www.trantran.net | n. 13 mensile | 30 novembre_2010 | Distribuzione gratuita | Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale -70% - CN/RE - n. 4/2010
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[ INTERVISTE ]
Franco Oppini, Edda dei Ritmo Tribale, Karim Capuano
[ LIBRI ]
Vincenzo Costantino Chinaski
[ ALTROVE ]
Il piccolo Tibet
[ BRIGANTIA ] La vera Monaca di Monza
[ ARTE ] Il Sacro e il Profano
La redazione di Trantran, il Gabibbo e molti altri testimonial insieme per dire: la lucidità è rivoluzionaria!
[ SOMMARIO ]
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5 Editoriale è già passato un anno!
Anno II - numero 13 - 30 novembre 2010 Editore: Trantran Editore s.r.l. Sede e Redazione: V.le Cesare Battisti, 121- Vedano al Lambro C.F./P.I./RIMB 06774520966 REA MB1864900 Reg. Trib. di Monza n.1995 del 29/06/2010
In questo numero...
Fondatori Marta Migliardi, Elena Gorla, Adriana Colombo, Guido Bertoni
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Direttore Alfredo Rossi Capo Redazione Marta Migliardi Vice Capo Redazione Elena Gorla Inviata Speciale: Adriana Colombo Redazione Juri Casati, Giulia Cavaliere, Fabio Paolo Costanza, Guido Caimmi, Niccolò e Jacopo Rossi, Lorenzo, Gaber, Gabry, Fatima Bianchi e Giulia Trapanotti Si ringraziano per questo numero Guido Bertoni, Lela e Chiara (Studiofluido), tutti i testimonial della campagna sociale, il teatro S. Babila di Milano, Laura, il Gaberozzolo, Alberto Citterio, Maryon Pessina, la tartaruga Genny, la segreteria del Comune di Monza, Umberto Grasso, Davide per i suoi panini, Mr Burns, Don Andrea e Effe, Davide e Stefano Floriello, mio papà Ugo (Andrea) e mio fratello Pier, i nostri cuccioli Enea, Totò, Spillo, Sibilla, Lolita, Angelina, Annibale, Asia, Dominga e la bella Alice. Ringraziamo anche le nostre mamme Agny, Gabry e Rita, che ad un anno di distanza dalla nascita di Trantran, non hanno mai smesso di supportarci e sopportarci. Buon compleanno Trantran!
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Clochart
Franco Oppini: anche l’acqua può far male Edda: è tornata l’ex voce dei Ritmo Tribale Karim Capuano e il sogno americano
13 Bis! 13 La lucidità è rivoluzionaria! 15 Solo per oggi 16 Paradisi Noir 16 Denise. Do, do! 17 Sergio Toppi, viaggiatore
21 Altrove
Il cuore dello Zanskar, il piccolo Tibet
25 In cuccia
La grande fortuna di finire in canile, se è quello di Monza
26 Verdissimo
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Adriana, Alfredo, Marta, Elena (per la redazione di Trantran) e il Gabibbo. Foto di Emanuela Terraneo Il Gabibbo gentilmente concesso da Striscia la Notizia
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immobile sulle rotte dell’immaginario 18 Vincenzo Costantino Chinasky: traduttore della vita 19 Sacro e profano in Villa Reale
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In copertina
6 Spunti di vista Il mostro in casa, parole in libertà
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Allegria in tavola: c’è il novello!
27 Brigantia
Sulle tracce della Monaca di Monza 29 NonsoloMonza Villasanta
30 I segreti dello chef Super Speedy: il panino più buono del mondo
31 Reality 32 Raccontiamoci 32 Un amor di computer 34 Scuola di scrittura creativa a Monza
36 L’angolo del pendolare Odissea Le lettere dei lettori
37 Di tutto un pò
Gestire il proprio stack
38 Dalla Provincia
Dalla Provincia MB due bandi per sostenere l’occupazione
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39 Dal Comune
Risultati economici positivi ottenuti dalla raccolta differenziata
41 Sportivamente
Pistaaaaaa! Arriva Gus Gus
41 Le sciure 42 Ci vediamo presto!
Centro Commerciale Auchan di Monza
Non solo shopping! E’ tempo di sfatare alcuni pregiudizi: a Monza il Centro Commerciale Auchan, ha dato vita a una realtà con un’ottica di stampo ecologico e la volontà di integrarsi al territorio e alla vita sociale dei cittadini, ribaltando la diffusa immagine di centro commerciale a forte impatto ambientale e a bassa compenetrazione territoriale e sociale. Un luogo, quindi, in cui il territorio vive e si mostra. Uno spazio integrato con la città e l’ambiente. Un luogo in cui far rivivere, anche nei mesi climaticamente sfavorevoli, il concetto di agorà, e, dunque, non solo business e shopping ma una piazza dove incontrarsi, ricca di cultura, sport, eventi e mostre rivolte anche ai giovani. Com’è stato possibile tutto questo? Innanzitutto, ci spiega il Direttore Dott. Carlo Crivelli, l’edificio è stato concepito per annullare l’impatto invasivo nei confronti del territorio ed essere in armonia con l’ambiente, non solo sotto il profilo estetico ma anche in termini di consumi energetici: il Centro Commerciale Auchan, infatti, è interamente costruito sottoterra e ciò permette un forte contenimento della dispersione termica sia d’estate che d’inverno. Lo spazio soprastante, inoltre, è stato adibito a spazio verde: un parco al servizio della cittadinanza. Ma l’impegno nella tutela ambientale si è rivelato anche con altre interessantissime iniziative, prima tra tutte (e la catena Auchan è stata la prima in Italia), quella di sostituire i sacchetti di plastica con quelli biodegradabili, nonché siglando un protocollo d’intesa con il WWF per la diffusione di shopping bag “per la vita” (ovvero riutilizzabili infinite volte), che Auchan s’impegna a rimborsare in caso di rottura. Un’altra iniziativa di rilievo tesa all’educazione ambientale è stata quella, in collaborazione con il Museo A come Ambiente di Torino, del primo “mudulo itinerante” dedicato all’ambiente: l’info container “L’Energia sotto il naso”, un vero e proprio laboratorio in cui toccare con mano e sperimentare come sia possibile risparmiare energia e ridurre l’effetto serra. Tutto questo è solo una piccola parte dell’innovazione attuata dal Centro Commerciale Auchan di Monza: non dimentichiamo le molte iniziative che sono state organizzate per la cittadinanza, in un nuovo e brillante concetto
Addobbi natalizi rallegrano la galleria commerciale
L’area gioco custodita e le bacheche realizzate dalla falegnameria del carcere di Monza
di compenetrazione col territorio. La galleria del Centro Commerciale, infatti, è diventata il luogo in cui poter trovare mostre fotografiche, in molti casi legate al contesto ambientale, come Monza vista dall’alto e I laghi della Lombardia. Ma non solo i temi rappresentati (che variano ogni mese) fanno sì che la galleria commerciale diventi voce del territorio. Anche le apparentemente rudimentali bacheche in legno, sono espressione della volontà del Centro Commerciale Auchan di entrare in simbiosi con il contesto sociale di Monza: sono, infatti, state realizzate dalla falegnameria del carcere di Monza. A Natale continueranno le mostre e le iniziative. Dal 20 novembre al 5 dicembre 2010 la rassegna fotografica I giri del Mondo ci farà scoprire, per iniziare, gli angoli nascosti di Istanbul. Inoltre, sotto Natale, sarà allestita una mostra sui luoghi più suggestivi della Brianza decorati per le feste assieme ad un mercatino di artigianato. Un uso nuovo e creativo degli spazi che ha visto realizzarsi anche, con la collaborazione dell’assessore alle Politiche Giovanili e Pari Opportunità di Monza, Martina Sassoli, un corso di autodifesa femminile e alcune conferenze (al piano superiore, nella zona ristorazione) sul delicato rapporto tra genitori e figli, tenute dalla Dott.ssa Convertino. Ambiente, cultura, corsi e integrazione con il territorio. Il tutto, ovviamente, contornato dalla fruibilità e varietà dei servizi tra cui: due aree bimbi in galleria, una per il gioco libero e una custodita, Wi-Fi gratuito all’interno della galleria, varie offerte ristorative che, d’estate, si aprono sul parco attraverso diversi gazebo ombreggiati. Come ultima cosa, non di certo per importanza, vi ricordiamo che il Centro Commerciale Auchan è partner della squadra Sharks di Monza, squadra di hochey weelchair (su sedia a rotelle). Progetto realizzato per sfatare i pregiudizi sulla disabilità e dimostrare alla gente che la vera e unica disabilità sta proprio nel pregiudizio. E con questo ci riagganciamo all’incipit del nostro articolo, sperando di aver sfatato il preconcetto, almeno per quanto riguarda il Centro Commerciale Auchan di Monza, che business, sociale, etica e ambiente non possano andare di pari passo. Non solo shopping: una piazza concettuale, integrata nel territorio, dove vivere, socializzare e fare nuove scoperte.
[ EDITORIALE ]
[ Il Direttore ALFREDO ROSSI foto di Gabriele Benini ]
A noi della redazione resta la voglia di dare un volto a quelli che prendono in mano Trantran e lo leggono, alla ricerca di qualcosa che li interessi, li faccia pensare, li diverta
è già passato un anno! Ci conosciamo, noi di Trantran e voi che ci leggete: abbiamo imparato a conoscerci lentamente, ma sempre meglio e più a fondo. Perché è da un anno che ci frequentiamo: sì, sembra ieri e invece sono già passati dodici mesi dalla prima volta che la nostra rivista ha affrontato il debutto in pubblico. E da allora, puntualmente, ci trovate davanti alle stazioni di Monza e del circondario, nei bar, nelle biblioteche pubbliche… Ci venite anche a trovare numerosissimi nel nostro sito internet. Ma a noi della redazione resta la voglia di dare un volto a quelli che prendono in mano Trantran e lo leggono, alla ricerca di qualcosa che li interessi, li faccia pensare, li diverta. Non so se anche voi lettori siete attanagliati dalla stessa curiosità. A dire il vero, voi questa curiosità l’avete già in parte soddisfatta: anche la redazione di Trantran apparirà sui manifesti della campagna di sensibilizzazione sulle (tossico)dipendenze, sui muri della nostra città. Al Teatro Binario 7, il prossimo 14 dicembre ci sarà la proiezione del lungometraggio Affari di famiglia, una commedia noir in tre atti, diretto dal regista Stefano Alleva, che ha firmato molti successi in Tv (per citarne qualcuno La squadra ed Elisa di Rivombrosa). La proiezione conclude la campagna, realizzata in collaborazione con il Comune di Monza, Assessorato al Turismo e allo Spettacolo, l’associazione Culturale Harvey senza scopo di lucro e Trantran Editore, voluta per aumentare la sensibilizzazione sulle (tossico)dipendenze. Lo slogan lo conoscete tutti:
LA LUCIDITA’ E’ RIVOLUZIONARIA, perché l’essere lucidi, oggi, rappresenta la vera novità, il vero indice di forza e di personalità. Il film che sarà proiettato è particolare perché gli interpreti, e in parte anche gli autori, sono i ragazzi del Centro di Recupero Don Guerrino Rota, ragazzi che hanno conosciuto l’inferno della droga e ne sono usciti, o ne stanno uscendo, con grande coraggio e grande fatica. Tra gli attori, c’è anche la partecipazione straordinaria di Katia Ricciarelli, un’artista da sempre attenta alle problematiche della droga. E tra Monza e il Centro Don Rota c’è anche una specie di parentela, perché la direttrice del centro stesso è la monzese Alessandra Fontana. Peccato non potervi invitare tutti: il teatro ha solo 260 posti e voi siete molti di più. Ma prima o poi capiterà un’altra occasione d’incontro: stiamo già pensando qualcosa. Se invece volete dare un occhio a come me la cavo con la mia grande passione, il teatro, potete farlo la sera del 4 dicembre, nel teatro del Palazzo Terragni di Lissone. Qui la compagnia Amici del teatro metterà in scena la commedia Arsenico e vecchi merletti. Per fortuna vostra, e mia, la mia parte è breve, ma gli altri sono bravi e la commedia è davvero divertente. Se volete c’è posto anche per voi. Vi aspetto: pochi fischi e tanti applausi. P.S. Un grattino sul muso ai vostri cani. E fate i bravi: raccogliete quello che… perdono. Alfredo Rossi
[ SPUNTI DI VISTA ]
IL MOSTRO IN CASA, PAROLE IN LIBERTA’ Sarah Scazzi, Scazzi Sarah, Sarah Scazzi, Scazzi Sarah. È da un po’ di tempo che questo nome è sulla bocca di tutti. Però non so se avete notato che c’è sempre qualcuno – a scuola, al bar, in ufficio - che della vicenda di Sarah Scazzi ne sa più di voi o che ha un particolare in più da aggiungere rispetto alle informazioni che avete voi. Torna alla mente uno studio compiuto anni fa in cui era stato osservato che molte persone che nella vita quotidiana faticavano ad esprimersi in merito a questioni rilevanti, nel momento in cui iniziavano a parlare di calcio – argomento leggero che evidentemente creava meno imbarazzi o rischi rispetto ad altri argomenti - improvvisamente si esprimevano in modo magistrale, dimostrando conoscenze e competenze “pesanti”. Ebbene: da qualche anno in qua anche la cronaca nera consente di esercitare ed esibire – liberi da rischi ed imbarazzi - abilità retoriche, competenze legali, conoscenze della psicologia umana ed intuito investigativo. Si tratta di abilità, competenze e conoscenze che in gran parte derivano dalla televisione - ed in particolare dai serial USA -, ma di cui nella vita quotidiana non c’è mai occasione di far sfoggio. Per il fatto di Avetrana il volume di opinioni e osservazioni è stato probabilmente aumentato
dal fatto che le indagini sono state condotte in modo visibilmente approssimativo, ma soprattutto in modo pubblico. Ciò ha consentito a tutti di seguire la vicenda e di mettere alla prova almeno una di quelle abilità, competenze e conoscenze che nella vita quotidiana non possono mai essere usate. Tuttavia se questo comportamento è comprensibile nel pubblico, esso è meno tollerabile negli “operatori del settore” – stampa e forze dell’ordine – che invece si sono lasciati letteralmente trascinare dall’ebbrezza del poter dire la loro nello stesso modo in cui si giudica un fallo da rigore alla moviola e cioè sparando senza ponderazione un argomento via l’altro e una boutade via l’altra. All’inizio si diceva che Sarah si fosse allontanata volontariamente da casa in base a due constatazioni. In primo luogo Sarah nel suo diario ave-
Per il fatto di Avetrana il volume di opinioni e osservazioni è stato probabilmente aumentato dal fatto che le indagini sono state condotte in modo visibilmente approssimativo, ma soprattutto in modo pubblico
va scritto di non trovarsi bene ad Avetrana. In secondo luogo Sarah non era di Avetrana, ma era una specie di emigrante al contrario, partita da una città del nord per andare ad abitare nelle campagne del sud. La pista viene ovviamente abbandonata dopo poche settimane e ci si focalizza sui parenti. Infatti molti notano che il padre di Sarah è come se fosse assente e non si è mai capito bene il perché. Però tra gli altri parenti emerge improvvisamente la figura dello zio. Lo zio trova il cellulare di Sarah e - torchiato a dovere - confessa il suo omicidio, il successivo stupro e l’occultamento del cadavere in un pozzo. Dopo la confessione dello zio tutti hanno la formidabile occasione di dire tutto e il contrario di tutto. Cito a caso: la giornalista Federica Sciarelli, quando arrivano le prime confuse notizie del ritrovamento del corpo di Sarah, non interrompe il collegamento in diretta con la madre, ma manda la pubblicità annunciando per il ritorno in studio un’importante novità. Nei giorni successivi le forze dell’ordine si sentono in dovere di precisare di aver capito subito che lo zio mentiva perché durante la prima deposizione aveva mosso solo alcuni muscoli della faccia e non altri muscoli che avrebbe dovuto muovere se fosse stato sincero. E poi ancora: le interrogazioni parlamentari, il plastico di Vespa e, immancabile, il parere del criminologo. Di norma il criminologo televisivo sciorina una sociologia da tema del Ginnasio che incolpa immancabilmente l’ambiente in cui il colpevole di turno nasce e vive. Tuttavia, poiché nel 99% dei casi tale ambiente è anche quello in cui viveva la vittima, quasi sempre ciò comporta che in fondo anche la vittima è un po’ colpevole. In questo caso Sarah si salva da questa logica perversa solo in virtù del fatto che non è di Avetrana. Pertanto la colpa ricade integralmente sull’ambiente in cui si sono svolti i fatti che – secondo un altro grottesco luogo comune – è isolato, rurale e popolato da semianalfabeti. Ma i conti non tornano: quando Sarah è morta lo zio dormiva. L’autopsia inoltre rivela che Sara non ha subito violenza. Lo zio racconta allora un’altra versione dei fatti: Sarah aveva scatenato la gelosia della cugina che l’ha uccisa perché piaceva ad un suo amico. Lo zio di Sarah in questa nuova versione dei fatti – che probabilmente non sarà l’ultima sarebbe stato solo complice dell’occultamento del cadavere. Tutti a tacere? Ma neanche per un attimo. E dunque si ricomincia daccapo. Il criminologo televisivo – lo stesso di prima – senza battere ciglio abbandona la versione della società meridionale rurale e arretrata e passa a criticare la società dell’immagine dove contano solo i valori esteriori. Qualcuno tira fuori la storia che la madre è un testimone di Geova e qualcosa vorrà pur dire. Quelli che parlavano dei muscoli della faccia ora parlano di un “mutato quadro probatorio” e via dicendo. Rassegniamoci. Ormai non si può far più nulla: la vicenda di Sarah Scazzi si è trasformata in un infinito Processo del Lunedì giudiziario.
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FRANCO OPPINI:
ANCHE L’ACQUA PUÒ FARE MALE [ di Adriana Colombo ] Ci eravamo lasciati alla Partita del Cuore, allo stadio Brianteo di Monza, con la promessa di rivederci a teatro e così è stato: incontriamo Franco Oppini al Teatro San Babila di Milano dove è in scena con Molto rumore per nulla di William Shakespeare. Franco ci accoglie con un sorriso e ci sentiamo subito a nostro agio. Mentre Giulia e Fatima (NDR le nostre bravissime operatrici video) iniziano a posizionare le telecamere e a scegliere l’inquadratura migliore spostando anche un divano, Franco ed io parliamo della campagna di sensibilizzazione sulle (tossico)dipendenze promossa della nostra rivista in collaborazione con l’Assessorato al Turismo e Spettacolo del Comune di Monza e con il patrocinio della Provincia di Monza e Brianza (ve ne parleremo in modo più approfondito all’interno della rubrica BIS!) e lui riporta una frase che disse al figlio Francesco (NDR. avuto con Alba Parietti) quando era ancora un bambino: “anche l’acqua può fare male...”, nel senso che bisogna sempre avere moderazione in tutto
e mai abusare di nulla! Franco Oppini è veramente una bella persona. Una volta lasciato il Teatro San Babila ci accorgiamo che in noi si è insinuata una ventata di buon umore che non avevamo al nostro arrivo: la positività e l’amore per le cose che fa sono profondamente contagiose. La tua carriera inizia da giovanissimo, avevi circa ventuno anni, con I gatti del vicolo miracoli. Avete lavorato assieme per quindici anni prima di sciogliervi e proseguire con le vostre singole carriere, tutte di successo. Come vi siete conosciuti? Avevo ventuno anni esatti quando ho cominciato, infatti, ricordo che compivo gli anni e diventavo maggiorenne (NDR in Italia fino al 9 marzo 1975 la maggiore età si raggiungeva al compimento del ventunesimo anno) al Derby Club di Milano! Ci siamo conosciuti nel più semplice dei modi: eravamo compagni di classe. Io ero in banco con Umberto perché ero anche l’unico che ci stava, come dimensioni…ero molto magro allora! Poi abbiamo continuato a stare assieme nella vita:
da compagni di scuola a compagni di lavoro. Ricordo che quando ero bambina e mi mettevo a fare i capricci con richieste inverosimili i miei genitori avevano preso l’abitudine di zittirmi mettendosi a cantare il vostro tormentone… Voglio l’erba voglio, voglio avere un quadrifoglio….Capito?... Immagino si tratti di questa canzone! Capito? Fu un grosso successo, ma era solo una piccolissima parte del nostro spettacolo. Funzionava bene e lo sapevamo anche prima che uscisse il disco. Certo è che poi, con il successo che ha ottenuto, è stata spesso interpretata come una canzoncina divertente e un po’ stupida. Sono semplificazioni che capitano quando una cosa diventa popolare, ma in realtà, se si legge bene il testo, se si va a fondo tra le righe, si capisce che non voleva essere una cosa proprio banale… non è che ci andassimo proprio morbidissimi. Voglio l’erba voglio... è valida sia per i bambini che per gli adulti che fanno le fregnacce.
