in giro per l’America una domanda se l’è chiesta: chi sarà il ‘Big Three’ più importante? Quale quello indispensabile sia nella vittoria della scorsa stagione sia in quella che può essere la corsa al titolo di quest’anno? Altrettanto probabile che in quella sede in gran parte degli stessi ‘Amleti’ abbiano dato a se stessi la medesima risposta, quella che può essere parafrasata nelle parole
di un noto letterario italiano, Alessandro Manzoni: «Ai posteri l’ardua sentenza…». Una risposta che magari qualcuno poteva pensare di avere, precisamente, tra tanto tempo, ed invece non hanno mica dovuto aspettare tanto. Una stagione. Questo il tempo necessario ai tifosi di Celtics ed in generali agli addetti ai lavori per avere l’illuminazione giusta in materia. Questo il tempo necessario per capire che il vero elemento indispensabile, la vera pedina fondamentale, il vero ago della bilancia bian-
coverde era The Big Tickett al secolo Kevin Garnett. Che l’ex Minnesota è un leader nato e pronto a prendersi le sue responsabilità, non era certo una novità, ma che potesse mancare cosi tanto ad una squadra fatta non certamente dagli ultimi della classe, questo davvero forse in pochi se lo aspettavano. Dal quel 25 marzo (data dell’ultima partita giocata da parte del talento di Farragut Academy HS Illinois) però, giorno dopo giorno, partita dopo partita la sua assenza si è sentita e come. Non
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in termini di punti, non in termini di canestri pesanti o di responsabilità offensiva, visto che gente come Pierce o Ray Allen non fanno certo mancare nulla a Doc Rivers da questo punto di vista. A mancare è quella grinta che solo Garnett sapeva e sa mettere sui ventotto metri di campo quando la faccenda si faceva complicata. L’innato talento di guidare i compagni di squadra nella propria di metà campo cosi come un generale con le sue truppe durante la battaglia. A mancare è quel suo modo di far capire agli avversari che dal quel momento in poi si faceva sul serio e che doveva fare i conti principalmente con lui. Momento che non bisognava certo intuire o immaginare, dal momento che KG te lo faceva capire e basta e con atteggiamenti poi nemmeno tanto inequivocabili. Pressione sul portatore di palla sin dalla rimessa con il suo classico battere le mani a terra prima di tornare nella sua posizione naturale al centro dell’area colorata, bloccare il tiro scagliato da chiunque a gioco
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fermo e dopo un fischio. Questi i marchi di fabbrica di un giocatore che da quel momento rivolta la sua squadra come un calzino nel vero senso della parola. Ed ora? Beh ora tutto questo è quello che manca principalmente ai Celtics. Mancano quelle urla che dalle parti più vicine a canestro dirigevano come un direttore d’orchestra tutta la difesa. Ognuno dei suoi compagni dipendeva da quello che diceva in difesa, ognuno dei suoi compagni aveva sempre un momento (a volte anche se non per volontà propria ndr) per ascoltare quello che aveva da dire o consigliargli o magari urlargli contro dopo qualche ‘fesseria’. Opinione comune agli addetti ai lavori, che gli stessi Allen e Pierce sarebbero addirittura dei difensori migliori quando in campo c’era il numero 5. Ma purtroppo ora non c’è più e non ci sarà per il resto della stagione e quindi dei playoff. «Dobbiamo smetterla di pensare a come sarebbe stato con Kevin o se ci fosse stato Kevin
questo non sarebbe successo e via dicendo. Garnett resterà fuori per tutta la stagione e quindi dobbiamo fare da soli e non credo che sia tanto male». Lo sfogo di coach Doc Rivers nei confronti dei giornalisti al termine della sconfitta di Gara1 contro i Bulls di qualche settimana fa. Parole inequivocabili e dirette, con ogni probabilità, principalmente alla squadra che non sicuramente non aveva ancora metabolizzato lo scotto di dover giocare e di dover fare a meno della pedina più importante del roster. La serie con i Bulls è stato un vero e proprio campanello d’allarme spento grazie al maggior talento dei biancoverdi e l’inesperienza di una squadra che alla fine ha fatto la differenza nonostante momenti di ottima e geniale pallacanestro. Ma l’allarme non è minimamente cessato, anzi, sui Celtics e sul back to back c’è sempre l’ombra del 23 in maglia Cavaliers e li si che l’assenza di Garnett potrebbe essere l’arma decisiva per impedire il back to back all’armata di Boston.
LE STATISTICHE DEI BOSTON CELTICS NEI MESI DI REGULAR SEASON
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I Cleveland Cavaliers sono un rullo compressore, Pistons asfaltati Michael Jordan prima di prendere possesso della Lega dovette passare sul cadavere dei Detroit Pistons che abdicarono nella famosa partita in cui il campo venne abbandonato prima della sirena finale per non dover stringere la mano a quei Chicago Bulls che per anni si erano fermati contro l’ostacolo Pistons e ora, finalmente, agguantavano quella che sarebbe stata la prima di 6 Finali in 8 anni. Bene, il paragone James-Jordan è assai inflazionato, le tipologie dei giocatori decisamente differenti, LeBron una Finale l’ha già giocata, ma il comune denominatore Detroit Pistons è lì da osservare. Chiaro, questi Pistons schiaffeggiati a piacimento dai Cavs non hanno nulla a che vedere con i Bad Boys di Isiah Thomas, ma è difficile non notare, sempre per rimanere in tema di similitudini, che la corsa playoffs dei Bulls di MJ si chiuse nel giugno 1991 contro i Los Angeles Lakers, e se si guarda al tabellone Ovest di questi playoffs 2009 l’indiziata numero uno per il posto nella finalissima viene proprio da L.A. e veste la maglia gialloviola. LeBron ha dominato la serie contro i Pistons con cifre spaventose (32 punti, 11.3 rimbalzi e 7.5 assists di media con più del 50% dal campo), ma soprattutto ha fatto tutto questo dando sempre l’impressione di giocare con le marce basse inserite, quasi non volesse spendere troppe energie. Cleveland nel suo insieme ha dato una prova di forza notevole, mandando un chiaro segnale a chi vuole vedere i Lakers come favoriti per l’anello. Le due gare della Quicken Loans Arena sono state quasi non competitive, con i Pistons a contatto nel primo tempo, salvo uscire dalla partita alla prima vera sportellata da parte degli avversari. A Detroit le cose sono cambiate di poco. In gara 3 è sembrato quasi che i Cavs volessero lasciare la gioia di una W alla squadra del Michigan che però è stata incapace di produrre un qualcosa di positivo in attacco non raggiungendo nemmeno i 70 punti a referto. A quel punto il team di coach Mike Brown (che va a formare con LBJ la coppia Allenatore-Giocatore dell’anno, altro sto-
rico risultato per la franchigia dell’Ohio) non ha perso tempo, chiudendo senza troppi patemi i discorsi in gara 4 e concedendosi così un lungo riposo in vista del secondo turno contro gli Hawks, arrivati invece fino all’ultima partita contro i Miami Heat. Non è però stata solo la serie di LeBron James. E’ stato, infatti, anche il vero esordio di Mo Williams nella postseason (in passato solo 5 partite a 15 minuti di media con i Milwaukee Bucks nel 2005/2006, per altro eliminati proprio da Detroit). Il giocatore considerato come l’aggiunta decisiva per la strepitosa stagione di Cleveland è solo alla prima di una lunga serie di prove del nove, e in questo caso è andato in maniera abbastanza altalenante. Esordio interlocutorio con 12 punti e 5/14 al tiro, bene gara 2 e 4 (rispettivamente 21 e 24 punti con 7 assists in entrambe le occasioni), un mezzo disastro in gara 3 (2 punti e 1/11 dal campo). Come già accennato in precedenza non era questa la serie più probante e forse è stato il modo migliore per rompere il ghiaccio con i playoffs, sapendo di avere a disposizione qualche chances di sgarrare in più. Il suo contributo in fase di costruzione di gioco e le sue percentuali al tiro dalla lunga distanza continuano a rimanere la discriminante per tenere il livello di gioco dei Cavs a un livello superiore. Il resto della squadra ha girato molto bene specialmente in fase difensiva dove Detroit è stata tenuta alla fantascentifica cifra di 78 punti a partita, non concedendone mai più di 84. Varejao è definitivamente un giocatore che nel pitturato sposta gli equilibri con tutte le piccole cose che fà (lecite o meno...), Ilgauskas prosegue la sua carriera mettendo in croce le difese col tiro dalla media distanza e in fase difensiva ha comunque braccia lunghe per disturbare le incursioni avversarie dentro il pitturato, mentre Joe Smith è tornato da subito a far sentire il suo peso nelle rotazioni, facendo scalare Ben Wallace addirittura in posizione di 4° lungo che a ben vedere è un notevole lusso. West, Gibson e Szczerbiak hanno poi pensato a portare ciò che ser-
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viva dal perimetro per un attacco che ha prodotto quasi 94 punti di media tirando col 46% dal campo. L’altra faccia della serie, invece, sono gli sconfitti, i Detroit Pistons. Se fino ad ora sono stati elogi per una squadra, ora si tratta di analizzare quello che probabilmente è stato l’ultimo atto di una grande squadra, che per anni è stati ai vertici della Lega, con due Finali Nba disputate, un’anello di Campioni infilato al dito e una serie infinita di Finali di Conference disputate. Come spesso accade la storia si è conclusa male, con una squadra ormai allo sbando, senza più quella precisa identità di squadra dura, difensiva, di “blue collar players” che l’aveva contraddistinta negli ultimi anni, avendo perso anche il condottiero principe, quel Chauncey Billups MVP nelle Finals del 2004, sostituito da Allen Iverson, chiaramente solo di passaggio in Michigan, ma soprattutto sostituito per fare spazio a Rodney Stuckey, in effetti il migliore dei suoi nella serie (15 punti e 5 assists di media). Una squadra che è andata incontro al proprio destino in maniera consapevole e senza dare l’impressione di poter fare nulla di serio al riguardo. Michael Curry ha provato a impostare, almeno offensivamente, la serie cercando di sfruttare giochi in post basso per i suoi esterni maggiormente dotati di chili (Stuckey) o centimetri (Prince). L’esperimento ha retto solo per poco, ma quando le palle perse e i tiri sbagliati hanno cominciato ad essere un problema da lì sono nati i terrificanti contropiedi dei Cavs che hanno posto rapidamente fine ai giochi. Come detto Stuckey ha dato prova delle sue doti, sorprendendo inizialmente la difesa avversaria che ha impiegato parecchio tempo per prendergli le misure. Le sue accelerazioni, aggiunte al già citato gioco in post sono state uno dei pochi motivi per cercare di ridare vita a una serie altrimenti troppo scontata. Rasheed Wallace, invece, è stato la brutta copia di se stesso, forse in maniera neanche troppo involontaria, mentre Rip Hamilton è finito stritolato nella difesa degli uomini in maglia vinaccia. L’unica nota
positiva è stata Will Bynum. Il mancato acquisto della Virtus Bologna, emerso nel finale di stagione nelle rotazioni degli esterni dopo la defezione di Iverson, ha prodotto 12 punti di media in meno di 20 minuti di utilizzo, tirando con percentuali vicine al 50%. E’ già stata fatta valere l’opzione di prolungamento sul suo contratto e sarà lui uno dei giocatori da cui ripartire, visto che in diversi (Wallace, Hamilton e McDyess, ma non è da eslcudere nemmeno Prince) sono già con le valigie pronte per raggiungere nuove destinazioni. Ora le due squadre pensano ai rispettivi futuri, che non potrebbero essere più differenti. I Cavs continuano la loro missione verso il primo anello della loro storia, i Pistons iniziano una ricostruzione che potrebbe essere molto dolorosa.
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA LJ: «Il lavoro mi ha portato ad essere quello che sono» Antonio McDyess: «Impossibile fermare i Cleveland» GAME 1: Will Bynum: «Non basta una sola persona per fermare LeBron, ce ne vogliono 5! Dobbiamo assolutamente cercare di fare tutto il possibile almeno per rallentarlo». Zydrunas Ilgauskas: «LeBron è veramente inarrestabile quando è concentrato sul raggiungere un obiettivo. Quando è in queste condizioni, con lui puoi solo scegliere il tuo veleno». LeBron James: «Il nostro attacco è cambiato in maniera radicale in questi anni. All’inizio la palla spesso era ferma e dovevo attaccare io il canestro per far succedere qualcosa. Ora invece tutti sono coinvolti. Come gioco d’attacco siamo al top di sempre». GAME 2: LeBron James: «Nel quarto periodo ci siamo sentiti già con la vittoria in tasca e abbiamo smesso di giocare. La cosa più importante è vincere, ma sappiamo di non poter permetterci di non chiudere prima partite del genere».
