Stars 'N' Stripes - Playoff Edition

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IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO

Finalmente il Re

è stato incoronato


I campioni in carica

h


hanno abdicato


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di

D OMENICO P EZZELLA

Il cammino del talento tricolore da Southern California, verso la Nba prende vita, prime prove con gli Oklahoma Thunders

Partita l’avventura di Hackett E’ iniziata. E’ iniziata l’avventura e la corsa che porterà Daniel Hackett a giocarsi la possibilità di essere scelto al primo giro del prossimo Draft. Una possibilità che come tutti sanno garantirebbe all’ex talento di USC un contratto garantito in una delle franchigie Nba senza dover girovagare per le tante Summer League e le tante sessioni di allenamento che si svolgono dopo la serata del Madison Square Garden. Una volata che ha preso il via l’8 maggio scorso quando il pesarese è scso in campo per una sessione di workouts con gli Oklahoma City Thunder, anche se in bella compagnia. Con lui a sperare in quanto appena accennato qualche riga sopra c’erano Jerel McNeal Marquette), Jack McClinton (Miami), Paul Delaney (UAB), Jermaine Taylor (UCF), Garrett Temple (LSU), Terrell Harris (Oklahoma State), Courtney Fells (NC State), Josh Carter (Texas A&M), Joe Ingles (Melbourne Dragons), Aaron Jackson (Duquesne) ed AJ Abrams (Texas). Una lista importante una lista che contiene il nome di uno dei principali uomini della Marquette di questa stagione universitaria, quel Jerel McNeal che dopo l’infortunio di Dominc James è divenuto la stella numero uno dell’ateneo. Insomma una bella concorrenza per il playmaker tricolore che potrebbe trovare nei Thunders la sua dimensione giusta e per vari motivi. Il primo, e quello anche più importante, è legato al fatto che Oklahoma è una franchigia giovane, fatta di giovani e che non ha

aspettative altissime nell’immediato, oltre che forza e volontà di investire su ‘carte di identità’ non troppo mature. Il posto ideale dove poter crescere e poter giocare senza troppa pressione e senza troppi patemi d’animo, aiutato anche dalla presenza di altre stelle che catalizzano su di loro, almeno per un po’, tutte le attenzioni più particolari. Scelta migliore anche dal punto di vista tecnito, dal momento che sembra essere un segreto di pulcinella l’idea del front office dei Thunders di puntare su di un playmaker da affiancare a Westbrook che verrebbe cosi spostato dove si ritiene che sia più efficace: nel ruolo di shooting guard. Una situazione che quindi calzerebbe a pennello per un giocatore che dovrà conquistarsi e crearsi quella corazza e quel gioco Nba che gli possano permettere di essere e di fare quello che attualmente fa Steve Blake in Oregon con la maglia dei Blazers. Senza contare che le doti di difensore, di discreto passatore, e di giocatore che non ha particolari velleità realizzative conciliano a meraviglia con quelle di primo violino di Kevin Durant e quelle di secondo violino di Russel Westbrook. Se poi a tutto questo ci possiamo aggiungere persino la possibilità che i Thunders possano pescarlo anche in basso al primo giro o addirittura al secondo puntando nel frattempo a fare quello che ha fatto Chicago e cioè portare agli Oklahoma Thunders un ragazzo di Oklahoma che risponde al nome di Blake Griffin.

Colangelo conferma Triano alla guida dei suoi Toronto Raptors: «E’ l’allenatore giusto per noi» C’è chi non sa ancora che fare del proprio futuro e chi invece ha fatto già le prime mosse. C’è chi sta ancora contrattando ed interrogandosi su chi dovrà guidare nel futuro prossimo la sua squadra (vedi Philadelphia dopo l’annuncio di Tony Di Leo di non voler continuare la sua avventura da head coach ndr) e chi invece ha già deciso tutto da questo punto di vista. D’altronde a Toronto Jerry Colangelo ha sempre fatto le cose più in fretta rispetto agli altri ed ecco che ancora una volta l’ex

Phoenix anticipa tutti e mette a bersaglio la prima mossa confermando alla guida dei suoi Raptors ancora una volta Jay Triano. «Durante un periodo in cui ci sono state davvero tante difficoltà, lui ha continuato ad allenare e a fare il suo dovere in panchina – ha spiegato lo stesso Colangelo -. Dopo una rapida analisi di quelle che sono state comunque le evoluzioni messe in evidenza durante questo periodo ci è risultato chiaro e giusto che Jay è l’allenatore che fa per noi».

La nuova accoppiata di Toronto: Colangelo-Triano

ideato da: scritto da:

Stars ‘N’ Stripes Domenico Pezzella

info, contatti e collaborazioni:

Alessandro delli Paoli Leandra Ricciardi Tommaso Staro Nicolò Fiumi Massimiliano Palmisani

domenicopezzella@hotmail.it


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Ancora una volta la maledizione personale del cinese (frattura del piede) gli impedisce di finire una stagione che poteva essere memorabile

Che sfortuna per Yao Ming La ‘Dea Bendata’ sorride ai Clippers, bruciata la concorrenza di Memphis ed Oklahoma Thunders Almeno per una volta la sorte sembra sorridere ed essere dalla parte di quella franchigia che poco negli ultimi anni è stata baciata dalla Dea Bendata. Gli Dei del Basket, però, a quanto pare sono stufi di vedere una Los Angeles solo ed esclusivamente gialloviola ed allora sono intervenuto con quella pallina che ora fornirà ai Clippers quella scelta numero uno tanto attesa. Certo Los Angeles Clippers e scelta numero uno non vanno certo benissimo insieme (basta nominare il nome di Olowokandi ndr), ma almeno un primo passo è stato fatto ora tocca ai biancorossi farlo nella dire-

zione giusta. Questo l’ordine di scelta del prossimo Draft Nba: 1. Los Angeles Clippers 2. Memphis Grizzlies 3. Oklahoma City Thunder 4. Sacramento Kings 5. Washington Wizards 6. Minnesota Timberwolves 7. Golden State Warriors 8. New York Knicks 10. Milwaukee Bucks 11. New Jersey Nets 12. Charlotte Bobcats 13. Indiana Pacers 14. Phoenix Suns

Il famoso proverbio dice: ‘ Non c’è due senza tre’. Dopo Tracy McGrady, dopo quella maledetta gara2 contro i Portland Trail Balzers che ha messo fuori uso il ginocchio e la carriera di Dikembe Mutombo, ora tocca al cinese di Shangai mettere da parte canotta e pantaloncini e stare a guardare in borghese i compagni che lottano per un qualcosa che negli ultimi anni è stato visto come un qualcosa che assomigliava ad una chimera: la Finale di Conference. «Ognuno di noi ora deve dare il massimo - ha detto coach Rick Adelman guardando a gara-4 della serie contro i Lakers -. Tutti devono capire cosa possono fare per aiutarci a vincere. Abbiamo vinto senza tanta gente per tutto l'anno. E' solo un altro caso, non ci si può fermare a pensare chi c'è e chi no. Questi ragazzi credono davvero che se giochiamo come sappiamo possiamo vincere qualsiasi partita». Discorso che non fa una grinza, non fa una piega, ma siamo sicuro che l’ex coach dei Kings lo pensi davvero tutto quello che ha detto o le parole pronunciate nell’immediato dopo-incidente non servano solo a confortare e far salire di livello una squadra che si è visto defraudare dalla sfortuna quella che era la stella principale della squadra. Stando a quanto accaduto in gara4, un po’ Adelman ci ha creduto e forse ci

crede ancora. Fatto sta che è riuscito a tirare fuori la motivazione giusta, ma soprattutto l’equilibrio giusto per distribuire tra gli altri componenti minuti, possessi e quindi punti che in precedenza per ordine di schemi e di giochi dovevano finire nelle mani del lungo cinese. Ne ha approfittato Brooks, ne ha approfittato Scola, a tratti Artest, ma alla fine Houston ha pagato dazio, ha pagato lo scotto di avere una superstar in meno ed una con il doppio compito di difendere sul giocatore più forte degli avversari, alias Kobe Bryant, e mettere punti pesanti. Un binomio ed un’accoppiata che non sempre ha dato si suoi frutti. Insomma una pressione eccessiva quella derivante dal vuoto lasciato vacante da Yao che ora resterà fuori per il resto dei playoff e per il resto di questa stagione (molto probabile che l’aver giocato dopo essersi allontanato dal campo per infortunio in gara2 per poi rientrare ha influito e come sulla sua situazione nel terzo episodio della serie ndr).


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di

D OMENICO P EZZELLA

A sorpresa gli addetti ai lavori e giornalisti assegnano il premio di Most Imrpoved Player al giocatore emergente degli Indiana Pacers

Granger beffa Devin Harris Sembrava essere una questione non di difficile risoluzione, sembrava essere una questione destinata ad avere un padrone solo, cosi come per esempio è successo in tema di Mvp o magari di sesto uomo dell’anno, ed invece cosi non è stato. Insomma colui che era stato predestinato alla conquista di questo titolo, l’unico che ancora mancava insieme al miglior giocatore della Lega, non è riuscito, davvero per una manciata di voti a mettere in atto la sua personale vittoria dopo una stagione dei Nets al quanto deludente. Niente Davin Harris, il trofeo del Most Improved Player prende la statale che porta verso l’Indiana con destinazione la Conseco Fieldhouse di Indianapolis dove Danny Granger è stato il giocatore più migliorato di questa stagione. Una specie di sorpresa per tutti e non perché il numero 33 di Indiana non lo meritasse, anzi, ma perché ormai tutti erano già pronti a titolari pezzi di gior-

nali o di qualsiasi altro mezzo di comunicazione mettendo la sigla in questione direttamente al fianco dell’ex playmaker dei Dallas Mavericks. Beh le sorprese fanno parte del gioco, fanno parte di questo mondo e lo sa bene anche il diretto interessato che cosi esordisce nel giorno della premiazione: «Onestamente sono molto sorpreso, non mi aspettavo di ricevere questo premio addirittura me ne ero anche dimenticato. Ero in Italia che mi godevo le vacanze ed è successo tutto cosi all’improvviso: ho vinto il premio. Penso che in questi quattro anni che ho trascorso ai Pacers abbia accumulato una certa esperienza sia come giocatore sia come tipo di gioco. Devo ancora migliorare dal punto di vista della difesa, devo cercare di migliorare nel tentativo di mandare a bersaglio i miei tiri e segnarlo con più facilità, ma credo che ho ancora tutto il tempo e la voglia per farlo».

Mullin ed i Golden State Warriors si dicono addio Rowell: «Sempre difficile cambiare» Per qualcuno che conferma c’è sempre qualche altro che invece decide di cambiare aria, dare una nuova ventata rispetto al passato mettendo a punto qualche modifica anche importante. Una ventata che deve ancora dimostrare quanti estimatori e quanti detrattori avrà all’interno della Baia di Auckland tra quelli che sono gli addetti ai lavori ed i sostenitori dei Golden State Warriors. «E’ sempre difficile mettere a punto un cambiamento, specialmente se si tratta di un cambiamento importante come quello che ci porta alla

separazione da una persona e da un uomo che ha dato tanto ai Warriors. Lavoro e persona che non dimenticheremo facilmente». A parlare il presidente della franchigia di Golden State, Robert Rowell, con quelle che possono essere definite come le più classiche parole di circostanza di questo mondo. Che l’addio di Mullin sia dovuto ad un rapporto poco idilliaco, tanto per usare un eufemismo, con colui che poi in panchina, e con il quale un giemme dovrebbe avere i rapporti più stretti, la squadra la deve allenare? Ai posteri l’ardua sentenza.


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La compagna del biondo tedesco dei Dallas Mavericks si è scoperta essere un’esperta truffatrice ricercata e con ben otto ‘alias’ differenti

Nowitzki nella rete di...Cristal Una situazione del genere la si era vista ultimamente solo ed esclusivamente all’interno dei grandi schermi e seduti comodamente in poltrona con una bella ciotola di pop corn tra le mani. Molto probabile che le stesse scene di cui si parla le ha viste e riviste anche la diretta interessata, e momento per il quale in tanti avranno pagato per vedere quale la reazione. Come epr magia, però, a Casa Nowitzki, si quella del tedesco biondo con la maglia numero 41 dei Dallas Mavericks, quelle scene sono divenuto realtà, si sono tramutate in un qualcosa di vero che il talento di Wuzburg ha dovuto vivere sulle sue stesse spalle. Non Leonardo Di Caprio il protagoni-

sta principale di quella che potremmo definire la nuova versione di ‘prova a prendermi’, ma Cristal Taylor o meglio ancora colei che una volta terminata questa stagione agonistica avrebbe preso il cognome tedesco di lui convolando a nozze con lo stesso Dirk. E dire che Nowitzki era considerato da tanti come un single convinto, come una sorta di lupo solitario, che però stava per essere sbranato da quello che in apparenza era un agnellino. Una vera e propria professionista del crimine e delle truffe. Un’esperta che però ha commesso qualche piccolo errore di valutazione dando troppo nell’occhio. Comportamenti strani e non conformi alla norma. Questo sarebbe stato il campanello d’allarme principale che ha portato il leader della nazionale teutonica, su consiglio anche di amici, ad assumere degli investigatori privati per cercare di scoprire quante più cose possibili sul futuro della donna e futura moglie Nowitzki. Ma al termine delle indagini, dalle quali magari la peggior ipotesi che ci si poteva aspettare nella ‘posse’ di Dirk era un tradimento o un secondo uomo, beh forse era meglio scoprire quello. Due diversi mandati di cattura emanati dagli stati del Missouri e dalla città di Beamont nel texas per frode e truffe finanziarie ed economiche. Informazioni che sono giunte immediatamente alle orecchie della polizia locale che è subito intervenuta arrestando la donna scoprendo che la stessa nella sua ‘carriera’ aveva addirittura ben 8 nomi ed identità differenti che usava per le sue malefatte. Trasportata al Dallas County Jail («Sono giorni difficili – ha confessato giorni addietro ai microfoni di Espn - non vedo l’ora di tornare sul parquet. La mia situazione personale non è facile, ma voglio che sia chiara una cosa, si tratta di un fatto privato del quale non voglio parlare».) dove tutt’ora è in carcere, visto che non ha liquidità per pagare la cauzione, e nella quale attenderà di essere giudicata non solo per quello che resterà il tentativo di frode ai danni di Nowitzki, ma anche per le accuse di cui deve rispondere negli altri stati.