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Che ne pensi dei reality e della fama così improvvisa? Secondo te è una forma di notorietà che lascia il segno o credi che la gavetta sia importante? Perché parlare dei reality? Comunque ti rispondo, anche se il mio giudizio è già trapelato: per me è come dare una laurea in medicina a un ragazzino che ha concluso le elementari. Mi spiego: il meccanismo del reality prende ed espone enormemente persone che non sono preparate alla notorietà. Non per mancanza di capacità individuali, ma perché molti ragazzi si ritrovano catapultati dentro a realtà per loro ancora sconosciute, finendo come dei bambini ai quali fosse detto a dieci anni “tieni una laurea, vai ad operare!”. Il risultato è che l’unica cosa che viene “squartata” è lo spettacolo! Credi negli oroscopi? Credo nella sensibilità di chi li fa, nella loro professionalità. Poi l’oroscopo in generale, come mi dice mia moglie Ada (NDR. Ada Alberti, astrologa famosa per le sue numerose collaborazioni televisive, la cui intervista uscirà nel prossimo numero di Trantran con qualche consiglio per il 2011...), non esiste. Questo perché per fare l’oroscopo serio, bisogna farlo ad personam: con l’ascendente e il quadro astrale. Mia moglie impiega tre giorni di lavoro, per fare un oroscopo serio. Quindi gli oroscopi generici hanno un valore molto limitato. In più chi lo fa deve avere una sensibilità molto particolare,
Franco Oppini è veramente una bella persona. Una volta lasciato il Teatro San Babila ci accorgiamo che in noi si è insinuata una ventata di buon umore che non avevamo al nostro arrivo in gergo si dice sensitivo, e lei è una persona che applica questa sua sensibilità allo studio. La vita aliena, gli extraterrestri, esistono? Shakespeare, ad esempio, è uno di loro. Una prova è nella commedia con la quale mi esibisco ora nei teatri, Molto rumore per nulla. Un uomo
che nel XVI secolo scrive una battuta che tradotta testualmente dice “possibile che non ci sia più in giro uno scapolo di sessant’anni!”, quando al suo tempo la vita media era di trentacinque, è per forza un extraterrestre, uno che guardava indubbiamente più lontano del suo tempo o veniva da un passato futuro. Nella tua carriera non ti sei fatto mancare proprio nulla: musica, teatro televisione, cinema… Mi manca il circo! Ma per il resto ho davvero fatto di tutto: ho avuto persino una compagnia di operetta, per due anni. Secondo il tuo punto di vista, per un attore qual è più appagante fra cinema, televisione e teatro? Per me l’ordine è sicuramente teatro, cinema e televisione, ma non per criminalizzare la TV; è una questione di come si fanno le cose. Il teatro, ad esempio, è fatto da appassionati. Gennaro D’Avanzo, direttore del Teatro San Babila di Milano in cui va in scena il mio spettacolo, è un uomo che vive di teatro e di passione per il palcoscenico. E questo è un mondo duro, perché si lavora moltissimo e si guadagna poco, si vive di stenti a causa dei drastici tagli cui è sottoposto questo universo e solo la passione spinge ad andare avanti. Quindi un lavoro che è capace di coinvolgere così, anche per il fatto che in teatro si lavora su testi meravigliosi (classici come anche contemporanei), è diverso dal lavoro in TV. Un’opera di Shakespeare è molto lontana dalla sceneggiatura di una fiction, l’attore non può modificare neanche una virgola, perché il testo è perfetto, tutto è sempre giusto così com’è, neanche una parola è lasciata al caso. Anche la fiction può essere un lavoro appassionante per l’attore, ma ovviamente non ha la complessità e il fascino di Shakespeare. Per il cinema italiano, poi, è un discorso a parte perché continua a esserci un qualcosa che “non mi torna”. In che senso? Quando vedo certi film, godibili, anche belli, c’è comunque qualcosa che non mi soddisfa pienamente. Prendiamo come esempio Gabriele Muccino: come regista ha una capacità incredibile, eppure in molti suoi film c’è sempre qualcosa che non quadra. Saranno gli attori, i dialoghi o le sce-
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neggiature…non so. Poi vedo le sue produzioni hollywoodiane e le cose cambiano. Splendide. Ma allora c’è qualcosa che non funziona nel cinema italiano! Non so, ma certo è che se guardando un film italiano si cambia canale e poi s’incontra un film di Almodòvar…si nota la differenza. Davvero non so focalizzare cosa sia ma c’è qualcosa che impedisce al cinema italiano di tornare a essere quello che è stato. Io dico che è, forse, una questione di attori, infatti, non mi scelgono (NDR. Ride). Non è vero, il regista Diego Febbraro mi ha fatto fare un ruolo da cattivissimo nel film L’anno mille, per me è stata la prima esperienza cinematografica nei panni di un cattivo: un alchimista che ammazza tutti. In questo caso la più bella critica che ho ricevuto me l’ha fatta un mio collega attore che mi ha detto: “io dopo quindici secondi che ti ho visto ho scordato che eri tu: eri il cattivo”. Detto da un collega è un bel complimento! Un tuo pregio e un tuo difetto? E’ lo stesso, lo dice anche il nome: sono un po’ troppo franco! Cosa pensi dei rapporti fra ex fidanzati? E’ davvero possibile l’amicizia? No, l’amicizia no. Cosa c’entra l’amicizia? L’amico è quello che puoi chiamare anche di notte solo per dirgli “ho un problema!”. Una volta un mio amico mi chiamò dicendomi: “devo andare a Lipsia”. “Mi dai tre giorni?”, fu la mia risposta. “Sì. Allora lunedì partiamo”, mi confermò. Fine della conversazione e il lunedì partimmo, solo in viaggio mi spiegò il perché. A una ex non si possono certo chiedere queste cose! E’ importante mantenere un buon rapporto, questo sì, soprattutto quando ci sono anche dei figli, ma l’amicizia è tutt’altro. Mia moglie, Ada, ha preteso che io avessi un bel rapporto con Alba, la prima che ha invitato al matrimonio è stata proprio Alba. Loro si sentono spesso: Alba chiama: “dimmi un po’ come va il mio oroscopo?”
necessario, infatti, morendo, andiamo fuori dalle palle e il mondo non crolla! E questo è in realtà il bello di un rapporto: lo stare insieme non per necessità ma per gioia, per il piacere di condividere qualcosa. Se un rapporto funziona è bellissimo e ti dà tutto, se non funziona è meglio lasciare perdere. Che musica ascolti? Qual è la tua canzone preferita? Ivano Fossati, Franco Battiato e, anche Tiziano Ferro. Una canzone preferita? Potrei dire La cura di Franco Battiato oppure Discanto di Fossati o anche “...vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché, di notte chi la guarda possa pensare a te....” (NDR. Canta Il regalo più grande di Tiziano Ferro). Di recente si è fatto un gran parlare circa la riammissione di Belen fra le candidate alla presentazione del prossimo festival di Sanremo, nonostante il suo coinvolgimento in vicende legate al mondo della droga mentre, per motivazioni affini, lo scorso anno dallo stesso palco sanremese è stato bandito Morgan. Dove sta la differenza? Semplice, la differenza sta nell’apparenza! Morgan aveva fatto outing, invece Belen ha mantenuto una certa apparenza di perbenismo. Il vero problema è l’ipocrisia del sistema: allontanare un artista dal palco perché ha ammesso di avere
problemi con la droga è una follia che non risolve nulla. Allora dovremmo bruciare tutti i cd di Hendrix e gambizzare Maradona! Il ben pensare, evidentemente, predilige certe vie per salvare l’apparenza. Qual è il tuo rapporto con gli animali? Io ho un cane, ne ho sempre avuti. Ho avuto persino le pulci una volta...(NDR. Ride) Prima hai accennato ai tagli al teatro, problema che sta coinvolgendo un po’ tutte le regioni d’Italia. Cosa si può fare per risolverlo? Innanzi tutto non dire frasi del tipo “con la cultura non si mangia”, perché è una stupidata e non è vero, ma è quello che sostengono le istituzioni. Il teatro genera indotto, la cultura genera indotto, non è vero che questo è dato solo dalla produzione! Alberghi, taxi, ristoranti, ma anche tipografie, giornali e tv…ci sono tutta una serie di servizi che generano indotti legati alla cultura e allo spettacolo. Un saluto e un invito ai nostri lettori? Lo Shakespeare della nostra commedia ci parla di Molto rumore per nulla, ma oggi un po’ di rumore, anche se poi non si vedono i risultati, bisogna pur provare a farlo. Non riduciamoci al silenzio! L’intervista video è su www.trantran.net
Se le donne smettessero improvvisamente di fare tutto ciò che fanno cosa accadrebbe? Qual è il loro ruolo oggi? Sono certo che in qualche modo noi uomini ci arrangeremmo! Nessuno è davvero indispensabile perciò smettiamola di sentirci tali. Nessuno è
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Edda durante il live
EDDA:
è tornata l’ex voce dei Ritmo Tribale Ed è poesia
[ di Fabio Paolo Costanza ] Incontriamo Stefano EDDA Rampoldi, ovvero l’ex leader di una delle più celebri formazioni musicali italiane degli anni novanta, i Ritmo Tribale. Un artista particolare, una storia particolare. Nel 1996 durante il tour Psychorsonica decide improvvisamente di lasciare il gruppo e di ritirarsi dalle scene. Spiegherà più tardi che la decisione fu presa per una crisi di identità e per i suoi problemi legati alla tossicodipendenza. Ricompare dopo un silenzio di 13 anni nel 2009 nella trasmissione televisiva L’Era Glaciale di Daria Bignardi su Rai 2, dopo l’uscita del suo disco solista Semper Biot, scritto a due mani con Walter Somà. In 13 anni è stato in India, si è curato, ha conosciuto la spiritualità del movimento Hare Krishna. E ha fatto un disco. Semper Biot è un album assolutamente unico all’interno del panorama musicale italiano. In molti (tra cui il sottoscritto) hanno gridato al capolavoro. Quest’opera è un invito a farsi vedere per ciò che si è, senza maschere e finzioni. Ci sono la vita, la morte, la poesia, l’oscurità, la luce, la ricerca, l’amore. La bellezza e la schifezza di ciò che gira dentro ognuno di noi. Il 6 giugno 2009 Edda si esibisce in anteprima assoluta al Mi Ami Festival di Milano. Un ritorno accolto con grande calore, emozione e commozione da parte del pubblico presente. Tra la folla, molti vecchi fan, i componenti dei Ritmo Tribale, Vasco Brondi (Le Luci Della Centrale Elettrica), Vinicio Capossela ad assistere con entusiasmo a un ritorno trionfale. Oggi facciamo due chiacchiere con lui prima del suo concerto all’Arci Tambourine di Seregno (Mb). Come è nato Semper Biot? Ciao ragazzi, ciao Fabio. Il disco è nato grazie a Walter Somà. Walter e io ci siamo conosciuti in comunità, dove io facevo l’utente mentre lui invece era un operatore. Lì è nata l’amicizia. Poi finito il programma, a me era tornata voglia di suonare, di cantare soprattutto. Anche per riempire le domeniche. La domenica è un giorno molto difficile per me e mi fa stare malissimo; chiamiamolo
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horror vacui, bolla esistenziale. Forse perchè è un giorno che ti fa pensare, ti fa ragionare su quello che sei, su quello che hai fatto. Il fatto di far musica è stato veramente una panacea, un sollievo. Così con Walter abbiamo portato avanti le canzoni per un anno, finchè non è arrivata l’etichetta Niegazowana, e le canzoni sono diventate un disco. Semper Biot, ovvero “sempre nudo” in dialetto milanese. C’è una filosofia nudista di fondo? E’ un disco che è molto semplice. Volevo ripartire da qualcosa che sentissi molto “mio”, dal fatto che comunque le canzoni le faccio nascere nella mia testa e il fatto di arrangiarle troppo mi avrebbe un po’ spaventato. Allora le ho volute così: nude e crude. Poi è venuto il titolo, in dialetto. Nel disco è citata Milano. Una traccia titola proprio “Milano”. Che rapporto hai con questa città? Io non vivo più a Milano da quasi sei anni. Oggi ci vado a lavorare. Mi manca molto, ma non la amo. Sono due o tre in realtà i posti in cui mi piacerebbe stare. Mi piacerebbe stare a Genova, mi piacerebbe stare in Trentino Alto-Adige, e forse mi piacerebbe stare a Roma, perchè i romani sono una “razza” a parte. Milano mi manca, anche se non la amo. Vivi in Brianza adesso giusto? Sì, vivo in Brianza, posto che, se dovessi lasciare, non mi mancherebbe per niente. Hai ancora dei rapporti con gli ex dei Ritmo Tribale? Sì certo, anche se non li vedo spessissimo. Sono andato poco tempo fa a Milano alla presentazione del disco dei No Guru, progetto che vede coinvolti alcuni ex Ritmo Tribale. Ed è stato un concerto bellissimo. Anche il loro disco mi è piaciuto molto. Secondo me hanno fatto dei grossi passi in avanti. Li ho sentiti molto “veri” e questa è una cosa che mi ha fatto bene, perchè comunque li ritengo ancora come una parte di me. Adesso. Prima forse no, adesso sì. Mi fanno sentire orgoglioso di aver suonato con loro; re-
puto i No Guru un gruppo da cui tutti potrebbero imparare veramente qualcosa. Com’è cambiata la scena musicale dai tempi dei Ritmo Tribale a oggi? Anche perchè sei stato via un bel po’ di anni, avrai notato delle differenze. Io sinceramente non sento un cambiamento. Per quanto mi riguarda, come affrontavo prima la musica, la affronto ancora adesso. Dentro di me non è mutato nulla. Di quello che mi sta intorno, non me ne rendo tanto conto. Probabilmente ci sono delle differenze, ma io non le colgo. E l’Italia? La trovi cambiata? Bhè, sempre in peggio. E comunque è coerente con se stessa: non dava adito a speranze prima, non lo fa oggi. Il mio desiderio di lasciare questo Paese è sempre stato fortissimo. Io sono stato un po’ in India, anche se a quel tempo ero ancora un tossico. Sono stato un po’ di qua, un po’ di là... Parliamo di dipendenza, dell’essere tossici in questo momento storico. Oggi ci sono molti tipi di dipendenza, molte tossicità. C’è la dipendenza dalla droga, dal sesso, dai soldi, eccetera. Gli inglesi, ad esempio, hanno coniato il termine workaholic, ovvero la dipendenza dal lavoro. Ognuno sceglie la propria di dipendenza: ce ne sono alcune che sono un percorso veloce per l’inferno, ce ne sono altre che danno più respiro. Comunque sono tutte molto pericolose: alla fine i conti li paghi. Comunque la dipendenza fa parte della costituzione degli esseri umani: non siamo indipendenti, dobbiamo sempre dipendere da qualcosa. Si tratta di scegliere da che cosa. Se sbagli a scegliere poi ti accorgi che non vai da nessuna parte. Alla fine rinasci e si riprende da capo. Muori e ti reincarni. Noi siamo qui in questo momento, ma ci saremo già reincarnati milioni di volte. La vita è un percorso evolutivo: sbagli, muori e rinasci, fino a quando non ci si stacca dal livello materiale per raggiungere quello spirituale. E non è cosa facile. Appunto.
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Karim Capuano e il sogno americano
Karim Capuano
[ di Adriana Colombo ] Puglia, Brianza, India, Roma, Stati Uniti D’America. Karim è un uomo che ha girato il mondo e che racchiude, nei suoi occhi scuri e intensi, le esperienze di una vita vissuta senza ipocrisie e senza mai abbandonare i suoi sogni. L’avevamo incontrato per caso in un bar di Monza, qualche mese fa e abbiamo deciso di scoprire di lui la vera natura: quella che lo spinge a viaggiare e a mettersi in gioco in svariati modi. Dal Karim tronista (etichetta che si porta dietro da quindici anni ma che non rispecchia la sua vera identità artistica) al Karim scrittore e attore. Ancora una volta, Trantran sfata i falsi pregiudizi e scopre, dietro i veli di una popolarità veloce e di un’immagine mediatica stereotipata, una persona dai forti valori.
Karim te l’avranno chiesto in molti: Uomini e Donne, è stato un trampolino di lancio o un’etichetta? Un’etichetta. Essendo stato il primo tronista, sicuramente mi ha dato molta visibilità. Ma ancora oggi subisco questo pregiudizio ed io ho sempre studiato recitazione, sono stato negli Stati Uniti per evolvere la mia lingua e anche perché ho un’agenzia a New York che mi vende per il cinema americano. In Italia, purtroppo, la gente è prevenuta perché ho fatto quel programma, parlo anche di registi e produzioni. La mia non vuole essere una critica, perché quel programma mi ha dato molto ed io ho dato molto a loro ma sono passati quindici anni e la gente ancora mi ricorda solo per quello o per la Talpa.