Antonio McDyess: «Sembra che niente vada nel verso giusto per noi. Dobbiamo giocare la partita perfetta per avere una chance. Loro in attacco sembrano riuscire a fare tutto ciò che vogliono, ma almeno c’è di positivo che dopo questa partita possiamo ripartire da ciò di positivo che hanno fatto i ragazzi della panchina nell’ultimo periodo». GAME 3: Mike Brown: «Una volta che LeBron ha deciso ‘Bene, non stanno fischiando i falli. Mi carico comunque la squadra sulle spalle e la porto alla vittoria’, tutta la squadra ha cambiato atteggiamento e ha giocato in maniera più aggressiva. E’ stato esaltante». Michael Curry: «I grandi giocatori fanno grandi giocate, e questo è quello che LeBron James è. Un grande giocatore». GAME 4: LeBron James: «Ognuno nasce con un determinato numero di capacità. Il tutto sta nel
prenderle, metterle assieme e lavorarci sopra. La mia etica lavorativa mi ha portato ad essere il giocatore che sono oggi». Michael Curry: «E’ una specie di cambio della guardia. Una volta scambiato Chauncey Billups sapevo che questa squadra non sarebbe più stata la stessa».
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Gli Hawks passano tra le ‘fiamme’ degli Heat e di gara 7
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La serie di primo turno più bella è stata Boston-Chicago, la più scontata Cleveland-Detroit, la più equilibrata forse Portland-Houston, la più dura e cattiva senza alcun dubbio Atlanta-Miami. 7 partite piene zeppe di contatti al limite, falli duri, spesso cattivi, tecnici e antisportivi. 6 blowout più una gara 4 combattuta che ha definitivamente indirizzato la serie con Atlanta che aveva tremato dopo la sconfitta casalinga in gara 2. Lo spettacolo non è sempre stato ospite dei parquet della Philips Arena e dell’American Airlines Arena, ma se qualcuno amava il testosterone questa è stata la sua serie. Una serie che è stato esatto specchio delle squadre che si sono affrontate, due squadre emozionali, che vivono una sull’atletismo e l’altra sulle prestazioni fenomenali di Dwyane Wade. Miami sembrava avere in mano la serie dopo la seconda partita in cui le 6 triple a testa del numero 3 e di Cook avevano letteralmento stordito gli Hawks, salvo mostrare tutti i difetti di inesperienza di un roster molto giovane in alcuni ruoli molto importanti (playmaker,Chalmers, 6° uomo, Beasley, tiratore dalla panchina, Cook). Dopo una gara 3 dominata a dir poco è arrivata la suddetta sconfitta nella partita successiva. Da lì in poi tutto sulle spalle di Wade. Ma questi sono i playoff, e anche se sei un fenomeno, e Wade lo è (29 punti, 5 rimbalzi e altrettanti assists di media), una serie da solo non la puoi vincere. Michael Beasley (12+7 col 38% dal campo) ha confermato tutti i problemi messi in mostra durante la regular season rimanendo fuori dalla serie per le prime 4 partite, salvo riabilitarsi un minimo nelle ultime 3, ma nel complesso senza dare un contributo sufficiente. Ancora troppo immaturo offensivamente e soprattutto difensivamente, ha faticato a capire i momenti della partita, spesso forzando tiri (addirittura 25 in gara 6) e alimentando ulteriori dubbi sul suo possibile futuro in questa Lega. Il talento è dalla sua, la testa non si sa. Anche Mario Chalmers, lui invece molto positivo durante l’anno, ha assaggiato il clima dei playoff subendo un giocatore espertissimo come Mike Bibby. Le cifre non sono disastrose (7 punti, 4 assists), ma in generale il suo impatto sulle partite, specie nei momenti difficili, in cui dovrebbe essere il playmaker a mettere la palla nelle mani dei compagni giusti, non è stato
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all’altezza, cosa comunque non drammatica considerando che il ragazzo è al primo anno. Hanno fanno decisamente più male le parole di Wade a fine serie, che in sostanza ha detto che Beasley e l’ex Kansas non sono giocatori adatti ai playoff, parole equivalenti ad una solenne bocciatura. CI sarebbe poi il capitolo Jermaine O’Neal, arrivato da Toronto per dare un riferimento importante sotto canestro e uscito con le ossa rotte, letteralmente, dalla serie. Pachulia lo ha malmenato (ma, per amor di cronaca, va detto che non è stato l’unico a subire il trattamento) e lui è andato sotto, finendo anche per saltare la decisiva gara 7. Per il resto le statistiche sono lì a parlare, una volta tanto: 13 punti e soli 4 rimbalzi. Non è riuscito ad essere quel giocatore che doveva togliere un pò di peso offensivo dalle spalle di D-Wade e dentro l’area ha subito di tutto da Horford e compagnia, anche per un gap di atletismo ormai incolmabile. In definitiva Miami ha commesso il grave errore di non trovare almeno una seconda credibile opzione offensiva da porre al fianco del proprio leader, per difendere il vantaggio acquisito dopo gara 3. Atlanta ha pareggiato e poi viaggiato sulle ali dell’entusiasmo una volta tornata a casa, spinta da un pubblico infuocato. La stagione, comunque, è da considerarsi postiva. Il quinto posto ad est è stato un successo e ad ogni modo si è arrivati alla settima partita contro una squadra certamente più completa. Che ora se la vedrà con Sua Maestà MVP LeBron James, avendo dimostrato ancora di essere una compagine che se riesce a metterla sull’agonismo, sul contropiede e sull’atletismo può fare almeno un pò di paura, specie in casa. Josh Smith ha continuato la sua crescita come all-around di livello All Star. Il tiro da fuori manca ancora di continuità ed è probabilmente quello che lo separa dal divenire un vero e proprio fenomeno a livello assoluto, ma nel frattempo ha scherzato la front line degli Heat con
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penetrazioni, movimenti di forza in area e volate terminate con poderose schiacciate in contropiede. Come tutta la squadra deve cambiare l’approccio e il rendimento in trasferta (cosa peraltro complicata dall’ostilità da parte del pubblico della Florida per un tentativo di schiacciata in mezzo le gambe nel garbage time di gara 6) dove spesso non riesce a rendere come in Georgia. L’altro leader della squadra, Joe Johnson, ha avuto pure lui i suoi problemi, specialmente all’inizio della serie, ma ha poi piazzato le prestazioni decisive in gara 5 e 7 (25 e 27 punti) per mandare gli Hawks al secondo turno. La prima opzione offensiva continua a rimanere lui, ma contro Miami ha avuto difficoltà ad attaccare il ferro per concquistare tiri liberi con l’attacco che è andato un pò a singhiozzo, figlio più in generale di una squadra abbastanza discontinua e che se non riesce a incendiare la partita con qualche giocata di pura energia rischia sempre di prendere delle severe pas-
sate, come puntualmente accaduto in questa serie. Per cercare di ovviare a questo problema è necessario recuperare appieno sia Horford che Marvin Williams, entrambi con problemi fisici che ne hanno limitato i rendimenti, con Williams out per alcune partite. Hanno posto una falla dalla panchina Flip Murray e Zaza Pachulia. Il primo è uno dei giocatori più imprevedibili della Lega e entramdo in campo ha alternativamente lanciato i parziali vincenti o distrutto le speranze di vittoria dei suoi con le sue scelte offensive, mentre il secondo, idolo incontrastato del pubblico di casa, ha lavorato durissimo sotto i tabelloni facendo il lavoro sporco contro i lunghi avversari e alla fine risultando decisivo per coach Mike Woodson. Ora come detto sotto con i Cavs, ma l’impressione è che Johnson e soci siano già soddisfatti di essere arrivati qua, consci del fatto che contro LBJ e la sua truppa non ci sarà molto su cui negoziare.
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Josh Smith: «Ci siamo tolti la scimmia dalla spalla» Dwayne Wade: «Una stagione incoraggiante» GAME 1: «Non possiamo, nè dobbiamo pensare a nessun altro» ha detto Joe Johnson. «Dobbiamo essere padroni del nostro destino». GAME 2: «Non abbiamo iniziato il match con la concentrazione dovuta - il commento di Josh Smith - e non abbiamo giocato di squadra». Dwayne Wade: «Semplicemente ‘This is where amazing happens’» GAME 3: «Sapevamo che il palazzo sarebbe stato elettrico, così siamo partiti con l'acceleratore premuto» ha detto Wade. «Siamo anche riusciti ad essere davvero concentrati nella nostra metà campo». «Non siamo assolutamente fuori dai playoff» ha detto Mike Woodson. «Ma non possiamo giocare come abbiamo fatto stasera». GAME 4: «Questi sono i playoff» ha detto il coach degli Heat Erik Spoelstra. «Dobbiamo concentrarci per le prossime 48 ore per essere in forma fisicamente, prepararci mentalmente e
farci trovare pronti per la partita». «Non è finita» ha detto il coach degli Hawks Mike Woodson. «Ora dobbiamo tornare a casa. Siamo sopravvissuti a questa trasferta, ora torniamo ad Atlanta e vinciamo gara 5». GAME 5: «Non è certo un bel segno» ha detto Zaza Pachulia, uno dei panchinari di Atlanta. «Nei playoff c'è bisogno di tutti». «Alla fine si è trasformato in uno show da giocolieri, hanno davvero cercato di umiliarci» ha detto Spoelstra». GAME 6: «Non c’è nessuna pressione su di noi afferma Wade - siamo gli sfavoriti in questa serie». Josh Smith non ha dubbi: «La parola Gara 7 parla da sola, sarà il campo a decidere». GAME 7: «Ci siamo tolti la scimmia dalla spalla: Atlanta is back, l’intera città è tornata- ha dichiarato Smith». «Sono contento uguale - le parole di Wade - una stagione incoraggiante».