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Dopo sei anni di permanenza nella Lega l’ex St.Vincent and St.Mary conquista il titolo più ambito a livello personale in quella che è la stagione della caccia al titolo Nba

E’ Lebron il migliore di tutti

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D OMENICO P EZZELLA

Cronaca di una morte annunciata’ il titolo di uno dei libri più famosi di Gabriel Garcia Marques. Cronaca di un successo annunciato quello di Lebron James e della Nba. Insomma dopo tanti se, dopo tanti ma, dopo tanti forse, dopo le tante corse a tre a due, un voto sotto uno sopra, tutto è stato chiarito, tutto è stato messo a posto: il Re è

stato incoronato. Gli anni da principe al fianco degli altri sovrani sono finiti; gli anni da principe nonostante il ‘King’ fosse sempre appiccicato tra i due nomi del ‘The Chosen One’. Ora si che ‘King James’ può essere utilizzato in tutta la sua pienezza, in tutto il suo significato, ora che la corona gli è stata consegnata LBJ può iniziare il suo regno e siamo pronti a scommettere che non avrà vita breve. Insomma mettendo da


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coach Popovic gli lasciava pur di non vederlo prendere velocità ed entrare nel cuore della sua area dove effettivamente nessuno ha mai potuto evitare che facesse tutto quello che voleva sin dal suo anno da rookie. Un tiro da fuori che lo rende più letale di serpente a sonagli, più rapace di un avvoltoio, più feroce di un leone. Un rebus

parte i giri di parole, mettendo da parte, parafrasi o titoli di libri prestati al basket giocato, dopo le ultime stagioni ad altissimo livello (finale persa 4-0 con i San Antonio Spurs nel 2007 e finali di Conference dello scorso anno perse 4-3 contro i Celtics del predestinato Big Three) finalmente è giunto il suo turno, finalmente è giunto il momento di consegnare nelle mani del ‘padrone di Akron’ (e tenete per un attimo in mente questa affermazione sulla quale torneremo più tardi quando si parlerà della cerimonia ndr) lo scettro che tutti a parole gli avevano affidato non appena messo piede in campo dopo il Draft di quel 2003. Era solo questione di tempo, era solo questione di maturazione, era solo questione di mettere assieme quelle tre quattro cose che in questa Lega si imparano solo lottando sul campo, solo con delusioni e rabbia agonistica che ti porta a fare sempre quel qualcosa in più per essere migliore di chi in precedenza ti ha battuto. Era solo questione di dargli il tempo di dimostrare nella sua pienezza il vero Lebron James e

poi…E poi è storia recente è storia di una stagione dominata in lungo ed in largo, è storia di un giocatore dalla forza fisica disarmante e devastante che ha aggiunto quello che tutti gli imputavano ancora come un qualcosa da migliorare: il tiro dalla media e lunga distanza (anche se manca ancora la certezza chirurgica al momento in cui stacca i piedi da terra, ma siamo a buon punto ndr). Quello che per intenderci ha segnato quelle FInals del 2007, quello che


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senza soluzione, un Cubo di Rubick a 16 colori (praticamente irrisolvibile ndr), un cruciverba senza definizioni e chi più ne ha più ne metta. Gli lasci un metro di spazio e ti punisce con il tiro dalla media, lo perdi in transizione e ti ritrovi una bomba sul groppone, lo marchi faccia a faccia e ti brucia con un primo passo degno del miglior Allen Iverson e anche se riesci a tenerlo in velocità ti sbatte per area quasi come in un contrasto di football. E’ come mettersi davanti ad un furgoncino in corsa nel tentativo di fermarlo: un suicidio. Se poi a tutto questo ci si aggiunge la novità di questa stagione (e le parole di coach Frank dei Nets ne sono una dimostrazione : «E’ diventato anche un difensore molto più efficace. Guardando il tutto dal di fuori credo che l’esperienza Olimpica gli abbia dato un qualcosa in più da questo punto di vista e le giocate difensive che riesce a fare sono un qualcosa di veramente straordinario») e cioè la difesa allora la cosa si fa davvero impraticabile, ma in tutti sensi possibili ed immaginabili. Un trofeo arrivato al momento giusto, un trofeo arrivato che segnerà, forse, il passaggio definitivo da quella che era la Nba del passato a quella che sarà la Nba del futuro dove quando si parlerà del 23 di parlerà di Lebron James. Un trofeo che ti proietta nell'Olimpo dei grandi di questo sport, in compagnia di giocatori che hanno fatto la storia della palla a spicchi d’oltre oceano. Detta cosi, però, questa frase potrebbe essere fine a se stessa, o magari potrebbe essere considerata come retorica pura. Ed allora per rendere l’idea, agli appassionati che conoscono almeno un poco la storia di questa Lega, della compagni che si circonderà d’oggi in poi ‘The Choesn One’ qualche nome non dispiacerà affatto anzi. Bill Russel, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar, Willis Reed, Julius Erving, Moses Malone i nomi che si sono succeduti nell’alzare il ‘Maurice Podoloff Trophy’ dagli anni ‘60 fino ai primi anni ‘80, o per meglio dire prima dell’arrivo sui campi di gioco delle superstar moderne. Larry Bird, Magic Johnson, Michael Jordan,

Hakeem Olajuwon, Charles Barkley, David Robinson, Karl Malone, per poi passare attraverso il dominio di Shaquille O’Neal, quello di Tim Duncan, quello di Allen Iverson il bis messo a segno da Steve Nash fino ad arrivare all’ultimo in ordine di tempo, colui che tanto per intenderci la scorsa stagione gli ha strappato la stessa gioia portando in California la statuetta in questione: Kobe Bryant. Alla fine sono stati 1,172 i voti che hanno incoronato King James; 109 su 121 provenienti da giornalisti o coloro che vengono indicati con il termine di addetti ai lavori. Vittoria schiacciante davanti allo stesso Kobe, Dwayne Wade, Dwight Howard e Chris Paul che finisce ancora una volta nelle retrovie di questa speciale classifica. Un distacco quasi doppio rispetto al 24 gialloviola sia per i numeri e per quanto Lebron ha fatto vedere durante tutta questa regular season, sia per il fatto che appagata la fame dei tifosi di veder Bryant alzare quella statuetta nemmeno dodici mesi fa. Leadership, nemmeno a dirlo, in tutti i settori statistici dei Cavs: 28,4 punti; 7,6 rimbalzi; 7,2 assist; 1,7 palle recuperate. Numeri che non fanno altro che iscrivere il nome del ‘prescelto’ all’interno di un altro pregiato club che non veniva ritoccato nella lista dal 2003, ovvero quel club riservato a chi ha guidato la sua squadra a più di 50 vittorie mettendo il proprio nome in cima di ogni statistica. Prima di lui solo Larry Bird (‘85-‘86), Grant Hill (’96-‘97) e Kevin Garnett (’02-‘03). Dulcis in fundo come dimenticare il record stagionale che è anche il migliore di sempre della franchigia dell’Ohio (66-16) e la sola sconfitta in tutta la stagione tra le mura amiche della Quicken Loan Arena di Cleveland. I FESTEGGIAMENTI. ‘Il padrone di Akron’. Qualche riga sopra ci eravamo lasciati con una postilla immediatamente dopo a questa dicitura e ora scopriremo perché. Generalmente l’annuncio e il tutto per la classica consegna del trofeo viene organizzato dagli uomini di Davdi Stern (ovviamente tuto questo prima di scendere in campo epr la prima partita post elezione ndr) nell’arena e nella

TUTTI HANNO DETTO QUALCOSA, COMPRESO GLI AMICI DI SEMPRE Lebron James: «E’ un onore ricevere questo premio, ma gran parte del merito va a tutta la squadra, alla mia famiglia e a voi della Quiken Loans Arena» LEBRON JAMES: «Essere qui questa sera su questo palco è un vero onore per me. E’ un onore essere qui perché vuol dire essere arrivati dove altri grandi di questo gioco, come per esempio Michael Jordan, Kareem Abdlu-Jabaar, Oscar Robertson, Doctor-J e che sono stati un esempio per me, per Chirs Paul, per Dwight Howard e Kobe Bryant un vero modello, vuol dire davvero tanto. Essere votato Mvp della Nba è un qualcosa di veramente incredibile. E’ un riconoscimento che mi mette sotto i riflettori come singolo, tra l’altro l’Mvp è proprio questo. Ma in questo momento credo che questo mio essere singolo, questo mio essere individuo vada rapportato a quello che in campo la mia squadra fa per me e quello che insieme facciamo per vincere le partite». Insomma un Lebron anche ecumenico che non si è risparmiato parole e regali per i compagni di squadra che hanno ricevuto dal loro leader una flip-camera (una macchina fotografica digitale) come regalo e con al quale scattare foto durante i playoff. Dopo il bell’abito, dopo i bei vestiti e dopo Akron e St. Vincent and St. Mary è stato il tempo del campo, il tempo della Quiken Loans Arena, dove James ha anche mostrato un pizzico di emozione al momento di rivolgere le classiche due paroline agli abitanti del ‘tempio pagano’ con tanto di maglia celebrativa. «Sei anni di grande livello, sei anni in cui voi siete stati grandi. Eravate qui nel 2003 quando sono stato scelto al Draft e siete nel momento in cui alzo questo trofeo. Voi come i mie compagni di squadra, lo staff tecnico, coach Brown e la mia famiglia, siete stati una grande parte, anzi avete avuto una grande parte nella conquista di questo premio, grazie infinite». COACH MIKE BROWN: «E’ un talento speciale. Ci sono All-Star, ci sono giocatori che appartengono ad una particolare elite, ma soprattutto ci sono giocatori che sono un passo ed un gradino al di sopra di entrambe. Kobe, Duncan, Jordan, Magic e Lebron fanno parte assolutamente di questa categoria». MO WILLIAMS: «Bastano poche parole oltre al fatto che è un grandissimo giocatore. Poche parole per dire che è riuscito a fare ed andare oltre a quello che potevano essere le supposizioni su una sua possibile stagione, specialmente in difesa».

RICH PAUL (VECCHIO AMICO DI HIGH SCHOOL): «Non è cambiato per niente. E’ uno competitivo, lo era quando giocava all’High School, lo è ora che è l’Mvp della Nba. Ogni estate è sempre li concentrato a focalizzare i punti deboli e le cose che non vanno per rendere il suo gioco migliore ed i risultati sono questi. Per quanto riguarda l’uomo, beh basta guardarlo per capire che nonostante tutto non si è dimenticato di nessuno».


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Bill Russell il più giovane in assoluto, Lebron il più giovane da quando il titolo viene assegnato da giornalisti TUTTI GLI MVP DIVISI PER ETA’ 23 Bill Russell (1958-born: 2/12/34) Wes Unseld (1969-born: 3/14/46) Chamberlain (1960-born: 8/21/36) Bob McAdoo (1975-born: 9/25/51) Bob Pettit (1956-born: 12/12/32) 24 Moses Malone (1979-born: 3/23/55) Abdul-Jabbar (1971-born: 4/16/47) Dave Cowens (1973-born: 10/25/48) O.Robertson (1964-born: 11/24/38) LeBron James (1984-born: 12/30/84) 25 Michael Jordan (1988-born: 2/17/63) Abdul-Jabbar (1972-born: 4/16/47) Allen Iverson (2001-born: 6/17/75) Bill Walton (1978 -- born: 11/5/52) 26 Bill Russell (1961-born: 2/12/34) Tim Duncan (2002-born: 4/25/76) Bob Pettit (1959: born: 12/12/32) 27 Bill Russell (1962-born: 2/12/34) Moses Malone (1982-born: 3/23/55) Abdul-Jabbar (1974-born: 4/16/47) Tim Duncan (2003-born: 4/25/76) Kevin Garnett (2004-born: 5/19/78) Willis Reed (1970-born: 6/25/42) Magic Johnson (1987-born: 8/14/59) Larry Bird (1984-born: 12/7/56) 28 Bill Russell (1963-born: 2/12/34)

Michael Jordan (1991-born: 2/17/63) Shaquille O'Neal (2000-born: 3/6/72) Moses Malone (1983-born: 3/23/55) Dirk Nowitzki (2007-born: 6/19/78) Bob Cousy (1957-born: 8/9/28) Larry Bird (1985-born: 12/7/56) 29 Michael Jordan (1992-born: 2/17/63) Abdul-Jabbar (1976-born: 4/16/47) David Robinson (1995-born: 8/6/65) Magic Johnson (1989-born: 8/14/59) Chamberlain (1966-born: 8/21/36) Kobe Bryant (2008-born: 8/23/78) Larry Bird (1986 -- born: 12/7/56) 30 Bill Russell (1965-born: 2/12/34) Charles Barkley (1993-born: 2/20/63) Abdul-Jabbar (1977-born: 4/16/47) Magic Johnson (1990-born: 8/14/59) Chamberlain (1967-born: 8/21/36) 31 H.Olajuwon (1994-born: 1/21/63) Steve Nash (2005-born: 2/7/74) Julius Erving (1981 -- born: 2/22/50) Chamberlain (1968-born: 8/21/36) 32 Steve Nash (2006-born: 2/7/74) 33 Michael Jordan (1996-born: 2/17/63) Abdul-Jabbar (1980-born: 4/16/47) Karl Malone (1997-born: 7/24/63) 35 Michael Jordan (1998-born: 2/17/63) Karl Malone (1999-born: 7/24/63)

‘casa’ del migliore di tutti, ma non questa volta e non per Lebron James. Il numero 23 dei Cavaliers, infatti, ha voluto alzare il titolo al cielo in quella che è stata la palestra ed in quella che è stata la scuola e lo scenario che gli ha dato la possibilità di essere quello che è (ma poi siamo tanto sicuri che il merito di questo Lebron sia anche del liceo da lui frequentato, o magari è quest’ultimo ad aver ricevuto più di semplici attenzioni ed addirittura delle dirette nazionali solo per vedere colui al quale sarebbe poi stato assegnato lo scettro della Nba ndr). Insomma niente Cleveland città, niente Quiken Loans Arena, ma tutti ad Akron, dove nella palestra della St. Vincent and St. Mary è stata bandita la tavola in cui il nuovo Mvp ha voluto banchettare,dove ha voluto dedicare il suo successo individuale alla sua famiglia, alla città di Akron (dove lo stesso James si è costruito una vera e propria Reggia con anche il più classico dei ‘Barber Shop’ per qualsiasi evenienza ndr) al suo liceo, ma soprattutto ai suoi compagni di squadra. Poi però niente festa, niente notte brava, tranne qualche piccolo festeggiamento a casa Lebron, visto che all’orizzonte c’erano subito gli Hawks e le Semifinals.


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Che palmares a soli 24 anni - Premio NBA miglior giocatore dell'anno: 2008-2009 - NBA Rookie of the Year Award: 2004 (il giocatore più giovane della storia a ricevere questo titolo) - MVP dell'NBA All-Star Game 2006 (il più giovane della storia) e 2008. - Convocazioni NBA All-Star Game: 2005, 2006, 2007, 2008, 2009. - Medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino 2008 - Medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene 2004 - McDonald's All American (2003) - All-NBA First Team 2005-06 (il più giovane della storia ad essere incluso nel primo quintetto), 2007-08 e 2008-09. - All-NBA Second Team 2004-05 e 2006-07. - Player of The Month Eastern Conference: 11 (Novembre 2004, Gennaio 2005, Novembre 2005, Marzo 2006, Marzo 2007, Gennaio 2008, Febbraio 2008, Novembre 2008, Gennaio 2009, Marzo 2009, Aprile 2009). - NBA All-Defensive First Team 2009 - Terzo rookie della storia NBA a registrare almeno 20 punti, 5 rimbal-

zi e 5 assist per partita. - Terzo giocatore nella storia NBA ad accumulare almeno 31 punti, 7 rimbalzi e 6 assist di media per un'intera stagione (31.4, 7.0, 6.6) dopo Michael Jordan e Oscar Robertson. - Alla partita di debutto nei playoff ha collezionato una tripla doppia (32, 11, 11); prima di lui solo Johnny McCarthy, e Magic Johnson erano riusciti a farne una al debutto nei playoff. - Più giovane giocatore a segnare: 7.000 punti a 21 anni e 353 giorni 8.000 punti a 22 anni e 78 giorni 9.000 punti a 22 anni e 352 giorni (togliendo il record a Kobe Bryant, che l'aveva raggiunto a 24 anni e 127 giorni), 10.000 punti a 23 anni e 59 giorni (togliendo il record a Bryant, che l'aveva raggiunto a 24 anni e 193 giorni) 11.000 punti (togliendo il record a Bryant, che l'aveva raggiunto a 25 anni compiuti) 12.000 punti a 24 anni e 35 giorni (togliendo il record a Bryant, che l'aveva raggiunto a 25 anni e mezzo


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Dopo averne vinte tre nelle ultime due stagioni (contro Atlanta al primo turno ed in finale di Conference con i Cavs nella scorsa stagione), i Celtics pagano