Diciamo che sei un po’ un istrione: spazi da serate in discoteca a film cinematografici; da presenze in televisione (Ndr nel Cast sia di Buona Domenica sia di Domenica In) a spettacoli teatrali, chi è veramente Antonio Capuano? Ormai Antonio mi chiama solo mia madre (Ndr. ride). Io ho cominciato con la moda, sono partito da Barletta che avevo diciassette anni, sono uno dei tanti ragazzi che insegue un sogno, i sogni non bisogna mai smettere di inseguirli. Ho avuto tanti risultati positivi, non mi sono sempre comportato come un santo ma, pochi l’hanno fatto nella vita. Dagli errori cerco di imparare. Cerco veramente di realizzare questo mio sogno americano: sono stato due anni negli Stati Uniti, ho frequentato tre scuole, perché mi sembra giu-
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[ CLOCHART ] sto aggiornarsi ed evolversi. Perché lì, c’è una legge che si chiama meritocrazia che nei paesi latini non esiste ancora, vedo che la situazione sta migliorando, ma credo ci sia bisogno ancora di un po’ di tempo per arrivare alla concezione di lavoro anglosassone, ma questa è più una questione culturale. Amo recitare, amo il cinema e quando sono stato in teatro, ho fatto una bella esperienza con Deborah Caprioglio e Sergio Fiorentini che si chiamava La donna di Samo: il mio cuore batteva forte. Quando ho fatto i film, sono stato ben felice di farli ed ero ancora più emozionato. Quando ho lavorato in TV all’inizio è stata una bella esperienza, anche lì recitavo, anche se la gente non lo sa, ma poi quando mi sono reso conto che non mi rendeva più felice, che non era quello che volevo (anche su consiglio di addetti ai lavori) ho lasciato stare e sono partito per l’America, per inseguire il mio sogno. Magari, è stata solo una visione ma un po’ di tempo fa ci è sembrato di vederti in un bar a Monza, che rapporto hai con la Brianza? Ho un bel rapporto, il mio ex agente Franco Catullé era di Monza, ho tanti amici che abitano in Brianza, quindi spesso e volentieri quando vengo a Milano e mi fermo in Brianza. Può capitare molto spesso di incontrarmi da queste parti! So che hai anche scritto con Antonio Ciccarelli uno spettacolo teatrale: I 5 sensi della donna, come è stata come esperienza? Era l’otto marzo ed ero stanco di fare le solite serate a dir poco frivole. A prescindere che l’8 marzo dovrebbe essere un lutto per le donne e invece viene festeggiato, io volevo dare un contributo migliore e, con Antonio Ciccarelli, abbiamo scritto questa cosa che parlava di come la donna si preoccupa per piacere alla società, ad un uomo, nel lottare contro la distinzione dei sessi e di tutto quello che è lesivo nei confronti della donne. Abbiamo avuto un grosso successo, prendemmo un teatro a Frosinone e facemmo il tutto esaurito. È stata una cosa divertente e un altro passaggio piacevole della mia vita. Italiano con origini indiane (Ndr la mamma è
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Ultimo libro letto di Dan Brown La verità del ghiaccio Ultimo film visto Solomon Kane Di cosa non potresti mai fare a meno quando viaggi? Del mezzo che mi trasporta e di un buon libro perché il tempo scorre, la mente non pensa al tempo e m’immergo in un’altra dimensione con la testa. Rapporto con gli animali Io amo i cani e i cavalli, perché penso che siano davvero empatici nei confronti di noi esseri umani. Amo cavalcare ed ho degli amici che trattano i loro cani come fossero bambini. Prima non li capivo, ma ora comprendo bene questo rapporto simbiotico e capisco chi s’innamora dei cani perché sono davvero un dono di Dio. Come si suol dire una donna ti tradisce e ti molla o viceversa, un cane è fedele per sempre e non chiede niente in cambio. Karim a cavallo
di origine indiana), la tua educazione quanto dipende dalla tradizione culturale dell’uno o dell’altro paese? Io sono italiano, amo molto la cucina nostrana e mi rispecchio nel modo di vivere di questo paese. Però sono una persona che non riesce ad odiare, perdono subito, la mia rabbia dura un minuto, non invidio nessuno e penso che questa sia una conseguenza delle mie origini materne che mi hanno insegnato a prendere la vita in un certo modo. Poi rimango italiano, sanguigno, passionale uomo del sud che ama tanto anche l’Italia del nord. Sono sagittario quindi un sognatore, amante del viaggio e delle esperienze nuove viaggiare. Facciamo qualche domanda a bruciapelo: Canzone preferita La musica è di Eros Ramazzotti
Piatto preferito Riso, patate e cozze: un piatto tipicamente pugliese che vi auguro di assaggiare: è dietetico, semplice e molto gustoso, almeno secondo me. Hai aderito alla campagna di sensibilizzazione sulle (tossico)dipendenze ideata da Trantran...intorno a Monza & Brianza, il cui slogan è: la lucidità è rivoluzionaria. Tu cosa pensi in merito a questo tema? Penso che facciate benissimo. Anch’io conosco tanta gente che ha questo problema e tenta di aiutarsi da sola, ma secondo me la forza e l’impegno della persona coinvolta in questi tipi di dipendenza, non basta. In una tossicodipendenza si può cadere senza magari capire in cosa si sta andando, siamo tutti umani e si può sbagliare e penso che la gente vicino a noi, la città, il comune, il quartiere, la chiesa, tutte le persone vicine dovrebbero cercare di aiutare chi ha questo problema.
[ BIS! teatro, musica ed
eventi a monza e brianza ]
LA LUCIDITà È RIVOLUZIONARIA Campagna di sensibilizzazione sulle (tossico)dipendenze
[ Marta Migliardi, Adriana Colombo e Elena Gorla ] Ci sarebbero vari modi per presentare questo progetto che sta vedendo partecipi la rivista Trantran…Intorno a Monza & Brianza, il Comune di
Monza, Assessorato al Turismo e Spettacolo e l’Associazione Culturale Harvey. Sceglieremo il meno convenzionale per rendervi partecipi del vero spirito di questa iniziativa, che nulla ha a che vedere con l’ipocrisia o un qualsivoglia intento moralizzatore. Il tutto nasce dalla realizzazione di un lungometraggio, un’idea di Stefano Alleva (regista di cinema, teatro e televisione, di cui ricordiamo La figlia di Elisa, Ritorno a Rivombrosa) e di sua moglie, l’attrice di teatro, Ewa, realizzato con i ragazzi del centro di solidarietà Don Guerrino Rota, una comunità di recupero per tossicodipendenti. Un lungometraggio intitolato Affari di famiglia, una commedia noir in III atti, scritto e interpretato dai ragazzi della comunità e in cui ha anche recitato Katia Ricciarelli. Ci siamo interessati a loro non solo per la valenza del progetto in sé, ma anche perché vi collaborano Alessandra Fontana, che è la direttrice del centro di recupero, e Massimo, responsabile dell’accoglienza, ovvero due brianzoli doc (lei monzese, lui di Lissone), trasferiti a Spoleto, che hanno deciso di dedicare la loro vita a questo centro di recupero. Troppo facile, al giorno d’oggi, dimenticare problemi sociali come quello della tossicodipendenza: se ne parla sempre tanto, è vero, ma a livello molto superficiale, come una lunga cronaca senza empatia, come se questo
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[ BIS! ] quasi mai spazio alla riflessione, al dialogo, all’empatia. Ma è nelle difficoltà che si trova la forza. Senza pregiudizi, senza sentirsi per forza migliori o peggiori. Senza sentimentalismi ma anche senza cinismo e disprezzo. Così ci siamo approcciati a questa campagna, coinvolgendo attori, politici, musicisti, poeti, che si sono prestati alla causa con generosità e mettendo in discussione anche se stessi. La campagna si concluderà il giorno 14 dicembre 2010 con due proiezioni presso il teatro Binario 7 di Monza (una mattutina per i licei e una serale per le autorità e i testimonial) del lungometraggio di Stefano Alleva e dei video dei testimonial prodotti da Trantran e dove, soprattutto, potremo sentire, dalla viva voce dell’esperienza dei ragazzi della comunità cosa significa davvero passare nel tunnel di una dipendenza. Sesso, droga, farmaci, gioco, internet, moda, shopping, denaro, successo, tabacco, alcool, televisione, potere, cibo, telefono e amore. La dipendenza può prendere mille volti. Tu non perdere la tua faccia. La lucidità è la vera rivoluzione.
[ Giulia Cavaliere ] Certo oggi é molto facile nascondersi dietro all’idea secondo la quale, per essere più forti, più svegli, più creativi, più vivi, sia necessario ricorrere a sostanze altre, distanti ed esterne a quelle che il nostro corpo già ci offre per incarnare al meglio il nostro agire. E’ insomma rassicurante, per alcuni, essere protetti da altro quando si ha la sensazione di non bastare alla vita, al mondo che accade. Assolutamente convenzionale è l’affidarsi a qualcosa che non siamo noi ma che sembra farci essere più noi o almeno dei noi in apparenza migliori. Quel che va ribadito insomma è il carattere convenzionale di tutto questo e come persino un artista, un creativo, oggi, risulti ridicolo nell’offrire queste motivazioni. Non c’è genio, non c’è creazione, non c’è forma d’arte, che debba il proprio successo profondo all’assenza di lucidità. Non esiste una reale miglioria esterna apportata dalla desolazione del non bastarsi. A fare le rivoluzioni nell’arte e nella storia é sempre stata, alla fine dei conti, la lucida forza di se stessi e, semmai questa lucidità non bastasse, sarebbe auspicabile che si tornasse un po’ al tuffo apparentemente illogico nell’amore, di certo la più lucida di tutte le possibili e folli rivoluzioni. dramma non ci toccasse mai da vicino e riguardasse solo le pagine dei giornali. Dimenticando che la tossicodipendenza non riguarda solo chi fa uso di droghe ma anche gli amici e i famigliari spesso spiazzati, senza le armi necessarie per aiutare chi amano. La società è cambiata. Nel tempo, sicuramente, sono cambiate le droghe ma anche le persone. Perché, al giorno d’oggi, ci troviamo di fronte a persone molto più fragili che in passato. Sono di certo aumentate le persone che insieme alla tossicodipendenza non hanno solo un disturbo comportamentale, ma anche un disturbo della personalità. Quindi è sempre necessario aggiornarsi e specializzarsi e non smettere mai di parlarne, di informare per poter affrontare queste patologie. Dipendenza. Non solo dalle droghe. Provate a fare un esperimento e digitate la parola dipendenza su google. Vedrete a quanti disagi è associata questa parola, a quante nuove e moderne forme di assuefazione siamo continuamente esposti: dipendenza affettiva, da gioco, da internet, da facebook, dal tabacco, dal sesso. I meccanismi psicologici sono molto simili e pericolosi. Per questo la nostra campagna di sensibilizzazione non ha alcun intento moralizzatore e ha cercato di cogliere vari aspetti e punti di vista. Tutti i testimonial famosi o meno, che hanno dato il loro contributo video (dal Gabibbo allo stesso Assessore Andrea Arbizzoni, passando per poeti come Vincenzo Costantino Chinaski e sportivi quali il capitano della squadra di calcio del Monza) hanno dato la loro visione del problema e sposato il nostro slogan: la lucidità è rivoluzionaria. Cominciamo, quindi, a sfatare il mito neoromantico del poeta maledetto, dell’artista che si droga per creare. Cominciamo a dire ad alta voce che, oggi, è molto più difficile, certo, essere presenti a se stessi, affrontare i vuoti e le carenze di una società moderna in continua evoluzione, che non lascia
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Ringraziamo tutti i testimonial che hanno contribuito alla realizzazione di questa campagna (rigorosamente in ordine sparso) Andrea Arbizzoni Assessore al Turismo e Spettacolo del Comune di Monza Gabibbo testimonial di Striscia la Notizia Giorgio Riva (Presidente Enpa sez. Monza e Brianza), Juliet Barry e i volontari Vincenzo Iacopino Capitano AC Monza e Brianza Mondo Marcio - Rapper e produttore Andy - artista Franco Oppini - attore Vincenzo Costantino Chinaski - poeta Bebo Storti - attore Katia Ricciarelli - soprano e attrice Dario Allevi - Presidente della Provincia di Monza e Brianza Karim Capuano - attore Salvio Simeoli - attore dARI - band musicale Marco Mariani - Sindaco di Monza … e tutti quelli che avranno aderito mentre questo numero di Trantran era già in stampa.
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SOLO PER OGGI Il contagio spietato della dipendenza:
una storia tra mille a sostegno di parenti e amici di un tossicodipendente qualunque [ di Marta Migliardi ] Pasolini, ha scritto, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 24 luglio 1974: “Per quale ragione quei “diversi” che sono i drogati si drogano?”C’è indubbiamente una spiegazione che riguarda i singoli, e cioè la psicologia. Se io parlo e analizzo - senza né moralismo né sentimentalismo né complicità - un singolo drogato, ho subito una vita concreta da prendere in esame: con la sua infanzia, i suoi genitori, i suoi mali, ecc. Quindi quel poco di sapere psicanalitico di cui ogni intellettuale può disporre è sufficiente a trarre qualche diagnosi: la quale diagnosi è però eternamente la stessa: desiderio di morte. Tale “fine” individuale - spesso anche consapevole getta una luce, retroattiva e dal basso, su tutta l’individualità analizzata, che ne è così resa profondamente coerente: un tutto unico a sé stante. La “diversità” è sempre inaccessibile. Ma se il rapporto col singolo drogato non ha, come dire, sbocchi, è irrelato - e l’eccesso di concretezza di un “caso” umano, è come sempre elusivo rispetto alla storia - al contrario il rapporto con la massa dei drogati, o, meglio, col fenomeno della droga, può essere reso parlabile, razionalizzato, storicizzato”. Ed è proprio su questo punto che mi piacerebbe riflettere e soffermarmi. Il singolo, con la sua storia, il suo passato e il suo dramma e il più generico problema della droga. Perché sono due punti di vista completamente diversi e che spesso, per riempire le pagine dei giornali, sono mescolati al fine di rendere una sorta di gossip alla portata emotiva di tutti un qualcosa che, se non vissuto, è molto difficile da comprendere realmente. Avevo un amico, che amavo molto. Una persona brillante e intelligente, forse dotato di una sensibilità al di fuori della norma. Una di quelle persone che, senza cattiveria, riusciva a farmi sentire sempre inadeguata, perché le sue parole erano sempre più originali e perspicaci delle mie. Eravamo ancora molto giovani quando, forse per il suo spirito curioso e intraprendente, forse anche con l’arroganza di chi, certo delle proprie capacità intellettive, credeva che sperimentare la droga, l’eroina per la precisione, sarebbe stato l’ennesimo esperimento sensoriale, senza conseguenze. L’ho visto, negli anni, cambiare lentamente ma costantemente, ritrovandomi di fronte, un giorno,
una persona che non era più lui. Schiavo di meccanismi mentali modificati da sostanze chimiche e da ragionamenti unicamente improntati al reperimento della sola cosa che donava lui sollievo: la droga. L’idea di lui che mi ero cucita col filo dell’idealismo nell’anima, nel corso della nostra lunga amicizia mi rese incapace, per lungo tempo, di percepire la gravità del suo problema, fino a quando ogni apparenza è crollata al suolo, un suolo gelido e immobilizzante. Così mi sono sentita. Immobilizzata al suolo, con le gambe rotte, come se fossi caduta dal terzo piano e non avessi la forza di urlare, perché, comunque, era più rassicurante essere a brandelli sanguinante sull’asfalto che tornare a vedere cosa c’era oltre la finestra da cui ero caduta. E l’amore non è bastato. Perché anch’io sono un essere umano. Anch’io avevo i miei problemi, le mie paure e le mie dipendenze, seppur non legate a sostanze stupefacenti ma a legami affettivi distorti, quelli tipici di chi vuol credere ancora che nel mondo esista qualcosa di eterno. Lui aveva bisogno di sostegno ed io avevo bisogno di aiuto per poter sostenere lui. La dipendenza, in questo senso è contagiosa. Ho sbagliato tanto nei confronti di questa persona, passando dalla tolleranza alla rabbia, dalla tenerezza al rancore. Fino a quando, esasperata e fragile, mi sono rivolta a una comunità di sostegno per chi ha amici o parenti in balia delle sostanze. Mi sono informata, curata, ho studiato i meccanismi psicologici suoi, ma anche miei, ho dedicato anni e anni a questo percorso, ma non è servito, non a salvarlo: forse ero troppo giovane, o meglio era troppo tardi. Il mio amico Francesco è morto di overdose la sera del 16 aprile 2006. E per me è stato un sollievo. Vi sembrerò cinica e spietata, ma tante, troppe volte ho pensato che sarebbe stato meglio morisse, piuttosto che vederlo così. E talvolta mi allontanavo da lui, fisicamente, per prendere fiato, facendo finta che non esistesse, salvo poi sognarlo la notte e svegliarmi di nuovo a terra, immobilizzata. Il senso di colpa è l’altro lato della rabbia. Volevo solo farvi capire, tramite la mia piccola esperienza, piccola per voi che leggete, immensa e dilaniante per me e i parenti di Francesco, che a subire i meccanismi della droga, a morirne, a sopravvivere non è solo chi entra nel vortice delle dipendenze ma anche chi gli sta accanto, o tenta di farlo. Non c’è giorno della mia vita che io non pensi a lui.
E, nonostante sia morto, continuo il mio percorso di analisi, perché è una strada lunga e tortuosa, da cui, in un senso o nell’altro, si fa fatica a uscire. Non sono una santa. Nessuno di noi lo è. E non faccio la predica a nessuno, così come questa campagna di sensibilizzazione non è stata creata per puntare il dito contro, ma, al contrario per tendere una mano. Questo mio breve intervento è a supporto di tutti coloro che si sono trovati di fronte a questo binomio cacofonico e distruttivo: amore (inteso come amicizia e affetto) e morte, personificata dalla droga. E’ un invito a chiedere sostegno, immediato, a chi ha le armi e la competenza per affrontare il problema anche sotto quest’aspetto. Non bisogna aspettare neanche un minuto. Durante le registrazioni dei video dei testimonial ho avuto il piacere di incontrare persone meravigliose, tra cui, ricordo in particolare Franco Oppini che, prima di salutarmi mi ha detto queste parole: “Non sentirti in colpa, mai”. Gli ho sorriso ed ho pensato che forse avrei potuto fare ancora qualcosa. Solo per oggi, non aspettate neanche un minuto. La lucidità serve anche a chi si relaziona al problema in forma indiretta. Ed è questa la vera lezione. Non c’è anestetico migliore che l’affrontare i dolori con coraggio, pazienza e presenza a se stessi. E’ il solo modo di superarli. Adesso, di notte, riesco a dormire. Perché la stessa tolleranza che è giusto donare a chi è in difficoltà, dobbiamo saperla rivolgere a noi stessi, specie quando si sono tentate tutte le strade possibili. Né cinismo, né sentimentalismo. Schiettezza e rotte ben calcolate, parole chiare, nessuna tenerezza, perché anche la tenerezza è un surrogato, in questi casi, del senso di colpa. Concludo citando ancora il grande Pier Paolo Pasolini, in una riflessione che, ovviamente, riprende il fenomeno della droga come massa, ed esula, pertanto, dal vincolo delle singole storie, che non ho il diritto di violare: “non sono affatto tenero con i giovani che si drogano. Anzi tendo ad avere per essi una aprioristica e forte antipatia. Da una parte c’è la loro ricattatoria presunzione nel compiere un atto sotto-culturale che essi mitizzano; dall’altra c’è la mia insofferenza personale ad accettare la fuga, la rinuncia, l’indisponibilità.”.
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[ BIS! ] Denise. Dodo, do!