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Orlando è ‘Magic’ anche senza ‘Superman’, Phila rimandata ad ottobre Una serie girata in due partite. Una serie girate nelle ultime due partite, quelle che hanno permesso ai Magic di staccare il primo biglietto, il primo tagliando e di presentarsi al cospetto della detentrice del titolo, anche se poi tecnicamente e temporalmente sono stati i Celtics (prossimi avversari ndr) gli ultimi ad iscrivere il proprio nome all’interno delle prossime semifinals della Eastern Conference. Gara5 e gara6. Questi i due match a cui si faceva riferimento in precedenza e che hanno delineato la strada finale. A dire il vero secondo alcuni addetti ai lavori la stoccata vera e propria Orlando l’ha mandata a bersaglio con quel tiro allo scadere di Hedo Turkoglu che ha pareggiato la serie e che ha dato o meglio restituito a coach Sten Van Gundy un giocatore che poi ha fatto tutta la differenza del mondo. Insomma una sorta di prolungamento di quello scorcio di gara4 le due successive; una sorta di battaglia inutile per i Sixers che con ogni probabilità hanno pagato lo scotto carissimo (cosi come nella scorsa stagione ndr) di essere ancora una squadra giovane, ancora una squadra poco abituata a giocare partite di altissimo livello nel giro di poco tempo e di pochi giorni, specie poi se si è con le spalle al muro. Presentarsi in gara6 tra le mura amiche del Wachovia center per poi essere presi a schiaffi in piena faccia dai Magic privi di Dwight Howard è sintomo prima di tutto di una concentrazione e di una situazione psicologica sostanzialmente non tranquilla. Andre Miller, Teo Rathliff e Donyell Marshall gli unici che nel roster dei Sixers possono garantire un briciolo di esperienza in questo tipo di partita, ma troppo poco sia per talento che per carta di identità con il solo metronomo ex Clippers a provare a guidare a fare da lanterna ad una serie di giovani soldati che non appena avranno la consapevolezza piena ed assoluta di essere un esercito di grande valore potranno anche camminare e combattere da soli, ma non adesso. Situazione che i Magic non potevano non sfruttare, non potevano non girare a proprio vantaggio, anche perchè il team della Florida qualche giocatore di esperienza e con partite importanti alle spalle dovrebbero anche avercelo. Primo fra tutti il turco ex Sacramento e poi Rashard Lewis. L’ex Seattle non avrà certo sul suo curriculum quella famosa serie, ma soprattutto quella famosa gara7 contro i Los Angeles Lakers del 2002
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42 nella Sacramento migliore mai vista in questa Lega, ma di sicuro dai suoi anni passati ai Sonics e al fianco di giocatori di livello e di esperienza, dovranno pur contare, ed infatti...Ed infatti è stato proprio l’uomo silenzioso (cosi come lo era stato prima di uscire allo scoperto, Gortat eroe di gara5 con 11 punti e 15 rimbalzi) fino a quel momento e decidere il tutto con una prestazione che ha restituito a coach Van Gundy l’altro giocatore che gli era mancato IL FUTURO. QUI PHILADELPHIA: L’imperativo e la domanda principale che si staranno ponendo nella stanza dei bottoni è quella legata al futuro o meglio a quello che sarà il primo nodo da sciogliere per mettere in campo i Phila del futuro: il coach. Questa l'incognita da risolvere, l’incognita da eliminare in un’equazione, che a conti fatti, ha dato dei buoni risultati e delle
ottime indicazioni. Insomma Tony Di Leo o non Tony Di Leo? Questo il problema, questo il dilemma da risolvere consapevoli con sarà nemmeno l'ultimo, visto che da qui alla ripresa delle ostilità per il team dell’amore fraterno ci saranno tappe importanti come quella dell’inserimento di colui che nell’estate scorsa era arrivato con il compito di portare Philadelphia al piano superiore rispetto alla passata stagione, colui per il quale il front office ha fatto uno sforzo economico non indifferente per assicurare un giocatore di livello per questa Lega, Elton Brand, ma che ha fatto vedere ben poco sia dal punto di vista tecnico-tattico (mal si conciliava con il sistema denominato ‘Phila old style’ o per meglio dire al run and gun della passata stagione) che dal punto di vista proprio di continuità. Insomma un’estate rovente, un’estate ricca di temi e di certezze, specialmente che il gruppo resta un qualcosa di intoccabile se si vuole rivedere i Sixers lottare per un qualcosa che non sia un primo turno di playoff elettrizzante, ma niente di più di questo. QUI ORLANDO: E ora pensando al futuro, di sicuro non sarà dispiaciuto allo staff tecnico guidato da coach Sten Van Gundy l’allungamento fino all’ultima gara prevista dal calendario dei prossimi avversari. Di sicuro l’ambiente sarebbe stato al settimo cielo se il nome degli stessi sarebbe stato diverso e magari ci fossero stati i Bulls anziché dei Celtics, ma non si può avere tutto dalla vita. Senza contare che per diventare grandi bisogna battere i grandi e con tutto rispetto per i giovanotti di Chicago e di Del Negro quale migliore consacrazione per i Magic che cercare di passare alla finale dell’Est battendo i campioni in carica. Una serie interessante, che si preannuncia ricca di temi tecnici compreso quello della filosofia di base della squadra. Incentrare tutto sul tiro da tre punti contro una squadra che ha nel centro e nel mezzo il suo punto meno forte per non dire debole, potrebbe essere un vero pericolo per i Magic, anche se snaturare il gioco di una squadra in questo momento non è nemmeno la cosa ideale da fare. Ma i playoff sono fatti di aggiustamenti, di partite viste e riviste e di sicuro a Van Gundy e soci non saranno sfuggite quelle giocate in regular season anche se si trattava di Celtics diversi e con un doppio vuoto in più nella front line con le assenze di Powe ma soprattutto di KG.
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Van Gundy: «Che bravi senza Howard» Di Leo: «Abbiamo concesso un po’ troppo» GAME 1: «E’ stata una buona lezione per noi» ha detto Turkoglu. «Non ti puoi permettere di andarci facile contro nessuno nei plaoff» GAME 2: «Tre sere fa abbiamo messo i tiri giusti» ha detto il coach dei Sixers Di leo «questa sera abbiamo avuto alcune possibilità di prenderci i tiri importanti ma li abbiamo falliti». GAME 3: «E’ stato il tiro più importante della mia carriera» ha detto Young «è stato un tiro fortunato e sono contento di averlo messo e che la palla sia finita nelle mie mani». GAME 4: «Il coach ha fiducia in me ha detto Turkoglu, che era 7
su 30 dal campo nella serie «ha chiamato un gioco per me e io sono contento di aver realizzato il tiro». GAME 5: «Dwight Howard è un grande giocatore ma si trattiene troppo nell’area dei tre secondi, sia in attacco che in difesa» attacca Di Leo «è un grande giocatore e non ha bisogno di questi vantaggi». GAME 6: «L’unica cosa che ho detto ai ragazzi negli spogliatoi, prima della gara, è stata: siate grandi!» ha detto coach Stan Van Gundy «abbiamo aumentato il nostro valore senza colui che è il nostro uomo simbolo in mezzo all’area pitturata: Dwight»
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Celtics, i regnanti non mollano il trono Rose e i Bulls resistono ben sette gare
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Una serie epica, 23 anelli in totale (anche se solo uno nell’ultimo decennio) per due delle tre squadre più titolate di sempre, 371’ di emozioni (9 gare e un quarto FIBA per intenderci) e una delle sfide più avvincenti che la storia dei playoff NBA abbia mai ricordato. Tutto ciò è stato Boston CelticsChicago Bulls, l’accoppiamento più incerto ed imprevedibile del primo turno della postseason 2009, non solo dell’Est, ma dell’intera Lega. Alla fine l’hanno spuntata i verdi di Doc Rivers, capaci di sudare sette camicie (e sette gare) malgrado l’assenza di uno dei Big Three, Kevin Garnett, ai box da metà febbraio per problemi ad un ginocchio. Ma anche i Tori dell’Illinois hanno dovuto rinunciare ad una pedina fondamentale del calibro di Luol Deng, il che ha ridotto ancor di più la già ridotta rotazione di coach Vinnie Del Negro, alla sua prima annata da capo allenatore. Si diceva serie emozionante e come può essere altrimenti? Sette overtime, scarti minimi in 5 delle 7 gare e tanta adrenalina. Alla fine la maggior esperienza della formazione di ‘Beantown’ è stata decisiva nelle gare interne. Pierce e Allen (il vero ago della bilancia) si sono fatti trovare pronti nei momenti caldi e con qualche errore in meno la serie sarebbe andata in archivio anche prima. Rondo è stato superlativo (19.4 punti, 9.3 rimbalzi e 11.6 assist) ed ha viaggiato su cifre astronomiche degne di colossi del calibro di Magic Johnson o Kidd. I lunghi Davis e Perkins sono progrediti con il passare delle gare e a turno si sono rivelati preziosi nel dare il loro apporto alla causa. La nota negativa è stata la panchina, incapace di incidere a dovere: Moore e Marbury semplici comparse, House troppo intermittente, seppur decisivo in gara-7. L’infortunio di Powe, poi, assottiglia ulteriormente il reparto lunghi di Doc Rivers, mentre Scalabrine ha dimostrato di avere una marcia in più da ‘4’ atipico negli ultimi match, guadagnandosi il titolo di ‘best-kept secret’ del primo turno. Purtroppo a Boston quest’anno mancano atleti preziosissimi del calibro di Cassell e Posey. I Bulls hanno lottato finché fisico e mente hanno retto. Impensabile giocare quasi otto gare in sette elementi (Hunter si è sempre accontentato delle briciole e per gli alti giusto una toccata e fuga) e alla lunga la stanchezza ha pesato. Per Derrick Rose non poteva esserci esordio migliore nei playoff e, anche se con qualche pausa, il numero uno del draft 2008 ha dimostrato di che pasta è fatto. Quando lui ha girato i suoi sono stati sempre in partita o hanno primeggiato. Sarà un caso ma, ‘bella’ a parte, nei 4 ko non ha mai brillato. Gordon ha spesso cantato e portato la croce nei frangenti decisivi e Salmons ha giocato la sua prima postseason da protagonista. Chicago poteva e doveva vincere le sfide nel pitturato, ma non sempre i tre interni hanno offerto garanzie in contemporanea. Troppo alterni Thomas e Miller, mentre Noah sì è fatto sentire soprattutto a rimbalzo, pur mostrando ottime giocate in attacco, dove i suoi limiti tecnici sono più evidenti. E Hinrich, spesso usato per fancobollare Rondo, non è riuscito ad essere efficace su entrambi i lati del campo perdendo a volte lucidità nella metà campo avversaria. Ora per i Celtics ci saranno gli Orlando Magic, che hanno riposato di più, ma devono fare i conti con assenze pesanti del calibro di Jameer Nelson e Courtney Lee, L’ostacolo più grande da superare sarà ‘Superman’ Howard in vernice, sena dimenticare che Lewis e Turkoglu se in forma sono scomodissimi per chiunque. Dal canto suo Boston ha un duo difficilmente arginabile (Allen-Pierce) e un Rondo così non farà dormire sonni tranquilli a ‘Skip to my Lou’ Alston. LA CRONACA GARA-1 - La serie si apre immediatamente con un upset (103-105 Chicago) e uno straordinario Derrick Rose, il rookie of the year 2009, che gela i fan del TD Banknorth Garden esordendo nei playoff con 36 punti a referto (12/12 dalla lunetta, compresi i liberi che valgono l’overtime) e 11 assist. Il giovane ‘cervello’ dei Bulls sfida a suon di penetrazioni Rajon Rondo (29), ringrazia la serata ‘no’ di Allen (4 punti con 1/12, 0/6 da 3) e il regalo di Pierce (23) che butta al vento la chance di chiudere il match al 48’ fallendo un libero che si stampa sul ferro. Nel prolungamento è Tyrus Thomas a chiudere i conti con 8 dei suoi 16 punti segnati per lo più lontano dall’anello, ben spalleggiato sotto le plance da Brad Miller e Noah, dominanti a rimbalzo. GARA-2 - L’orgoglio di Boston però è duro a morire e già nella seconda sfida al Garden la musica cambia: Ray Allen è indemoniato e cancella il flop dell’avvio con un trentello e la tripla della vittoria (118-115) sulla sire-
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na, mentre Rondo è autore di una esaltante tripla doppia (19 punti, 12 rimbalzi e 16 assist) che gli consente di stravincere il duello con Rose, che si ferma a 10 e 7 assist. Per Chicago Gordon fa pentole e coperchi (42 con 6/11 da 3), in un duello a suon di triple tra ex UConn con Allen, mentre Miller (16+9) rende più di Thomas e Noah, quest’ultimo reo di chiudere il ritardo sul siluro decisivo di Allen. Le altre note liete per il trifoglio vengono da un ‘Big Baby’ Davis da 26 punti e 9 rimbalzi. Proprio gli extrapossessi conquistati sotto i tabelloni dai lunghi di casa (Perkins 16 punti e 12 carambole) si rivelano fondamentali, anche a scapito di una panchina improduttiva e di un Pierce da ‘soli’ 18 punti. GARA-3 - La disputa si trasferisce nella Windy City sull’1-1 e subito i biancoverdi riconquistano il vantaggio del campo restituendo ai Chicago Bulls lo sgarbo patito in gara-1. L’86-107 finale non dà alibi a Noah e compagni ed è l’unico match a senso unico. I Celtics devono rinunciare anche all’altro lungo Powe, il cui ginocchio ha ceduto nella seconda lotta, ma il backcourt del Massachusetts è inarrestabile. Pierce (24), Rondo (20 e 11 rimbalzi) e Allen (18) annichiliscono i rivali e soprattutto Gordon e Rose non riescono ad incidere sulla partita. Anche Marbury, stranamente, dà un buon apporto (13 e 5 assist) e le cifre ottime dall’arco (11/21) confermano la superiorità del pacchetto esterni di Doc Rivers. Impressionante,poi, la quantità di Glen Davis 14 punti, 9 rimbalzi, 6 assist, 6 recuperi e 3 stoppate. Chicago, invece, tenuta in piedi da Gordon (15), Salmons e Hinrich (14 a testa), dimostra di avere poche energie ed alza ben presto bandiera bianca, perdendo ben 22 palloni e sbagliando tanto anche dalla linea della carità. GARA-4 - Ma chi pensava che il cappotto della ‘prima’ allo United Center avesse indirizzato la serie verso il New England si sbagliava. I Bulls soffrono, ma dopo due supplementari piegano 121-118 Boston. Derrick Rose flirta con la tripla doppia (23+11+9), fallita per un assist, ma ben sette biancorossi vanno in doppia cifra. Gordon (22, compreso il missile terraaria che impatta al termine del primo overtime) è una costante, mentre Salmons (20) ne mette 8 nel secondo extratime e firma la stoppata decisiva su Pierce. Tutti danno il loro contributo: dal pino Miller e Hinrich (ottimo