La dura legge di Gara7 di Domenico Pezzella «Nessuno credeva che i Boston Red Sox potessero rimontare gli Yankees dallo 0-3 eppure è successo. Il fatto che i Celtics abbiano un record di 32 vinte e zero perse nei playoff ogni qualvolta nei playoff la serie è stata sul 3-2 per loro, non vuol dire niente. I record o le statistiche sono fatti per essere superati e noi ci proveremo». Questa la dichiarazione di Sten Van Gandy dopo la sconfitta a Boston che vedeva i Magic sotto 3-2 nella serie. E da queste parole che parte l’analisi di una gara7 che ha visto gli Orlando Magic vestire i panni di Boston Red Sox (con tutti i dovuto aggiustamenti sia di serie che di sport) e ribaltare una situazione di sfavore in suo favore. Sulla lavagna del coach dei Magic prima di gara7 c’era scritto 32-1 quasi a dimostrazione che gran parte del lavoro era stato fatto, avevano messo da parte la cabala, avevano messo da parte quella che poteva essere la maggiore alleata, se cosi possiamo chiamarla, dei Celtics in gara6. E a quanto pare lo scopo psicologico del timoniere di Orlando ha funzionato e come. Eppure quella ammirata nella notte di domenica, è sembrata essere una partita contro ogni qualsiasi logica, una squadra come Boston che di gare7 ne ha vissute molto più dei Magic nelle ultime due stagioni che va sotto come mai era successo sia quest’anno contro i Bulls sia contro Atlanta e Cleveland la scorsa stagione. Già la scorsa stagione. Inevitabile in alcuni casi fare dei paragoni e quello che attualmente può spiegare il perché i Celtics abbiano abdicato prima ancora di mettere a segno il primo back to back del Big Three è estremamente legato al nome di Kevin Garnett. L’assenza dell’ex Minnesota ha pesato come non mai all’interno di un cammino di

playoff in cui i biancoverdi hanno sinceramente fatto quello che potevano, anche perché poi la dea bendata non ha certo dato una mano a Rivers ed il suo staff. Senza KG (sul quale tutti contavano per un recupero miracoloso se si fosse arrivati in finale anche se poi coach Rivers getta acqua sul fuoco cosi dichiarando: «Non avrebbe comunque giocato nella prossima serie ci speravamo, ma non penso che sarebbe successo» ndr) tutti avevano pensato di appoggiarsi alle spalle larghe di un ragazzo che non si è mai tirato indietro davanti ad un pericolo, Paul Pierce. Definire le due serie di playoff del numero 34 dei Celtics come eroiche è un vero e proprio eufemismo. In campo con un polpaccio in disordine e più in fiamme di un vulcano, ‘P Square’ ci ha provato, ma alla fine si è dovuto arrendere al destino. Le difficoltà fisiche denotate contro Salmon nella serie con i Bulls erano più di un semplice campanello di allarme per un serbatoio che si avviava inesorabilmente verso la riserva ed ancora più giù. Serbatoio vuoto («Credevamo che potessimo andare in finale e vincere ancora il titolo, malgrado gli infortuni», ha detto Pierce. «Sembra invece che abbiamo finito la benzina»). Questo il tema principale di una gara7 dove il più delle volte il valore tecnico conta meno di quello nervoso e delle energie. Un tipo di match a parte sia dai playoff, che dalle serie di playoff, un tipo di aprtita dove dominare gli avversari sia psicologicamente che fisicamente fa tutta la differenza di questo mondo. Molto probabile che domenica notte la mente dei Celtics fosse la stessa di quella della gara7 dello scorso anno contro Lebron e Cleveland, ma le gambe e le energie non erano nemmeno quelle di inizio stagione. Se qualcuno si stesse ancora chie-

dendo quanto abbia pesato sull’economia delle energie dei Celtics il primo turno contro Chicago quella di domenica scorsa è la risposta definitiva e che fuga ogni possibile dubbio. Sotto per tutto il match con due picchi e due sussulti di orgoglio da veri campioni, ma alla fine è stato tutto inutile. Nemmeno i problemi di falli di Howard nel finale hanno rivitalizzato una squadra che ha provato a reagire di nervi, ma che alla fine si è dovuto arrendere alla maggiore energia e freschezza del killer turno Hedo Turkoglu. Un altro giocatore che una gara7 importante e di peso nella sua carriera l’ha già giocata e persa, quella consegnata agli annali del basket a stelle e strisce e datata 2002 tra i Lakers di Kobe-Shaq e la Sacramento di Adelman, di Bibby, di Webber, Stojakovic e lo stesso Turkoglu. Di sicuro il turno avrà ripensato e ripassato nella sua mente tutti momenti di quella gara7 per sfruttarne ogni singolo momento e per sapere quando piazzare la zampata vincente. Con i Celtics in rimonta a -12 (78:90) il turco ha deciso che era ora di cambairi le sue personali sorti nei confronti di una gara7 e non perderne un’altra dopo 7 anni di distanza e tanti anni di esperienza alle spalle. Cinque punti in fila per scacciare i fantasmi e 10 totali in un quarto che spezza definitivamente le gambe a Boston. «Abbiamo imparato moltissimo, siamo venuti qui e abbiamo battuto i campioni sul loro stesso campo. Tutti parlavano di esperienza, ma la differenza l'hanno fatta impegno ed energia. Ha vinto la squadra che ha giocato più duro». Queste le parole di un giovane Howard che mettono definitivamente la parola fine alla serie tra i campioni in carica dei Celtics e gli orlando Magic che tornano in una finale di Conference dal lontano 1996.


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D OMENICO P EZZELLA

Qualcuno addirittura lo aveva definito senza talento e ormai fuori dal rango delle stelle, ed invece l’ex Detroit Pistons è rinato nella sua città d'origine

Chauncey Billups re-born ‘Home sweet home’. Molto probabile che durante gli anni migliori ai Pistons, durante quegli anni in cui nessuno lo voleva (i più diretti furono i Minnesota Timberwolves che dopo essersi servito di lui per raggiungere i playoff con Terrell Brandon infortunato, gli diedero il ben servito relegandolo, nonostante tutto, al ruolo di point guard di riserva ndr) quello che è lo spot che viene impresso anche su tante targhe ricordo che fungono da souvenir per la casa, fosse quello maggiormente attribuito ad una città, la Mo Town di Detroit,

che lo aveva adottato e che lo aveva fatto uno dei suoi beniamini. Ma la città natale, la città nel cuore di colui che potremmo definire defintivamente un uomo in missione, resta sempre la stessa, quella per la quale finalmente riesce a giocare ed anche ad alto livello, dopo gli sprazzi di partite e di apparizioni della sua prima parte di carriera Nba. Il Colorado lo stato in cui è cresciuto come persona, lo stesso quello in cui è cresciuto cestisticamente ed ora il Colorado e Denver la città in cui cercare di fare qualcosa di grande in

modo tale che il suo nome e quello della ‘sua casa’ non fossero uniti solo da documenti o pezzi di carta, ma anche da risultati scolpiti nella mente dei tifosi. Molto probabile che in quel 5 di Novembre scorso quando i Pistons ed i Nuggets misero in scena una delle trade più scioccanti degli ultimi anni, visto che coinvolgevano due superstar come Iverson e lo stesso Billups, all’ombra delle montagne rocciose di Denver non tantissimi erano convinti di un Chauncey cosi determinante per i Nuggets e non solo a livello di pallacanestro giocata.


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Molto probabile che l’opinione comune era quella che gli ultimi anni trascorsi nella Mo Town lo avevano logorato come giocatore e che quel trofeo di Mvp delle Finali 2004 ed il conseguente anello, lo avessero appagato dal punto di vista della fame cestistica, ed invece…Ed invece Billups non solo è riuscito nel tentativo di far ricredere tutti, compreso qualcuno nello staff tecnico o addirittura nella squadra, ma è riuscito in un qualcosa che solo dei leader, che solo dei campioni riescono a fare: farsi seguire e cambiare il modo di concepire determinante sfaccettature del gioco a chi è importante sul rettangolo di gioco almeno quanto lui. Il suo rapporto con Camelo Anthony e il modo in cui Billups è riuscito a far entrare nella zucca ora quasi pelata dell’ex Syracuse che oltre a far canestro c’è di più, resta un mistero paragonabile a quello religioso e tanto famoso. Fatto sta che però le cose sono cambiate e sempre in meglio. Da un insieme di individui

dotati di enorme talento e qualità i Nuggets si sono trasformati, strada facendo, in una squadra in un gruppo con tante armi e frecce da scagliare. Dal suo arrivo il bilancio W-L di Denver non è mai sceso al di sotto del 50% e nemmeno ci si è avvicinato. Sempre in positivo, sempre al di sopra del par, non inteso in senso golfistico, cosi come dimostrano anche le statistiche: 11-5 a novembre, 9-6 a dicembre, 10-4 a gennaio, 8-4 a febbraio mentre gli ultimi due mesi sono scivolati via con 15 vittorie e 8 sconfitte complessive. Il tutto completato con un andamento stagionale non tra i più alti della sua carriera, ma di sicuro di alto livello (17,9 punti per gara, 6,4 assist e 40% abbondante da dietro l’arco dei 6 e 75). Ad impressionare, infatti, non sono i suoi numeri personali, le sue cifre quante volte è andato in doppia cifra in senso di ventelli o trentelli, ma quello che ha impressionato è il modo in cui si è inserito all’interno di un gruppo dove ha sempre cercato di essere parte integrante e

non violino assoluto, quello che purtroppo non era riuscito a fare Allen Iverson, specialmente in rapporto all’altra stella, Melo. E ora? E ora Chauncey Billups è i Denver Nuggets ed i Denver Nuggets sono anche, e non solo, Chauncey Billups, un qualcosa che lo stesso numero 7 ha già vissuto quando nacquero quei Pistons che lo spedirono di diritto nell’olimpo dei grandi di questo gioco e della Lega con i Nuggets consapevoli di avere in squadra ‘The Big Shot’, l’uomo, dopo Robert Horry, a cui tutti vorrebbero affidare un tiro ed un pallone dal peso specifico di una intera montagna e chissà che la franchigia del Colorado non abbia trovato quella tessera mancante del puzzle, quella quadratura del cerchio per arrivare laddove Chauncey è già stato…Nothing is impossibile, recitava un famoso spot americano, nemmeno che Billups possa portare Antohny a duellare per l’anello con colui che è stato da sempre il suo rivale: Lebron James.

LE STATISTICHE DI ‘BIG SHOT’ NEI PLAYOFF


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‘Desaparecidos’ Dall’appellativo di ‘Kobe ‘Nanny’ Stopper’ all’anonimato più assoluto, tutta la carriera di un altro giocatore meteora: Ruben Patterson

“Probabilmente il miglior giocatore a disposizione della squadra per la Summer League era Ruben Patterson[...] Buon difensore, un combattente e molto abile nelle situazioni di contropiede. Uno dei problemi con Ruben, tutavia, era che di solito, in allenamento, si trovava contrapposto a Kobe Bryant e lo affrontava con una grinta feroce. Come se avesse qualcosa di personale nei suoi confronti. [...] Mi sembrava così che l’atteggiamento di Ruben fosse deleterio per la squadra.” Con queste parole Phil Jackson descrive Ruben Patterson nel suo libro More Than A Game. E già da questo abbiamo chiaro il soggettino che ci troviamo di fronte. Una storia già sentita nell’ambiente NBA. Ragazzo dall’adolescenza complicata, uscito dall’High School con voti bassi passa un biennio in un Junior College, altri due anni in NCAA per mettersi in mostra, selezione al 2° giro, europa e tanta gavetta per rientrare nel giro che conta. Con tutta la rabbia che monta dentro, facilitata da un caratterino tutt’altro che semplice. Patterson, infatti, nei suoi anni NBA è spesso risaltato nelle cronache più che per le gesta sul parquet per le sue “imprese” extra cestistiche, che lo hanno spedito davanti ai giudici in svariate occasioni. Ma andiamo con ordine. Ruben Nathaniel Patterson nasce il 31 luglio 1975 a Cleveland, Ohio. La situazione familiare non è, purtroppo, diversa da quella di tantissimi altri ragazzi che nascono in situazioni economiche e sociali disagiate. La mamma e una delle sue due sorelle entrano ed escono dal tunnell della tossicodipendenza, mentre il padre fa visita alle celle della prigione più volte. Ruben cresce per la maggior parte della sua infanzia con la madre, Charlene Patterson. Il talento sul campo da basket c’è e si nota. L’High School che lo vede evoluire è la John Hay di Cleveland, ma terminato il suo ultimo anno i voti non sono abbastanza buoni per entrare in un università importante. Il ragazzo allora fa le valigie e va verso Indipendence, Kansas, dove si iscrive al locale Comunity College. Qui in due anni impazza letteralmente, riscrivendo 9 record assoluti della scuola, compreso quello per più punti in una partita, con 58. Al suo primo anno viene eletto Conference Freshman of the Year e Conference MVP. Dopo il suo anno da sophomore arriva la chiamata da parte di un college di

Division I, i Cincinnati Bearcats, programma da cui sono usciti due tipetti come Kenyon Martin e Jason Maxiell e che storicamente forgia giocatori duri fisicamente e di carattere, esattamente l’ambiente naturale per Patterson. Durante il suo primo anno a Cincy (che per lui equivale a quello da Junior) ha subito un buon impatto e contribuisce con 13,6 punti, 5,4 rimbalzi e quasi il 55% dal campo alla concquista del titolo della Conference USA. Titolo che arriva anche nell’annata successiva, in cui sale a 16,5 punti e 6,3 rimbalzi, meritandosi anche l’inclusione nel terzo quintetto di All American a fine stagione. Purtroppo per lui non ci sono solo buone notizie. Nel corso della stagione, infatti, sua madre muore a causa di un infarto. A Ruben viene comunicata la notizia mentre è in trasferta con la squadra e gli viene immediatamente offerto un volo per tornare a casa. Ma lui, quasi a voler rimarcare il suo carattere d’acciaio, si rifiuta. “Mia madre avrebbe voluto che io giocassi” le sue parole, a cui fa seguito la migliore partita della sua carriera universitaria, chiusa con 37 punti a referto.Terminato il quadrienno universitario è il momento del draft. Siamo nel 1998, anno in cui al numero 1 assoluto và Michael Olowokandi, mentre Dirk Nowitzki e Paul Pierce devono aspettare rispettivamente la chiamata numero 9 e 10. Patterson, invece, viene scelto al secondo giro, esattamente al numero 31, dai Los Angeles Lakers, subito dopo Ansu Seasy e subito prima di Rashard Lewis. Che le cose nella vita di Patterson non sarebbero riuscite tutte facili lo si era già capito, ma a rafforzare il concetto ci si mettono anche le scartoffie contrattuali. Manca l’accordo tra Associazioni Giocatori e NBA, ergo, lock out. Ergo non si gioca. In tanti scelgono di attraversare l’oceano per spendere un pò di tempo in Europa, piuttosto che star fermi ad attendere l’inizio della stagione. E’, come si era intuito, anche il destino di Ruben Patterson, che firma un contratto con l’AEK Atene. Ai tifosi greci mostra tutte le sue caratteristiche di giocatore esuberante atleticamente, con grande forza fisica, ma anche incostante, con serate da incorniciare (season high di 25 punti nella defunta Saporta Cup contro il Partizan di Belgrado) che si