La copertina di Dodo, do!, disco d’esordio di Denise
“Dodo, do” è il disco d’esordio di Denise uscito il 26 di ottobre per al-kemi records (a label of Ala Bianca Group) distribuzione Warner, registrato a maggio 2010 con la produzione artistica di Gianni Maroccolo e Lorenzo “moka” Tommasini. L’anima del disco rappresenta il sottile confine fra il gioco e l’essenza: soffici tappeti acustici accompagnano il candido cantato, quasi etereo. Gentili arpeggi di chitarra raccontano una fantasmagoria di personaggi, vicende vere o inventate, ma comunque sincere perché nate da visioni fanciullesche. Un disco che come un viaggio, si inoltra alla ricerca di un animale che non c’è più e dunque e simboleggia una realtà lontana ma viva nella memoria collettiva. Il risultato sono 12 canzoni per lasciarsi andare oltre lo spazio, in un mondo di sogni e meraviglia. Per saperne di più: www.myspace.com/deniseproject www.alkemirecords.eu
Paradisi Noir:
tra visione e realtà, alla ricerca dell’unità dell’essere [ di Elena Gorla ] Nelle loro vene scorre il Lambro (elemento caratterizzante fin dalla grafica di copertina), immagine umida e nebbiosa di una Brianza che fa da sfondo alla riflessione poetica sulla vita negli anni 2000. Una visione emblematica in cui si fondono cinque esistenze vissute in una ben definita striscia di terra, i 15 km che dalla periferia Nord di Milano risalgono verso i nostri laghi. 15 km di nebbia e industria, 15 km difficili da vivere e da capire, un luogo specifico, un luogo attraverso cui si materializzano dolori universali:
Terra inerte di zolle bruma e nebbie dolore inerme sei musa sincera. Assenza dell’essere, eterno nulla, totalizzante vuoto Denise
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Paolo Ornaghi
Il nome Paradisi Noir è, in realtà, piuttosto ermetico. Quale idea simboleggia? Il nome Paradisi Noir è un ossimoro in quanto già nel nome volevamo esprime un contrasto, il complesso rapporto e la complementarietà fra il positivo(la visione, il paradiso), ed il negativo(la fosca realtà) poiché crediamo che solo nella fusione delle discordanze si possa ritrovare l’unità. Com’ è nato il progetto Paradisi Noir? Il progetto nasce nel 2004, ci racconta il poeta e performer Paolo Ornaghi, da un mio incontro fortuito con Cristian D’Oria avvenuto in ambito poetico/musicale. Io a quel tempo facevo reading poetici con il progetto Viandante (ne abbiamo parlato nel n°9 di Trantran) e lui ha iniziato a curarne gli accompagnamenti musicali. Nel tempo abbiamo capito che le sue canzoni si prestavano molto alle mie liriche e abbiamo iniziato degli esperimenti di fusione fra le due. Abbiamo iniziato a esibirci come duo, adottando il nome Paradisi Noir, dando così il via a questo progetto che fonde la canzone rock d’autore con la poesia. Nel tempo, poi, la formazione si è ampliata: dapprima con l’arrivo di Andrea Mottadelli (già Jet Lag ed Arancioni Meccanici) che ha curato tutti gli arrangiamenti di chitarra, basso e batte-
[ BIS! ] Paradisi Noir al Tambourine di Seregno. Foto di Sara Tripaldi
Il retro di copertna del cd
Sergio Toppi, viaggiatore immobile sulle rotte dell’immaginario
ria dei brani dando nuova forza espressiva alle nostre sonorità, l’assetto attuale si è raggiunto con l’ingresso di Valerio Paronzini e Henrico Pantano, rispettivamente bassista e batterista dei Male di Grace. Il rapporto con Valerio ed Henrico, in realtà, spiega Cristian, era già un rapporto rodato giacché noi tre abbiamo iniziato molti anni fa a suonare assieme in un gruppo chiamato Eudemonia e la collaborazione fra noi non è mai venuta meno… Quali influenze musicali, oltre che poetiche stanno alla base delle vostre sonorità e delle vostre atmosfere? Già definendo i Paradisi Noir un gruppo di rock poetry, si palesa un legame con il gruppo che nella storia della musica ha rappresentato al massimo la capacità di fondere il rock a testi poetici, ossia i Doors. Jim Morrison, prima che cantante era autore di liriche, che troviamo raccolte anche in vere e proprie antologie e che sono oggi incluse anche nelle antologie dedicate alla poesia contemporanea. Credo quindi possa essere definito un poeta ancor prima che un animale da palcoscenico, del quale, peraltro, ha sempre avuto una spontanea padronanza. Il nostro intento, senza volerci
assimilare ai Doors, è però lo stesso: portare un forte contenuto in ambito rock cantautorale. In realtà nel panorama italiano questo percorso è già stato intrapreso da vari gruppi, soprattutto negli anni ’90, e mi riferisco ai CSI, ai Marlene Kuntz, anche in Subsonica per un certo periodo, i Massimo Volume che, ad esempio, proponevano testi parlati su basi rock noise…e che sono da poco tornati sulle scene…Nei Paradisi Noir però è la prima volta in cui si assiste sistematicamente alla compenetrazione fra la parte declamata e la parte cantata. Il canto e la poesia recitata si fondono in un modo originale, senza che l’una sia mero orpello dell’altra, si sorreggono a vicenda nel loro essere essenziali. Ma nel momento in cui i testi pongono elementi di riflessione, i brani godono di un assetto musicale incisivo, capace di arrivare in modo diretto e non mediato dal testo, capace anche di emozionare e fare divertire. Dal punto di vista musicale, quindi, la componente dell’intrattenimento non è affatto secondaria e questo grazie alle diverse anime presenti nel gruppo. Tutto questo sono i Paradisi Noir e tutto questo si riflette già nel nome stesso del gruppo. Per saperne di più: http://www.myspace. com/paradisinoir
Un incredibile viaggio attorno al mondo attraverso le illustrazioni di uno dei maggiori artisti del fumetto, Sergio Toppi, che affidandosi alla propria grandiosa immaginazione e ad un meticoloso studio del dettaglio ha dato vita, senza mai abbandonare la scrivania, ad un’avventura attraverso i più diversi continenti. La vita quotidiana, le tradizioni, i costumi, il sacro e l’ignoto nella vita di popoli e civiltà narrati attraverso l’opera di Toppi. Un viaggio lungo il pianeta illustrato attraverso tavole inedite e raccolte in 12 volumi realizzati in collaborazione con il Museo del fumetto e dell’immagine di Lucca. Fino al 20 di Gennaio 2011 tutti i giovedì in edicola con il Giornalino.
Africane, il primo volume uscito il 28 ottobre
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[ BIS! ]
VINCENZO COSTANTINO CHINASKY: TRADUTTORE DELLA VITA Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare [ di Adriana Colombo ]
poeta, in Italia, riesce a campare di quello che scrive. Il secondo perché c’è dentro la vostra vita, di tutti, ho cercato di scrivere attraverso la poesia quello che ho visto nelle vite altrui, oltre che nella mia; il terzo buon motivo per comprarlo è che ha una copertina bellissima. Tre buoni motivi per non comprarlo? Non lo so. Diciamo che il motivo fondamentale per non comprarlo è che non rispecchia assolutamente quello che è l’Italia in questo momento. Quindi chi si sente italiano in questo momento non deve comprare il mio libro.
Stavolta non scriverò una grande introduzione, Vincenzo non ne ha bisogno! Lo presenterò con una frase rubata direttamente al suo libro: Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare (NDR. Marcos y marcos editore collana Le foglie 2010), perché vi dirà di lui molto di più di qualsiasi cosa potrei dire io: “... L’odore dell’anima non si lava neanche con la rassegnazione, con il coraggio e con la confidenza. Te lo porti dietro fino all’ultimo istante e sa di cenere, tabacco e clementine... ”. Ci siamo lasciati l’ultima volta a Parola Cantata (Trantran n. 9, vedi anche www. trantran.net) in un meraviglioso match a due con Caposella. Adesso esce la tua opera prima, per altro con un titolo abbastanza curioso: Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare, da cosa nasce? In realtà il titolo esisteva già per una raccolta che è stata oggetto di culto underground almeno per gli ultimi 6/7 anni che s’intitolava proprio così. Ho scelto di mantenere lo stesso titolo anche per la nuova raccolta di poesie: mi piace perché sono tutti inediti, perché non ho smesso di peccare per cui, non avendo smesso, e avendo ancora delle cose da raccontare, ho scelto di tenere lo stesso titolo che si riprodurrà anche per le prossime raccolte di poesie finché non smetterò di peccare; un po’ come Led Zeppelin quando facevano i loro dischi. Mi piace definirmi un poeta pop, nel senso musicale del termine, e anche un pochino underground. Mi piace l’idea di denominare ogni raccolta di poesie con lo stesso titolo: volume 1, volume 2, volume 3... quando smetterò di peccare, il titolo sarà No Comment, perché non ci sarò più! Quindi in questo libro ci parli dei tuoi peccati? Diciamo che il vizio, il peccato, l’intensità con cui si vive la vita, che per qualcuno può essere un peccato, ti consente di mettere in bagaglio esperienze e storie da raccontare. Chi si limita semplicemente a sopravvivere, non ha molto da raccontare, se non il metodo di sopravvivenza. Ma è una cosa che non mi riguarda e non m’interessa; io amo vivere e non sopravvivere. Con questo non voglio dire che si vive solo attraverso
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il peccato, questo no; ma fare un po’ la lotta con l’esistenza, con la vita ti porta, qualche volta, a commettere quelli che, per qualcuno, sono peccati. Per me sono necessità di esistenza: confronti con me stesso, con la strada, con la vita, con gli altri e il confronto può portarti, non dico a peccare, ma a non seguire la strada altrui. Seguendo la propria, ogni tanto, si inciampa. Ti si potrebbe definire un artista della strada? Non nel senso pieno del termine. Ho un grandissimo rispetto per gli artisti di strada che sanno fare cose molto più interessanti di quelle che faccio io, anche perché intrattengono la gente facendola divertire e facendola, soprattutto, sorridere. Se posso darmi una definizione, mi piace pensare di essere un traduttore della vita, capace di osservare quello che mi accade intorno e avere la fortuna, la capacità di riuscire a tradurlo in un linguaggio poetico ma accessibile, potabile. Tre buoni motivi per comprare il tuo libro e tre buoni motivi per non comprarlo? Uno dei migliori motivi per comprare questo libro è che potrebbe essere la prima volta che un
Questa affermazione mi ricorda molto sia una frase di Gaber (NDR. Io non mi sento italiano) che un pezzo dell’Avvelenata di Guccini (NDR. Voi critici, voi personaggi austeri...). C’è del vero sia nell’una sia nell’altra citazione, ma non è un anelito di indipendenza o di insurrezione, parola che fa molto paura, è semplicemente una constatazione, perché quando c’è una massa che non ti rappresenta io non mi sento facente parte di quella massa; quando c’è un Paese che non ti rappresenta, io non mi sento facente parte di quel Paese. Mi sento molto italiano, ma mi sento anche poco italiota. Non sei uno che si omologa facilmente… Non l’ho mai fatto. Omologarsi fa male per tutto e per tutti. Sentirsi omologati è come girare l’interruttore sempre più verso lo spegnimento. Mi piace pensare di fare dei passi anche sul marciapiede o sulla strada e di tutti i passi che faccio alcuni sono già stati fatti, altri no! È bello il tipo di confronto tra sapere che già qualcun altro è passato attraverso quel terreno e la stessa persona non ha fatto quel passo che poteva fare e poteva portarlo a illuminare, anche in maniera diversa, un pensiero o una situazione: questo vuol dire non omologarsi. Le strade possono essere le stesse ma ci sono modi e modi di camminarle: non omologarsi vuol dire non inseguire i passi degli altri. Vincenzo hai mai pensato di scappare da Milano? Ci sto pensando seriamente adesso, in questi ultimi anni. La voglia di fuga in questo momento è più forte di altre voglie che hanno i nostri rappresentanti.
[ BIS! ] Santa Cecilia
SACRO E PROFANO IN VILLA REALE Una selezione di oltre novanta capolavori di pittura e scultura provenienti dalla collezione dei Musei Civici. Mitologia e religione a confronto visti attraverso gli occhi di artisti lombardi (ma non solo) operanti tra il XVI e il XX secolo “Sacro e Profano. Temi mitologici e religiosi dalle Raccolte Civiche Monzesi” è il titolo della mostra inaugurata ad inizio mese presso il Serrone della Villa Reale di Monza. Una selezione di oltre novanta capolavori di pittura e scultura provenienti dalla collezione dei Musei Civici sotto il tema appunto di Sacro e Profano. Mitologia e religione a confronto visti attraverso gli occhi di artisti lombardi (ma non solo) operanti tra il XVI e il XX secolo. La mostra, a cura di Graziano Alfredo Vergani, è articolata nei due percorsi organizzati in modo da permettere un approfondimento dei temi che li caratterizzano. Da una parte quindi il Profano, dove troviamo rappresentazioni di immagini derivanti dalla mitologia classica narrate dalle opere di Ambrogio Borghi, Arturo Martini e Pina Sacconaghi. Dall’altra il Sacro, percorso dedicato alle immagini religiose, che si divide invece in tre parti: storie bibliche dall’Antico Testamento, storie di Cristo e storie di Santi; vi si possono ammirare opere del Garofalo, Eugenio Bajoni e Anselmo Bucci. Alcune di queste opere non vengono esposte da oltre 70 anni, o addirittura vengono per la prima volta mostrate al pubblico a causa delle diverse vicissitudini subite dal patrimonio artistico del Comune, e legate fondamentalmente alla mancanza di uno spazio espositivo fisso. Ora grazie all’iniziativa dell’Assessorato alla Cultura è stato possibile effettuare anche un recupero in funzione della destinazione espositiva ed è possibile ammirarle nell’ambito di un contesto organico. In contemporanea presso l’Arengario è stata invece allestita una mostra di stampe, sempre provenienti dalle collezioni Civiche, dal titolo “In Principio” che affronta lo stesso argomento “sacro e profano” fermandosi però da un punto di vista cronologico all’Antico Testamento. Questo più ristretto ambito temporale ha permesso di proporre un interessante approccio comparativo delle tematiche riuscendo a tracciare parallelismi tra i due mondi, identificarne le vicinanze e sottolinearne le distanze attraverso la visione degli artisti rappresentati. Abbiamo incontrato Dario Porta, curatore insieme a Francesca Milazzo dell’allestimento in Arengario, che ci ha raccontato come la scelta delle 72 opere esposte sia stata guidata dalla volontà di collegare attraverso un filo narrativo la contrapposizione tra sacro e profano, che però
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[ BIS! ] Psiche e amore addormentato
è spesso anche somiglianza, e, a volte, arriva addirittura alla trasformazione dell’uno nell’altro. La mostra è divisa in quattro parti; la prima ha per oggetto le origini, quindi la storia della creazione da un punto di vista biblico e secondo la mitologia classica. Sempre alla ricerca di “momenti topici di contaminazione tra il divino e il terreno”, la seconda parte ci racconta delle Sfide, e vi troviamo rappresentazioni delle storie di uomini che hanno osato sfidare il divino, e la cui sorte è stata spesso tragica.
La terza parte ha titolo Amore e Morte, mentre la quarta e ultima si incentra sulla figura dell’Eroe, colui che supera la condizione umana per avvicinarsi alla divinità. Particolarmente interessante quindi questo allestimento che propone una lettura critica attraverso un percorso comparativo dell’evoluzione iconografica attraverso il tempo, vittima e complice di mode e di costumi. Peculiare, in questo senso, l’immagine che ritrae Orfeo mentre addomestica gli animali; è infatti un’immagine tipicamente classica e le-
gata alla mitologia, ma che verrà successivamente ripresa dal punto di vista immaginistico in ambito sacro, trasformando Orfeo in un novello Adamo. Per il terzo anno consecutivo si ripresenta quindi una mostra tematica che testimonia la rinnovata volontà di portare davanti al pubblico opere che viceversa continuerebbero a giacere nei depositi. In attesa della collocazione in una sede stabile che dovrebbe entro breve trovarsi presso il Museo degli Umiliati salutiamo con piacere questo che consideriamo ormai un appuntamento fisso.
Le Civiche Raccolte d’Arte di Monza
Le Raccolte Civiche riuniscono le opere della Pinacoteca e del Museo dell’Arengario. La Pinacoteca allestita dal pittore Erme Ripa nel 1935, con sede nell’ala Nord della Villa Reale ha ospitato fino al 1984 la collezione formatasi intorno al lascito Galbesi Segrè e in seguito ampliata con acquisizioni, ma soprattutto donazioni delle famiglie di artisti monzesi o legati al territorio monzese. Grande importanza nella formazione della collezione ha avuto la presenza dell’ISA in città. Oggi Istituto Statale d’Arte, la scuola ha visto transitare per le sue aule alcuni grandi maestri del Novecento, e diverse opere sono rimaste a testimonianza di tale passaggio. Dal 1984, chiusa la sede presso la Villa Reale per il notevole degrado degli ambienti, non esiste una sede espositiva stabile. “Sacro e Profano” - Serrone della Villa Reale - Fino al 9 gennaio 2011. Da martedì a venerdì 10.00-13.00/15.00-18.00, sabato, domenica e festivi 10.00-18.00. Lunedì chiuso.