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in regia) combinano 30 punti in tandem, mentre Tyrus Thomas griffa una doppia doppia (14+10). Tra i bostoniani, che prima allungano la gara con una tripla di ‘He got game’ Allen (28 e fondamentale nel primo OT) e poi restano a galla grazie a Pierce (29), magistrale performance di Rajon Rondo che fa registrare la seconda tripla doppia di fila (26+11+11) che però stavolta non evita il ko, così come è vana la sostanza di Perkins (15) e Davis (10+11) in vernice. Ed è ancora parità. GARA-5 - La quinta al TD Banknorth Garden non delude e anche qui servono 5’ aggiuntivi per decretare il vincitore. Un’altra battaglia nella bolgia verdeggiate, la terza finita oltre i canonici 48’, che arride ai Celtics (106-104) di super-Rondo (28 punti, 8 rimbalzi e 11 assist), decisivo nella risalita da -11. A chiudere il match è ‘Double P’ che con 10 dei suoi 26 punti lancia il team della costa Est nonostante qualche forzatura di troppo. Perkins (16+19 e 7 stoppate) e Davis (21 punti) stavolta fanno buona guardia nel pitturato, contro i discreti Noah (11+17) e Thomas (12). Di contro Rose non brilla e Gordon (26) non ha percentuali esaltanti dal campo. Hinrich (19) e Salmons (17) si danno da fare, ma lo 0/2 di Brad Miller a 3” dalla sirena condanna la banda Del Negro alla resa. GARA-6 - Fortuna che si ritorna allo United Center, il tempio che dal ’94 vide ‘Sua Altezza’ Jordan regalare giocate incredibili e il secondo threepeat al pubblico dell’Illinois. Questa gara è
il simbolo di una serie combattutissima, 128-127 in favore dei Bulls dopo ben tre supplementari. Un’altalena di emozioni: da un lato Salmons (35), Rose (28) e un infallibile Miller (23 con 8/9 dal campo e 10 rimbalzi), dall’altro Ray Allen, che ne infila 51 con 9/18 da 3, Davis (23) e Pierce (22+9). L’intensità non manca per tutti e 63 i minuti ma a decidere l’incontro sono Joakim Noah e Derrick Rose. Il pivot a 35” dalla fine sul 126-125 ruba un pallone che vale platino a Pierce e va a realizzare subendo anche fallo di P Square, che arriva a quota sei penalità e lascia il match. Il 2+1 dell’ex Florida è un’ipoteca ma vale altrettanto la stoppata di Rose su Rondo (stavolta più al servizio dei compagni, visti i 19 assist) a 3” dal fischio finale. Ininfluenti i due errori in lunetta del playmaker, visto che Boston non riesce ad effettuare la preghiera conclusiva. GARA-7 - La ‘bella’ della ‘instant classic’ dell’anno va in scena sul parquet incrociato del nuovo Boston Garden. E i Leprecauni non si lasciano scappare l’occasione di chiudere definitivamente i conti. Il 109-99 di fine gara è più netto della superiorità mostrata da Pierce (20) e compagni. Due protagonisti inattesi si rivelano ‘Veal’ Scalabrine (8) e Eddie House (16 con 4/4 nelle triple), capaci di rendersi efficaci sia nello strappo del secondo periodo, che risulterà poi decisivo, sia nel rintuzzare il prepotente rientro dei Bulls. Ray Allen è ancora una volta in grado di spostare gli equilibri, seppur dimezzando il fatturato della precedente sfida (23 con 2/5 da 3) e le
seconde linee sono finalmente protagoniste e sopperiscono all’assente ingiustificato Rondo, a corto di ossigeno proprio nell’incrocio conclusivo. Gordon si affida più al fisico che alla tecnica (33, con 15/15 ai liberi), mentre Rose approfitta del calo del dirimpettaio per bruciarlo in entrata. I turnover restano il problema principale dei Tori che sprecano un’infinità di occasioni e anche le percentuali ne risentono. Il cast di supporto non dà una grande mano alle due stelle ospiti, mentre Davis (15) e un Perkins da 13+14 finalmente riescono a tener testa a Noah e soci nell’area dei 3”. Nel periodo conclusivo i viaggianti spaventano la truppa di Rivers. Hirnich e Gordon riportano a -3 (89-86 a -5’39”) Chicago, ma prima una tripla di House e poi l’infallibile Pierce dalla lunetta tengono a debita distanza il sodalizio dell’Illinois. Pericolo scampato per i campioni uscenti che hanno lottato con le unghie e con i denti per restare ancora in gioco, ma per proseguire la corsa almeno fino alla finale di Conference, che al momento sembra l’obiettivo massimo raggiungibile da questi Celtics, servirà un salto di qualità da parte di tutti e una difesa più convincente rispetto a quella mostrata nel corso delle sette battaglie disputate contro la squadra allenata da Vinnie Del Negro. Chicago, invece, esce a testa alta e contro i pronostici di illustri analisti ed opinionisti che consideravano un fuoco di paglia il brillante rush finale della franchigia di Windy City. E con un Rose da favola...
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L’orgoglio di Pierce: «Finché non ci battono i campioni restiamo noi» Coach Vinnie Del Negro: «Un’esperienza molto utile per il futuro» GARA 1: Derrick Rose: «Siamo entrambi molto competitivi in campo - dice sulla sfida con Rondo -. Ho cercato di attaccarlo sempre. È stato divertente». Doc Rivers: «Spero che questa sia la sveglia e ci faccia capire che i Bulls non sono solo un team felice di essere nei playoff». GARA 2: Paul Pierce: «Siamo molto fiduciosi perché sentiamo di non aver ancora giocato un buon basket. Il meglio deve ancora venire». Vinnie Del Negro: «Abbiamo concesso 21 rimbalzi. E’ impensabile vincere una gara così, specie nei playoff». GARA 3: Glen Davis: «Quando giochiamo un basket da Celtics credo sia difficile segnare contro di noi. Oggi l’abbiamo
solo fatto meglio». Vinnie Del Negro: «Abbiamo sbagliato tanti tiri liberi e la circolazione di palla è stata pessima; bisogna dare merito ai Celtics, sono i campioni in carica e giocano fuori casa meglio di chiunque». GARA-4: Ben Gordon: «Tutti quelli con cui ho parlato mi hanno detto che questa è la serie più emozionante che abbiano mai visto». Rajon Rondo: «Siamo pari e ce la giochiamo, ma bisogna dar loro merito di rimanerci incollati, continuando a combattere». GARA 5: Paul Pierce: «Fino ad oggi non avevo giocato bene in questa serie, ma per me era arrivata l’ora di lasciare il segno».
Joakim Noah: «Pierce è stato incredibile, tutti hanno scagliato tiri pazzi ed è stata tutta una questione di chi ha preso il tiro decisivo a fine gara. Abbiamo avuto le nostre chance, ma li possiamo battere». GARA 6: Derrick Rose: «E’ totalmente assurda, ma penso sia difficile non amarle questa sfida». GARA 7: Paul Pierce: «È stata una lunga ed estenuante serie, per quanto mi riguarda una delle più difficili mentalmente. Grazie a Dio abbiamo superato il test e finché qualcuno non ci sbatte fuori siamo ancora noi i campioni». Vinnie Del Negro: «Era la prima volta per molti dei nostri ragazzi. Credo che un’esperienza come questa ci sarà utile per il futuro e può solo farci migliorare».
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I Lakers cedono il passo una sola volta e ora sotto con Houston Fuori uno. I Lakers battono gli Utah Jazz e cancellano il nome del primo avversario e le prime cinque partite dal countdown verso quello che dovrebbe essere il primo titolo dell’era assoluta di Kobe Bryant. Un titolo inseguito per troppo, tanto tempo e al quale, ormai, il figlio di Jelly Bean non può più rinunciare. Questo sembra essere l’anno buone, questo sembra essere la stagione giusta per fare quel passo in avanti che la scorsa stagione, invece, mancò ai gialloviola per evitare che i Celtics tornassero sul tetto del mondo. Le prime prove generali sono state fatte in quella che poteva essere anche una serie scontata, ma che ha offerto comunque degli spunti importanti, nella buona e nella cattiva sorta, in casa Lakers ed in casa Utah ed in generale per due formazioni che sono destinate a vivere un finale di stagione totalmente diverso. Cinque partite per scrollarsi di dosso un cliente scomodo, pericoloso, ma che alla fine ha fatto quello voleva solo ed esclusivamente in gara2, la prima alla Energy&Solution Arena tra i tifosi di casa. Ad onor del vero i Jazz hanno faticato tantissimo anche in quel match vinto con tiro allo scadere di Williams dopo due episodi in cui era stata Los Angeles a comandare nella versione della serie all’ombra di Hollywood. Una Los Angeles che in casa è generalmente tutt’altra squadra a partire dal suo leader a partire da colui che comanda le legioni verso la crociata più importante. Un Kobe casalingo ed uno da trasferta se vogliamo dividere cosi i capitoli del ‘Mamba’. Ecumenico, passatore e altruista, lasciando che i compagni si prendano le loro responsabilità per poi entrare in azione in quei momenti che lui definisce come del bisogno. Se ne sono accorti i Jazz che nelle prime due uscite hanno dovuto fare i conti con i vari Gasol, con i vari Odom, Ariza e a sprazzi anche con Andrew Bynum, prima che Ronnie Brewer potesse scoprire cosa volesse dire marcare Kobe Bryant. Un modo di giocare che i giolloviola hanno tentato di mettere in atto anche nella prima a Utah scoprendo che poi non era il caso di scherzare con il fuoco lontano dal parquet dove tutta Los Angeles si sente più forte ed allora ecco venir fuori la prestazione da Kobe Bryant di Kobe Bryant che ha dato un segnale forte e chiaro. Cosi come forte e chiaro è arri-
vato il messaggio che quella angelina è una squadra che presenta una ‘disfunzione’ che in vista dell’obiettivo finale può anche essere pericolosa e non poco. Gialloviola che hanno dimostrato una facilità disarmante nello accendere e spegnere l’interruttore del gioco e del talento. Un qualcosa che di sicuro non fa felice Phil Jackson che per esempio nella gara conclusiva è stato addirittura costretto a fare due delle cose che forse odia di più a partire dal momento in cui il match per il coach Zen è entrato all’interno di quel momento e di quella fase che in genere prende il nome di ‘garbage time’ e cioè: chiamare time out e fermare la rimonta degli avversari rimettendo in campo il suo quintetto migliore, ancor di più se poi Utah nel caso di specie lo ha fatto con le seconde linee. Un tassello su cui lavorare, un tassello che di sicuro gli addetti ai lavori a curare gli avversari, delle altre formazioni che si dovranno ritrovare i Lakers sulla strada, avranno preso nota con un bel asterisco e da mostrare a chi di dovere. Una situazione preoccupante, visto che di fronte Los Angeles non si ritroverà sempre una squadra dal mancato killer istinct o magari con la testa altrove impreparata a contrastare difensivamente il momento del ritorno alla normalità per Kobe e compagni, specie se poi i prossimi avversari portano il nome di XXXXX. Ma la prima serie del 2009 non ha dato solo segni un tantino preoccuapanti (all’interno dei quali rientra anche la questione Bynum trattata a parte qualche pagina dietro ndr), ma anche delle certezze per lo staff tecnico del coach che oltre a barba e baffi per questione di scaramanzia si è anche presentato alla prima dei playoff con l’anello vinto nel 2002. Lamar Odom. Questo il nome più in voga tra gli addetti ai lavori losangelini, questo il nome più in voga tra la stampa locale, ma soprattutto questo il nome più atteso da parte di tutti i Lakers. L’ex Miami è stato la chiave di volta della serie. L’arma principale in difesa di coach Jackson che per i suoi servigi è stato costretto addirittura a relegare a tanti minuti di panchina il rientrante Bynum in netta difficoltà nei confronti di una front line avversaria non certo congeniale alle sue caratteristiche fisiche. Insomma con questa serie il newyorkese di Rhode Island ha dimostrato che le
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velleità da titolo dei Lakers dipenderanno tanto dal suo rendimento e dal suo approccio ai match e per informazioni chiedere agli Utah Jazz. Utah Jazz che da par loro hanno chiuso una stagione difficile, con tanti contrasti all’interno e si avviano alla definizione di un roster all’interno del quale ci saranno alcune cose da chiarire e da sistemare. Prima di tutto quella legata alla situazione di Carlos Boozer. L’ex Duke da quando ha fatto sapere di volersi comunque guardarsi attorno al termine di questa stagione per cercare qualcosa di meglio, ha visto cambiare più di una cosa all’interno dello spogliatoio e non solo per colpa dei compagni. Il suo atteggiamento in alcuni casi da giocatore che pensa più al futuro che al presente, hanno un po’ fatto storcere il naso ai compagni di squadra. Non magistrale la sua serie contro i Lakers anche se dalla sua l’ex Cavs potrebbe utilizzare l’attenuante di uno scontro impari contro i vari Gasol, Bynume etc (sotto per velocità e impegno contro il catalano, sotto per centimetri contro Bynum e sotto anche contro Odom che ha fatto praticamente il bello ed il cattivo tempo) per via di centimetri. Ma in certi casi le attenuanti contano a poco, specie se poi sei alla ricerca di un nuovo contratto che potrebbe anche arrivare dalla squadra attuale. Insomma non una bella situazione e che contrasta fortemente con quella, invece, di Deron Williams. I Jazz ripartiranno da lui, da colui che non ha mai mollato, da colui che è stato maggiormente penalizzato da una situazione che necessità di una chiarezza; si ma dopo i quindici giorni di distacco totale di Jerry Sloan che come sempre li passerà su di un trattore a controllare la semina nel suo ranch. Trascorsi i quindici giorni la nuova stagione di Jazz potrà essere considerata ufficialmente avviata.