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alternano a prestazioni deleterie. La sua esperienza europea termina il 5 novembre 1998 quando si infortunia e viene rilasciato dopo 19 partite in cui mette assieme 12,6 punti e 3,6 rimbalzi di media in quasi 27 minuti di utilizzo. E’il momento di fare ritorno in NBA. La stagione alla fine parte e Ruben mette piede in campo in 24 partite totalizzando numeri trascurabili in soli 6 minuti di impiego medio. Arriva l’estate, arrivano le Summer League. E’ il momento in cui giocatori come Patterson, che ancora non hanno un posto fisso all’interno della squadra, devono lottare e sgomitare per farsi notare dagli allenatori. Ma come abbiamo visto, vuoi per il passato difficile, vuoi per gli insegnamenti appresi a Cincinnati, il ragazzo ci mette troppa enfasi e così Phil Jackson decide di rilasciarlo senza dargli una seconda chance. Ne approfittano i Seattle Supersonics che si prendono un giocatore dotato di ottime doti difensive a un prezzo bassissimo (meno di un milione di dollari). E fanno un affare. Patterson contribuisce da subito anche nella metà campo offensiva e finisce col giocare 81 partite di cui 74 in quintetto. Segna 32 punti di season high e in 4 occasioni cattura anche 11 rimbalzi. I Sonics vanno ai playoff dove escono al primo turno perdendo a gara 5 (3-2) contro gli Utah Jazz. In tutto ciò nasce anche il mito del “Kobe Stopper”, leggenda creata dallo stesso giocatore che si vantava di riuscire a fermare il talento di Kobe Bryant ogni qualvolta lo marcasse negli allenamenti dell’anno precedente con i Lakers. La stagione successiva è quella che segna l’inizio dei problemi extra cestistici. Già nella off season l’ex Bearcats si mette in mostra fuori da un locale di Cleveland picchiando un uomo, e provocandogli la fattura della mascella, reo di avergli rigato la macchina. Condannato inzialmente a 6 mesi di prigione, la pena viene poi sospesa e commutata in 1000 dollari di multa a cui si sommano 80 ore di lavori socialmente utili e 3 partite di squalifica. Sul campo, in ogni modo, le cose continuano a funzionare. Patterson gioca stabilmente da 6° uomo e a fine stagione farà segnare 13 punti e 5 rimbalzi di media con quasi il 50% dal campo. Ma ancora una volta c’è l’inghippo. E’ il febbraio 2001 quando “The Kobe Stopper” diviene “The Nanny Stopper”. Il motivo? Un’accusa di violenza sessuale sulla baby sitter (appunto ‘nanny’ in inglese) 24enne del figlio. Questa volta le conseguenza sono 15 giorni di arresti domiciliari e 5 partite di sospensione all’inizio della stagione seguente. Che comincia con indosso una nuova divisa, quella dei Portland (in quel momento più che mai) Jail Blazers che fanno sottoscrivere al giocatore un succosissimo contratto di 6 anni. I Blazers annoverano in squadra soggetti del calibro di Bonzi Wells, Zach Randolph e Rasheed Wallace dei quali, nel corso dei suoi 4 anni di permanenza, Patterson si dimostrerà degnissimo compare. Parlando di basket la sua prima stagione è discreta. Non ripete i numeri dell’anno precedente, ma segna comunque in

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doppia cifra e tiene il campo quasi 24 minuti a incontro. Portland va ai playoffs dove viene “sweepata” al primo turno proprio dai Lakers di quel Kobe Bryant che non perde occasione per riservare all’ex compagno di squadra un trattamento speciale. Le due stagioni seguenti a livello individuale sono complicate. Le sue prestazioni, così come i minuti in campo, scendono di livello. Continua a rimanere nelle rotazioni, ma è evidente che tutto quello che nel frattempo sta accadendo fuori dal campo gli crea dei problemi. Segnatamente si parla di due accuse di violenza domestica contro la moglie, Shannon. Nel secondo caso è il compagno di squadra Derek Anderson a pagargli la cauzione per farlo uscire di galera, mentre in seguito la moglie farà cadere le accuse salvo poi chiedere, e ottenere, il divorzio. In Oregon, intanto, la dirigenza ha deciso di cambiare pagina definitivamente. Basta coi ragazzacci, via le mele marce, dentro facce pulite. Arriva come coach Nate McMillan. E anche qui Ruben dà modo ai media di parlare di sè rifiutandosi di rientrare in campo in una partita adducendo a motivazione lo scarso minutaggio ricevuto. A ciò aggiunge la richiesta di giocare almeno 25 minuti a partita, oppure di venire scambiato. La dirigenza non se lo fà ripetere due volte e nel Febbraio 2006 lo impacchetta e spedisce a Denver. Qui gioca mezza stagione e un primo turno di playoff dove non perde occasione di fare un pò di casino in spogliatoio trovando da dire con George Karl. Anche i Nuggets preferiscono mandarlo altrove. Nuova destinazione, Milwaukee. Qui, facilitato da una squadra falcidiata dagli infortuni mette assieme il massimo in carriera per punti (14,7) ma a fine anno è free agent e anche i Bucks pensano che un Patterson sia meglio perderlo che trovarlo. Le sue ultime tracce ufficiali nella Lega risalgono alla stagione 2007-2008 e alle 20 partite giocate con i Los Angeles Clippers prima di venire rilasciato il 13 dicembre 2007. Quest’estate ha provato a fare la squadra ancora con i Nuggets, ma non ha passato la pre season. Ha poi tentato la carta del campionato Libanese (!), ma, ancora una volta, si è fatto notare soprattutto in tribunale. Il 15 maggio 2007, dopo essersi trasferito in una nuova casa a Cincinnati, non ha presenziato per firmare dei documenti ancora riguardanti l’accusa di violenza sessuale. E’ stato così emanato un mandato di comparizione a suo carico. Ancora una volta il buon Ruben se l’è cavata con un multa da 1000 dollari, con il suo avvocato, l’ex giocatore NFL Tim McGee, a dichiarare che il caso è stato eccessivamente ingigantito. Ad oggi Patterson è un giocatore disoccupato e probabilmente lo resterà ancora a lungo, se non definitivamente, visto che risulta difficile pensare che qualche squadra vorrà prendersi a carico un giocatore così disfunzionale. Resteranno però sempre con noi le sue mirabolanti imprese all’esterno del campo da gioco. Le imprese di Ruben “The Nanny Stopper” Patterson.


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Lebron e Cleveland rinchiudono le ‘aquile’ in gabbia: è ancora ‘sweep’ A questo punto, dopo due serie di playoff, 8 partite e altrettante vittorie, è necessario partire snocciolando un pò di cifre: Cleveland in quest’arco temporale viaggia a 94,9 punti di media, dato non necessariamente esaltante, ma ne subisce in media 78,1. Ha sempre vinto in doppia cifra (massimo scarto +27 contro Detroit, minimo 10 in gara 4 contro Atlanta), tira il 47,3% dal campo e il 34,7% da 3 concedendo rispettivamente il 39,7% e il 31,3%. A rimbalzo in media cattura 10 carambole in più degli avversari (42,3 contro 32,1). Domanda: sono stati poco probanti gli avversari o i Cavs di sua Maestà LeBron James sono davvero inarrestabili? Al solito, la verità sta nel mezzo. Atlanta è arrivata allo scontro in condizioni tutt’altro che ottimali dopo una serie durissima, soprattutto a livello fisico, contro Miami, in pratica senza Marvin Williams (3 partite giocate, 18 minuti di media, 3 punti col 21% al tiro), con Al Horford vittima di problemi fisici lui pure (chiude i playoff con meno di 7 punti di media e solo 5,8 rimbalzi) assommando a questo Joe Johnson in crisi (16,4 punti di media col 41% dal campo e quasi 3 palle perse di media). L’idea di provare anche solo a giocarsela in Ohio è stata immediatamente accantonata e alla Quicken Loans Arena si è assistito a due partite degne della peggiore regular season, specialmente gara 2, mentre l’obiettiva inferiorità sul rettangolo di gioco ha reso impossibile far valere il fattore campo casalingo che l’anno scorso aveva tanto spaventato i Boston Celtics. 72, 85, 82, 74 sono i punti segnati dalla squadra di Mike Woodson nelle quattro partite e sono numeri efficaci per rendere l’idea della situazione fisica e mentale dei Cleveland Cavs che stanno imponendo un impronta difensiva alle partite degna veramente della squadra che vuole puntare al titolo. Tutte le debolezze degli Hawks sono state messe in croce. Con Johnson, come detto, in dif-

ficoltà (e pure lui con problemi fisici dopo gara 2) e la maggior parte delle responsabilità offensive sulle spalle di Josh Smith, lo si è sfidato al tiro da fuori riempendo l’area per impedire i suoi esplosivi blitz a centro area (che comunque non sono mancati), Horford non è mai entrato in ritmo così che il pacchetto di lunghi avversari ha condotto in porto le 4 gare senza dover troppo faticare in nessuna delle due metà campo, dalla panchina nè Murray nè Mo Evans hanno portato l’energia necessaria per cercare di dare un pò di vita alla serie, mentre qualche lampo lo ha regalato Mike Bibby con le sue triple, ma alla lunga è stato troppo solo. Chiaro che fosse una serie dal pronostico chiuso, ma certamente ci si poteva aspettare qualcosa in più dalle Aquile. In maglia Cavs, invece, ha continuato ad evoluire quell’alieno che risponde al nome di LeBron James. Al secondo intermedio le sue cifre parlano di 32,9 punti, 9,8 rimbalzi e 6,8 assists con un fantascentifico 53,2% al tiro compreso un non disprezzabile 36,4% dalla lunga distanza. E il tiro dalla lunga distanza è il punto focale del suo gioco in questo momento. James sembra avere sempre più fiducia in questo fondamentale, che visti i suoi mezzi fisici può essere scagliato praticamente da qualsiasi distanza come ha potuto constatare Mario West in gara 2, e visto che le sue penetrazioni sono virtualmente inarrestabili sia per la capacità di concludere che, eventualmente, di scaricare ai compagni, se comincia ad entrare con buone percentuali allora vien da dire che non ha più senso star qui a giocare. Gara 3 và direttamente negli annali del basket come prova di dominio assoluto su un campo basket, ma la sensazione migliore che avrà sicuramente coach Mike Brown è che la squadra è entusiasta di seguire il proprio leader. Williams e West sono fieri scu-

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dieri e hanno continuato a fare il proprio dovere, colpendo dalla lunga sugli scarichi, ma ancora una volta facendo il meglio in difesa. Ed è qua che la squadra mostra il proprio entusiasmo. Facendo una statistica James segna 32,9 punti sui 94,9 totali della squadra, quindi il 34,6% dai punti totali della squadra, più di un terzo. Il resto dei compagni, quindi, in attacco contribuisce il giusto, ma fà la differenza nella propria metà campo. Wally Szczerbiak ne è un esempio lampante. Entra in campo e lo si vede sputare sangue su ogni pallone in possesso degli avversari, quando il suo più grande difetto da sempre sventolato da tutti era la sua scarsa attitudine difensiva. Più volte Atlanta è arrivata ad esaurire il cronometro dei 24 secondi senza riuscire a tirare o prendendo tiri forzati allo scadere. Ora arriva la vera prova del nove per i Cavs che nelle Finali di Conference dovranno dimostrare di essere quelli ammirati fin qui anche contro avversari davvero di alto livello che metterano maggiormente sotto pressione la difesa e creeranno ostacoli più complicati da superare per gli attaccanti. Intanto riposano ad oltranza e così arriveranno molto tranquilli al penultimo atto di questa post season. Gli Hawks entrano invece nella off season con la coscienza pulita e contenti per una stagione che è andata laddove la si voleva far andare, ossia almeno al secondo turno dei playoff, dopo l’exploit del 2008. Ora viene il difficile, ossia effettuare quell’ulteriore passo che ti porta dall’essere una buona squadra al diventare una seria contender per qualcosa di più del 4° posto ad est. I limiti strutturali sono noti, poca organizzazione di gioco, tanta improvvisazione e destino spesso affidato alle esplosioni di atletismo dei propri giovani virgulti. Per il futuro è necessario costruire fondamenta più solide. Il tempo è sempre dalla loro parte, ma ora c’è meno spazio per gli errori.

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C L E V E L A N D - AT L A N TA I N P I C T U R E S

DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Zaza Pachulia: «Lebron James non è l’Mvp per caso» Williams: «Ha dimostrato perchè è il migliore di tutti» GARA 1. MO WILLIAMS: «Un MVP che prende sfondamento su un contropiede. E’ fantastico! Come posso non trarre carica da una cosa del genere? Tutta l’attenzione stasera era su LeBron e lui è sceso in campo dimostrando perchè è lui l’MVP della Lega». JOSH SMITH: «E’ frustrante. Abbiamo passato il primo turno e oggi ci siamo resi conto di non riuscire a giocarcela nel secondo tempo a questo nuovo e più alto livello». GARA 2. LEBRON JAMES: «Non voglio dire che sono sorpreso della facilità con cui stiamo vincendo. Siamo un’ottima squadra, giochiamo con fiducia e crediamo ognuno nei proprio compagni». MIKE WOODSON: «Stiamo giocando male, mentre loro sono al massimo livello. Ora abbiamo una chance tornando a casa nostra e giocan-

do davanti ai nostri tifosi. Dobbiamo fare gruppo, per ripartire da capo e vedere di che pasta siamo fatti». GARA 3. LEBRON JAMES: «E’ davvero fantastico per me. Ci sono pochi giocatori che possono entrare in ritmo in questo modo e io ringrazio Dio di avere le capacità per essere uno di quelli». ZAZA PACHULIA: «Non è l’MVP per caso. Sà quando premere sul gas ed è quello che fa puntualmente al momento giusto». GARA 4. WALLY SZCZERBIAK: «Siamo felici di aver chiuso la serie oggi. Ora possiamo fermarci un attimo e riposarci. Abbiamo un pò di lividi da far guarire dopo queste partite». MIKE WOODSON: «E’ davvero difficile dare una nel roster, ma comunque non potrei essere più valutazione obiettiva alla squadra, perchè in que- orgoglioso di questa squadra. Quest’anno abbiasta serie eravamo davvero menomati fisicamenmo fatto grandi miglioramenti». te. Ora dobbiamo fare qualche aggiustamento


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Orlando spodesta Boston che resiste fino all’ultimo ‘atto’ possibile