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[ ALTROVE racconti e consigli di viaggio ]
IL CUORE DELLO
ZANSKAR IL PICCOLO TIBET [ di Gianni Bòttari,
foto di Lizzy Bottoni ]
La volta scorsa avevo interrotto la narrazione al momento in cui lasciavo con i miei amici, nel mezzo della notte, Srinagar e il Kashmir, assonnati e a bordo di una jeep che sobbalzava sulla strada sterrata. La direzione era lo Zanskar dove avevamo in programma di fare un trekking, una vallata che appartiene alla regione del Ladakh, detta anche Piccolo Tibet. Questo nome, Piccolo Tibet, è dovuto al fatto che ha tutte le caratteristiche, geografiche, culturali ed etniche, di matrice prettamente tibeta-
na, quindi anche di religione buddista, che riconosce il suo capo spirituale nel Dalai Lama. Politicamente e, aggiungerei, fortunatamente, visto lo scempio dell’invasione cinese nel Tibet propriamente detto, appartiene all’India ed è soggetto alle leggi indiane – migliaia di militari sono costantemente presenti, data la vicinanza dei confini pakistani e cinesi. La jeep arrancava in salita e noi scrutavamo la notte oltre i finestrini. Le sparse case, gli alberi in ordinati filari, gli steccati, sembravano nel buio piatte sagome di cartone, come arredi di una scenografia teatrale, ma pian piano che la luce cruda del crepuscolo cominciò a dissolvere l’oscurità, quel paesaggio, prima irreale, prese finalmente consistenza e colore. Campi di orzo ancora verde, frutteti di albicocche con i frutti spaccati caduti al suolo, buoi che andavano ordinatamente al pascolo, capre sul ciglio della strada, qualche donna che trasportava piegata un cumulo di fascine. Poi i raggi del sole irruppero decisi nella valle e allora potemmo vedere i monti che si alzavano ai suoi fianchi, possenti ammassi rocciosi, avamposti di quelle vette più elevate e innevate che avremmo visto più tardi. La tap-
pa fu lunga e faticosa, circa sei ore per fare 150 chilometri e arrivare alla città di Kargil, crocevia importante: da una parte si va nel Ladakh vero e proprio, dall’altra, su una strada meno battuta e più stretta, si prosegue per lo Zanskar. Non è una città particolarmente interessante, o almeno così mi parve, si snoda disordinatamente lungo la strada caotica e assordata da un traffico ininterrotto di auto e camion dalla marmitta mal messa e intossicante. Riposo, cena, ancora riposo e nuova partenza per la seconda tappa di avvicinamento, Rangdum. Questa nuova tratta offrì lo spettacolo di ghiacciai che scendevano serpeggiando, di vette innevate, di lontane vallate che si aprivano improvvise, verdissime, punteggiate da sparsi yak al pascolo, e non lesinò nemmeno qualche brivido, quando l’auto doveva costeggiare il ciglio della strada sprovvista di parapetto, oltre il quale precipitava una vera e propria voragine. Arrivammo in un posto magnifico, una vasta valle circondata da cime affilate come rasoi sbucati dalla
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[ ALTROVE ]
coltre di ghiaccio che li ammanta, più in basso la roccia nuda ha stratificazioni color viola, arancio, ocra; la piana è percorsa da qualche ruscello e luccica al sole, verde dall’erba e chiazzata dal bianco d’innumerevoli mazzi di stelle alpine; gli yak, placidi e mansueti, brucano indifferentemente l’una e le altre. Al centro Rangdum, cioè un accampamento con tende alte, comode, brandine che sono quasi dei letti, una cucina e una tenda enorme da pranzo. Facemmo una passeggiata inebriati dall’altitudine, dal vento, dalla luce cristallina, dai colori del paesaggio che cambiavano tonalità all’ombra delle veloci nuvole di passaggio, inconsapevoli del sorriso felice che ci dipingeva il volto. Il giorno dopo facemmo un’altra lunga tappa, sempre osservando paesaggi smisurati, sempre sfiorando pericolosamente il bordo della carreggiata, e arrivammo alla città – se così si può chiamare quello che da noi sarebbe un modesto paese – di Padum (altitudine m.3600), anche questa nel mezzo di una piana, con i monti così vicini che la loro cima innevata sembrava incombere paurosamente sui tetti delle case. Dopo aver preso alloggio in una confortevole guest-house, andammo a zonzo per la città, anche questa in gran parte sviluppata sulla via principale, affiancata sui due lati da negozi di ogni genere, dal merciaio al calzolaio,
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dal macellaio (preciso che qui i macellai sono solo mussulmani) al venditore di latticini vari e uova, fino a quello che vende articoli per la montagna, come zaini, giacche a vento e scarponi; andammo anche a girare doverosamente le due grandi ruote di preghiera che si trovano al centro, ma ci accorgemmo che le strade erano invase di una animazione eccessiva anche per la più vivace delle città. Gruppi di uomini, parlando, ridendo, gesticolando, si dirigevano verso una via trasversale che finiva in un grande prato verde, frotte di bambini correvano urlando e zigzagando tra la folla, file di donne in abiti tradizionali, alcune tenendosi a braccetto, chiacchieravano e quando ridevano, si coprivano la bocca con la mano, un gesto abituale dettato da un delicato senso del pudore. Gli uomini avevano archi rudimentali, frecce, e, infatti, andavano a una gara di tiro con l’arco, competizione che richiamava tutti gli arcieri della vallata con il loro seguito di sostenitori. Si svolgeva così, da una parte tutti i gareggianti, almeno un centinaio, confusamente mischiati tra loro, dall’altra, a una trentina di metri, i bersagli semplicemente appoggiati su mucchi di sabbia, una giuria di lato, e dei suonatori seduti in terra, con strumenti ad ancia, a corde tipo violino e tamburi, un’orchestrina che suonò ininterrottamente per tutta la durata della
gara e, devo dire, in modo piacevole. I giudici segnavano sulla lavagnetta i punteggi di ogni tiratore, ma come facessero per me, rimane un mistero: gli arcieri non venivano chiamati, si piazzavano, incoccavano la freccia, tendevano l’arco e, dopo qualche secondo di concentrazione, la freccia compiva il suo volo e finiva, quasi immancabilmente, fuori dal bersaglio; tutto questo nel disordine più totale, a volte partivano contemporaneamente nugoli di frecce, poi una due, tre assieme, senza un ordine, senza un programma. Era stupefacente vedere il divertimento delle persone che assistevano, ancora maggiore quello dei partecipanti, che non si crucciavano del tiro sbagliato, ma sorridevano soddisfatti indipendentemente dal risultato. Guardavo quei visi arsi dal sole, gli occhi scuri dal taglio lungo, i gesti spontanei, senza affettazione, i sorrisi dai denti candidi, gli abiti dimessi e senza pretese e mi accorgevo di assistere a una manifestazione di semplicità e di assoluto candore, qualcosa che riconoscevo, ma alla quale non ero avvezzo, che sembrava affiorare nostalgica dagli angoli lontani della memoria e si manifestava improvvisa come un bene da lungo tempo perso e con commozione ritrovato. Di notte ci fu un violentissimo temporale e al mattino trovammo le insegne dei negozi e i pochi
[ ALTROVE ] cartelli stradali divelti e le vie inondate dall’acqua, ma partimmo ugualmente per l’agognato trekking sotto un cielo che ammassava nuvole malevole. Ancora un breve tratto in jeep fino al fiume Zanskar (è da lui che prende il nome la valle), zaini sulle spalle e via, seguiti dai cavalli che sulla soma avevano la cucina da campo e le tende, preceduti dalla nostra guida, un uomo che avremmo imparato ad apprezzare giorno dopo giorno. Il fiume era largo, violento, con onde che sormontavano l’una sulle altre, spumeggianti ma grigie, trascinavano alberi, cespugli, si slanciavano sulle sponde del fiume come per afferrarle e portarle con loro nella corrente. Il sentiero costeggiava il fiume, a volte alla sua altezza, altre volte s’inerpicava, cosicché lo si scorgeva lontano nel fondo della gola. Alcuni tratti del sentiero erano stati cancellati dalle frane e si doveva fare attenzione a non scivolare a val-
dei monaci, arrivammo al tempio vero e proprio, dove ricevemmo una gentile accoglienza condita da un vago stupore e da una sorta di curiosità malamente celata. C’erano monaci di ogni età, da quelli anziani ai bambini di sette o otto anni, tutti vestiti con il tipico abito amaranto, tutti sorridenti, tutti compiaciuti della nostra presenza. Era l’orario in cui è giornalmente eseguita una cerimonia e ci invitarono ad assisterla offrendoci anche un the al burro rancido di yak, una vera delizia da quelle parti, ma dal gusto un po’ troppo insolito per il mio palato. La cerimonia si svolse nel tempio a pianta quadrangolare, le statue di Budda con le immagini dei vari maestri spirituali e del Dalai Lama erano disposte lungo il muro opposto all’entrata, mentre di lato, discoste, stavano le statue dal volto coperto, quelle utilizzate e svelate ai presenti nelle cerimonie iniziatiche del tantrismo. I
tremare e il mio cuore, come credo quello dei miei compagni, batteva all’impazzata, sorpreso da un’emozione indecifrabile e sollecitata da corde forse fino allora mai toccate. Poi le trombe, i tamburi, la campanella e la conchiglia s’interruppero all’improvviso e la salmodia ritornò a essere recitata, ma nel corso della cerimonia questa esplosione di suoni crescenti si ripeté più volte e sempre evocando le emozioni già provate prima, mai stanche di essere richiamate, vitali, libere e indipendenti dalla mia volontà. Dopo la cerimonia ci aggirammo curiosi per il complesso, visitando le cucine, affacciandoci oltre i parapetti dei terrazzi, ammirando il panorama ampio e irto di vette che creavano una corona attorno a noi. Alla fine salutammo tutti con sorrisi, mani giunte, qualche pacca sulle spalle dei bambini e c’incamminammo verso il nostro campo; giunti in basso, un po’ distanti,
le, mentre i torrenti che si buttavano nello Zanskar erano colmi di acque, cosa che ci obbligava a togliere gli scarponi, le calze e a rimboccare i pantaloni per guadarli. Facemmo due campi dormendo nelle tende e ascoltando la pioggia che batteva sui teli che, se ci risparmiava di giorno, non mancava di fare sentire la sua presenza ogni notte. Al terzo giorno di faticoso cammino (e faticoso lo è a quelle altezze), ma di entusiasmante senso di libertà che infondevano gli spazi aperti, quasi vertiginosi, arrivammo alla meta che c’eravamo prefissati, girammo uno sperone di roccia e ci trovammo davanti ad una valle più larga, in fondo alla quale sorge Puktal. Si tratta di un monastero e, più che sorgere, sembra scaturire dalla ripida pendice della montagna e aggrapparsi a essa per non precipitare, come l’edera su un muro; si snoda verso l’alto con costruzioni bianche di due o tre piani, lunghe, strette, accorpate fra loro, con il tetto orizzontale. Le ultime di queste, rosse al contrario delle altre, s’infilano in una gigantesca grotta, il sancta sanctorum di tutto il monastero, il luogo mistico per eccellenza, simbolo della ricerca interiore e della rinascita (comunque la si voglia intendere). Ascendemmo faticosamente al monastero su rampe di scale i cui gradini avevano un’alzata di almeno mezzo metro e, superate le abitazioni
monaci si misero seduti lungo i muri del tempio, mentre il conduttore della cerimonia, anziano, probabilmente il lama più prestigioso del monastero, stava seduto al centro su piani rialzati. Incominciò proprio lui a salmodiare, seguito da altri due o tre, ma non all’unisono, ognuno con tempi propri, così come lo erano il tono di voce e il ritmo, che ora rallentava, ora improvvisamente pigliava la rincorsa per poi scemare nuovamente; altri monaci introducevano di volta in volta la loro voce, non casualmente come poteva sembrare di primo acchito, piuttosto secondo un ordine prestabilito e rigorosamente rispettato, Ne scaturiva una specie di polifonia sommessa, piacevole e incantatrice nonostante l’incomprensibilità delle parole, ma raggiunse l’apice quando l’anziano monaco cominciò a scuotere una campanella, seguito dal rullio cupo di due tamburi verticali, percossi da due monaci con delle bacchette ricurve, si aggiunse poi il suono di due trombe lunghe mezzo metro e poi ancora quello di una tromba che toccava terra e, per finire, il più piccolo dei bambini monaci si alzò in piedi e soffiò con tutto il fiato che aveva in corpo in un’enorme conchiglia dalle cui valve uscì un suono vibrante e profondo, sembrava provenire dalle viscere della montagna. L’aria vibrava, le pareti del monastero sembravano
mi voltai a guardare il monastero per imprimere nella mente le sue case, la grotta, le bandierine di preghiera sospese tra muri e lunghi pennoni e l’immagine che raccolsi, mi suscitò l’idea di un cuore, un organo vitale che infondeva per tutto lo Zanskar lo spirito che gli è proprio, lo irrorava di energia, correva tra gli anfratti, sulle rare coltivazioni, avvolgeva i picchi delle montagne e toccava gli uomini donando purezza, corretto senso della vita e piacere di percorrerla per tutto il tempo concesso. Non starò a raccontare il tragitto di ritorno, ma posso dire che le tre tappe furono piuttosto problematiche, con guadi inagibili, ponti trascinati a valle dalla corrente, tratti del sentiero franati: praticamente arrivammo a Padum dalla parte opposta da cui eravamo partiti. Giunti in città e preso alloggio per una notte, fummo informati che la strada per Leh, capitale del Ladakh e nostro punto di arrivo, era stata in più punti interrotta da grosse frane, che molti ponti erano crollati, che a Leh un grosso smottamento aveva distrutto molte case e provocato numerose morti. La prospettiva era di tornare a Srinagar, ma avrebbe significato un fallimento da parte nostra, oppure rischiare e proseguire per il nostro itinerario, una decisione da prendere in fretta, cosa che facemmo la sera stessa.
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[ IN CUCCIA Due chiacchere a quattro zampe ]
LA GRANDE FORTUNA DI FINIRE IN CANILE, SE E’ QUELLO DI MONZA
[ rubrica a cura di GABRIELLA ] Per paradosso, arrivare al canile di Monza ha segnato una svolta positiva nell’esistenza di 13 sfortunati cani. Non lo sanno, ma per Susi, Pitt, Bonga, Gastone, Gerald, Clyde, Dante, Timbo, Gag, Tenore, Frolla, Mary e Border venerdì 29 ottobre 2010 è stato il giorno più bello della loro vita. Perché, grazie ad una nuova convenzione stipulata tra il Comune di Cernusco sul Naviglio (MI) e il Canile intercomunale di Monza, i 13 cani accalappiati o ceduti nei 13 anni tra il 1997 e il 2010 sul territorio di Cernusco sono stati trasferiti al rifugio di via Buonarroti 52 gestito dall’Ente Nazionale Protezione Animali. Questo accordo, voluto fortemente dall’Assessorato all’Ecologia del Comune di Cernusco e condiviso dagli altri 11 comuni già convenzionati e dall’ENPA monzese, è in vigore dal primo novembre. La tristezza di invecchiare in canile I nuovi amici arrivano da un canile nel quale sono entrati da giovani e dove hanno trascorso sei, dieci, 12 anni, invecchiando lentamente, giorno dopo giorno, dove spesso non hanno ricevuto adeguate cure o attenzioni e dal quale non sono mai riusciti ad uscire. Timbo, classe 1998, aveva due anni quando è stato accalappiato a Cernusco e vi è rimasto dieci... La bella Frolla, dieci anni di età, è stata accalappiata diversi mesi fa, eppure le enormi e visibilissime masse tumorali sparse sul corpo non sono state curate.... Poi c’è Bonga, dal muso triste e la rassegnazione stampata negli occhi, nata nel 1999, accalappiata nel 2000, da operare con urgenza per otite acuta... Gerald è entrato cucciolo nel 2004: molto comunicativo, attraverso le sbarre ti chiama con la zampa, buttandosi a terra per farsi fare le coccole... E ancora Dante, 11 anni, aperto e socievole, è dietro le sbarre dal 2002 per aver commesso quale reato? La realtà di troppi canili italiani, anche nel “civile” nord Non si tratta evidentemente di un canile in un infelice paese della Romania o del sud Italia dove
le leggi ci sono ma le istituzioni sono assenti, ma di una struttura nella civile ed evoluta provincia di Milano. Definito “lager” da molti, il canile a 16 km a sud-est di Milano, di gestione privata, riceve sovvenzioni calcolate per ogni giorno di permanenza di ciascun cane. Il pubblico non è gradito perché ogni adozione erode i profitti, come pure le spese per le cure sanitarie e per le sterilizzazioni e per il cibo di buona qualità. Così, per i nostri nuovi ospiti il trasloco - nella pur fatiscente e obsoleta struttura di via Buonarroti - ha segnato un nuovo bellissimo capitolo in quel che rimane della loro vita. Un nuovo inizio Nei primi giorni i nuovi ospiti sono stati visitati dai nostri veterinari, le condizioni di salute sono state valutate e le prime cure avviate. Una volontaria ENPA, istruttrice cinofila, sta studiando invece il carattere e comportamento per poter mettere a punto, ove necessario, un programma di riabilitazione dei cani che nelle prossime settimane e mesi verranno seguiti dai volontari sotto la sua guida. Epilogo: il lieto fine di Mary e Border Per due del gruppo di Cernusco, Mary e Border, il giorno più bello è stato non il 29 ottobre ma sabato 6 novembre 2010. Perché appena otto giorni dopo il loro arrivo al canile di Monza ci hanno salutati! Mary, buona e timida, nata nel 2002 e
fin da cucciola sempre vissuta in canile, solo ora, dopo otto anni di prigionia, ha trovato l’amore di una famiglia. E anche il piccolo Border (sembra un border collie in miniatura!), dopo 12 lunghissimi anni spesi tutti in canile, ha finalmente trovato dopo una sola settimana una casa vera. Sono purtroppo tanti i canili in Italia dove gli animali non sono seguiti e curati, e dove soprattutto le adozioni per motivi puramente economici non sono incentivate. Arrivano accalappiati, giovani e vecchi, e ci rimangono fino alla morte. Al canile di Monza una permanenza che dura anni è un’eccezione, una rarità assoluta; in troppi canili è la norma. L’ENPA di Monza in soli otto giorni ha fatto quello che il precedente canile non è riuscito a fare in 12 anni. Ma non è che siamo più bravi noi; è proprio la volontà che è diversa. Dopo aver salutato Mary e Border, non resta che augurare ai loro 11 compagni di sventura di trovare presto anche loro l’amore di una famiglia che tutti i cani meritano.
Il canile di Monza Il canile-gattile, gestito dal 1983 dall’Ente Nazionale Protezione Animali, sezione di Monza e Brianza, si trova in via Buonarroti 52 a Monza. E’ aperto al pubblico tutti i giorni eccetto mercoledì, dalle 14,30 alle 17,30. Le schede degli animali che cercano casa sono sul sito www.enpamonza.it alla pagina Adozioni.
Consigli per gli acquisti: mercatino natalizio e adozione a distanza Ogni sabato e domenica prima di Natale i volontari dell’ENPA monzese saranno presenti nella zona pedonale di via Italia in centro Monza dalle 9,30 alle 18,30 orario continuato. Al gazebo troverete una ricca selezione di idee regalo, oltre agli esclusivi dolci natalizi e i calendari 2011, con le immagini dei nostri ospiti. E ad una persona speciale e sensibile, perché non regalare un’adozione a distanza? E’ un modo originale per fare un dono doppiamente generoso: verso la persona a cui volete bene ma anche verso il bisognoso amico a quattro zampe che riceverà il vostro aiuto. Per tutti i dettagli, vedi la pagina Progetto Famiglia a Distanza sul sito www.enpamonza.it, nella sezione Adozioni > Animali da Adottare.
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[ VERDISSIMO CURIOSITà, PROPRIETà E USI DELLE PIANTE INTORNO A NOI ]
Allegria in tavola: c’è il novello!
[ di Jacopo Ways ] Questa volta potremmo cambiare il nome alla nostra rubrica e intitolarla “Rossissimo”. Già, perché questo mese sotto la lente ci mettiamo il vino novello, che al 95 per cento della produzione è di colore rosso, un rosso vivo, allegro. E che si beve, per averlo al massimo delle sue qualità, tra novembre e marzo, rallegrando così le tavole invernali con il suo colore, il suo profumo e il suo sapore. Un vino così particolare che la produzione è regolata da un’apposita legge che è stata emanata nel 1989 e che impone di utilizzare almeno il 30 per cento di vino ottenuto con la macerazione carbonica dell’uva intera. Ovviamente più questa percentuale aumenta, più la bevanda ha caratteristiche di colore, di
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profumo e di sapore particolari e, di conseguenza, il prezzo sale, perché la lavorazione, di cui parleremo dopo, è molto complessa. Ma un’altra legge, quella del 1999, stabilisce che il novello può essere commercializzato dalle ore 0.01 del 6 novembre dell’annata in cui sono state raccolte le uve. Sempre nell’ambito di quest’ultima legge, è anche previsto che, solo durante manifestazioni espositive e promozionali, è consentito porre in degustazione i novelli a partire dalle 0.01 del 5 novembre. In Francia, invece, dove questo tipo di vino è nato, ed è il famosissimo Beaujolais Nouveau, può essere posto in vendita soltanto dopo la mezzanotte del terzo mercoledì del mese di novembre.
Ma come fa un vino a essere pronto da bere a poche settimane soltanto dalla raccolta dell’uva? Il segreto sta proprio, come dicevamo sopra, nella macerazione carbonica. Spiegato in poche parole, ecco il processo che si innesca. L’uva viene raccolta in cassette non grandi affinché i grappoli non si schiaccino in modo eccessivo. Questi vengono poi posti in serbatoi ermeticamente chiusi e saturi di anidride carbonica a una temperatura di 30 gradi per un periodo che varia dai 7 ai 15 giorni. In questa fase, gli acini che stanno più sotto liberano del mosto che inizia a fermentare grazie ai lieviti presenti nell’uva, producendo alcool e altra anidride carbonica. A questo punto, tutta la massa viene pigiata e posta in un tino dove fermenta per altri 3/4 giorni, terminando la trasformazione degli zuccheri in alcool. Il vino ottenuto matura in breve tempo, tanto che deve essere imbottigliato entro la fine di dicembre e consumato entro pochi mesi. Il novello, affinché manifesti le sue caratteristiche odorose, deve essere bevuto giovane, ma invecchia piuttosto lentamente e anche se perde molte sue prerogative, resta comunque un prodotto che difficilmente deperisce. Il novello che resiste con le sue caratteristiche particolari più a lungo, è quello che contiene tra il 70 e l’80 per cento di vino ottenuto mediante macerazione carbonica. La fase manuale di riempimento e svuotamento delle autoclavi, lunga e lenta, fa lievitare il costo di questo vino. I novelli miscelati con altro vino al momento dell’imbottigliamento hanno invece una maggiore longevità che può arrivare fino ad agosto. Comunque già a febbraio i novelli perdono molto le loro caratteristiche di profumo e freschezza. E’ un vino da bere sia come aperitivo che con piatti non troppo saporiti. Buono anche con pesce e pizza. Il grado alcolico non supera quasi mai gli 11 gradi. Ecco, così si può spiegare la magia di questo vino che, nato in Francia nel 1934, ha conquistato poi il resto del mondo. In Italia la produzione spazia su quasi tutto il territorio nazionale, isole comprese. Abbiamo al momento una produzione di circa 15 milioni di bottiglie. Le Denominazioni di Origine per il novello sono circa 60, mentre oltre 160 possono vantare l’Indicazione Geografica Tipica. Prosit!