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Jackson: «Stufo di portare sempre lo stesso anello» D-Williams: «Gli infortuni ci hanno penalizzato» GAME 1: «Sono stufo d’indossare sempre lo stesso», ha detto Jackson parlando di quello del 2002, ultimo titolo vinto coi Lakers. «L’ho indossato per sette anni ormai». GAME 2: «Iniziamo forte per poi permettere loro di tornare in partita. Sta diventando una costante ma stiamo lavorando per evitare tutto questo». Parola di Andrew Bynum. «Un giorno Deron diventerà un bad boys dichiara Bryant - dal punto di vista del giocatore, un bad boys che cambia le partite, è questo quello che ha dimostrato». GAME 3: «Stasera li abbiamo attaccati spesso, invece di lasciar fare loro ciò che volevano», ha detto il coach di Utah, Jerry Sloan. «Abbiamo reso loro la vita difficile». «Questo è il nostro tipo di partita, un incontro giocato molto in difesa», ha detto Williams. «Oggi abbiamo giocato alla grande in difesa, e il
tabellino lo dimostra». GAME 4: «Non siamo mai riusciti ad avvicinarci abbastanza per marcarlo», ha detto il coach di Utah, Jerry Sloan. «Si è preso molte responsabilità ed ha aiutato i suoi compagni a giocare come volevano». «Venivo da una terribile performance», ha detto Bryant con un ghigno, «e' bello rispondere con una partita come questa». GAME 5: «Dobbiamo impegnarci di più sul lato difensivo, specialmente quando entrano in campo le seconde linee», ha detto Bryant. «Abbiamo una settimana prima della prossima serie e possiamo lavorare con calma su questo ora». «Gli infortuni ci hanno penalizzato e non siamo stati in grado di trovare il ritmo giusto», ha detto Deron Williams. «Non ci siamo impegnati abbastanza come avremmo dovuto per vincere».
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I Rockets sfatano il tabù e mandano a casa i Trailblazers
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E già il tutto potrebbe essere considerato come una sorta di successo, come una sorta di obiettivo positivo, come una sorta di stagione salva e siamo solo al passaggio del primo turno di playoff e di approdo alla semifinale della Western Conference contro i vice campioni dei Los Angeles Lakers. Beh il perché di questo positivismo, di questo essere già contento, molto probabile che sarà noto e conosciuto a tutto il mondo Nba e a chi da l di fuori segue e ha seguito la storia recente della franchigia texana. Un tabù, un muro invalicabile nonostante i tanti tentativi della società di mettere a disposizione di chi sedeva in panchina un roster comunque di livello. Ed allora ecco svelato l’arcano, ecco spiegato il motivo di tanti sorrisi e di tanta gioia mostrata dal due, strano e micidiale allo stesso tempo, Ron Artest e Yao Ming durante l’ultima conferenza stampa che ha poi chiuso la questione legata ai Blazers. I Rockets insomma, sfatano il tabù, sfatano la maledizione e superano il primo turno di playoff, il primo da quando è atterrato in terra texana il cinesone di 2,20. E detto questo e prima ancora di passare ad un’analisi di una delle serie più entusiasmanti e belle da vedere di tutti i playoff, specie dal puntio di vista tattico, una piccola parentesi va aperta: e McGrady? Beh vuoi o non vuoi è capitato ancora. Cosa? Beh che la squadra di T-Mac passi il turno o comunque compia quel passo in avanti sia come gioco che come risultati, quando il suo nome non è in panchina o comuqneu tra le persone convocate e pronte a scendere in campo per giocare. E’ successo a Toronto, è successo ad Orlando e ora è successo a Houston. Non certo un toccasana per il morale e l’autostima di un giocatore che, va detto, è stato comunque falcidiato dagli infortuni, o quando era sano non ha avuto quella fortuna e quella spinta dagli Dei del Basket che si meritava. Di sicuro in Texas se ne sarà parlato, anzi se ne è parlato, ma di sicuro in casa Rockets si sarà sdrammatizzato, si sarà cercato di portare il discorso altrove specialmente in vista del prossimo avversario e li si che se i Rockets mandassero a bersaglio quello che può essere definito più che un semplice colpaccio ma una vera e propria impresa titanica, allora l’argomento non potrà più essere scavalcato. Ma per questo c’è tempo, cosi come per i conti della serie contro i Lakers (in corso d’opera ndr) ed allora ecco che il tutto si sposta su quello che è stato nella sfida contro i giovani terribili di coach Nate McMillan e quindi i Portland Trailblazers. Una serie che in tanti degli addetti ai lavori avevano pronosticato a favore della franchigia dell’Oregon, anche all’ultima gara possibile, contando anche sul fattore cabala di cui sopra. Ed invece Houston ha dimostrato di avere le carte in regola e due ‘international’ con le ‘intangibles’ grandi come i ranch del Texas. Yao Ming e Lui Scola. Questi i punti cardini dai quali partire e sui quali si è poggiata la serie dei texani. IL primo dominatore assoluto dell’area. Coach McMillan non è mai riuscito a trovare un antidoto buono e giusto per fermare o limitare il mandarino sin dalla prima palla a due. Lo status ancora di matricola, nonostante sia al suo secondo anno di professionismo, almeno sulla carta, di Greg Oden ed i tanti falli fischiati a suo carco (cosa che tra l’altro ha fatto sbottare lo stesso timoniere dei Blazers con messaggi anche inequivocabili per cercare di tutelare il suo giocatore) non hanno aiutato alla causa di Portland. Przybilla c’ha provato, ma non gli si poteva davvero chiedere più di quanto ha fatto su tutti i ventotto metri del campo cercando anche di attaccarlo (tra l’altro senza tanto successo e continuità, anche perchè l’attacco andava verso altri porti ndr) in fase offensiva con risultati che potremmo definire rivedibili. Alla fine i quasi venti punti a partita e quasi 10 rimbalzi hanno fatto tutta la differenza di questo mondo. Per quanto riguarda l’argentino, beh da qualche altra parte del Texas (San Antonio ndr) qualcuno avrà sicuramente pensato che quello in maglia Rockets era il ‘gaucho’ giusto da portare a casa. Un rebus irrisolvibile, un cubo di Rubick impraticabile per Portland, LaMarcus Aldridge e coach McMillan. A tratti l’ex Tau ha messo in
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scena dei veri e propri clinic di attacco e difesa dimostrando ancora una volta qualche piccolo passo in avanti dei giocatori d’area Fiba nei confronti di chi per parità di anni di Professionismo sono considerati pari età. Un repertorio di fondamentali fronte e spalle a canestro che ha inebriato non solo gli aficionados del Toyota Center, ma anche quelli del Rose Garden che hanno assistiti attoniti a gran parte dei 12 punti e 8,8 rimbalzi abbondanti che formano il fatturato dell’argentino in questa serie. Beh tutto qui si chiederà qualcuno? Tutto in questi due giocatori la chiave del successo? Assolutamente no, ma elencarli tutti non sarebbe proprio cosa facile da fare. Di sicuro quello che possiamo fare è inserire il nome di Ron Artest all’interno di questo successo. L’ex Sacramento ha fatto le prove generali di difesa sprecando gran parte delle proprie energie correndo dietro per il campo a Brandon Roy, consapevole che sarà ‘costretto’ a farlo dietro a Kobe Bryant in quello che sarà lo scontro verità tra i due. La mano ed il talento newyorkese di ‘Ron-Ron’ poi è cosa indescrivibile e unica spiegazione dei 17,1 punti ‘silenziosi’ di una serie vissuta da protagonista. E i Blazers? Beh Portland torna a casa o meglio va in vacanza con una bella dose di rammarico, ma soprattutto con una dose doppia se non tripla di consapevolezza nei propri mezzi. Una squadra giovane e ricca di talento destinata ad essere protagonista ancora per tanti anni di questa Lega. Una squadra che ha avuto la riconferma di Brandon Roy come stella assoluta e la conferma che con questa stagione ed esperienza nei playoff alle spalle, LaMarcus Aldridge possa diventare quella spalla ideale per formare un duo di indubbio valore e riportare la franchigia dell’Oregon in auge. Insieme a questi due però c’è tutto un progetto da salvaguardare, da tenere assieme e da far crescere, senza dimenticare le questioni salariali. Insomma l’impresa è ben chiare riuscire a tenere insieme questo gruppo ancora per una o magari qualche altra stagione e sperare in una crescita esponenziale per un futuro prossimo brillantissimo.
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Yao: «Finalmente ho fatto un grande passo in avanti» Brandon Roy: «Abbiamo tanto amaro in bocca» GAME 1: «Abbiamo provato a giocare dietro di lui», ha detto Przybilla. «Ci adegueremo per la prossima partita. Ha realizzato ogni tiro perciò dobbiamo fare qualcosa». GAME 2: «Questa è una grande qualità di Yao, è estremamente efficiente», ha detto il compagno Shane Battier. «Non molti giocatori nel torneo sono in grado di giocare così, segnando ogni tiro». GAME3: «Abbiamo giocato di squadra», ha detto Scola. «Ed è per questo che possiamo permetterci una serata no di Yao e vincere ugualmente. E' un aspetto positivo». «Mi hanno chiuso sempre», ha detto Roy, decimo miglior realizzatore della NBA. «Artest e Battier hanno fatto un ottimo lavoro, neanche i blocchi sembravano funzionare. E quando funzionavano, c'erano gli altri a coprire in area». GAME4: «Non è finita fino a che non avranno vinto 4 partite» ha detto McMillan. «Siamo stati
punto a punto con loro in entrambe le partite giocate in Texas, quindi siamo fiduciosi anche se sarà una partita-stagione». «L'ho semplicemente letto prima che agisse» ha detto Hayes. «Sono corso lì e mi sono piazzato fuori dall'area protetta, è stato davvero fondamentale. Il coach aveva bisogno di me e della mia difesa». GAME 5: «Assolutamente la nostra più brutta partita di questa serie. Speriamo che per contro la prossima possa essere la nostra migliore - le parole confuciane di Yao». GAME 6: «E' un bel passo in avanti per me», ha detto Yao. «Anche quando il tempo stava per finire, non credevo che stesse succedendo realmente. Ora dobbiamo andare avanti». «E' stata una bella esperienza per noi», ha detto Roy. «Siamo tutti felici per questa grande stagione, ma ora abbiamo l'amaro in bocca poichè forse potevamo giocare meglio in questa serie».