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Orlando e Boston, nella stagione regolare si sono affrontate 4 volte con il bilancio in sostanziale parità 2-2. Sfida equilibrata? Beh non tanto. La discriminante si chiama sempre Kevin Garnett. Con lui in campo 20, senza di lui…beh fate voi i conti. I Celtics, reduci da quella che è stata definita la serie più bella mai giocata al primo turno dei play-off, cercano un po’ di kryptonite per fermare la corsa di Superman Howard. In gara 1 i Magic partono fortissimi e volano sul 65-37 all'inizio del terzo quarto, un vantaggio mostruoso di 28 punti. Poi, probabilmente influenzati dalla finale di eurolega in cui il Pana getta alle ortiche un vantaggio di 20 punti, i ragazzi di coach Van Gundy smettono di giocare e, canestro dopo canestro, Boston compie la rimonta: -4 a 43 secondi dalla fine e un finale tutto da giocare. Saranno il tiri liberi di J.J. Redick a regalare la vittoria al team della Florida. Nella rimonta biancoverde, decisivo il 5 su 20 dal campo per i magic dell’ultimo quarto. Nella prima parte de match, invece, Rondo e Allen hanno tirato col 2/12 dal campo pregiudicando la gara. Pierce chiude con 23 punti e Rondo sfiora la tripla doppia con 14 punti, 10 rimbalzi e 8 assist. Il titolo di miglior giocatore della serata va comunque a Dwight Howard; al rientro dopo la gara di sospensione, il giocatore più immarcabile del momento, per lo meno nell’area colorata, realizza 16 punti e cattura 22 rimbalzi, indicando ai suoi la strada da percorrere verso la finale di conference. Il riscatto dei verdi arriva immediato. Il ‘Celtic Pride’ esiste eccome. Ne sono stati interpreti, in gara 2, Rajon Rondo, autore, questa volta si, di una tripla doppia (15 punti, 18 assist e 11 rimbalzi) ed Eddie House. L’ex giocatore di Arizona ha sfoderato una prestazione incredibile: 11/14 dal campo, con un 4/4 da tre in 27 minuti per un totale di 31 punti, 20 dei quali nel solo secondo tempo. House va così a realizzare il personale career high nei play-off e a prendersi il ceffone di Rafaer Alston; dopo una tripla segnata in faccia, ‘Skip To My Lou’ non c’ha visto più e ha reagito dando un bel 5 sulla povera nuca dell’eroe di serata in maglia biancoverde che ha così commentato l’episodio: "Ho solo tirato, mi sono girato e sono stato colpito in testa. Credo l'abbia fatto perchè ne ha prese tante stasera". Insomma, sotto gli occhi delle leggende di Boston, Bill Russell, Tommy Heinsohn, JoJo White, John Havlicek e perché no, Kevin Garnett, gli uomini di Doc Rivers vincono e 112-94, riportano in parità la serie e dimostrano che sarà davvero dura buttare fuori i campioni in carica. Sul fronte Magic, Howard segna solo 12 punti catturando 12 rimbalzi, mai in vantaggio e sempre costantemente sotto nel punteggio e non di poco. Sull’1-1 la serie va in Florida. Le maglie di Boston, in trasferta, sono quelle classiche di colore verde. Il colore della Kryptonite. Solo il colore però. Nessun effetto malefico nei confronti di ‘Superman’ che guida i Magic alla doppia vu. 111-96 il punteggio. Non è bastata la sospensione di Alston a fermare l’impeto di Orlando che vola sul +20 con l’irresistibile Dwight che realizza 17 punti 14 rimbalzi e 5 stoppate. Boston, proprio come in gara uno tenta la rimonta fino al meno 7, ma con un Lewis da 28 punti e un Turkoglu da 24, Orlando riesce a resistere e a vincere il match. Ma il Celtic Pride è sempre in agguato. In gara 4, l’orgoglio celtico si impossessa di ‘Big Baby’ Glen Davis, talento non proprio cristallino ma un cuore enorme. La quarta partita della serie è piuttosto equilibrata, con il solito Howard in doppia doppia (23 punti 17 rimbalzi) e Double P a segnare da ogni posizione (chiuderà con 27 punti). Poi, i minuti finali, quelli decisivi. Boston a più 9 a cinque minuti dalla fine. La rimonta dei Magic e la gara di nuovo in equilibrio. I riflettori, come in teatro buio, si spostano sul protagonista assoluto del match. Davis realizza a 32’’ sul cronometro, i punti del vantaggio Celtics, c’è spazio per i liberi di Rashard Lewis a


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11’’ dalla fine e Orlando nuovamente in vantaggio; poi è ancora Big Baby a prendere per mano Boston. Tutti si aspettavano che la palla decisiva finisse tra le mani di Allen o Pierce, invece, è Davis a uscire dal blocco, ricevere la palla, proprio da Pierce e infilare il jumper al suono della sirena. Orlando ammutolisce e Boston festeggia. 21 punti per lui ma 4 sono quelli più importanti perché firmati nel finale incandescente, perché vittoriosi. "E' davvero fantastico", ha detto. "Questa è la mia prima volta". Boston ha dimostrato ancora una volta di trovare risorse preziose negli uomini più impensabili e di far valere l’esperienza dei campioni in carica. Esperienza che emerge, ancora una volta, ancora di più, in gara 5, la gara che poteva cambiare l’inerzia della serie. Già in gara 1 i magic si trovarono a gestire un vantaggio enorme, gettandolo alle ortiche, consentendo il rientro della squadra del Massecchusset, salvo poi riuscire a chiudere favorevolmente il match. Stesso copione in gara 5, differente però il finale. Un vantaggio di 14 punti che scende progressivamente fino al 75-85 con il canestro di Turkoglu a 5’39” dalla sirena. Poi il freddo polare. I magic si dimenticano totalmente di Howard, prendono a tirare dalla lunga distanza con percentuali artiche e vedono rimontare Boston inesorabilmente. La coppia, perché no, strana, Davis-Marbury suona la carica. Davis, ancora indemoniato da gara 4 realizza 22 punti, 10 dei quali nell’ultimo quarto e la ‘Freccia di Coney Island’ contribuisce con 12 punti, tutti nell’ultimo periodo di gioco. Finisce 92-88 e Turkoglu è assolutamente consapevole che i suoi hanno gettato una grande opportunità: "Siamo stati attenti tutta la sera, ma in quegli ultimi minuti ci siamo fermati; avremmo potuto vincere questa partita facilmente". Dicevamo dell’inerzia della serie che poteva cambiare dopo la carambolesca gara 5, ebbene, i tifosi dei Celtics dovranno invece soffrire ancora una volta le pene di una gara 7. Infatti Orlando riporta la serie in parità. Il prepartita di gara 6 è stato caratterizzato dalla querelle

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Howard-VanGundy. Il miglior giocatore dei Magic si è infatti lamentato delle poche palle ricevute nei momenti decisivi del precedente match. Van Gundy ci ripensa su e ammette le sue colpe. Risultato? 23 punti 22 rimbalzi e le d i c h i a razi o ni di Do c R iv e r s : " C r e d o c h e Dwight Howard avesse ragione; mio Dio, è stato incredibile". I Celtics erano stati anche sul più 10 nel secondo tempo, poi il parziale di Orlando con il rabbioso Dwight come protagonista e il punteggio finale che dice 83-75. Si ritorna a Boston per gara 7, la quarta in due anni per i Celtics, tra primo e secondo turno dei playoff.

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32-1 è scritto sulla lavagna di Stan Van Gundy, negli spogliatoi. 32 sono le serie vinte dai Celtics quando è partita con un vantaggio di 32 nella serie. 1 è la gara 7 della sfida tra Boston e Orlando. I campioni escono. Battuti dai Magic 82-101, sempre sotto nella sfida e mai in grado di poterla vincere. I Celtics abdicano, ma con onore. Hanno lottato anche al di là dei propri limiti, in condizioni fisiche precarie e senza l’uomo faro KG per tutta la post season. Orlando, invece, è stata presa per mano da Turkoglu, autore di 25 punti e 12 assist. L’esperienza, in una gara 7, conta moltissimo e il turco (una vita spesa sulla costa

opposta, a Sacramento, a battagliare con Lakers), ne ha da vendere. Dwight Howard, ora, sogna ad occhi aperti: "Credo che possiamo vincere il titolo e non smetteremo di inseguirlo finchè non lo otteniamo. Abbiamo la squadra giusta, abbiamo talento, abbiamo l'allenatore. Si tratta solo di andare e giocare duro ogni partita. Io ho ancora tanta strada da fare ma sono già affamato". Un vecchio detto però recita così: “non si fanno i conti senza l’oste”. L’oste, in questo caso, indossa una corona e vive a Cleveland, Ohio. Allacciate le cinture, c’è Cleveland vs. Orlando.

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Van Gundy: « La vittoria più bella della carriera» Howard: «L’intensità la nostra arma migliore» GAME 1: «Ci siamo rilassati, abbiamo smesso di giocare e non possiamo permettercelo contro una squadra come i Celtics» ha detto Howard. «Abbiamo comunque vinto e ora sappiamo cosa fare per vincere la serie». GAME 2: «Ho visto molte serate particolarmente fortunate al tiro, ma oggi è stato incredibile», ha detto il coach dei Magic, Stan Van Gundy. «Loro hanno avuto ciò che desideravano, noi ci siamo solo stancati a correre dietro la palla...non abbiamo giocato bene».

GAME 3: «Tutta la squadra ha giocato con grande intensità in difesa», ha detto Howard, difensore dell'anno. «Sono il primo a doverlo fare, ma se ci riesco ogni sera possiamo avere successo». GAME 4: «Ero solo pronto a tirare. Sono sempre pronto io. Questo è il frutto del grande lavoro che svolgo quotidianamente in plaestra. Doc sa che posso giocare e lo sanno anche i miei compagni» ha detto Davis. GAME 5: «Sto giocando a basket quest'anno. Per me è già abbastanza», ha detto Marbury. GAME 6: «Ho solo provato a

essere me stesso», ha detto Howard. «Devo solo andare là fuori e giocare senza preoccuparmi di niente». GAME 7: STAN VAN GUNDY. «la vittoria più bella della mia carriera, perché arrivata contro una grande squadra che abbiamo battuto di 19 punti».


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Houston eroica senza Yao e con Scola sugli scudi, ma in finale ci vanno i Lakers

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Ci sono i playoff, le serie di playoff e poi ci sono le gare7. Un detto che sicuramente un ragazzo con la maglia numero 24 giallo viola deve aver già sentito da qualche parte. Un tipo di partite che lo stesso ragazzo ormai non più giovanissimo deve aver già giocato durante la sua carriera di professionista. Ma soprattutto un tipo di gare che ha già vinto. Questo conta in queste situazione: l’aver giocato questo tipo di partite, il sapere già a cosa si va incontro quando viene alzata la palla di quella che può essere definita come la gara senza un domani per eccellenza e Kobe lo sa. Lo quando con gli stessi Lakers buttò fuori i Portland Trailblazers di Rasheed Wallace e Sabonis, quando nel 2002 mise fuori gioco praticamente da solo nell’over time di garar7 del 2002 i Sacramento Kings per poi andare a vincere il titolo in comproprietà con Shaq. Insomma un veterano di queste partite e poco importa se poi dall’altra parte c’è un signore, ma questa volta sulla panchina, che in quel 2002 se lo è ritrovato di fronte nella sfida di cui sopra e alla guida dei Kings di Webber e Bibby. Quella del coach, infatti può essere una esperienza relativa, puoi fare di tutto, puoi motivare i tuoi giocatori, puoi spiegargli fino alla morte tutti punti salienti di un tipo di match come questo, ma poi a scendere in campo sono loro e se non hai la corazza dura dovuta al fatto di averla già giocata una gara cosi, allora è davvero dura. Non ci riuscì allora con una squadra piena e ricca di talento, Adelman non c’è riuscita questa volta con una squadra che ha fatto dell’orgoglio la sua arma principale portando i Lakers, stra-favoriti all’ultimo episodio possibile della serie. Poi di li in poi è storia recente è storia di esperienza come si diceva in precedenza. Insomma una serie della quale ringrazieranno sicuramente i Nuggets che di fronte si ritroveranno una squadra che ha dovuto spendere qualche energia di troppo per passare il turno a fronte delle poche spese da Denver per mettere al tappeto i Mavericks. QUI HOUSTON ROCKETS. A conti fatti e dopo l’addio di Yao Ming per una frattura al piede, le velleità di arrivare fino in fondo si erano dimezzate a più della metà. Un qualcosa che tutti sapevano, ma che nessuno voleva accettare o pronunciare ad alta voce. Quindi arrivare a gara7 in semifinale di Conference contro la squadra dominatrice dell’Ovest vincendo due partite senza il tuo uomo franchigia, può essere già un successo. Un punto di partenza, un punto che di sicuro farà felici i sostenitori dei Rockets che almeno per un anno hanno avuto la gioia di festeggiare la vittoria all’interno di una serie di playoff, sia per l’entourage tecnico che ha potuto appurare dei passi in avanti, sia per quello dirigenziale che molto probabilmente ha capito che quella imboccata insieme a coach Adelman è la strada giusta per mettere in piedi un progetto importante. Un progetto importante che dopo la serie con i losangelini ha messo in evidenza che Houston dovrà puntare ancora una volta su Yoa Ming come colonna portante, ma che di sicuro non può fare a meno di alcuni giocatori divenuti fondamentali o che hanno dimostrato di esserlo. Primo fra tutti l’argentino ex Tau Vitoria Luis Scola. L’anima dei Rockets per tutti questi playoff, l’hombre del partido in gara6 quando ha letteralmente guidato Houston alla gara sette poi persa nettamente. Una pedina tattica che pochi si possono permettere all’interno della Lega. Un giocatore capace di fare tante cose e di farle bene tutte senza nessuna distinzione. Una pedina sulla quale coach Adelman costruirà la sua front line con l’argentino che si è conquistato un posto in pianta stabile al fianco del cinese nella prossima stagione. Al fianco del gaucho texano c’è una coppia di esordienti a questi livello: Aron Brooks e Spancer Hayes. L’uno il prescelto al quale Adelman, dopo la partenza di Alston, ha affidato le chiavi della regia della squadra, l’altro una sorta di enciclopedia della difesa.


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Un giocatore non altissimo, non dotato di tanti centimetri, ma che ha saputo domare e dominare nella sua metà campo in lungo ed in largo Andrew Bynum e a tratti anche Gasol ed Odom. Sempre nel posto giusto al momento giusto sia provenendo dalla panchina sia quando è stato promosso anch’esso nel line up dopo l’addio stagionale di Yao. Un altro corpo da utilizzare nelle alchimie difensive di Adelman che se glielo chiedete di sicuro vi risponderà, in merito, che tanto lui lo sapeva già altrimenti non l’avrebbe mai tenuto. Di Artest al momento ci riserviamo di non parlare, anche perché il suo duello con Bryant merita tutt’altro trattamento, un trattamento che ci riserviamo di analizzare nelle prossime occasioni, specie dopo le dichiarazioni d’amore verso il Texas e verso Houston alle quali lo stesso ‘Bad Boys’ per eccellenza si è lasciato andare nell’immediato dopo serie con i Lakers. QUI LOS ANGELES LAKERS. Altro piccolo passo falso, se proprio cosi vogliamo chiamarlo. Passo falso nel senso di aver messo in mostra ancora una volta quella doppia veste di Dottor Jekyll e Mister Hyde che cancella in alcune occasioni quanto di devastante c’è in questa squadra. Un lusso che i Lakers non possono assolutamente permettersi a partire dalla prossima serie, visto che di fronte i gialloviola non si ritroveranno una squadra ‘menomata’ dagli infortuni come i Rockets. Scendere paurosamente di intensità o magari sbagliare totalmente approccio alla gara, cosi come è avvenuto nelle altre partite in texas che non siano state gara2, è un qualcosa che George Karl e tutto il suo staff tecnico ha scritto sul proprio taccuino personale. Senza contare che il tutto è condito dal fatto che è passata un’altra serie, è trascorso un altro turno e quella che si vede in campo e all’interno del roster di Phil Jackson è ancora l’ombra del giocatore che generalmente è stato prima dell’infortunio Andrew Bynum.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POSTPARTITA

Lamar Odom: «Ad Hollywood bisogna sempre rendere le cose più interessanti del dovuto» GAME 1. «Non so cosa ha fatto il nostro trainer con Yao» ha detto coach Adelman. «E’ stato come il ritorno di Rocky, avevamo bisogno di lui sul campo». GAME 2. «E’ stata una gara fisisca, di intensità elevata» ha detto bryant «questi sono i playo-ff» GAME 3. «Io voglio giocare» ha detto Yao. «quando i test di domani mostreranno che è tutto in ordine, giocherò». GAME 4. «Penso che tutti, noi compresi, ci ricorderemo di quello che abbiamo fatto oggi, senza Yao» ha detto Shane Battier. GARA 5. KOBE BRYANT: «Dobbiamo rimanere concentrati e capire che l'im-

pegno che ci abbiamo messo stasera non sarà abbastanza Giovedì. Non stiamo giocando contro una squadra scarsa e non mi interessa sapere quanta gente hanno in infermeria. E' una squadra dura e solida, è una squadra piena di gente competitiva». GAME 6. «Negli ultimi due giorni non ho fatto altro che sentire che non saremmo ritornati a Los Angeles» ha detto il coach dei Rockets Rick Adelman. «I nostri ragazzi, nella locker room, non ci hanno mai creduto». GAME 7: LAMAR ODOM: «Ad Hollywood bisogna rendere le cose più interessanti».