[ BRIGANTIA STORIA,
LEGGENDE ED ESCURSIONI NELLA NOSTRA VERDE TERRA ]
San Maurizio
SULLE TRACCE DELLA MONACA di monza Prima parte
[ di Juri Casati ] Proponiamo un breve itinerario manzoniano che segua le tracce di Gertrude, la Monaca di Monza. Sul carattere “manzoniano” dell’itinerario è però meglio intendersi subito. Infatti la Gertrude manzoniana era solo incidentalmente monzese, dato che il suo carattere eminentemente letterario – da peccatrice dannata, per intenderci - la rendeva un personaggio più che altro universale. Pertanto preferiamo seguire la sua vicenda attraverso le pagine del vero processo – pagine che Manzoni lesse solo dopo la pubblicazione de I Promessi Sposi – dal momento che solo esse sanno restituirci una vicenda dai caratteri marcatamente brianzoli. A partire, per esempio, dai cognomi che compaiono a vario titolo nell’inchiesta e che sembrano provenire da un vecchio registro di scuola: Mariani, Ferrari, Monti, Vimercati, Pennati, Pozzi, Bosisio, Alberici, Brambilla, Casati, Rivolta. E per proseguire con i luoghi che vengono nominati e che sono i “nostri” luoghi: Monza, Lissone, Oggiono, Velate, Vedano, Brugherio. Fino ad arrivare a citare strade e palazzi ancor oggi esistenti. Consigliamo anche a voi di gustare – non è una lettura difficile – le pagine originali del processo: le potete trovare in forma integrale, introdotte e commentate, nel libro La Monaca di Monza di Giuseppe Farinelli (Editrice
Otto/Novecento, Milano, 2008, 20,00 euro). I fatti, dunque. La vicenda si svolse negli anni in cui in Spagna Cervantes pubblicava Don Chisciotte, in Italia Galileo scrutava il cielo e in Lombardia c’era la dominazione spagnola. La protagonista dei fatti - la Gertrude manzoniana – in realtà si chiamava Marianna De Leyva, discendeva da una influente famiglia spagnola, ed era nata nel 1576 a Milano e precisamente a Palazzo Marino, attuale sede del Comune. Nel 1589 Marianna entrò nel convento delle Umiliate Benedettine di Santa Margherita a Monza dove, nel 1591, pronunciò i voti assumendo il nome di Virginia Maria. Suor Virginia divenne ben presto “la Signora” poiché esercitava per mandato del padre la sovranità a Monza, città che era da tempo un feudo personale dei De Leyva. Accanto al convento di Santa Margherita sorgeva la casa di una famiglia di possidenti originaria del Bergamasco: gli Osio… Alt. Fermiamoci un momento e vediamo di collocare geograficamente la vicenda. Il convento di Santa Margherita e la casa della famiglia Osio erano confinanti ed occupavano l’ideale rettangolo composto dalle attuali via Azzone Visconti, via della Signora, via Talamoni, via De Gradi. Anche il convento di Santa Margherita talvolta veniva citato aggiungendo l’espressione “de Gradi”: ciò indicava la sua vicinanza alla porta di Agra o Gra, cioè alla porta di Agrate, che
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[ BRIGANTIA ] Via della Signora
indirizzava verso Treviglio. L’area su cui sorgeva il convento di Santa Margherita doveva avere qualcosa di speciale. Infatti il Ripamonti, un cronachista vissuto nel Seicento, racconta che già nel Cinquecento “un folletto burlone si divertiva a far disperare, ora ridendo smascellato, ora levando di sopra il fuoco le vivande, ora scomparendo e rubando i veli alle monache”. Invitiamo anche i lettori di Trantran a percorrere quel quadrilatero magico – soprattutto via della Signora, magari da soli, magari di sera – per provare certe sensazioni inconsuete. Quello di Santa Margherita era un convento dell’ordine degli Umiliati, un movimento religioso nato nel XII secolo che aveva avuto una larga diffusione in Lombardia tanto che, per esempio, nel XIII secolo a Monza c’erano sedici case umiliate. Gli Umiliati erano divisi in tre ordini. Il primo era composto da preti e suore, il secondo da uomini e donne laici che vivevano in case separate, ma contigue (chiamate conventi doppi), il terzo da laici che vivevano nelle proprie famiglie. Il convento di Santa Margherita – la cui esistenza è attestata da alcune fonti già nel XII secolo - in origine era proprio un convento doppio e solo successivamente divenne un convento femminile. Gli Umiliati erano dediti alla produzione e al commercio della lana, ma pian piano accumularono ricchezze e beni fondiari tali da far decadere il tono spirituale delle origini. Nel 1571 l’ordine degli Umiliati – in odore di eresia fin dalla nascita - fu soppresso ad eccezione proprio dei conventi femminili. Il convento di Santa Margherita di Monza, che nei secoli aveva assorbito due conventi vicini, fu infine soppresso nel 1785. Cosa rimane oggi di quei luoghi? La casa degli Osio fu rasa al suolo dalle fondamenta per ordine del Senato di Milano e non ha lasciato tracce. Il convento di Santa Margherita è stato smantellato un pezzo alla volta nei 170 successivi alla sua chiusura fino quasi a scomparire. Però esiste una vecchia planimetria del convento di Santa Margherita da cui ci si può rendere conto di come nel corso del tempo gli spigoli delle vie siano rimasti identici, come se il convento avesse lasciato un’impronta sul terreno. Viene
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in mente quel passaggio de Le città invisibili di Italo Calvino: “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie”. Tuttavia qualche traccia ancor oggi visibile è rimasta. Per esempio in via Azzone Visconti, all’interno di un’area commerciale privata, sono conservati i sotterranei e un pozzo del convento. È una bella suggestione pensare che il pozzo sia lo stesso dentro cui la Signora - colta dai suoi ricorrenti rimorsi - gettava le chiavi del convento che l’Osio continuava a riprodurre o pensare che sia lo stesso pozzo davanti a cui la Signora meditava il suicidio. Anche l’ingresso del convento è ancora visibile. Esso si trova all’interno di un’area residenziale privata, ma visibile dalla strada, a fianco della facciata della Chiesa di San Maurizio che sorge in piazza Santa Margherita e che occupa l’esatta posizione dell’antica Chiesa del convento dedicata alle Sante Caterina e Margherita. Tale Chiesa fu fondata nel 1469 e fu profondamente ristrutturata nel Settecento. Alla fine dell’Ottocento ha assunto il nome di San Maurizio dal nome dell’antica Chiesa di San Maurizio – la Chiesa di prete Arrigone, fondamentale figura processuale su cui dovremo tornare - che sorgeva nell’attuale via Vittorio Emanuele e che venne abbattuta in quegli anni. Torniamo ai fatti. La vicenda della Signora inizia in realtà con un misterioso delitto. Infatti nel 1597 Gian Paolo Osio uccise un agente di suor Virginia dedito all’amministrazione del feudo. Suor Virginia ordinò di arrestare l’Osio, ma poi revocò l’ordine e i motivi sia dell’omicidio sia della revoca del mandato di arresto sono tuttora dibattuti. Nel 1598 Virginia accettò di incontrare il giovane che voleva ringraziarla per l’atto di clemenza. Da allora iniziò una relazione destinata a protrarsi per nove anni. Nel 1602 suor Virginia diede alla luce “un putto morto” e due anni più tardi una bambina. La situazione precipitò nel 1606 quando la giovane novizia Caterina minacciò di rendere pubblici i fatti che accadevano in quel convento e per questo motivo fu uccisa dall’Osio alla presenza di cinque monache. Il cadavere fu dapprima
occultato in un pollaio e, la notte seguente, fu trasportato in casa Osio. Qui fu sepolto, tranne la testa che venne buttata in un pozzo a Velate. L’Osio praticò un buco nel muro del convento e le monache fecero credere che Caterina, nota per la sua scarsa vocazione, fosse fuggita. Le voci divennero a quel punto inarrestabili: il farmacista Rainerio, che aveva preparato più volte pozioni abortive per suor Virginia, parlava troppo. L’Osio ordinò di ucciderlo, ma l’omicidio fallì. Tuttavia il fatto attirò l’attenzione dell’autorità civile e Fuentes, il governatore spagnolo di Milano, fece imprigionare l’Osio a Pavia. Poco dopo iniziarono anche le meticolose indagini dell’autorità religiosa che teneva d’occhio da tempo quel convento. Gian Paolo Osio evase quasi subito e uccise Rainerio. Poi si nascose nel convento di Santa Margherita e lì rimase fino al giorno dell’arresto di suor Virginia. Era il 25 novembre 1607. Fermiamoci qui, per ora. Il resto lo racconteremo nella prossima puntata.
Il portale del convento
[ NONSOLOMONZA... ]
VILLASANTA La Chiesa di Santa Anastasia
Villasanta è un comune di oltre 13.500 abitanti delimitato nei suoi confini dai comuni di Monza, Arcore, Biassono e Concorezzo, e i suoi abitanti sono detti villasantesi. Al nucleo comunale di Villasanta s’includono anche le due frazioni di San Fiorano e Sant’Alessandro. Il nome del comune sembra avere origine dall’antica chiesa qui eretta in onore di Santa Anastasia, comunemente definita dagli abitanti semplicemente il luogo della Santa, o più semplicemente La Santa. Questo modo di chiamare la località, unitamente al termine in uso per definire le frazioni di Sant’Alessandro e San Fiorano, ossia Vilolla, o semplicemente Villa, si fusero nell’attuale nome del comune. L’antica chiesa di Santa Anastasia, oggi purtroppo non è più visibile in quanto abbattuta agli inizi del XIX secolo per far posto alla costruzione della nuova chiesa. L’abitazione più antica di Villasanta è Villa Camperio che sorge in pieno centro storico, in via Confalonieri 55. Nel cortile del palazzo, infatti, è tuttora visibile una pietra con scolpita la data di costruzione: 1696. L’edificio è anche impre-
La porta di Villasanta sul Parco di Monza
ziosito da uno splendido giardino che si estende alle spalle dell’edificio ed ora aperto al pubblico. Il complesso presenta la tradizionale struttura a corte chiusa dotata di soffitti in legno, molti dei quali a cassettoni decorati con motivi settecenteschi. La residenza è oggi di proprietà comunale e, infatti, qui ha sede la Biblioteca Civica. Gli spazi di quest’antica dimora, inoltre, ospitano periodicamente mostre e manifestazioni a carattere culturale, mentre il cortile interno, in estate, diventa sede del cinema all’aperto. Anche per la stagione 2010/2011 l’Ufficio Cultura del comune ha organizzato un fitto calendario per i I Mercoledì in Villa Camperio, rassegna di corsi rivolti alla cittadinanza su temi a carattere culturale e su tematiche legate a medicina e salute: dalla lettura ed analisi di romanzi nelle top ten settimanali di vendite, con la Prof.ssa Carla Maria Colombo; alle lezioni sulla storia d’Italia dal Risorgimento alla creazione della Repubblica con il Prof. Ivan Castellani; introduzioni di medicina generale dedicate ai singoli apparati con la Prof.ssa Luisa Bottini; fino alla storia dell’arte
tramite l’analisi delle opere dei grandi artisti che hanno operato sul territorio milanese con la Prof. ssa Francesca Milazzo.
Appuntamenti Natalizi Giovedì 9 Mostra collettiva di pittura-Villa Camperio fino al 19 dicembre Domenica 12 Lele Forever Concerto di Natale-Teatro San Carlo Monza Sabato 18 Corpo musicale Villasanta Concerto di Natale-Parrocchia Sant’Anastasia Domenica 19 CEV Villasanta dressage - Centro ippico: Hobby arte e sapori - P.za Gervasoni 9,00/19,00 Mercoledì 22 Sport Cosov Festa Natalizia-Palazzetto dello Sport Venerdì 24 La Ghiringhella: Babbo Natale consegna a domicilio doni per bambini- San Fiorano 10,30/24,00
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[ I SEGRETI DELLO CHEF ]
SUPER SPEEDY: IL PANINO PIÙ BUONO DEL MONDO!!
Per questo numero, cari lettori, siamo andati allo Speedy Pub di via Appiani a Monza. Un luogo cult per noi sciure e, anche per tanti altri monzesi giovani o meno. Ci accoglie Davide che lo gestisce insieme alla madre dal lontano 1989, e che da allora continua a nutrirci con i suoi succulenti panini. Questo mese abbiamo scelto lo Speedy perché crediamo davvero che alcuni loro panini fungano da antidepressivo e quello che in assoluto prediligiamo è il Super Speedy! Chiediamo a Davide se è pronto a svelarcene i segreti e lui si presta a condividere con noi i suoi trucchi da maestro. Ecco a voi come si prepara il panino più buono del mondo: il Super Speedy! Davide ci tiene a specificare che il vero segreto dei suoi panini, oltre alla sua mano esperta e alla capacità di dosare bene gli ingredienti, è la qualità dei prodotti.
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Iniziamo con la preparazione. Affettiamo una buona dose di arrosto di vitello, condirlo con la salsa Worcester, porci sopra una foglia di insalata, due o tre fette di pomodoro e un po’ di sale. Intanto tagliamo il pane in tre parti per orizzontale e lo mettiamo a scaldare nella piastra. Nel mentre avremo già messo sulla griglia l’hamburger con un po’ di sale. Appena il pane è caldo al punto giusto metteremo sulla prima fetta di pane del ketchup e l’hamburger, seconda fetta l’arrosto con l’insalata e il pomodoro poi, spalmiamo la terza fetta con la salsa tartara, chiudiamo il tutto e voilà il panino è servito!!! Il vostro palato vi ringrazierà, il nostro lo sta già facendo.... Si veda la videoricetta su www.trantran.net
Panettoni e pandori della Gelateria Fiocco di Panna Roberto, il titolare, si occupa personalmente di acquistare i panettoni e i pandori di ottima qualità. Una volta svuotati internamente vengono riempiti, a seconda dei gusti del cliente, di gelato fresco o semifreddo di produzione propria. In seguito si portano ad una temperatura di -30° per poi venire finemente ricoperti di cioccolato fuso e arricchiti con decorazioni suggestive (come mostra la foto) secondo le indicazioni del cliente. Gelateria Fiocco di Panna Per informazioni e prenotazioni: vedasi la pubblicità sotto riportata
[ REALITY ]
REALITY Venti domande per vedere la Brianza con gli occhi dei brianzoli
ELMER Età 34 anni Dove sei nato? Milano Dove vivi? Carate Brianza Vivi da solo o con la famiglia? Con la mia famiglia. Una famiglia molto numerosa, composta da me, mia moglie, le nostre due bambine, poi, dato che sono separato, ogni tanto viene da noi anche il mio altro bambino. E poi ci sono anche i nostri due cani. Destra o Sinistra? Destra. Che lavoro fai? Sono imprenditore immobiliare. Cosa ti piace di Monza e Brianza? La vivibilità. Associazione d’idee. Se ti dico verde…
Parco di Monza Cena… Amici Vai al parco? No perché ho un giardino che mi permette di vivere il verde anche a casa. Chi è Dario Allevi? Musicista? Dai un voto alla provincia di Monza e Brianza… Mi sembra che la situazione nell’ultimo anno sia migliorata ma non posso dare una valutazione precisa. Spesso, per lavoro, ho a che fare con le Province ma con quella di Monza e Brianza non ho ancora avuto a che fare e ti direi cose non esatte. Ai trasporti in Brianza? Potrebbero migliorare, soprattutto per quanto riguarda i paesi della Brianza. Monza è ben servita ma luoghi come Lissone, che è uno dei
punti in cui lavoro, o Carate dovrebbero migliorare. Faccio un esempio: Lissone ha un’ottima stazione ferroviaria ma poi uno arriva in stazione e rimane lì, non sa più come spostarsi. Al commercio in Brianza? C’è una bella offerta, peccato che non ci sia la stessa forza da parte degli acquirenti. Comunque anche il commercio può migliorare! Se non in Brianza dove vorresti vivere? In Polinesia Esprimi un desiderio. Mi ricollega alla domanda precedente…Polinesia Metropolitana a Monza: favorevole o contrario? Favorevolissimo. Dimmi un proverbio. Il primo che mi viene in mente?
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino! Dì qualcosa ai
nostri lettori Impegniamoci a vivere meglio il nostro territorio!
FRANCO Età 46 anni Dove sei nato? A Carate Brianza Dove vivi? A Carate Brianza Vivi da solo o con la famiglia? Vivo da solo. Destra o Sinistra? Astenuto! Che lavoro fai? Sono idraulico. Cosa ti piace di Monza e Brianza? Il territorio. Associazione d’idee.
Se ti dico verde… Prati Cena… Una bellissima serata Vai al parco? Sì, ci vado. Chi è Dario Allevi? Non lo conosco. Dai un voto alla provincia di Monza e Brianza… Dò un sette. Ai trasporti in Brianza? Non li uso quindi non posso dare un voto Al commercio in Brianza? Adesso come adesso siamo
scaduti al cinque! Se non in Brianza dove vorresti vivere? A Marina di Carrara Esprimi un desiderio. Continuare a essere felice. Metropolitana a Monza: favorevole o contrario? Favorevole. Dimmi un proverbio Tanto va la gatta al lardo… che ci lascia lo zampino! Dì qualcosa ai nostri lettori Leggete perché è il solo modo per formarsi una cultura!