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Il derby texano va ai Mavericks San Antonio fa subito le valigie Il derby texano, nei play-off, è ormai un classico. I Mavs si affidano a Wunderdirk e al vincitore del premio come sesto uomo dell’anno, Jason Terry. Gli Spurs, privi di Manu Ginobili fino al termine della stagione e con The Big Fondamental sempre alle prese con fastidi fisici, partono con il vantaggio del fattore campo. Vantaggio che perdono immediatamente in gara 1. Prima vittoria esterna nella post season per Dallas; non accadeva dal 2006 anno in cui la banda Cuban raggiunse la finale contro gli Heat. Il primo atto del Derby finisce 105 a 97 con Josh Howard, 25 punti, hombre del partido. In gara 2 riscatto immediato dei ragazzi di coach Popovich. San Antonio non perdeva due gare in fila nei play-off dal lontano 2002 e il record rimane immutato. Tony Parker si prende i riflettori con 19 punti nel solo primo quarto, 27 all’intervallo e 37 con 16 su 22 dal campo e standing ovation al termine del match. Mavs abbattuti e dominati 105 a 84. sull’1 a 1 la serie si sposta all’American Airlines Center. Nella terza sfida capita qualcosa di ‘storico’. 88-67 il punteggio finale. Una sconfitta senza precedenti per gli Spurs, i 67 punti realizzati, rappresentano ilo minimo storico per San Antonio. Coach Popovich, a 7:42 dalla fine del terzo quarto, non può far altro che far accomodare i suoi big in panchina risparmiandoli per gara 4 e ammainare bandiera bianca. Wunderdirk, con 20 punti e 7 rimbalzi, guida la carica Mavs ponendo una candidatura seria al superamento del turno. Candidatura che si trasforma in qualcosa di sempre più concreto e vicino nel secondo match giocato tra le mura amiche; è ancora Josh Howard a guidare i suoi alla vittoria, 28 punti nel 99-90 finale. Non bastano ai neroargento la rinascita di Duncan (25 punti e 10 rimbalzi) e la prestazione super di Mr. Longoria, che con 43 punti eguaglia il record franchigia di George Gervin.
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106 a 93 è invece il risultato di gara 5 che segna, molto probabilmente, la fine dell’era San Antonio. E’ la prima volta che Duncan non supera un turno di play-off. L’età avanza inesorabilmente e l’unico giocatore di rilievo piuttosto giovane è il francese Parker (26 anni). Coach Popovich avrà molto sui cui riflettere quest’estate. Invece Rick Carlisle si gode gli ottimi Mavs, 11 vinte delle ultime 14 partite, superamento del turno, grazie anche ad un Wunderdirk sempre concreto (31 punti 9 rimbalzi) e Josh Howard (17 punti 8 rimbalzi), esaltato dal coach nel post gara.
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Carlisle: «Josh Howard è stato il nostro Mvp» Greg Popovic: «Abbiate pietà, nessuna statistica» C’era davvero poco da dire. C’era davvero pococ che commentare se non le classiche cose che tutto sarebbe stato diverso e migliore con Manu Ginobili in campo. Ed allora ecco tutte le dichiarazioni più importanti e più cocenti della serie più scontata sul campo di questo primo turno facendo eccezione quella andata in scena principalmente alla Quiken Loans Arena il cui risultato non era nemmeno quotato. GAME 1: «Dobbiamo convincerci che Manu non sarà dei nostri - ha detto Popovich -. Continuando a pensare a come sarebbe con Ginobili in campo, rischieremmo di perdere la nostra coesione interna» GAME 2: «Devo cercare di avere una mentalità offensiva durante tutti i possessi - ha detto Parker -. Anche se non vado a segnare personalmente, devo cercare di attaccare il
canestro per magari scaricare a un compagno». GAME 3: «Abbiate pietà», ha detto Popovich, ridendo. «E’ stato già abbastanza dover assistere a questo. Ora volete farmi vedere anche le statistiche?». GAME 4: «La gente potrebbe dire che Dirk non segni abbastanza, ma Dirk sta giocando nel modo giusto, paziente e non prende cattivi tiri - dice Jason Kidd, commentando i soli 12 punti di Nowitzki - non credo che debba necessariamente segnare 30 punti per far vincere Dallas, questa la serie ne è la dimostrazione» GAME 5: «Credo che Howard sia il nostro MVP della serie - ha detto coach Rick Carlisle, nel giorno del compleanno di Josh -. Ha giocato alla grande, era sempre lì per noi».
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I Nuggets umiliano New Orleans, che accoppiata Billups-Melo Si prospettava come una delle serie più affascinanti del primo turno playoff. E invece è stata una dele più scontate. Nel 2004, nel corso della regulare season, i Detroit Pistons acquistarono Rasheed Wallace, mossa decisiva nella corsa al titolo. I Pistons cominciarono a volare e si aggiudicarono l’anello, in finale contro i Lakers. L’effetto potrebbe essere lo stesso, l’impatto, fino a questo momento è stato devastante. CI rifieriamo alla trade dell’anno che ha portato Chauncey Billups sulla costa ovest e ha rivoluzionato i Nuggets che, con l’MVP delle finali del 2004, raggiungono la seconda posizione nella Western Conference ed eguagliano il record franchigia di 54 vittorie nell’arco di una stagione. La maturità di Billups, le indubbie doti di leader e di realizzatore, sono la causa principale della vittoria contro gli Hornets. Chris Paul e hanno tentato l’assalto al secondo round, ma sono crollati di fronte alla squadra di George Karl. In gara uno c’è spazio solo per la prestazione super di Billups: 36 punti, 7 su 8 da tre punti (career high e record di squadra). Un parziale di 21 a 0 a cavallo tra il terzo ed il quarto periodo di gioco stronca New Orleans; la partita finisce 113-84. Stesso protagonista e successo bissato in gara 2, sempre nel Colorado. Le ‘Pepite’ di Denver vincono (108-93) e si portano sul 2 a 0. Ancora Billups miglior giocatore in campo con 31 punti, coadiuvato da ‘Melo Anthony: 22 punti e 9 assist. La difesa asfissiante dei Nuggets ha nuovamente annichilito i giocatori della Lousiana. Per Paul (13 punti e 14 assist) e compagni non c’è stato nulla da fare. Il riscatto di Chris arriva in gara 3. Gli Hornets alzano il livello fisico del loro gioco e riescono a vincere il match. Una battaglia durissima caratterizzata da numerosi falli e contrasti durissimi; a farne le spese è proprio il play ex Wake Forest che subisce numerosi contatti, di cui ne subirà gli effetti nelle successive gare. Nonostante tutto, Paul realizza 32 punti conditi da 12 assist e tiene accesa, insieme con Posey (13 punti e 9 rimbalzi), suo il rimbalzo decisivo nei secondi finali, la fiammella della speranza dei ‘calabroni’. Fiammella che si spegne e non poco nella gara 4, sempre a New Orleans. Più che un match è una vera e propria mattanza. 121 a 63
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per Anthony e soci. Inutile dire che i record negativi della storia dei playoff vengono riscritti. Coach Karl gongola e si prepara a festeggiare il superamento del primo turno. Chris Paul, ai minimi storici (4 punti e 6 assist), risente della terribile battaglia di gara 3. Il destino di New Orleans sembra segnato, come di fatti poi lo sarà. Però gli Hornets, in gara 5, hanno venduto cara la pelle. Privi di Tyson Chandler, hanno battagliato punto a punto con i Nuggets, fino a quando la premiata ditta Chauncey & ‘Melo (34 punti per Anthony e 13 con 11 assist per Bullpus) guida un parziale di 24-4 a metà del terzo periodo di gioco, annichilendo New Orleans (107-86). Dopo 5 eliminazioni al primo turno, Denver ce l’ha fatta. Guai a sottovalutarli. I Nuggets daranno filo da torcere a chiunque. Coach Karl è un allenatore di primissimo livello con esperienza notevole, anche nella post season (finale del 1996 sulla panchina dei Sonics). JR Smith sembra aver trovato la giusta dimensione all’interno del team (15 dei 20 punti di gara 5 sono arrivati nel mega parziale che ha chiuso la serie). ‘Melo è il realizzatore e il più talentuoso. E poi c’è Billups, il leader. Lui c’è già stato, Lui sa come si fa. Lui vuole portare la sua città a vivere un sogno chiamato Larry O’ Brian Trophy.
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DENVER- NEW ORLEANS IN PICTURES
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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Paul: «Il segreto di Denver? Billups» Melo: «Non pensavo di vincere di 58» GAME 1: «Ho trovato il ritmo giusto è stata una di quelle serate speciali»ha detto Billups dopo la prima apparizione postseason nella sua città natale. GAME 2: qual è la differenza tra giocare duro e giocare sporco? «Solitamente è vincere o perdere», ha detto il coach dei Nuggets, George Karl. «Se vinci pensi aver giocato duro, se perdi pensi che gli avversari abbiano giocato sporco. Le serie dei playoff sono molto intense e potremmo già essere al punto in cui noi odiamo loro e loro odiano noi. Ed è giusto che sia così». GAME 3: «Questa è la parte
divertente dei play-off, tutti i contatti, tutti i falli antisportivi» dice Chris Paul. «Tu non vuoi certo scontrarti, prendere botte, ma dopo che lo hai fatto sorridi e pensi che è la natura di questo sport» GAME 4: «Non pensavo di vincere di 58 punti - ha detto Anthony -. «Non pensavo che nessuno potesse vincere di 58 punti nei playoff». GAME 5: «Chauncey è la miglior cosa che sia capitata a Denver» ha detto Paul -. «La mentalità che ha portato è qualcosa che li farà andare almeno fino in finale di conference».