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D OMENICO P EZZELLA

Capolavoro dei Denver Nuggets , i Mavericks d’orgoglio solo in gara4 Et volità. E la squadra che forse non ti aspettavi giunge fino all’ultimo atto della Western Conference. In pochissimi, infatti, avrebbero scommesso (ad inizio stagione, ma probabile anche in corso d’opera ndr) che quella diretta in panchina da coach George Karl potesse essere tra le prime due potenze ad Ovest mettendo al tappeto prima i New Orleans Hornets e poi i Dallas Mavericks con tutto quello che i Nuggets rappresentano in attacco ed in difesa. Una squadra in missione? una squadra predestinata? Lo scopriremo a breve, lo scopriremo al suono della prima sirena finale della serie più importante e più difficile di questi playoff, quella contro i Lakers di Kobe Bryant. E’ qui che Denver dovrà dimostrare di essere una squadra capace di arrivare fino in fondo o se vogliamo quanto meno fino all’atto finale per eccellenza perché poi li i conti vanno fatti con il predestinato per eccellenza. E’ contro i Lakers che Denver deve dimostrare che il suo passaggio alla finale della Western è stato più merito suo che demerito degli avversari e dove per demeriti si intende la pochezza degli oppositor che il team del Colorado si è ritrovato davanti agli occhi tra primo e secondo turno. Per diventare grandi, bisogna battere in grandi e chi più grandi, ad Ovest, dei Lakers per spalancare le porte delle Finals. Ma della serie contro i gialloviola ne parleremo in altra sede ed in altro contesto; prima c’è la faccenda e la questione Dallas Mavericks da sbolognare per qual che riguarda le analisi da fare. Oddio a dire il vero di analisi ce ne sarebbero davvero molto poche, visto che tranne la prova di orgoglio in gara3 i Mvs di Cuban non hanno mai dimostrato di essere nella condizione mentale e fisica di contrastare una squadra che non solo li sovrastava a livello fisico, dove si fa riferimento non ai centimetri o al peso, ma proprio a tutta una questione di reattività, di freschezza e di atleticità. Un primo punto, quest’ultimo, che può essere riassunto e fotografato con una sola polaroid, quella rispondente al nome di Nene Hilario. Dopo aver arrancato (più per colpa sua che per colpa degli avversari ndr)

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41 nella serie scorsa ed in generale, contro tutti i lunghi degli Hornets, il brasiliano ha fatto praticamente a fette il duo Dampier-Bass. Troppo lento ed impacciato (nonostante una stagione e due turni di playoff ad un buon livello rispetto al giocatore anonimo ed avulso degli ultimi anni che lo avevano fatto salire agli onori della ribalta per l’essere la prova vivente di un giocatore strapagato e sopravvalutato, più che per i propri meriti sportivi ndr) il primo, più atletico, più veloci e con piedi capaci di stare con il trecciolone dei Nuggets il secondo, al quale però rendeva tanti, troppi centimetri per pensare di poterlo fermare o contrastare nella lotta sotto i cristalli. Il lungo carioca ha chiuso la serie in netto crescendo portando a 12 di media abbondanti il bottino in questi playoff, dove però, come abbiamo accennato in precedenza, hanno un ruolo cardine le 5 partite giocate contro New Orleans. Atletismo e maggiore reattività che si è visto anche in altre parti del campo ed in altre posizioni dello starting five di coach Carlisle. Quello legato al ruolo in campo di Josh Howard è un riferimento chiave per capire come Dallas sia stata praticamente impedita dal poter reagire a qualsiasi cosa gli avversari potessero fare dal punto di vista dell’energia. Le caviglie dell’ex Wake Forest sono ormai più che pezzi di cristalli con qualche crepa dentro, sono un qualcosa che impedisce al numero 5 texano di mettere in evidenza e di mostrare tutto il suo reale valore. Valore che è uscito fuori solo ed esclusivamente in quella gara4 (uscito fuori per intero e con continuità ndr), consegnando a compagni, allenatore, stampa e presidenza quel barlume di speranza che potesse essere quel tipo di giocatore per tutto il resto della serie e magari sperare in una rimonta impossibile stile Boston Red Sox ai danni degli Yenkees di nelle World Series di qualche anno fa. Ed invece la gara5 di Howard è stato la stessa altalenante partita dei primi tre episodi: tiro dalla lunga che entrava sprazzi, viaggi al centro dell’area ed al ferro non frequenti, e ancora una volta Dallas costretta ad affidarsi al biondo

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tedesco in maglia 41. ‘WunderDirk’ che in questa serie ha dovuto fare gli straordinari anche fuori dal campo per tutte le vicende legate alla sua personale questione di una moglie ricercata da più di 5 stati e ben otto ‘alias’ ovvero nomi diversi, ha fatto quello che ha potuto coadiuvato da un Carlisle che le ha provate davvero tutte, dal punto di vista tattico, per sfruttare il talento di Nowitzki. Pick and pop, isolamenti in post basso, medio e anche al gomito per sfruttare l’uno contro uno del tedesco contro i vari avversari (da questo punto di vista Anthony si è dimostrato il più efficace a tenerlo in single coverege): Situazioni tattiche sulle quali l’ex coach dei Pacers ha anche provato a fare degli aggiustamenti sugli aggiustamenti per evitare continui raddoppi che arrivavano sulla palla quando quest’ultima era nelle mani dl 41. Tagli di Kidd, split sul pick and pop per poi riaprire negli angoli per i tiratori oltre a qualsiasi altra cosa che non ha funzionato. Non ha funzionato nemmeno il più del 40% dalla lunga distanza con cui Jason Kidd (in una delle versioni più brutte dal punto di vista del gioco e del giocatore degli ultimi anni ndr) ha messo la parola fine alla serie punendo sistematicamente lo spazio che la ‘difesa’ dei Nuggets gli concedeva pur di tenere cheto e calmo il prodotto di Wuzburg. Temi tattici che alla fine hanno fatto la differenza, temi tattici che hanno messo in un angolo anche il fatto che di fronte c’erano due squadre che della difesa si sono preoccupato davvero poco, ma questo è un argomento che meriterebbe un capitolo e uno spazio a parte.

DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITA Carmelo Anthony: «E’ la giusta ricompensa per il duro lavoro» GAME 1. «Dal punto di vista dell’attacco siamo stati davvero bravi - il commento di coach Karl -. Ma è in difesa che abbiamo girato il match dalla nostra parte». GAME 2. «Hanno tenuto il fattore campo»; ha detto Rick Carlisle, allenatore di Dallas. «Ora dobbiamo tornare a casa e cercare di fare lo stesso. Abbiamo il tempo per riorganizzarci e sistemare quello che non va». GAME 3. «Ho segnato molti tiri importanti nella mia breve carriera, ma mai nessuno in una situazione simile», ha detto Anthony. «Il confine tra 2-1 e 3-0

era sottilissimo». GAME 4. «E’ stata una gara incedibile”, ha esrodito Dirk Nowitzki. «Abbiamo inseguito tutto il match, ma siamo riusciti a recuperare e vincere come abbiamo fatto tutto l’anno…Ora dobbiamo andare a Denver e giocare così, sciolti». GAME 5. «E’ speciale. Abbiamo lavorato tanto sin dal primo giorno di ritiro, abbiamo superato mille difficoltà e siamo sempre rimasti umili» ha detto Anthony.


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Il miglior difensore contro il migliore della Lega: Cavaliers Vs Magic Era la finale che tutti si aspettavano ma che nessuno aveva il coraggio di pronucniare o di mettere già sul banco delle analisi. Era la finale più logica se la serie precedente tra i Celtics ed i magic veniva prese e considerata al macriscopio, dal momento che dalla parte di Orlando c’erano tanti pesi in più specialmente dal punto di vista delle energie. Ma purtroppo quando di mezzo c’è il ‘Cletic Pride’ c’è poco da stare tranquilli. Questa votla però l’orgoglio ha potuto fare ben poco nei confronti di una maggiore freschezza atletica degli avversari.

Insomma quella che andrà in scena nelle prossime settimane si preannuncia come una serie entusiasmante, bella e ricca di capitoli dal punto di vista tattico, anche se qualcuno avrà sempre da ridire che non sarà certo la serie contro i Celtics dello scorso anno o che magari non avrà il fascino di una rivincita da parte di Lebron nei confronti di chi lo scorso anno gli tolse la possibilità di sfidere Kobe e conquistare l’anello. Di fronte però ci saranno il milgior giocatore della Lega ed il miglior difensore della Lega. Classifica quest’ultima in cui lo

P PO OIIN NT T G GU UA AR RD D W E S T A L S T O N W E S T- A L S T O N Fisicità, maggiore attitudine ad attaccare il canestro e un tiro dalla distanza migliore rispetto all’idolo del Rucker Park Skip to my lue. Insomma il duello in cabina di regia dovrebbe essere ad appannaggio dei Cavs con l’ex Houston che di sicuro starà già pensando sul come comportarsi su quel pick and roll che coinvolge lo stesso West con Lebron: passare dietro o forzarlo? Si prospettano notti insonni per Alston

S SH HO OO OT TIIN NG G G GU UA AR RD D W WIILLLLIIA AM MS S--R REED DIIC CK K Anche in questo caso l’esperienza e la maggiore precisione al tiro dovrebbero fare del duello tra l’ex Bucks e l’esterno che ha scalzato il rookie Lee da quando quest’ultimo non ha potuto più mettere piede in campo per un infortunio al naso. Probabile che coach Van Gundy provi la staffetta tra i due prima di decidere di ributtare Lee immediatamente nella mischia. In ogni caso non perdere ‘Mo’ di vista resta il motto principale.


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stesso King james è arrivato secondo e che secondo alcuni meri- Meglio di cosi davvero si fa fatica a pensare di vedere su di un tava di vincere. Una sfida che quindi mette uno di fronte all’al- campo da basket....forse almeno fino a quando il calendario tro i due migliori per attacco e difesa. non segnerà giugno, allora si che si avrà il top

S SM MA ALLLL FFO OR RW WA AR RD D J JA AM MEES S--T TU UR RK KO OG GLLU U Ora si che la presenza del nome del turco della Florida all’interno di quelli vitati come uno dei migliori difensori o per meglio dire all’interno di uno dei quintetti migliori della categoria potrà essere spiegato. Al match winner di gara7 con i Celtics il compito di fermare o se vogliamo mettere una sorta di argine al pulmino che viaggia spedito verso la sua seconda Finals. Interessante vedere anche l’atteggiamento di Lbj nella sua metà campo

P PO OW WEER R FFO OR RW WA AR RD D V A R E J A O L E W I S VA R E J A O - L E W I S Molto probabile che il brasiliano dell’Ohio sia uno deo pochi che per piedi e per presenza in campo a poter tenere il passo dell’ex Seattle Supersonics. Uno dei pochi che magari possa tenere l’uno contro uno, stargli dietro sul perimetro per poi ritrovarsi immediatamente sotto il canestro per un rimbalzo. Per Lewis anche l’arduo compito di non perderlo mai di vista in attacco dove l’ex Barça può sbucare da ogni parte.

C CEEN NT TEER R IILLLLG GA AU US SK KA AS S--H HO OW WA AR RD D Se ha dominato un pari ruolo e se vogliamo anche un pari età, figurarsi che non faccia lo stesso con un giocatore che gli rende più di qualche anno a livello di carta di identità. Dalla sua però ‘Z’ può mettere un’esperienza decennale sotto le plance. Esperienza che di sicuro Illgauskas dovrà utilizzare a pieno se non vuole che il Superman biancoblù gli mangi in testa a colazione, pranzo e cena specie dal punto di vista atletico.


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T TH HEE B BEEN NC CH H Una serie infinita di giocatori esperti con una sola missione per coach Brown che dalla sua ha parecchie frecce in faretra specie nel reparto lunghi con Joe Smith e Wallace sotto le plance e Szczerbiack, Gibson e Pavlovic sugli esterni. Pietrus, Lee, Johnson e Gortat i ricambi di Van Gundy che avrà tanto bisogno da chi parte dal pino per cercare di fermare l’onda d’urto che si sprigionerà specialmente alla Quiken Loans Arena.


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D OMENICO P EZZELLA

Billups contro Bryant, Kobe per dimenticare le ‘Finals’ del 2004 Chi ha imparato a conoscere il Bryant giocatore durante tutti questi anni di professionismo, sa che il figlio di Jally bean non ha mai dimenticato niente, non ha mai rimosso nulla, specialmente se poi si parla di una sconfitta o di qualcosa che non è andato come era il suo piano o come nel suo piano doveva andare. Quella finale del 2004 quella che mise fine alla dinastia dei Lakers, quella che umiliò i Lakers che oltre Bryant avevano in squadra gente del calibro di Malone e Payton aggreti alla truppa gialloviola per il disperato tentativo di vincere un titolo

prima di chiudere la carriera. Una finale che il numero 24 non avrà rimosso e della quale avrà modo anche di parlare, perchè nessuno ha dimenticato chi alla fine di quella Finals visse quella doppia gioia che da anni e da tempo lo stesso Kobe vorrebbe provare. Campione Nba e Mvp delle finali. Un bottino che Billups può vantare nei confronti dello stesso Kobe che però può paventare i tanti anelli in più. Dopo anni di lontananza l’uno dall’altro su palcoscenici di un certo valore, ecco che lo sceneggiatore fa a

P PO OIIN NT T G GU UA AR RD D FFIIS H E R J O N E S H E R - J O N ES S Un accoppiamento che potremmo vedere anche abbastanza poco durante tutta la serie. Un accoppiamento dettato principalmente dal fatto che ormai la presenza di Jones in quintetto è un qualcosa di inamovibile e che ha dato quell’equilibrio importante all’interno delle rotazioni a cui Karl sicuro non vorrà rinunciare. Un accoppiamento che potrebbe giovare a Fisher e Jackson visto che dirottare The Fish su Billups sarebbe davvero complicato.

S SH HO OO OT TIIN NG G G GU UA AR RD D B BR RY YA AN NT T--B BIILLLLU UP PS S Una sfida che quando verrà messa in atto varrà davvero il prezzo del biglietto. Due giocatori che non sempre sono avvezzi a difendere o meglio non sempre avvezzi ad accendere quel bottone che poi li renderebbe anche degli ottimi difensori. Un bottone che in virtù dei trascorsi di cui sopra potrebbe anche accendersi immeritatamente per mettere le cose in chiaro. Molto probabile che il primo sia Kobe, ma...


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tutti un grande piacere mettendoli di nuovo uno di fronte all’altro. Ed in questa visione che in tanti potrebbero vedere e considerare la posizione di Carmelo Anthony come quella di colui che gode tra i due litiganti. Una vittoria di cui sarebbe contento

anche un cero Lebron James che apprezzerebbe tantissimo non ritrovarsi Bryant in finale e giocarsi il tutto per tutto contro colui che è sempre stato l’antagonista di sempre, sin dai tempi dei duelli all’High School.

S SM MA ALLLL FFO OR RW WA AR RD D A AR RIIZZA A--A AN NT TH HO ON NY Y La marcatura più difficile per i gialloviola. La speranza per il coach Zen della California è che il giovane emergente ex Orlando riesca a tenere botta senza che lo stesso Jackson debba decidere di variare tutti i suoi piani e dirottare sull’ex talento di Syracuse colui che poi sarebbe il miglior difensore: Kobe Bryant. A dire il vero per chi ama lo spettacolo la speranza è che Ariza faccia fatica, visto il duello si lascia guardare e non poco.

P PO OW WEER R FFO OR RW WA AR RD D O D O M M A R T I N O D O M - M A RT I N Che ‘Lamarvelous’ è il giocatore barometro di Los Angeles è ormai un qualcosa a cui non si fa nemmeno più riferimento visto che sono parole o righe sprecate. Tra i migliori difensori in quel ruolo per i Lakers, ma Odom questa volta dovrà fare i conti con un giocatore che sicuramente non gli offrirà confetti o da bere sotto quel canestro dove l’ex Miami dovrà dimostrare di avere grinta e determinazione, altrimenti c’è poco da fare.