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[ RACCONTIAMOCI ]
UN AMOR DI
COMPUTER [ di Guido Caimmi ]
Lui era senza dubbio il più brillante della sua agenzia. Carl aveva 24 anni quando iniziò a lavorare per la “Xgame Community” e da quel momento non aveva fatto altro che accumulare un successo dietro l’altro. Era stato nominato capo del settore creativo a soli 26 anni. Era il numero uno, anche se non era strapagato. Bene il lavoro, ma per quanto riguardava tutto il resto era una frana, soprattutto con le donne. Carl non era bello, non vestiva alla moda e aveva un modo di parlare che avrebbe fatto annoiare anche un sordo. Insomma, l’unica che sapesse fare davvero bene era creare videogames. Li progettava in dettaglio, li rendeva unici; i suoi giochi avevano successo in ogni angolo del pianeta. Ma tutto ciò che Carl voleva stava negli uffici alla destra e alla sinistra del suo. A destra c’era Alfred, il businessman della compagnia, quello che trovava i lavori, che ci sapeva fare con la gente, che vendeva e che dava alla “Xgame” un’immagine vincente. Dall’altra parte Giselle, la responsabile del personale, bellissima, la donna che Carl non sapeva definire diversamente da “la fidanzata ideale”, solo che era la fidanzata di… Alfred. A volte il fatto di avere l’ufficio tra loro due, lo faceva sentire il terzo incomodo, tant’è che durante le giornate di lavoro viveva con l’ansia di dare fastidio, di rovinare l’idillio di quella coppia bellissima. Solo a casa riusciva a stare tranquillo, nel suo salotto tecnologicamente super avanzato. Era qui che spendeva intere nottate. Era talmente bisognoso di affetto che amava creare al computer dei personaggi femminili con i quali interagire. Disegnava meravigliose creature con le quali scambiava parole immaginarie. I volti che scolpiva sullo schermo del suo computer erano quasi sempre simili a quello della sua amata Giselle. I corpi ne avevano le fattezze e trattavano Carl come un principe. La sua vita andava avanti così da otto anni, quando una sera, tornato a casa dopo la presentazione alla stampa del suo ultimo lavoro, “ Pirati dello spazio”, si era sdraiato sul puf rosso che stava accanto al divano, aveva mangiato del cibo messicano take away e aveva iniziato a strutturare la donna virtuale, su cui era impegnato da qualche settimana. Improvviso, il black out. Silenzio totale, rumori vari per la casa, forse oggetti che rotolavano a terra, forse libri che cadevano dagli scaffali. Forse era un terremoto. Poi di nuovo la luce. Carl si affacciò alla finestra e notò che stranamente tutt’intorno sembrava che nessuno si fosse accorto di nulla. Tutto in ordine tutto a posto. Aveva sognato? Probabilmente si. Gli capitava spesso, del resto, di sognare a occhi aperti. Si diresse verso il bagno. Ed eccola lì, nella vasca: Miky, la donna che pochi istanti prima aveva disegnato al computer. “Scusa, ho approfittato per fare un bagno perché là dentro era tutto sudicio. Spolveralo il computer ogni tanto!”. Questo era davvero troppo, pensò. Ma non aveva bevuto. Uscì dal bagno e ci rientrò subito, come in una scena di un film comico. Di nuovo lei. Carl iniziò a sudare freddo. Pensava che sarebbe sempre stato in grado di controllare questa sua mania di voler avere una donna virtuale, non credeva che sarebbe arrivato a confondere il mondo reale con quello della fantasia. Carl respirò a fondo: “Dimmi chi sei, cosa ci fai qui, da dove vieni. Sto sognando? Sono matto? Perché diavolo sei nella mia vasca da bagno?!”. “ Sono Miky, no? Mi hai creato tu. Ho escogitato un piccolo trucchetto per
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[ RACCONTIAMOCI ]
uscire da quello scatolone che francamente era davvero inabitabile, dovevo per forza venire fuori. Sono un’intelligenza artificiale non un sorcio. Comunque grazie, mi hai fatto proprio carina. Non avrei saputo immaginarmi meglio. Sai, noi intelligenze artificiali, desideriamo sempre avere un programmatore bravo come te. Io scambio opinioni con le intelligenze degli altri computer e loro mi ritengono molto fortunata. E così io ho deciso che avrei dovuto ricambiare la tua cortesia”. Carl era bianco cadaverico. A fatica si reggeva in piedi, una mano appoggiata al lavandino e l’altra appesa alla maniglia della finestra. “ Scusa, sai, ma non mi sembra molto normale. E in generale non sono bravo a socializzare con la gente”. “ Capisco. Ma stai tranquillo”. Passò qualche istante prima che Carl riprendesse a parlare. “ Ma mi sembra assurdo. In pratica, io starei parlando con lo spirito del mio computer, che ho modellato in modo tale da farlo sembrare una meravigliosa donna, e lui mi sta dicendo che è qui per realizzare il sogno della mia vita. Davvero, questa cosa non sta in piedi”. Carl da un lato pensava che sarebbe stato il caso di licenziarsi dalla “Xgame” perché tutto quello che le girava intorno lo stava tirando fuori di senno, dall’altro si rendeva conto di avere un’effettiva percezione della realtà e quella donna era vera, non virtuale. Forse si trattava di un angelo, di una ricompensa divina, qualcuno aveva voluto far sì che quel piccolo ometto non tanto bello, ma sempre composto e sincero, non dovesse più soffrire di solitudine, ma potesse avere una donna, finalmente. Eh sì, perché nel suo inconscio, Carl, aveva creduto alle parole di Miky e naturalmente aveva pensato di chiederle che facesse innamorare di lui Giselle. Una follia solo pensarlo: figuriamoci, lei che si metteva con lui, lasciando Alfred, bello, simpatico e affascinante. Poi si sentì dire: “Se dici il vero, Miky, questo è il nome che avevo scelto per te, io voglio che Giselle si innamori di me!”. “ Bene, allora. Addio, Carl. E siccome anche noi intelligenze artificiali non facciamo le cose perfette, ogni tanto potresti ricordare qualcosa di questa nostra conversazione. Non pensarci, Carl. Non pensare più al passato ma solo al futuro”. Poi di nuovo un black out. Carl si svegliò, si fece la barba, indossò il solito maglioncino sopra un paio di jeans, salì in sella alla moto e via al lavoro. Quando si sedette al suo posto arrivò Giselle e lo baciò con le sue labbra rosso intenso. Un bacio al sapore di caffè. “Ho organizzato tutto, amore mio. Ho parlato con l’ambasciata di Tokyo e ci accordano il visto per i passaporti. Ora possiamo prenotare e finalmente ci sposeremo e faremo il nostro viaggio di nozze che aspettiamo da quasi un anno. Non vedo l’ora”. Carl era muto. Il cuore gli esplodeva. Ancora non si rendeva conto. Davvero la notte prima gli era successo tutto quello? Davvero una donna misteriosa, uscita da un computer, aveva realizzato il suo desiderio più grande? Impossibile, eppure anche se si fosse trattato di immaginazione era proprio quello che stava vivendo. Era sempre il capo dei creativi all’agenzia “Xgame”, aveva sempre il suo ufficio, il solito abbigliamento poco appariscente, la solita espressione non troppo brillante. Carl si lasciò sprofondare nella sua poltrona. Sogno o realtà, non aveva mai voluto altro e decise che non voleva perdere tempo a trovare una spiegazione razionale a tutto ciò. Giselle era sua. La perfetta Giselle. Ma Alfred? Si alzò
e andò subito ad aprire la porta che chiudeva la stanza alla destra del suo ufficio. Si ritrovò alla toilette. Sparito. Alfred non c’era più. Carl girò per tutto lo stabile dell’agenzia e di Alfred nessuna traccia. Ma cos’era successo, perché? Poi le vennero in mente le parole di Miky: “Ogni tanto ti ricorderai di questa notte, ma tu non stare troppo a pensarci. Non pensare più al passato, ma solo al futuro…”. Già, perché perdere tempo a pensare a quello che è stato e COME è avvenuto. Meglio pensare al presente e al futuro. In preda a un fremito di gioia corse nell’ufficio di Giselle, la strinse forte a sé, la baciò : “Sarà il viaggio più bello della nostra vita, amore mio. Ti amo”. Carl rimase sposato tutta la vita con la sua adorata Giselle. I suoi giorni trascorsero sempre nel suo ufficio, con i vestiti fuori moda, il viso bruttino e il carattere scontroso. Ma certo le sue notti cambiarono. Non creava più splendide donne con cui interagire al computer, ma si godeva la sua Giselle.
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[ RACCONTIAMOCI ]
SCUOLA DI SCRITTURA CREATIVA A MONZA Parla l’insegnante-scrittore Walter Pozzi
[ di Marta Migliardi ] Ci incontriamo una fredda mattina di Novembre in Piazza Trento e Trieste, a Monza, a pochi passi dalla Biblioteca Civica dove, da qualche anno, lo scrittore Walter Pozzi tiene dei laboratori di scrittura creativa. Mi sembra importante parlarne perché, spesso, si hanno opportunità straordinarie sotto il naso e non si vedono, perché c’è sempre, purtroppo, il brutto vizio di divulgare poco iniziative di stampo culturale. Io stessa, che vivo in Brianza da trent’anni, prima di intraprendere questo lavoro nel giornale ero all’oscuro che, affianco del Liceo Bartolomeo Zucchi, esistesse la possibilità di frequentare corsi di scrittura, oltretutto gratuitamente. Un’ottima occasione per tutti voi lettori che spesso ci scrivete racconti e ci chiedete consigli. Perché scrivere è un arte, una passione, ma anche un mestiere che va affinato e curato con la costanza e l’informazione. L’intervista non si svolgerà quella stessa mattina: il fato ha voluto giocare su un incontro non avvenuto quando, anni fa, a Milano frequentavo anche io una scuola di scrittura da dove l’insegnante Walter andò via lo stesso anno in cui io decisi di iscrivermi. Scusate la digressione, ma io avevo già conosciuto Walter attraverso i racconti dei suoi ex allievi e attraverso ardite trame degne di un romanzo Tolstojano. Una personalità
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descritta coloratamente, nel bene e nel male, e che, ampliando il ragionamento mi ha convinta che anche scrivere è destino. Come il pianoforte per il musicista, come la tela per il pittore. Avete presente l’odore dei libri e della carta? “Trent’anni della mia vita li ho buttati, per altri cinque ho dormito, e gli altri, finalmente li ho vissuti”, raccontaci, in primis, chi è Walter Pozzi? La frase, per quanto brutalmente riassuntiva, caratterizza molto il mio percorso intellettuale. Trent’anni sono quelli vissuti nel condizionamento, legato all’educazione familiare e all’addestramento/indottrinamento scolastico. Devo ammettere che uscirne non è stato facile, soprattutto dall’ampia serie di condizionamenti imposti dalla disciplina e dalla logica scolastiche. Comprendere che la vera funzione della scuola è quella di porre (e di imporre con ‘violenza’ attraverso la dinamica del voto e della promozione) agli studenti le basi culturali e gli automatismi di ragionamento di qualunque loro futuro percorso di pensiero, di scoperta del mondo e di crescita, è stata la più grande sfacchinata della mia vita. In questo percorso di coscienza mi hanno aiutato il fatto di non essere stato uno studente modello – ha contribuito una certa attitudine all’indisci-
plina ereditata da mio padre – e alcuni incontri importanti, tra i quali quello con il mio primo editore e il confronto con scrittori conosciuti in casa editrice. Nel frattempo ho scritto e pubblicato tre romanzi e ho cominciato l’attività, che svolgo tuttora con piena soddisfazione, di insegnante di scrittura creativa, in corsi presso la biblioteca di Monza e nella scuola che ho fondato nel 2003 a Milano. Quest’ultima è una realtà articolata, un progetto che nel tempo si è approfondito e ampliato: al corso focalizzato sull’arte del romanzo, infatti, modulato su più livelli di approfondimento, si è affiancato un corso di sceneggiatura, tenuto da Davide Pinardi, e sto organizzando un corso di giornalismo d’inchiesta che partirà il prossimo anno. Ho letto che sei stato un istruttore di tennis, uno sportivo quindi, come sei arrivato dalla racchetta alla penna? Quella del tennis è stata una passione giovanile che mi ha tenuto compagnia fino ai trent’anni, e devo dire che l’agonismo è stato una buona palestra. Mi riferisco in particolar modo alla componente psicologica di questo sport. Nella fatica del corpo e nel confronto con l’avversario, l’impegno della mente diviene un supporto fondamentale. Si impara a conoscere i propri limiti e a supe-
[ RACCONTIAMOCI ] rarli. La partita è un corpo a corpo estenuante con l’altro. Sia dal punto di vista fisico che strategico: un’esperienza di poco più di un’ora che ti costringe a conoscere il tuo avversario (sotto il profilo sportivo: tecnico, quindi, e psicologico) molto in profondità. Sostituendo la racchetta con la penna, mi sono reso conto che la differenza tra un atleta e un artista non è poi molta. Non ci si dà meno durante la stesura di un romanzo o di un racconto. Anche qui è un rapporto a due molto conflittuale. Il libro, così come l’avversario, diventa una sorta di doppio che a volte conquisti e altre volte ti sfugge. Ammetto tuttavia che la componente intellettuale, assente nello sport (in cui il gesto tecnico mira all’automatismo, quindi, a svuotare la mente), rende la scrittura un’esperienza unica e profondamente formativa per un individuo. Uno scrittore è un essere affamato di sapere, di realtà, di vita. E in più, rispetto all’atleta agonista, non mira ad abbattere un avversario e non ha ambizioni competitive, bensì fa del confronto un’esperienza formativa da condividere con la collettività. Domanda simbolica: Federer o Nadal? Federer è tecnica e strategia mentre Nadal è resistenza e tenacia. Occorrono entrambi nel bagaglio di uno scrittore. Parliamo del tuo corso di scrittura presso la Biblioteca Civica di Monza, come si insegna a scrivere? La scrittura è un dono, un istinto o un mestiere che si può imparare? Alla Biblioteca civica di Monza e alle persone che vi lavorano devo moltissimo. Sono quindi legato ai corsi della biblioteca per una questione affettiva oltre che professionale. È proprio alla civica che ho iniziato l’attività di insegnante, nel 2000. La scrittura è un dono, di sicuro, ma anche mestiere e tante altre cose. Difficilmente si diventa bravi scrittori senza possedere degli strumenti di analisi della società in cui si vive. Senza sapere che noi, in quanto individui che si relazionano e che agiscono, produciamo significati. In qualunque momento della nostra giornata: dalla scelta dei vestiti a quello che diciamo. E avendo la scrittura a che vedere con il comportamento uma-
no, con il vivente, inevitabilmente mette in scena un’interpretazione dell’esistente, si inserisce nel tessuto culturale (e, quindi, sociale), contribuendo alla formazione di modelli e di analogie nella testa del lettore. Per questo, scrivere è un atto di profonda responsabilità. Per scrivere, quindi, occorre avere alle spalle un’importante formazione intellettuale. La tecnica, per rispondere alla domanda, è, a sua volta, molto importante, e il suo insegnamento è ciò di cui mi occupo. Il dubbio che circonda le scuole di scrittura creativa è se si possa insegnare a scrivere. La mia risposta, per forza di cose, è sì. Tra le mie attività, una parte rilevante è quella di direttore editoriale di una rivista di analisi politica, sociale e culturale, Paginauno, che riserva uno spazio alla pubblicazione di racconti inediti. Mi capita, quindi, di leggere molti elaborati inviati alla redazione, la maggior parte dei quali, purtroppo, per quanto ben scritti, non sono pubblicabili. Difettano proprio da un punto di vista tecnico. Sono privi di conflittualità, di forma narrativa e di potenza metaforica. Per un’opera di narrativa è un bel guaio. Ecco, potrei dire che un corso di scrittura creativa, prima ancora di insegnare la tecnica, deve fare comprendere a un aspirante scrittore che esiste una tecnica. Che scrivere non ha nulla a che vedere con la scrittura sciamanica o con l’ideale romantico dello scrittore seduto sotto una pianta, catturato dalle suggestioni di un bel paesaggio, in attesa dell’ispirazione. Emozioni, osservazioni, sentimenti, ricordi, alla fine devono essere canalizzati all’interno di un costrutto narrativo. Un concetto valido per tutte le forme della narrazione umana, che si chiamino giornalismo, cinema, pubblicità o letteratura. Tecnica o cuore, o entrambi? Entrambi, intendendo per cuore la sincerità, la voglia di darsi, di entrare nella pagina con il proprio portato emozionale. Scrivere è anche trasporto, è immedesimazione, transfert. Uno scrittore che, in questi termini, non è sincero, non vale granché. Quando e come è possibile iscriversi ad
uno dei tuoi corsi? Semplicissimo: è sufficiente telefonare alla Biblioteca di Triante, a Monza, e chiedere di iscriversi al prossimo corso che inizia a fine gennaio. Si tratta di un laboratorio di scrittura e di lettura aperto a tutti e gratuito. Meglio di così… Per quanto riguarda i corsi della scuola a Milano, invece, sul sito (www.scritturapaginauno.it) si trovano tutte le informazioni. Dai un consiglio ad uno scrittore esordiente…. Di non avere fretta di pubblicare, perché l’aspetto più importante di questo mestiere è il rapporto con quello che si scrive. La pubblicazione, semmai, è un problema di poi. D’altronde, quello dello scrittore non è certo un lavoro che dia fama o denaro, o, almeno, non lo si intraprende per queste ragioni. È un’arte, e, quindi, una passione. Una profonda relazione con se stessi, e, solo in un secondo passaggio, con gli altri. Un altro consiglio è quello di applicarsi con costanza alla scrittura. Mettercisi sopra il più spesso possibile, tutti i giorni. Allora sì che diventa un’esperienza unica, inimitabile e sempre irripetibile. Ma se non si tratta di una priorità della propria vita, tanto vale lasciar perdere. Case editrici a pagamento: una realtà dovuta alla reale crisi dell’editoria o sciacallaggio a discapito di giovani scrittori? La seconda delle due. Un editore deve investire economicamente sulla letteratura. Questo è un altro consiglio che posso dare: non pagate per pubblicare libri! Un editore serio si occupa dell’editing, della stampa (ovvero, se ne accolla le spese) e deve avere un contratto con un’agenzia che si occupi della promozione e della distribuzione dei libri. Altrimenti non è un editore, bensì uno che guadagna senza fare fatica a scapito della cultura, sfruttando l’ansia di pubblicare e l’ambizione di un aspirante scrittore divorato dal desiderio di vedere il proprio nome stampato sulla copertina del proprio romanzo. Finirà per ritrovarsi con un prodotto editoriale che non andrà mai in libreria e che, in compenso, avrà alleggerito il suo portafoglio.
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[ L’ANGOLO DEL PENDOLARE ]
ODISSEA
[ di Juri Casati ]
LETTERA DEI LETTORI
Colpo di fulmine sull’S10843 Cara redazione, vi scrivo per Federico. Il nome è una delle poche cose che ho intuito. Quello che so è che è uno studente, ogni giorno prende il treno delle 7.59 che parte da Lissone e arriva a Milano Porta Garibaldi, e, se trova posto, sale sui vagoni di testa. Io sono una “romantica pendolare” che culla il sogno di conquistare un cavaliere misterioso del quale per il momento conosce molto poco. La speranza di piacergli vive in me da quando, per la prima volta dopo un anno che salivo sul treno cercandolo, mi ha rivolto un cenno per salutarmi. Da allora lo ha fatto spesso. Indossa sempre un piumino blu North Face e porta sulle spalle uno zainetto Eastpack grigio. Recentemente si è comprato un paio di Nike nere. E legge Trantran! E così l’idea: pubblicare su questa rivista qualche riga in modo da fargli capire quanto mi piace facendo un gesto inconsueto. Dovesse leggere queste parole certamente si riconoscerebbe nella mia descrizione e, chissà... Vi prego pubblicatela! Se succedesse: Federico, io mi chiamo Giulia, sono la biondina che ti ronza attorno tutte le mattine e, ti prego, chiedimi di uscire! Giulia Villa
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La guerra di Troia era finita da un quarto d’ora. Dopo nove lunghissime ore in ufficio Ulisse poteva finalmente tornare a casa, a Itaca - nella sempre meno verde Brianza - dove lo aspettavano la moglie Penelope e il figlio Telemaco. Certo, quella sera ci sarebbe stata la scocciatura dell’assemblea condominiale, ma pazienza: sono cose che capitano. Ulisse salì sul treno delle 19.03 a Porta Garibaldi e telefonò a casa per annunciare che di lì a poco sarebbe rientrato. La moglie Penelope mise a bollire l’acqua per la pasta pensando che Ulisse quella sera avrebbe dovuto cenare in fretta e furia per via dell’assemblea condominiale. In realtà all’assemblea condominiale, oltre alla famiglia di Ulisse, partecipava di solito solo un’altra famiglia: i Proci. L’amministratore non affittava nemmeno una sala, ma si andava a turno a casa ora dei Proci ora di Ulisse. Quella sera i Proci sarebbero venuti a casa di Ulisse. 19.05: il treno non era partito all’orario stabilito, c’era un leggerissimo ritardo non segnalato. Probabilmente si trattava solo di aspettare il verde, pensò Ulisse. 19.10: sui display venivano segnalati 5 minuti di ritardo. Ulisse chiamò a casa per dirlo e Penelope abbassò il livello della fiamma sotto l’acqua. 19.22: Ulisse ed altri intrepidi passeggeri scesero dal treno fermo e chiesero a un controllore con un occhio bendato il motivo dell’ulteriore ritardo. “Nessuno!, Nessuno!” urlò istericamente quello come se fosse stato colpito a morte. A Ulisse sembrò che ce l’avesse con lui. 19.30: le porte si chiusero, ma il convoglio non partì e le porte dopo due minuti si riaprirono di nuovo. Era stato un falso allarme. Tuttavia in quei due minuti di quasi partenza Ulisse aveva telefonato a casa per annunciare il suo ritorno, annuncio che aveva portato Penelope ad alzare il livello della fiamma sotto l’acqua. 19.36: sui display venivano segnalati 45 minuti di ritardo. Tanto valeva mangiucchiare qualcosa al chiosco-bar della stazione, pensò Ulisse. Trovò altri cinquanta passeggeri che avevano fatto lo stesso ragionamento davanti al Circe’s bar che offriva gustosi pastoni di mais, foraggi e ghiande. La barista Circe guardava con occhi carichi di cupidigia i pendolari più grassi e unti che grufolavano e Ulisse pensò che fosse meglio non prendere niente perché aveva un brutto presentimento. 19.45: Ulisse ritelefonò a casa per comunicare l’ulteriore ritardo. Penelope chiuse il gas e comunicò ad Ulisse che i Proci erano arrivati con un po’ di anticipo e volevano mettere ai voti – senza conteggiare i millesimi presenti – l’installazione di un videocitofono leopardato. Ulisse chiese a Penelope di tenerli a bada in qualsiasi modo fino al suo ritorno: “Offrigli un Campari, un Cynar, la MIA pasta. Basta che non si mettano a votare”. 19.51: Penelope disse ai Proci che le votazioni sarebbero state aperte non appena fosse stata pronta la pasta, ma si dimenticò di segnalare ai Proci il particolare che il gas era spento. Ulisse intanto passeggiava nervosamente sulla banchina della stazione in attesa del fischio liberatore del capotreno. Venne avvicinato da alcune avvenenti hostess/sirene che gli proposero un pacchetto Sky a prezzi stracciati, un’offerta speciale per profughi ferroviari. Ulisse si tappò le orecchie e scappò via: era la metà del prezzo che aveva pagato lui. 20.01: a casa la situazione precipitava: il figlio Telemaco decise di andare incontro al padre in auto. Infatti i Proci volevano mettere ai voti la filodiffusione nelle cantine del condominio. 20.04: a sorpresa il treno partì per Itaca. Ulisse chiamò e lo disse a tutti. Penelope riaccese l’acqua della pasta. 20.41: finalmente Ulisse entrò a casa, stravolto. Solo il suo cane Argo gli venne incontro. C’era un silenzio spettrale. Entrò in sala da pranzo e… i Proci erano a tavola. Ulisse disse: “Per quella storia del videocitofono…”, ma i Proci lo interruppero “Prima mangiamo. A stomaco pieno si ragiona meglio”. Effettivamente fu una bella serata. I Proci poi si dimostrarono molto ragionevoli. Ulisse non riuscì a capire solamente una cosa: perché i Proci avevano quei segni rossi in faccia?