Lente di
ingrandimento sulla LegaA
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TOMMASO S TARO
Lottomatica -Brandon Jennings, pensavo fosse amore invece… I giallorossi, sotto la guida dell’ex casertano Nando Gentile, veleggiano nelle zone alte della classifica; per il baby-fenomeno, però, un ruolo da attore si, ma non protagonista
Guardi la Virtus Roma e ti accorgi, ictu oculi, di un’insanabile dicotomia al suo interno. Una separazione netta, una spaccatura profonda difficile da colmare, ancor più da comprendere e giustificare. Ma facciamo prima qualche passo indietro. E’ il 12 Giugno 2008. Sono circa le 22,30 di un caldo giovedì quando al PalaMensSana il campionato di LegaA manda in scena il suo ultimo sussulto; nell’impianto toscano, colmo all’inverosimile, scorrono i titoli di coda della stagione e, contestualmente, si accendono i riflettori sul trionfo della Montepaschi. E’ il terzo scudetto per la truppa di Minucci; il secondo consecutivo. Un tricolore giunto a coronamento di un torneo sostanzialmente perfetto, reso addirittura sublime da un record di 18 vittorie di fila e, sopra ogni cosa, da uno strapotere di gioco imbarazzante tanto per la concorrenza quanto per i media, chiamati rispettivamente a scrivere e a commentare un film dal finale decisamente troppo scontato. Scorrono i consueti fiumi di parole. Elogi e panegirici rivolti -meritatamente- ad una società di altissimo profilo che con programmazione, competenza, lungimiranza e professionalità aveva saputo trasformare in realtà un sogno che, agli occhi dei contradaioli, sembrava, fino a qualche anno prima, neanche lontanamente immaginabile. In un simile contesto, la Lottomatica era in un cantuccio remoto, a leccarsi con rabbia ma con tanto orgoglio le proprie ferite. Più orgoglio, a dirla tutta, rispetto al senso di frustrazione provato per essere arrivata fino alla fine di un tragitto tanto lungo quanto tortuoso, salvo poi vedere l’avversario tagliare per primo la linea del traguardo. Quell’orgoglio di chi, in ogni caso, era consapevole di aver plasmato sì un’opera incompiuta, ma comunque degna espressione di uno sforzo incredibile e di un campionato vissuto sempre sopra le righe. Andava, così, in archivio la stagione 2007/2008 ed arrivava, dal presidente Toti, il più classico dei “rompete le righe”. Tutti in vacanza, dunque. Tutti o quasi. Sì, perché Dejan Bodiroga,
fido del n. 1 giallorosso, già iniziava a pianificare le prime strategie per dare continuità all’ambizioso progetto finalizzato a consacrare la capitale nel gotha della palla a spicchi. Decine di contatti, innumerevoli colloqui con i vari procuratori a fare da premessa ai movimenti di mercato in entrata ed uscita. Facevano, così, le valigie, tra gli altri, Fucka, Stefansson e “pezzi da novanta” come Erazem Lorbek ed il beniamino David Hawkins. Le importanti partenze, però, erano compensate da arrivi altrettanto suggestivi: alla corte di Repesa, infatti, giungevano Sani Becirovic, Angelo Gigli, Andre Hutson, Primoz Brezec, Luigi Datome. Ma l’interesse degli addetti ai lavori e dei tifosi era tutto proiettato verso il vero “crack” messo a segno da Bodiroga: Brandon Jennings. Un nome probabilmente sconosciuto ai più; un nome, in realtà, che nel mondo dorato della NBA era già arcinoto ed il motivo di tanta popolarità era tutto racchiuso in un talento che, da oltreoceano, facevano sapere essere fuori dal comune. Il baby-fenomeno nasce a Compton (California, USA) il 23.10.1989 e fin da piccolo dimostra particolari attitudini col pallone tra le mani. E, in effetti, il talento donatogli da madre natura si palesa in tutta la sua grandiosità quando Brandon inizia a giocare prima alla Dominguez High School, poi all’Oak Hill Academy. Lì si comincia realmente a comprendere lo spessore di un ragazzo nato per giocare a pallacanestro. 1,85m per 77kg di peso; uno “scricciolo”, come si dice a Roma. Eppure in quel fisico minuto si nasconde una tecnica sopraffina, un’esuberanza atletica indicibile, una genialità abbacinante; in poche parole, un fuoriclasse. Invero, le cifre prodotte al liceo sono, per certi versi, ai limiti della realtà: 35,5 punti di media, 5 rimbalzi, 7,5 assist e 4 recuperi a partita. Roba da far innamorare chiunque. Terminata l’high-school, il buon Brandon viene reclutato da Arizona e, in particolare, da coach Lute Olson, evidentemente già invaghito dell’”enfant-prodige” californiano. Ma è in que-
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sto momento che avviene l’imponderabile. Con una scelta a sorpresa, dettata verosimilmente dalla scarsa attitudine del ragazzo a cimentarsi sui libri di studio e dalla contingente necessità di pazientare ancora un anno prima di spiegare le vele verso la lega di David Stern (la NBA non consente il tesseramento di ragazzi di età inferiore ai 19 anni), il ragazzino decide incredibilmente di bypassare l’università -e quindi l’eventuale possibilità del cosiddetto “one&done”, ossia un anno di college prima del basket professionistico- e di scegliere l’Europa come sua scuola di formazione in vista di quello che sarà. Ed è, appunto, in questo momento che viene suggellato il binomio Jennings-Roma. Un matrimonio sancito lo scorso mese di Luglio; un’unione, per certi versi, poco “laboriosa” considerato l’immediato incontro della domanda del giocatore (assistito dal procuratore Sonny Vaccaro) e dell’offerta della società capitolina. In soldoni, il contratto ha durata triennale (per una cifra intorno ai 1,2 milioni di dollari) con “nba escape” al termine di ogni stagione. E’ precisamente il 16 Luglio quando Brandon mette per la prima volta piede in Italia incontrando stampa e fotografi nell’incantevole Casina Valadier di Villa Borghese. Sorrisi, tono deciso che sembra non rispecchiare affatto la sua tenera età, tanto carisma. Dopo l’incontro con la stampa, passeggiata per Roma insieme all’inseparabile mamma Alice e shopping nelle migliori griffe del centro storico (le sue preferite sono Gucci e Luis Vitton). Inizia così la sua avventura nel Bel Paese. Un’avventura per cui si mobilitano tutti. A partire dagli addetti ai lavori, smaniosi di vedere all’opera un piccolo genio della palla a spicchi; per finire ai media, calamitati a
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quello che, per certi versi, sembra assumere i connotati di un fenomeno da baraccone. Vi è addirittura un giornalista dell’ESPN che per circa due settimane conta i suoi passi, lo segue come un’ombra, cerca di carpire ogni gesto, ogni frase, ogni espressione del volto; tutte cose che un giorno -neanche tanto futuro- si potranno raccontare parlando di quella che pare essere destinata a diventare una delle stelle più luminose nel firmamento del basket mondiale. In un battibaleno scorre via la pre-season, tra tornei e scrimmage nel corso dei quali il ragazzino venuto da lontano offre, ad intermittenza, sprazzi del suo talento. Si arriva, quindi, alla data fatidica. E’ il 12 Ottobre: il giorno in cui prende inizio la storia “giocata” di Jennings in gare ufficiali. La Virtus esordisce in campionato in un PalaLottomatica che, in verità, da più parti, si credeva potesse offrire un diverso colpo d’occhio. A rendere visita ai giallorossi è la matricola Eldo Caserta. Gara a senso unico? Neanche a pensarlo. Soltanto un tiro a fil di sirena di Jaaber consente ai suoi compagni di aggrapparsi ad un over-time segnato dalla mano torrida dalla lunetta di Becirovic e da qualche fischio “casalingo”. Vince la Lottomatica. Per Jennings 21 minuti di utilizzo, 7 punti, percentuali al tiro rivedibili e 2 in valutazione. Sette giorni dopo i capitolini sbancano agevolmente il PalaDozza; Young Money (come lui stesso ama definirsi in ragione della sua capacità di guadagnare fior di quattrini a dispetto della sua tenera età) vede il campo solo per 14 minuti senza incidere: 3 punti e 1 in valutazione. Nel frattempo, anche l’Eurolega tiene a battesimo il ragazzino. Il trend, in ogni caso, non accenna a migliorare col passare del tempo: contro Biella la sua presenza è impalpabile come il suo tabellino: 17 minuti, 1 punto, -1 in valutazione. Il fatturato di Jennings sembra iniziare a riflettere, come meglio non potrebbe, il gioco ed i risultati deludenti di una Virtus che “floppa” letteralmente cinque partite di fila. Un pokerissimo di sconfitte che sanciscono una crisi in cui Jasmine Repesa si riconosce, manu propria, come il solo capro espiatorio: arrivano, quindi, le sue dimis-
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sioni e la contestuale promozione a head-coach di Nando Gentile. Un incarico che pare inizialmente essere ad interim, considerata la ritrosia dell’ex “principe di Tuoro” a farsi carico di una situazione difficile da gestire (e la già precedente esperienza fallimentare sulla panchina di Imola). Poi, come spesso accade, i dubbi si dissolvono e per il casertano la fiducia si trasforma a tempo indeterminato. Improvvisamente la sensazione è che anche per Jennings le cose possano cambiare; e in meglio. Sì, perché da un lato c’è un nuovo allenatore che, allevato in giovinezza da un guru di baby-talenti come Tanjevic, sembra conoscere a menadito come forgiare il suo talento; dall’altro, c’è la decisione della società di mettere fuori squadra una figura ingombrante come quella di Allan Ray, reo -da quanto è dato conoscere- di non essere in sintonia con il resto del gruppo (a Gennaio, poi, arriverà la risoluzione del contratto con l’ex Celtic). Eppure, Brandon seguita a fornire prove che entusiasmano davvero poco i “Warriors” ed il resto della piazza. Prestazioni, talvolta, discrete; molto più spesso ai limiti della sufficienza e, comunque, poco in linea con un talento enorme che è perfino arduo quantificare. Lo stesso dicasi per l’avventura in Eurolega dove i giallorossi, nel frattempo, conquistano le top-sixteen. In campionato, improvvisamente, la truppa di Gentile inverte la rotta iniziando a seminare successi a destra e a manca: la striscia di vittorie ne conta 9 consecutive che le permettono, in men che non si dica e tra lo stupore generale, di scalare posti in graduatoria fino a meritare il titolo di “anti-Siena”. Invece, per il n. 11 giallorosso non arriva la tanto auspicata sterzata della sua stagione. Il suo minutaggio non decolla, le sue apparizioni nello starting-five sono sempre più sporadiche, il suo apporto non risulta mai imprescindibile. A Gennaio, poi, scoppia un “caso” che lo riguarda molto da vicino e che coinvolge anche i piani alti della società presieduta da Claudio Toti. Da una nota emittente televisiva italiana vengono riportati alcuni spezzoni di un’intervista che “Young Money” avrebbe, qualche giorno prima, rilasciato al New York Times. Tra le altre cose, si legge -e neanche troppo tra le righe- un certo malcontento del ragazzo che parla anche di ritardi nei pagamenti delle sue spettanze da parte della franchigia capitolina. Una situazione che genera un evidente imbarazzo tra le parti. La Lottomatica, con un apposito comunicato, si affretta ovviamente a smentire seccamente il tutto; lo stesso fa Jennings, consapevole di un passo falso che avrebbe potuto decisamente evitare. Passata la tempesta diplomatica, si torna a giocare. Contro la GMAC Bologna, il ragazzino griffa la sua migliore prestazione in cui fa segnare anche l’high-stagionale: 27 minuti e 14 punti, con il 55% dal campo. Ma quello fatto vedere al cospetto della Fortitudo è
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solo un fuoco di paglia. Si torna, infatti, alle vecchie abitudini; vecchie abitudini che -come canta Mick Jagger in un suo famosissimo hit- sono decisamente dure a morire. Brandon, dal punto di vista tecnico-tattico, non entra in sintonia con il resto della squadra. Dunque, quello che doveva essere un crack del mercato capitolino assume le nitide sembianze di un “flop”. E la genesi della spaccatura -quella di cui parlavamo all’inizio del raccontoall’interno della squadra giallorossa trova la sua ragione d’essere in un investimento che, da più parti, si credeva potesse far compiere alla Lottomatica il salto di qualità sul parquet e nelle strategie di marketing e che, col passare del tempo, si è trasformato in una mossa apprezzabilissima per audacia ma, a conti fatti, decisamente sbagliata. Sbagliata perché messa in atto proprio nel momento in cui all’ombra del “Cupolone” c’era la malcelata voglia di confermarsi nei piani altissimi del “basket-system” e di migliorare i già egregi risultati della stagione passata; sbagliata, sopra ogni cosa, perché si è puntato tantissimo su un giocatore con le spalle ancora troppo esili per reggere la pressione psicologica tipica della palla a spicchi nostrana e neanche lontanamente paragonabile a quella a cui si è sottoposti quando si cresce e si matura (?) nei college a stelle e strisce. Proprio la maturità, allo stato delle cose, pare essere il principale tallone d’Achille di Jennings, i cui funambolismi mostrati in allenamento e nell’high-school non hanno trovato adeguato riscontro in una realtà che -inutile nasconderlo- predilige la sostanza alla forma. Non c’è che dire: le cose su cui il ragazzino dovrà ancora lavorare per meritare sul campo i galloni del “predestinato” sono decisamente tante. A partire dall’applicazione in difesa, principale lacuna del bagaglio tecnico del californiano e retaggio di una cultura statunitense restia ad inculcare nei giovani un fondamentale imprescindibile per il basket del vecchio continente. Passando per uno stile “barocco” di intendere la pallacanestro decisamente da limare proprio in ragione del fatto che il suo futuro ed il suo destino non verranno scritti sui playground, nei quali spesso apparire è meglio che essere. Per finire, alla capacità di leggere con lucidità le situazioni di gioco e di operare un’opportuna selezione di ciò che è bene fare o evitare. Il tutto con la Lottomatica ferma a guardare la sua lenta evoluzione e con l’amaro in bocca per una travolgente passione provata, fino a qualche mese fa, per il baby-prodigio che non si è mai trasformata in vero amore. Intanto, nonostante l’esperienza non propriamente esaltante di Brandon stia per affrontare l’ulteriore durissimo banco di prova della post-season, da oltreoceano rimbalzano voci che accrediterebbero l’attuale n. 11 giallorosso tra le primissime scelte del prossimo draft. Contraddizioni della NBA, ad oggi, onestamente difficili da comprendere.