C CEEN NT TEER R G GA AS SO OLL--N NEEN NEE’’ Tenere in uno contro uno la fisicità del brasiliano. Questo il punto interrogativo che penderà e che pende sulla testa del catalano ex Barça. In attacco il talento dello spagnolo non si discute nella maniera più assoluta, ma la sua non perfetta attitudine difensiva potrebbe essere un vero problema, specie in considerazione del fatto che dalla panchina c’è il fantasma o la brutta copia dello Bynum ammirato in stagione regolare. Rebus.


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T TH HEE B BEEN NC CH H Due nomi su tutti: JR Smith e Chris ‘The Birdman’ Andersen. Questi i tasselli che coach Karl inserisce per rivoltare il match come un calzino. L’uno in attacco e l’altro in difesa per una panchina non lunghissima, ma di enorme qualità e fiducia nei propri mezzi. Bynum, Vujacic, Brown, Farmar e Joshua Powell i ‘panchinari’ losangelini, anche se tutta l’attenzione è posta sulla nuova fiamma di Rihanna.


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DI

M ASSIMILIANO PALMISANI

Ancora una volta la formazione dell’ex stella della Nba e dei Pistons Bill Lambeer, sarà squadra da battere all’interno del basket in gonnella a stelle e strisce

Wnba: chi fermerà Detroit Ancora qualche settimana di attesa ed il campionato di basket femminile a stelle e strisce avrà inizio. In un naturale avvicendarsi tra il campionato maschile professionistico e quello in rosa, la WNBA avrà inizio ai primi di giugno già con un incontro di cartello tra Detroit, attuale detentrice dell’anello e la squadra che più sembra essersi rinforzata in questo periodo, le Los Angeles Sparks di Lisa Leslie. Molti volti noti del campionato italiano

militano in entrambe i sodalizi, in particolare alla corte di LL , oltre la stella italiana Raffaella Masciadri capace di incantare il pubblico dell’arena di Los Angeles con le sue triple impossibili, è stata ingaggiata l’attuale Centro di Venezia Hayden Vanessa, così è di questi giorni, per rinforzare il reparto delle guardie, la firma della ex Maddaloni free agent “Bettina” Lennox, che dopo una lunga militanza tra le fila delle Seattle Storm approda alla città degli

angeli. L’anno scorso il campionato di basket femminile più bello al mondo finì con la vittoria schiacciante di Detroit vs San Antonio, capace nella regolar season di dominare la Western Conference ma non all’altezza di fermare la Mvp delle finali Katie Smith. Con un secco tre a zero le Detroit Shock dirette da coach Bill Laimbeer sono state capaci di vincere il terzo titolo in sei stagioni, forti di un gruppo composto da “vec-


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chiette” terribili e di giovani emergenti che non hanno paura di nulla, diventando così la seconda squadra nella storia della Lega a vincere più di un titolo, seconda solo alle Houston Comets che ne detengono ben quattro. “Three in the D.” così urlava l’announcer Matt Shepard nel giorno delle celebrazioni davanti a migliaia di fans a dimostrazione dell’affetto orami radicato tra la gente della città dell’auto. Una città intera che si stringe attorno alle sue stelle ma anche una squadra intera che ha lavorato e lottato duramente per esaltare le qualità sopraffine della Mvp Katie Smith: Killer nei momenti che contano e capace di caricarsi la squa-

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dra sulle proprie spalle e vincere ancora un titolo.Le Celebrazioni servono anche a questo per raccontare, davanti a tanti fans felici di esserci, qual è la vera storia di un campionato vinto: ed ecco la ex stella di Maddaloni Plenette Pierson gridare che la sua compagna Smith per lei è un cavallo di razza, che le ha condotte verso la vittoria; e la veterana, attuale centro di Schio, Mc WilliamsFranklin gridare tre volte il nome di Katie Smith,

per sottolineare che questa straordinaria atleta è stata un fattore in tutte le tre gare vinte. La nuova stagione Wnba parte da una certezza che è rappresentata da Katie Smith e compagne e da un incognita, chi sarà in grado di fermare le Shock guidate dall’ex cattivo della NBA coach Bill Laimbeer?


Lente di

ingrandimento sulla LegaA


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DI

TOMMASO S TARO

Keith Andre Langford, l’uomo venuto dal ‘pino’ Panchinaro di lusso, ‘Ke-Freeze’ si è rivelato, nel corso della stagione, l’acquisto più azzeccato della faraonica campagna acquisti di Sabatini

Parte piuttosto da lontano la storia cestistica di Keith Andre Langford. Più precisamente da Fort Worth, città del Texas (contea di Tarrant), popolata da poco più di mezzo milione di abitanti. Nella cosiddetta “cowtown” (città delle mucche), il 15 Settembre 1983 nasce Keith, bambino vivace che fin da piccolo si avvicina timidamente ai campi di pallacanestro. Ogni scusa è buona per andare a fare due tiri; oltre agli impegni scolastici, neanche a dirlo, c’è il basket ed una passione che cresce esponenzialmente col passare dei giorni. Ma i primi passi ufficiali sul parquet, Keith li compie alla North Crowley High School. Lì si iniziano ad intuire con una certa nitidezza le potenzialità del ragazzo: primo passo fulmineo, apprezzabilissima dedizione in fase difensiva e straordinaria capacità -relazionata al suo ruolo ed alla sua altezza (193cm)- di andare al rimbalzo che fanno del texano uno dei veri punti di riferimento dei suoi giovani compagni. Le cifre, poi, sono decisamente eloquenti: 25,7 punti, 4,2 assist e 8,6 rimbalzi. Sì, quasi 9 carambole di media a gara per una guardia non sono pochissime ed questa, forse più di ogni altra, la caratteristica che lo fa conoscere tra gli scout di mezza America. Ad arricchire, poi, il suo appeal tra gli addetti ai lavori c’è un soprannome affibbiatogli sempre a North Crowley: lì viene meglio identificato come “Ke-Freeze”, a sottolineare la freddezza di una persona nelle cui vene pare scorrere ghiaccio. Un nomignolo che il 19enne Keith si porta dietro anche al college. La sua università è Kansas e nel prestigioso ateneo non tarda a confermare quanto di buono si diceva sul suo conto. Con la canotta n. 5 dei Jayhawks e sotto la guida di Roy Williams, il nativo di Fort Worth impressiona subito l’esigente ambiente che lo circonda. Il suo modo di giocare sembra sposarsi a meraviglia con il credo del suo coach; l’esuberanza atletica, il suo ottimo gioco in transizione e la sua capacità di leggere in anticipo le situazioni tanto in attacco quanto in difesa sono la cartina di tornasole di un rendimento che cresce gradualmente col trascorrere dei mesi. L’annata da “sophomore” è quella in cui Keith fa vedere le

cose migliori: e i suoi 15,9 punti di media ad incontro sono il migliore riscontro di un giocatore che, nell’ambito della sua squadra oltre che del panorama universitario a stelle e strisce, acquista sempre più credito e rispetto. Successivamente, un paio di infortuni condizionano, per certi versi, il suo fatturato; un fatturato, comunque, che non si presta ad essere equivocato o mal interpretato. Keith, infatti, continua a rivestire un ruolo cardine nel gruppo guidato da coach Williams e i quasi 15 punti (14,4, per la precisione) ad incontro con cui chiude la stagione da “senior” e la sua avventura al college ne sono la più ampia dimostrazione. Mandata in archivio l’esperienza universitaria infarcita anche da due final-four, il ragazzo texano si trova di fronte ad una scelta importante: cosa fare del proprio futuro. Il mondo dorato della NBA lo affascina non poco ma nello stesso tempo c’è in lui la consapevolezza di dover crescere ancora per vedere realizzato quello che è il sogno “proibito” di tutti i giocatori. Di buon grado -dopo una Summer League disputata con i Dallas Mavericks- decide, così, di fare un passo indietro, di tornare nei suoi luoghi di nascita e di accettare la proposta dei Fort Worth Flyers nella D-League, lega di sviluppo di quella più famosa presieduta dall’inamovibile David Stern. Nei Flyers (affiliati nella stagione 2006/2007 ai Dallas Mavericks, agli Charlotte Bobcats e ai Philadelphia 76ers) il buon Keith viaggia, a dirla tutta, a corrente alternata. Buone performance fanno da contraltare ad uscite assolutamente non in linea col talento e la sua voglia di fare; con questo trend, fila via una stagione da cui KeFreeze (allenato da coach Sidney Moncrief) si sarebbe aspettato molto di più, in termini di risultati (personali) e, sopra ogni cosa, di visibilità. Ed è proprio la scarsa visibilità conquistata nella breve parentesi trascorsa nelle file della franchigia della sua città natale a chiudergli in faccia la porte della NBA. In effetti, il suo ennesimo tentativo di entrarvi dalla porta di servizio attraverso una pre-season giocata nel camp degli Houston Rockets non sortisce i frutti sperati e per Keith, inevitabilmente, il momento non è dei più


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felici. Ma come spesso capita anche -e soprattutto- nelle favole, la ruota della fortuna inizia improvvisamente a girare dando una sterzata decisiva alla sua carriera. La chiamata arriva da un posto lontanissimo rispetto alle coordinate spaziali in cui si trova il mancino texano; una telefonata dall’altro capo del mondo, distante migliaia di chilometri. Una telefonata quasi per caso che giunge da Soresina, in provincia di Cremona. Per caso perché la compagine del presidente Triboldi già qualche mese prima aveva sondato la possibilità di portare il nativo di Fort Worth in Lombardia; poi non se n’era fatto nulla (complice la voglia del ragazzo di giocarsi la carta in NBA) e così era arrivato l’ingaggio di Ryan ForehanKelly. Ma l’avventura di Kelly non aveva modo neanche di iniziare: un suo grave infortunio, infatti, troncava sul nascere ogni velleità della Vanoli di saggiare il suo talento. Ed ecco, appunto, il trillo della suoneria dell’agente di Langford. Questa volta non ci sono intoppi; finalmente c’è il nero su bianco che porta Keith nel Bel Paese. Bastano poche partite e tra Langford ed tifosi è subito amore. Un amore che affonda le sue radici nella capacità del ragazzo di calarsi da subito in una realtà completamente diversa da quelle vissute precedentemente. Più di ogni altra cosa, la sensazione diffusa che si prova è che il n. 5 della Vanoli abbia sempre giocato nel nostro campionato; è strabiliante, invero, la sua abilità di metabolizzare il basket-system italiano così come il suo spirito di adattamento ad un contesto del tutto nuovo e sconosciuto. In un battibaleno, il texano assurge sul parquet a “guru” del gruppo-Triboldi;

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è lui l’indiscusso protagonista di una stagione che neanche il più ottimista degli aficionados cremonesi avrebbe potuto immaginare alla vigilia. Sotto la guida dell’emergente Andrea Trinchieri, la Vanoli miete successi a destra, mettendo sugli attenti anche compagini di altissimo profilo (al secolo, la Scavolini Pesaro) e raggiungendo addirittura i quarti di finale di playoff di Legadue. Le risposte che Langford dà sul campo di gioco sono sotto gli occhi di tutti: numeri inequivocabili (più di 19 punti di media ad incontro con un high di 34, oltre il 60% da 2 e quasi 5 rimbalzi) che fanno di lui uno dei migliori stranieri del campionato e l’oggetto del corteggiamento di numerose franchigie anche del piano superiore. Sull’ex Kansas le offerte sono all’ordine del giorno; anche di allettanti. Ma il suo pensiero fisso, pressoché pleonastico sottolinearlo, è sempre la lega più prestigiosa del globo. L’occasione arriva proprio dal suo stato di appartenenza, il Texas. Sono i San Antonio Spurs a coronare le ambiziose mire di Keith. La canotta bianconera n. 13, però, non si vede praticamente mai sul parquet. In effetti, i supporters che affollano l’AT&T Center non si accorgono neanche minimamente delle sue potenzialità; potenzialità che, benché ottime, non sono verosimilmente sufficienti per convincere un osso duro come Gregg Popovich. Cala il sipario, dunque, sulla sua comparsata nella NBA e Keith, deluso ma per nulla disposto a piangere su se stesso, va di nuovo a farsi le ossa nella D-League con la maglia degli Austin Toros. Questa volta le cose vanno decisamente meglio rispetto alla sua prima esperienza con i Flyers; il feeling con coach Quin Snyder è decisamente buono così come il contributo che fornisce alla causa (23,2 punti, 6,3 rimbalzi e 3,4 assist). A sorpresa, comunque, l’Italia torna a recitare un ruolo decisivo nel suo destino e nel suo curriculum di giocatore. Questa volta è Biella ad acquisirne i servigi, dopo aver divorziato da


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Troy Bell. Keith arriva in Piemonte quando il campionato volge al termine. Per lui, in ogni caso, c’è il tempo di disputare appena 9 partite (13,9 punti e 5,4 rimbalzi) e di impressionare di nuovo positivamente la critica e gli addetti ai lavori. Siamo ad un passato che da remoto è diventato prossimo. La scorsa estate, l’ennesimo tentativo di far ricredere i g.m. di oltreoceano; la Summer League nelle file dei Denver Nuggets (10,2 punti conditi da 1,8 assist) non convince neanche questa volta gli scout a stelle e strisce. Il mancino di Fort Worth sembra riporre definitivamente nel cassetto il “sogno americano”. Anche perché, a dirla tutta, alle orecchie del suo agente (Nick Lotsos) perviene un’offerta difficile da respingere. A farsi avanti è la Virtus Bologna, una delle piazze più blasonate dello Stivale; una destinazione assai gradita a Keith, allettato dai programmi ambiziosi del patron Sabatini e da una contropartita economica di tutto rispetto. La firma sul contratto non tarda ad arrivare; la sua durata è biennale (con possibilità di uscita dopo la prima stagione), 500.000 dollari è il prezzo del suo cachet per ogni campionato. Eppure il suo arrivo a Basket-city non è salutato da un particolare clamore; un clamore, invece, che viene tributato al resto di una campagna acquisti che sa di faraonico. O, forse, per meglio dire i titoloni dei giornali e, in generale, l’attenzione dei media è tutta catapultata -oltre che sui vari Sharrod Ford, Dusan Vukcevic, Petteri Koponen e Alex Righetti- su un unico personaggio: Earl Boykins, una ex luminosissima stella del firmamento NBA. Tutto ciò, comunque, non dispiace Keith, tanto esuberante sul parquet quanto schivo nel privato. Viene, così, alzata la prima palla a due della stagione. Con Renato Pasquali in panchina, per il n. 15 delle V nere c’è subito il quintetto base. L’anti-Siena -com’era stata giudicata in pre-seasonstenta, in verità, a trovare il passo giusto; il basket palesato dai bolognesi non è affatto convincente ed anche il rendimento di Langford ne risente. I due scoppoloni, poi, rimediati a Pesaro (-24) e in casa contro una non trascendentale Avellino, convincono il vulcanico Sabatini a sbarazzarsi di Pasquali e ad affidarsi alle mani di Matteo Boniciolli. Cambia il coach e cambia anche il ruolo di Ke-Freeze. Per lui c’è il “pino” o, se preferite, la panchina; una mossa, quella del nuovo allenatore, che formalmente sa di bocciatura. E invece no. Keith ha l’intelligenza di non spazientirsi e la lungimiranza tipica di chi è fin troppo consapevole delle proprie potenzialità. La cura Boniciolli, fin da subito, dà gli effetti sperati; a beneficiarne, inutile nasconderlo, è anche il nostro protagonista. Le sue performance sono sulla bocca di tutti; il suo apporto imprescindibile. E’ difficile da descrivere la sua capacità di infiammarsi ogni qualvolta viene chiamato in causa; un po’ come faceva anni fa, oltreoceano, l’indimenticato Vinnie Johnson, soprannominato “the micro-wave”. Più di ogni altra cosa, il buon Keith diventa un’arma tattica fondamentale per i giochi degli emiliani; oltre alla sua velocità ed alla sua abilità in transizione, il mancino diventa l’antidoto migliore alla difesa a zona sovente schierata dagli avversari. Il suo talento ad attaccare dal palleggio chi gli si pone di fronte e a batterlo in penetrazione diventa il marchio di fabbrica che fa di Langford l’uomo in più dei bianconeri. E la sua importanza tecnico-tattica è ampiamente avallata