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Il tour di ‘On The road’ fa scalo a Philadelphia, Pennsylvanya, nella città della storia e dell’indipendenza americana e quella cinematografica dello ‘stallone’ italiano: Rocky
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Chi di voi non ha sognato almeno una volta sono solo alcune delle esperienze culturali che si possono godere; Inoltre
L EANDRA R ICCIARDI di correre con le braccia alzate sui 72 scali- possiede una peculiarità rara rispetto alle altre metropoli americane: la
ni dell’Art Museum di Philadelphia avendo “Gonna fly now” come colonna sonora?? Ma Philadelphia non è solo la città di Rocky! sembra rappresentare anche la città dell’innovazione: un ruolo del tutto familiare per la città con più antica tradizione storica d’America, si trova nello Stato della Pennsylvania ed é la seconda città per estensione sulla costa atlantica degli USA, è situata sulle rive occidentali dell'estuario del fiume Delaware, che la separa da Camden, nel vicino stato del New Jersey. Essendo il Delaware navigabile anche da navi di grosso tonnellaggio, Philadelphia è dotata di un importante porto. L'altro corso d'acqua di rilievo che attraversa la città è il fiume Schuylkill, che convenzionalmente segna il confine occidentale del centro storico, è ufficiosamente divisa in numerosi quartieri. Fra questi, i più importanti sono Andorra, Roxborough, Northern Liberties, Old City, Bustleton, Somerton, Manayunk, Center City, Queen Village, Kensington, Frankford, University City, Strawberry Mansion, Chestnut Hill, Fishtown, Port Richmond, Germantown, Mount Airy, Wynnefield, Chinatown, Fox Chase, South Philly, Society Hill ed il Museum District; Philadelphia, in italiano Filadelfia ed informalmente Philly è una città dinamica, ricca di attrattive tipiche di una grande metropoli, pur mantenendo comunque il fascino di una piccola città. Basta il suo nome per richiamare alla mente la Dichiarazione d’Indipendenza, la Costituzione degli Stati Uniti, l’Independence Hall, la Campana della Libertà e Benjamin Franklin. Oggi Philadelphia risplende come mai, per la gioia di residenti e turisti, la città dove è nata l'America offre molto di più che la semplice storia. I suoi piacevoli quartieri residenziali suscitano un particolare interesse per la loro diversità. Una fiorente vita artistica la rende un grande centro culturale, con una vasta scelta di musei ed esposizioni, musica classica e balletto
gente vive nel cuore della città. E' veramente un grande piacere passeggiare per le sue strade, ed è anche molto semplice ritrovarsi in quanto le strade sono suddivise in isolati di forma più o meno quadrata;non è perciò difficile girare il centro cittadino a piedi, in qualsiasi stagione, perché Philadelphia è bella ed affascinante con qualsiasi clima: sotto la neve con le decorazioni natalizie, con gli alberi che in primavera fioriscono lungo i suoi bei viali. Si possono trovare centinaia di ottimi ristoranti, il cui arredamento è così bello che spesso sono stati usati come sfondo per le scene di grandi film. A Philadelphia si possono provare le cucine di tutto il mondo, rivisitate, in un ambiente che renderà il pasto un ricordo indimenticabile .Da non dimenticare lo shopping, due vasti centri commerciali, tra i più estesi ed importanti del Paese si trovano a circa 30 minuti d'auto dal centro di Philadelphia. Negozi raffinatissimi e boutiques si trovano in centro di Philadelphia. Tenete presente, infine, che gli articoli d'abbigliamento e le calzature sono esentasse nello Stato della Pennsylvania. COME ARRIVARE E COME MUOVERSI La US Airways collega giornalmente l'Italia con Philadelphia, con voli diretti di sole nove ore da Roma e Milano e, stagionalmente da Venezia; è quindi facile da raggiungere, sicuramente uno dei più comodi punti d'ingresso negli USA. Entro i confini cittadini si trovano due aeroporti, il Philadelphia International Airport , (Giudicato dal Wall Street Journal il migliore aeroporto degli USA e si trova a soli 13km dal centro della città ). ed il Northeast Philadelphia Airport. Per raggiungere Philadelphia dall’aeroporto in taxi occorrono circa 15 minuti e il costo della corsa è di 29 dollari. Un servizio di Bus vi porterà in città con tempi di percorrenza di circa 30 minuti. La linea R1 della metropolitana offre una corsa ogni mezz'ora, e collega l'aeroporto con il centro di Philadelphia, la Stazione ferroviaria Amtrak ed il Pennsylvania Convention Center. Il costo del biglietto è di 5.50 dollari a persona, se intendete rimanere più giorni, è preferibile noleggiare una macchina. In aeroporto si trovano le maggiori catene di autonoleggio oppure potete farvi un’idea sul sito www.alamo.it o su www.easycar.it i prezzi non sono molto alti, il noleggio di una macchina economica come una Chevrolet Aveo oscilla tra i 160 e i 180 euro per settimana. Inoltre Per notizie aggiornate sugli arrivi e partenze dall'Aeroporto Internazionale di Philadelphia è a disposizione il sito web www.phl.org oppure dagli USA si può chiamare il numero verde 800PHL-GATE. DOVE DORMIRE. I prezzi sono, in genere, molto variabili e dipendono dal periodo dell’anno. Gli hotel più economici che si
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trovano al centro della città sono : Confort Inn Downtown Historic in Christopher Columbus Blvd. situato nel quartiere storico a 500m dall’ Indipendence Hall .Troverete prezzi che variano tra i 70 e gli 80 per camera doppia a notte. Rodeway Inn in Walnut street a pochi isolati dall’ Independence National Historical Park, prezzi tra gli 80 e i 90 per camera doppia a notte. B.W. Center City in 22nd street situato nel cuore di Philadelphia vicino alle più famose attrazioni. Prezzi sempre tra gli 80 e i 90 per camera doppia a notte. Chi ha disponibilità economiche più elevate può godersi il lusso ed i confort del Rittenhouse Hotel situato nella piazza da cui prende il nome una delle zone più prestigiose della città. Prezzi che vanno tra i 310 e i 320. Per altre informazione potete consultare i siti www.octopustravel.com, www.tripadvisor.it IL TEMPO Il clima è umido e continentale con numerose precipitazioni. Nelle pianure l'estate è abbastanza lunga e l'inverno mite, con temperature medie annuali che si aggirano intorno ai 12°C a Philadelphia e 10 nelle valli centrali. Negli altopiani viceversa, l'estate è breve e l'inverno lungo e gelido. L'influenza del Lake Eire, infine, mitiga la regione che gli sta intorno, rendendo l'estate lunga, ma fresca (19°C di media) e l'inverno breve (-2°C di media).Ricordatevi che . Per visitare una città ed un paese è comunque indispensabile conoscere le previsioni del tempo che potete trovare sui siti: www.paesionline.it e www.ilmeteo.it COSA VEDERE L'INDEPENDENCE HALL E L'AREA STORICA: Una visita a Philadelphia non può che iniziare dall'Independence National Historical Park, "il miglio quadrato con più storia dell'America". Nel parco, sono infatti compresi molti degli edifici dell'epoca coloniale e della Rivoluzione. Il tour può cominciare al Visitors Center, dove sono disponibili mappe e cartine e dove viene proiettato un filmato introduttivo di circa trenta minuti, Independence. I primi edifici che si incontrano sono l'imponente First Bank of the U.S. e la Second Bank of U.S., in stile greco, si può proseguire con l'Independence Hall dove vennero stilate sia la Dichiarazione d'Indipendenza, nel 1776, che la Costituzione del 1787,che si trova in Chestnut Street. Nelle immediate vicinanze è poi situata la Congress Hall, dove venne tenuto il primo Congresso degli Stati Uniti e dove venne adottata la prima Carta dei Diritti, mentre nella Carpenter’s Hall, nel 1774 venne tenuto il Primo Congresso Continentale. A nord dell'Independence Hall troviamo il Liberty Bell Pavillon , che ospita la famosa Campana della Libertà, quest’ ultima venne fusa da una Fonderia di Whitechapel a Londra nel 1751, per celebrare l'anniversario della Carta dei Privilegi, redatta da William Penn, cui si deve l'estrema tolleranza dello Stato della Pennsylvania. Ma una volta arrivata in America, la campana presentava una crepa e venne fusa nuovamente, posta in cima alla State House,
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faceva sentire i suoi rintocchi in occasione dei maggiori avvenimenti pubblici come quando chiamò i cittadini di Philadelphia a raccolta per la prima lettura pubblica della Dichiarazione d'Indipendenza. L'ultima volta che si sono uditi i rintocchi della Campana è stato in occasione del compleanno di George Washington nel 1846. Sebbene Liberty Bell sia rimasta da allora silenziosa, la campana è il simbolo di libertà e d'indipendenza per tutto il popolo americano. Proseguendo con il nostro tour più a nord troviamo la Franklin Court, dove sorgeva la casa di Benjamin Franklin,nel cui sotterraneo sorge ora un museo.Vicino all'Independence Hall, può essere interessante vedere una delle succursali della Zecca di Stato americana, la U.S. Mint. Affascinanti sono anche: La Elfreth's Alley e Arch Street, la prima è la strada residenziale più vecchia d'America e le case che vi si affacciano vantano oltre duecento anni di vita: qui nel primo weekend di giugno vengono celebrati i Fete Days, durante i quali è possibile visitare gli edifici e si tengono dimostrazioni di lavori artigianali dell'epoca coloniale. Le case sono visitabili anche il primo venerdì di dicembre. Mentre in Arch Street, sorge la casa di Betsy Ross , la sartina incaricata da George Washington di progettare e cucire la bandiera americana. Chi volesse visitare la tomba di Benjamin Franklin la potrà trovare invece nel cimitero della Christ Church. Notevole è anche il primo museo dedicato esclusivamente alla cultura nera, l'Afro American Historical and Cultural Museum e per terminare abbiamo il Penn Landing, il più grande porto fluviale esistente al mondo, dove si trovano l'Uss Olympia e l'Uss Becuna: la prima è una nave dell'epoca della guerra ispano-americana, mentre il secondo è un sommergibile della Seconda Guerra Mondiale. Ma ci sono molti altri posti da visitare,come: City Hall, La Pennsylvania Academy of Fine Arts, La Rosenbach Museum and Library, Champs Elysees d’America, Il Philadelphia Museum of Art, Love Park, L’Horticultural Center, L’University Museum of Archeology and Antropology e le due università (Drexel
University e University of Pennsylvania). SPORT Se siete interessati ad un'esperienza sportiva ricordate che Philadelphia è una città molto attiva che mette a disposizione del visitatore una vastissima scelta di eventi sportivi. Vi basterà cliccare sullo sport che v'interessa per scegliere l'evento sportivo preferito. Le squadre di Philadelphia giocano in tre diversi campi presso il Complesso Sportivo, quattro miglia a Sud del centro città. Citizens Bank Park: Philadelphia Phillies (MLB-Baseball) Lincoln Financial Field: Philadelphia Eagles (NFL-Football americano) Wachovia Center: Philadelphia Flyers (NHL-Hockey su ghiaccio) Philadelphia 76ers (NBA-Basket) Philadelphia Wings (Lacrosse) Anche il golf è uno sport molto praticato a Philadelphia, perciò esiste una scelta infinita di campi, ubicati in splendidi parchi, oppure sui prati che costeggiano le rive dei due fiumi che bagnano la città. CURIOSITA’ • E’ una Città multietnica, è una città ricca sotto l’aspetto multiculturale ed è riconosciuta come destinazione multietnica numero uno degli USA.Philadelphia. • E’ una moderna metropoli interamente Wireless con connessione accessibile e gratuita anche dai parchi • E’ il secondo maggior centro di ricerca ed educazione nel settore medico scientifico degli USA. • I primati storici della città sono numerosi: il primo zoo, la prima biblioteca pubblica, la prima zecca, il primo museo, la prima scuola di belle arti. • La città ospita 250.000 studenti e 50 tra college e università. Inoltre numerosi sono i centri di ricerca in ogni settore. Allora ricapitoliamo: salite i 72 scalini dell’Art Museum canticchiando “ na na na…na naaaaa”, portatevi il pc per usufruire della connessione, mangiate, bevete e…Fate tanto SHOPPING!!!!! Insomma: BUON DIVERTIMENTO…
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