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dai numeri e da un rapporto minuti-punti-valutazione semplicemente clamoroso. In occasione del derby nel girone di andata, la sua performance è da circoletto rosso: il texano non sbaglia praticamente nulla, i fortitudini vorrebbero placcarlo come si fa nel football, il suo è un crescendo rossiniano che culmina, in 27 minuti di utilizzo, con 20 punti frutto di un 3/5 da 2, 4/6 da 3, 2/2 ai liberi oltre, tanto per gradire, a 2 assist. Proprio il derby stracittadino incorona Keith come il nuovo idolo della tifoseria bolognese. E’ lui il simbolo indiscusso di una corazzata con mille debolezze. Quelle debolezze che, però, non appartengono affatto al ragazzo di Fort Worth. La sua presenza mentale, il suo orgoglio, la sua voglia di lottare contro tutto e tutti vengono sprigionate, ancor di più, in occasione delle partite più difficili da affrontare dal punto di vista emozionale. Ne è un esempio la contesa che va in scena ad Avellino, quando “core ingrato” Boniciolli -unitamente ad Alex Righetti- fa il suo ingresso in un Paladelmauro colmo all’inverosimile per ripagarlo con gli interessi di tutto quanto era da lui stato detto in spregio di una piazza e di un presidente (Ercolino) che fino a qualche mese fa lo avevano trattato come un re. In quei 40 minuti, oltre al titolo di m.v.p., per Langford c’è anche quello di match-winner; sono suoi i liberi, infatti, che chiudono la contesa e griffano il personale season-high (23 punti con il 7/9 da 2, 1/3 da 3, 6/8 ai liberi, 1 assist, 1 palla recuperata e 27 in valutazione). Ma quello in Campania non è l’unica dimostrazione di ciò che il texano è capace di fare quando la pressione psicologica raggiunge i limiti di guardia. Nella finale di Coppa Italia, è sempre lui a far correre i brividi lungo la schiena della Montepaschi; sua una performance mostruosa (20 punti in 27 minuti con il 4/7 da 2, 3/4 da 3, 3/5 ai liberi, 3 rimbalzi e 5 palle recuperate) ed il canestro del +1 sul finale che sembra chiudere ogni discorso, salvo poi essere vanificato dalla prodezza di Domercant. E ancora. Nella finale di Eurochallenge contro i francesi dello Cholet, è Langford a fare le pentole ed i coperchi. E’ sempre lui, soprattutto, ad archiviare la pratica scrivendo a referto gli ultimi 3 punti della sua Virtus che fanno esplodere la FuturStation di Casalecchio di Reno e che gli valgono il meritato titolo di miglior giocatore dell’incontro. Pressochè scontato ribadire come il prodotto di Kansas, allo stato attuale, rappresenti le V nere; e come le V nere rappresentino Langford. Lui che della panchina ha fatto la sua fortuna; lui che ha saputo aspettare; lui che ci ha sempre creduto; lui che è entrato nel cuore di Sabatini, lui che è stato nominato terzo assoluto miglior giocatore della regular-season. Lui che è diventato recentemente, per lo stesso presidente bolognese, merce di ricatto nei confronti della tifoseria, timida a sottoscrivere gli abbonamenti per i play-off e minacciata dal possibile congelamento della trattativa che dovrebbe portare Keith a diventare uno degli uomini-simbolo della Virtus per i prossimi due anni. Un gesto discutibile nella forma -ma che, a ben vedere, combacia perfettamente col “personaggio” Sabatini- che implicitamente testimonia quanto sia breve, a volte, la strada che dal “pino” conduce sotto gli affascinanti riflettori della ribalta.


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Il classico tour di on the road in quella che attualmente è la città più cliccata degli States vista la candidatura, sostenuta da MJ, di Chicago alle Olimpiadi del 2016

Welcome to the ‘Windy City’ Chissà perché quando penso a Chicago nella importato in questa grande metropoli industriale creando, col passare degli anni, un vero e proprio Chicago-Style. Grandi virtuosi del Blues par«Come on Oh baby don't you wanna teciparono al vivace contesto musicale della città, a partire dagli anni '20 go...Come on Oh baby don't you wanna fino ai giorni nostri e molti di essi si affermarono anche in campo intergo...Back to that same old place...Sweet home Chicago». Ed eccoci proiet- nazionale. tati in un secondo nel 1980 sulle note di “Sweet home Chicago” tratta dal COME ARRIVARE E COME MUOVERSI film culto che ha consacrato il mito di John Belushi “The Blues Chicago è servita da due aeroporti principali. L'O'Hare International Brothers”… ah si.. quelli si che erano film… Ma adesso non voglio dilun- (ORD), 27 km a nord-ovest del centro, è il più trafficato snodo aeroporgarmi troppo ..torniamo subito alla città più “acculturata” d'America dove tuale del mondo, mentre il Midway, 16 km a sud-ovest del centro, è molto bellezza e cultura si fondono. più piccolo e serve soprattutto compagnie che praticano prezzi scontati. Chicago (soprannominata Second City e Windy City) situata lungo le rive Ogni giorno partono voli per 300 città in tutto il mondo, cifra non ragdel lago Michigan, è la più grande città dell’ Illinois e la terza per popola- giunta da nessun altro aeroporto internazionale. Chicago è ben servita zione di tutti gli Stati Uniti dopo New York e Los Angeles , considerata la dalla rete di autobus pubblici e dai treni, che si è sviluppata per far fronte più americana tra le grandi metropoli degli USA. è stata definita come al caotico traffico della città. Se scegliete un mezzo proprio, potete ricoruna delle 10 città più influenti al mondo. Oggi è una città multietnica, rere a taxi o auto a noleggio. I treni della compagnia Metra (www.metranonché un importante centro finanziario e industriale ed uno dei maggio- rail.com) servono 245 stazioni nei sobborghi di Chicago. Alcune linee ri centri fieristico/espositivi mondiali. molto florida per le sue industrie e, sono in funzione sette giorni su sette, altre solo nelle ore di punta dei soprattutto, per i fantastici luoghi d'interesse che mette a disposizione: giorni lavorativi. I biglietti possono essere acquistati nelle biglietterie, Chicago, patria di gangster cinematografici e non. Questa città è famosis- anche automatiche, delle stazioni principali. sima oltre che per i suoi imponenti grattacieli, tra questi bisogna ricorda- La El, una ferrovia soprelevata, è il mezzo di trasporto più rapido ed ecore il primo grattacielo del mondo costruito nel 1885 e la “Sears Tower” nomico per spostarsi dagli aeroporti O'Hare e Midway al Loop. Gli autoche è il secondo grattacielo del mondo per altezza,anche per aver fatto da bus navetta partono a intervalli regolari da entrambi gli scali per i princisfondo a molti film, come l'omonimo “Chicago”, musical uscito nelle sale pali alberghi del centro, ma vi sono pure moltissimi taxi (piuttosto cari) cinematografiche, come remake, nel 2003. È importante ricordare anche che aspettano soltanto di portarvi in città. Tutte le principali agenzie di il ruolo che ha sempre ricoperto la città di Chicago nel panorama musica- autonoleggio dispongono di sportelli agli aeroporti, e naturalmente hanno le americano come centro nevralgico del JAZZ e deL blues. Nei primi anche filiali in città, ma potete prenotare anche online.. ecco alcuni siti decenni del '900 fu meta per molti musicisti afro-americani che proveni- www.easycar.it, www.kelkoo.it, www.budjet.com, www.alamo.it i prezzi vano dagli stati del sud durante la grande migrazione afroamericana in partono da 160 € a settimana per le macchine più economiche. Se visitate cerca di lavoro e di un tessuto sociale migliore. Fu proprio il Blues, carat- Chicago nei mesi estivi, sicuramente sarà molto divertente noleggiare una teristica intrinseca dei musicisti neri del Delta del Mississippi ad essere bici nel porto turistico e pedalare per tutto il lungo lago. Il lago Michigan bagna per 30 Km la città e nel percorso potrete ammirare oltre a molti luoghi dove svolgere sport all'aperto, spiagge da costa californiana comprensive di palme e stabilimenti, il meraviglioso porto con migliaia di barche all'ormeggio e il Lincol Park uno dei 503 parchi di cui la città è ricca DOVE DORMIRE Le opzioni per dormire a Chicago sono buone, anche se molti degli hotel intorno alla zona centrale ed all’aeroporto partono da prezzi medio-alti in su.Ci sono comunque opportunità di trovare sistemazioni meno costose in tutta la città.Chicago ospita regolarmente grandi fiere ed esposizioni, e significa che durante l’alta stagione molti degli alberghi sono al completo.Si consiglia di fare una prenotazione con largo anticipo Wyndham Garden Hotel 8201 W. Higgins Rd a pochi minuDI

L EANDRA R ICCIARDI mia testa c è solo una canzone…


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ti dall’ aeroporto O’Hare con prezzi che variano dai 73€ agli 87€ per camera a notte Essex Inn 800 Michigan Avenue Questo hotel sorge in centro,di fronte al Grant Park e a pochi passi de molte delle attrazioni della zona, prezzi a partire da 89€ per camera a notte. Wingate Inn 2112 South Alington Heights Road a 25 miglia dal centro cittadino, prezzi a partire da 105€ per camera doppia per notte. Inno f Chicago 162 E. Ohio St. a pochi passi dal Magnificent Mile, offer facile accesso ai centri affaristici e finanziari,musei e alla zona dei ristoranti e dello shopping, con prezzi a partire da 113€ . Windy city Urban Inn 607 W. Deming Place ad una trentina di minuti sia dall’ O’Hare che dal Midway, con prezzi dai 110€ ai 120 € Wyndham Chicago 633 N. St. Clair St a pochi minuti dall’ aeroporto Midway Con prezzi che variano da 140€ ai 280€ per camera a notte Per i più ‘spendaccioni’ ci sono anche Hotel extra-lusso come Ritz Carlton 160 E. Pearson Ave. adiacente alla Water Tower Place con prezzi che partono dai 470 Fairmont 200 N.Columbus Drive presso i Grant e Millennium Parks, prezzi a partire da 522. Per tutte le altre informazione potete consultare i siti www.octopustravel.com, www.tripadvisor.it, www.viaggi.yahoo.com e www.tripwolf.com. IL TEMPO Chicago gode di un clima continentale temperato che può essere estremamente variabile a causa del sistema climatico formato dal Lago Michigan. Se arrivate qui in qualsiasi periodo, tranne che d’estate, mettete in valigia ogni tipo di abbigliamento, per il caldo e per il freddo. Anche le giornate estive possono essere imprevedibili, ma le variazioni di temperatura più grandi sono in primavera. La maggioranza delle persone visita Chicago durante l’estate (da Giugno ad Agosto) quando è più calda. Questo è anche il periodo più affollato con un grande numero di festival ed eventi. Aspettatevi molta pioggia in primavera e temperature più fresche, mentre chi la visita in autunno avrà la garanzia di non avere le folle di turisti oltre al bel tempo, con giornate soleggiate e tiepide che spesso durano fino a Novembre. A Chicago gli inverni possono essere estremamente freddi, anche se non sono così brutti come molti tendono a pensare. Dicembre può essere piuttosto buono mentre Gennaio e Febbraio freddi e nevosi. L’inverno è la stagione migliore per visitare Chigaco, grazie ai prezzi meno elevati degli hotel e per visitare le sue attrazioni indoor. Chicago gode di un clima continentale temperato che può essere estremamente variabile a causa del sistema climatico formato dal lago Michigan, anche le giornate estive possono essere imprevedibili, ma le variazioni di temperatura più grandi si hanno in primavera. Aspettatevi molta pioggia in primavera e temperature fresche ,mentre in autunno ci sono giornate soleggiate e tiepide che spesso durano fino a novembre. Gli inverni sono estremamente freddi specialmente tra Gennaio e Febbraio che sono i

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mesi più nevosi. Chicago gode di un clima continentale temperato che può essere estremamente variabile a causa del sistema climatico formato dal Lago Michigan. Se arrivate qui in qualsiasi periodo, tranne che d’estate, mettete in valigia ogni tipo di abbigliamento, per il caldo e per il freddo. Anche le giornate estive possono essere imprevedibili, ma le variazioni di temperatura più grandi sono in primavera. COSA VEDERE Loop: il “Laccio” costituisce la zona più centrale e più interessante dal punto di vista turistico di Chicago. Circoscritto dalla EL, la Elevated (la vecchia metro elevata), questo quartiere ospita importanti edifici come il Manhattan Building, il primo grattacielo costruito secondo criteri “moderni” o il First National Bank Building, la banca più grande del mondo.Nella zona meritano inoltre una visita la Daley Plaza conosciuta soprattutto perché ospita una singolare opera di Pablo Picasso, l’Illinois Center, sede degli uffici governativi, e la Sears Tower, uno dei grattacieli più alti al mondo da cui si può ammirare una splendida vista sulla città e sulla zona circostante. La South Michingan Avenue: proseguendo lungo la Michingan Avenue, si entra in una delle zone più belle di Chicago, quella del Grant Park, grande area verde che si sviluppa attorno alla Buckingam Fountain, proprio sul Lago Michingan. Nella zona del parco si possono visitare l’Art Institut, principale museo di Chicago e uno dei maggiori di tutti gli Stati Uniti, che espone tele di livello mondiale (Van Gogh, Matisse, Monet) e, proseguendo in direzione sud, il Museum of Natural History. La visita si conclude con una delle maggiori attrattive della città, lo Shedd Acquarium, uno dei più grandi al mondo in cui si trovano numerose specie di pesci e si svolgono spettacoli con i delfini. Il North Side: a nord del Loop parte la maggiore

strada commerciale di Chicago, il Magnificent Mile, splendido viale in cui si trovano grandi edifici come il Tribune Tower, la Water Tower o l’Hancock Center, negozi e locali tra i più grandi ed esclusivi di tutti gli Stati Uniti (Gucci, Tiffany, Burberry, Louis Vuitton ecc). Da qui si può raggiungere facilmente la Old Town, la vecchia Chicago in cui si trovano locali molto animati nelle ore serali e negozi caratteristici. Proseguendo si giunge nella Gold Coast, zona residenziale più esclusiva e signorile della città sul Lago Michingan. Infine prendendo la North Lake Shore Drive si arriva al Lincoln Park, la maggiore area verde della città, molto frequentata durante la stagione estiva da chi ama passeggiare e fare sport. sicuramente meno interessante dal punto turistico è il South Side, in cui si segnala soltanto il grande Hyde Park con l’Università. per gli amanti della natura invece, si consiglia un’escursione all’Indiana Dunes National Lakeshore, mentre costeggiando il Lago Michingan in direzione nord, in poco più di un’ora si può raggiungere Milwaukee, interessante città del Wisconsin, con interessanti musei e un bel Centro Storico. SPORT Chicago è rappresentata in tutte le principali leghe professionistiche statunitensi: Chicago è rappresentata in tutte le principali leghe professionistiche statunitensi: • I Chicago Bears (NFL - football americano) giocano al Soldier Field • I Chicago Bulls (NBA - basket) giocano allo United Center • I Chicago Blackhawks (NHL - hockey su ghiaccio) giocano allo United Center • I Chicago Cubs (MLB - baseball) giocano al Wrigley Field e i Chicago White Sox (MLB baseball) giocano al U.S. Cellular Field • I Chicago Fire (MLS - calcio) giocano al Soldier Field.


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