[ DI TUTTO UN PO’ SVAGO GIOCHI CURIOSITà ]
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GESTIRE IL PROPRIO STACK [ rubrica a cura di UTGaber ] Uno degli aspetti più importanti per risultare vincenti nel gioco del poker è un’appropriata gestione del proprio stack. Che si tratti di un torneo multitable con migliaia di partecipanti o di un più breve sit’n go da un solo tavolo è di fondamentale importanza saper tenere sotto controllo il proprio patrimonio di chips in relazione a fattori diversi e mutevoli. Giocando online il server ci fornisce costantemente importanti indicazioni sull’andamento del torneo e possiamo facilmente verificare il numero di giocatori rimasto, lo stack massimo, il minimo e la media degli stack (average). Controllare l’average è importante perché bisognerebbe cercare di non scendere mai al di sotto di quella cifra, ma è altrettanto importante non lasciarsi prendere dall’ansia di salire in chips e giocare ben concentrati su quanto accade al nostro tavolo. Certamente è bene tentare di portarsi via qualche piccolo piatto e rubacchiare ogni tanto i bui, in modo da non scendere mai troppo sotto la media, ma non deve essere un’ossessione. Soprattutto non bisogna mai rischiare di compromettere il proprio torneo insistendo nello scommettere una quantità sproporzionata di chips in una mano mediocre. Non bisogna avere fretta di guadagnare. In generale è meglio accontentarsi di vincere tanti piccoli piatti piuttosto che rischiare di perdere molto in una mano sola. Riflettiamo bene prima di chiamare un all in di uno short stack. Facilmente potrebbe avere una mano migliore della nostra, e se perdendo questa scommessa scendiamo sotto i 15 BB rischiamo seriamente di complicarci la vita. Non bisogna invece avere timore nel rilanciare una buona starting hand contro lo stack massimo, soprattutto se ha mostrato un gioco loose entrando in parecchi piatti. Quando decidiamo di fare una determinata azione dobbiamo sempre pensare alle possibili conseguenze che ne potranno derivare. Se decidiamo per esempio di aprire una mano con un classico rilancio 3x nel tentativo di rubare i bui ai giocatori alla nostra sinistra che sappiamo essere molto conservativi, dobbiamo sempre tenere presente che potremmo trovarci di fronte ad un controrilancio che ci costringerebbe probabilmente al fold – ammesso che non abbiamo una vera e propria mano giocabile. Una simile mossa va benissimo se una perdita di tre bui non è significativa in relazione al nostro stack, sarebbe invece una pessima mossa qualora ci trovassimo in una condizione di short stack. Nell’approssimarsi della bolla può diventare fondamentale controllare lo stack minimo per cercare di capire in quante mani si potrebbe arrivare
Mini Glossario Pot-Committed La situazione in cui non è più possibile foldare perché la dimensione del piatto è enormemente superiore a quella del proprio stack. Stack Puglia o Stecca. Il totale delle chips possedute da un giocatore in un dato momento. Trips Si dice di un tris realizzato combinando una carta in mano e due carte sul board. Se invece una coppia in mano trova una carta per il tris sul board si dice set. a premi, così come può essere una buona idea, nella fase finale del torneo, dare un’occhiata al gioco del chip leader (qualora sieda in un tavolo diverso dal nostro) per farci un’idea di chi probabilmente ci troveremo di fronte giunti al tavolo finale. Un parametro che invece non deve mai sfuggire al nostro controllo è la proporzione tra il nostro stack e il livello dei bui. Se è auspicabile mantenere il proprio stack sopra l’average, è invece cruciale non cadere mai al di sotto di un certa proporzione con il valore del grande buio. Se il nostro stack si riduce al di sotto di 10/12 BB, situazione classica di short stack, non avremo chips sufficienti per condurre adeguatamente una mano e ci troveremo costretti a cambiare completamente il nostro gioco. In una simile situazione dobbiamo pensare di avere una sola mano giocabile, il che fondamentalmente ci obbliga a giocare “push or fold”, ovvero “spingi o passi”, per cui andremo praticamente sempre all in se decideremo di entrare in una mano, o viceversa passeremo tutte le altre volte. In caso di short stack diventa di fondamentale importanza il calcolo del cosiddetto “fattore M”, che ci indica quante mani possiamo ancora giocare prima di venire “erosi” completamente dai bui. Da non confondere con il rapporto stack/BB, il fattore M si ottiene dividendo il proprio stack con il valore del piatto prima dell’apertura del gioco, quindi la somma di SB, BB ed eventuali Ante. Moltiplicando il fattore M per il numero di giocatori al tavolo sapremo per quante mani rimarremo in gioco mantenendo un atteggiamento totalmente passivo (ammesso che non si innalzi il livello dei bui), e questo può aiutarci a prendere una decisione su quando sia il momento giusto per giocarsi il tutto per tutto. Situazione ben più auspicabile di quella fin qui descritta è invece quella opposta, quella cioè del chip leader – ovvero del giocatore con lo stack più alto. Potendo contare sulla forza implicita
di uno stack più grande di quello dei nostri avversari abbiamo una potente arma in più. Il rapporto tra il nostro stack e quello degli altri giocatori è infatti un elemento cruciale per prendere una decisione corretta in un momento difficile. Nel caso ci trovassimo ad essere chip leader del nostro tavolo è importante riuscire a sfruttare la possibilità di intimidire gli altri giocatori e mettere maggiore pressione al tavolo. Controrilanciare un raise da fuori posizione di uno stack medio può in generale essere un’ottima giocata, ma facciamo attenzione a non allargare troppo il range di mani con cui entrare in gioco e sicuramente cerchiamo di evitare di chiamare un all in di uno short stack, a meno di avere in mano due ottime carte. In definitiva, come già si accennava nello scorso appuntamento, le chips del chipleader valgono significativamente meno di quelle in mano ad uno short stack. E sicuramente non vorremo far raddoppiare un giocatore con altissime probabilità di essere presto eliminato. Torneremo nuovamente ad approfondire questo argomento, ma giunti in chiusura non possiamo far mancare le nostre congratulazioni a Filippo Candio, quarto classificato al main event WSOP 2010, che ha così vinto la non indifferente cifra di oltre tre milioni di dollari. Complimenti quindi a Filippo che ha rappresentato i colori nazionali al tavolo finale del più importante torneo di poker al mondo, le World Series Of Poker, che nell’edizione 2010 appena conclusa ha visto ben 7316 partecipanti versare un buy-in di $10.000 per contendersi il primo premio di quasi $9M andato quest’anno per la prima volta ad un canadese: Jonathan Duhamel.
Sudoku
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[ DALLA PROVINCIA.. ]
Crisi industriali in Brianza
dalla Provincia MB due bandi per sostenere l’occupazionE
Sono online sul sito della Provincia www.provincia.mb.it due nuovi bandi per promuovere azioni a sostegno dell’occupazione in Brianza Il primo avviso riguarda “incentivi all’assunzione di lavoratori svantaggiati coinvolti in processi di crisi aziendali” con l’obiettivo di favorire il reinserimento dei lavoratori over 45 in cassa integrazione straordinaria o disoccupati a seguito di licenziamento e iscritti alle liste di mobilità, coinvolgendo direttamente le imprese del territorio. Possono presentare la domanda tutti i datori di lavoro privati, con sede operativa nella Provincia, per l’assunzione di lavoratrici e lavoratori svantaggiati. Per l’assunzione a tempo indeterminato è previsto un contributo di 2.500 euro; di 1400 Euro per l’assunzione invece a tempo determinato superiore a 12 mesi. L’incentivo si riferisce ad
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assunzioni a tempo pieno e sarà erogato dalla Provincia al termine del periodo di prova. Per questo avviso – valido fino ad esaurimento dei fondi – sono stati stanziati circa 57.000 Euro. Il secondo avviso riguarda la “costituzione di un catalogo provinciale per la realizzazione di interventi di politica attiva del lavoro e formazione a favore di lavoratori coinvolti in processi di crisi aziendali ed occupazionali”, con l’obiettivo di favorire l’erogazione di servizi di politiche attive del lavoro attraverso la dote lavoro, in accordo con quanto stabilisce la legge regionale 22/06. Questo bando vuole promuovere il reingresso nel mercato del lavoro di quanti si trovano in cassa integrazione straordinaria a rischio di espulsione o disoccupati a seguito di licenziamento e iscritti alle liste di mobilità . Possono partecipare all’avviso i soggetti accreditati dalla Regione Lombardia per i servizi al lavoro, all’istruzione ed alla formazione professionale con sede accreditata nella Provincia. Il percorso individuato dovrà sostenersi con un costo massimo di 1.056 Euro a persona, per un totale di 34 ore a 32 euro all’ora (tariffa a costo standard). Per questo avviso – valido fino ad esaurimento dei fondi – sono stati stanziati oltre 84.000 Euro. Sono previsti altresì rimborsi alle imprese per la realizzazione di interventi formativi “on the job” a favore di lavoratori destinatari di dote assunti a tempo indeterminato o determinato superiore a
12 mesi, per un monte ore massimo di 80. Per questi interventi formativi sono stati stanziati circa 82.000 Euro. “Vogliamo dare una chance in più alle persone che hanno perso o rischiano di perdere il posto di lavoro, favorendo il loro reinserimento oggi così drammaticamente problematico soprattutto per la fascia di età che va dai 40 ai 50 anni - spiegano Dario Allevi, Presidente della Provincia MB e Giuliana Colombo, Assessore al Lavoro - Prosegue, così il sostegno concreto della Provincia verso i lavoratori e le aziende in difficoltà a causa della crisi economica: in tema di occupazione siamo impegnati su tutti i fronti, dalla formazione alle politiche attive del lavoro, per cercare ogni strada possibile per ripartire”. Info e modulistica per presentare le domande: www.provincia.mb.it/lavoro
MONZA
[ DAL COMUNE... ]
La Raccolta differenziata Nel 2009 al Comune 1 milione di euro dalla cessione dei rifiuti
Positivi i risultati quantitativi ed economici che sono stati ottenuti dalla raccolta differenziata in città nell’ultimo anno. Questo è quanto emerge dai dati in possesso dal Servizio Ecologia del Comune. Per quanto concerne invece la qualità della differenziata si sono evidenziate delle percentuali di materiale non idoneo nelle diverse categorie di rifiuti. Gli ultimi dati disponibili riguardano il 2009 ed evidenziano che con la cessione dei rifiuti ai Consorzi e ai privati, il Comune di Monza con la percentuale di raccolta differenziata del 54%, ha introitato proventi pari a € 1.042.716,68 così suddivisi: • 586.784,05 dal recupero della plastica; • 210.728,01 dal recupero di carta e cartone,
• 158.334,39 dal recupero del vetro; • 41.730,00 dal recupero del ferro; • 23.098,00 dal recupero delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, • 8.682,89 dal recupero dell’acciaio, • 8.648,04 dal recupero dell’alluminio; • 4.711,17 dal recupero del legno. Questi corrispettivi sono, per la maggior parte dei casi, calcolati sulla base di fasce di qualità che misurano omogeneità e presenza di materiali estranei non riciclabili. Maggiore è la fascia di qualità, maggiore è il materiale avviato a recupero, maggiore è il corrispettivo economico riconosciuto al Comune. “Questi dati sono la prova evidente che la raccolta differenziata non solo è utile per il risvolto ecologico e ambientale, ma anche per un con-
creto ritorno economico soprattutto in tempi in cui le casse comunali soffrono. La quantità dei rifiuti differenziati raccolti rispetto all’indifferenziato è indubbiamente positiva e migliora di anno in anno - afferma l’Assessore all’Ambiente Giovanni Antonicelli - . L’attenzione ora è da puntare sulla qualità della raccolta dato che, da un’analisi campione effettuata sulla differenziata, si sono evidenziate diverse irregolarità soprattutto per il secco e a seguire per la plastica e le lattine”. Le analisi merceologiche condotte dal Consorzio Provinciale della Brianza Milanese per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a partire dall’inizio del 2010 sui conferimenti di Monza hanno infatti messo in evidenza in particolare una media di frazione estranea pari al 27% nel sacco giallo relativo alla raccolta di plastica e lattine. La situazione è invece migliore per quanto concerne la raccolta della carta e cartone per le utenze domestiche dove la media di frazione estranea è risultata pari al 2,65%, un buon risultato da mantenere poiché superata la percentuale del 3% si esce dalla fascia di buona qualità. Nella raccolta del solo cartone che viene effettuata nel centro storico per i negozianti, la media della frazione estranea è del 4,29%. Si evidenziano anche grossi quantitativi di carta che, in questo caso, deve essere raccolta separatamente e non congiuntamente come per i cittadini. Per quanto riguarda la frazione secca residua indifferenziata una verifica condotta dal Consorzio il 7 ottobre 2010 su un campione di Monza di 209 Kg, ha messo in evidenza la forte presenza di carta e cartone (31,53% in peso del campione analizzato) imballaggi in plastica (13,01%) oltre che di frazione organica (6,4%), ma anche vetro, fiori recisi, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, tessili ecc che andrebbero correttamente conferiti in modo differenziato. “La soglia di attenzione nello smistamento dei rifiuti - commenta l’Assessore Antonicelli deve essere necessariamente aumentata per ottenere risultati apprezzabili sia dal punto di vista ecologico sia da quello economico. Chiediamo un impegno ai monzesi e, da parte nostra, ci attiveremo per proporre eventi e manifestazioni di sensibilizzazione della cittadinanza su queste tematiche”.
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[ SPORTIVAMENTE ]
Pistaaaaaa! Arriva Gus Gus [ di Niccolò Rossi
foto di Ilenia Arosio
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A Birone di Giussano, poco lontano da Monza, considerata da sempre la città della velocità in tutto il mondo grazie al suo magnifico autodromo, è in fase di costruzione Gug Gus, l’auto che tenterà di stabilire il record di 500 km all’ora per vetture a motore aspirato fino a 4000 cc. Gus Gus è in assoluto la prima automobile italiana che si presenterà a Bonneville, la località diventata famosa nel mondo per i record segnati attorno agli anni 30 da Sir Malcolm Campbell, per tentare un record di velocità nella categoria principale che è denominata STREAMLINER. Il fautore di questo arduo progetto è Fabio Montani, 51 anni, che è sempre stato in sintonia con i motori, visto che ha disputato come gentleman driver numerosi campionati statunitensi e mondiali per vetture sport prototipi dal ’96 al 2002. Nel 2000 il suo team R&M ha vinto la 1000 Km di Monza con i piloti Mauro Baldi e Gary Formato .La vettura era una RileyScott MkIIIB Judd. Il gruppo che lo sta aiutando in questa impresa è composto da Mario Villa, costruttore e titolare dell’officinaLa Fenice, Francesco Fuser, detto “Fusibile” per le sue straordinarie capacità elettroniche, e Luca Piancastelli, ingegnere progettista. Montani tenterà di battere con la sua auto “Gus Gus” il record che attualmente, per la sua classe, è di 460 km/h ed è stato stabilito nel 2003, durante la celebre “Speed Week”: qui, come ogni anno in agosto, più di 600 appassionati di motori si danno appuntamento sulla superficie del famoso Lago Salato di Bonneville, nello stato dello Utah (Usa). Lei abita a Bergamo con la sua famiglia e lavora per una multinazionale dell’acciaio, come le è venuto in mente di partecipare a questa sfida? Alcuni anni fa sono stato a Bonneville per curiosità, spinto dalla mia passione insaziabile di automobili e velocità. Un paesaggio fantastico: chilometri e chilometri ricoperti di sale bianchissimo. Nei mesi invernali l’acqua si accumula per poi evaporare con l’arrivo dei venti estivi. Il risultato è una distesa di sale ben levigata dove non cresce nessun tipo di vegetazione. Qui ho incontrato persone di ogni tipo che avevano in testa una sola idea: spingere al limite della mas-
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sima velocità auto, moto, camion e soprattutto se stessi, che per ogni concorrente è la sfida più importante. Allora mi sono chiesto: perché non provare a battere un record? Consultandomi con i miei cari amici Mario e Luca, abbiamo deciso di dare il via al progetto attorno alla primavera del 2007. La sua automobile è oramai a buon punto. Quando avverranno le prime prove su pista? L’auto si può considerare completa ed effettueremo dei test preliminari in dicembre e aprile sulla pista di un aeroporto militare, ma si tratta di test limitati alla funzionalità della meccanica e non svilupperemo velocità troppo elevate. In Italia non esistono piste come il deserto salato di Bonneville che copre una superficie di 400 chilometri quadrati senza alcun tipo di vegetazione o ostacoli. E qui, ad agosto, via a manetta! Ci parli dei dati tecnici della sua “Streamliner”: come deve essere fatta per regolamento? Per definire uno Streamliner secondo i regolamenti tecnici, servono sostanzialmente quattro ruote coperte, un motore a pistoni - Gus Gus utilizza un motore Chevrolet V8 di formula Indy alimentato a metanolo che sprigiona una potenza di 750 cavalli – e la trazione sulle ruote tramite un cambio (il nostro è a 6 marce), oltre ai requisiti di sicurezza richiesti, come la presenza di due paracaduti per frenare il veicolo alla fine della prova. Gus Gus è lungo circa 8 metri con telaio in tubi d’acciaio, scocca in carbonio e costruzione anteriore portante in alluminio. La partenza avverrà a spinta, dato che la prima marcia raggiunge i 250 km\h. Come allena il fisico per le altissime velocità? Non c’è bisogno di un vero e proprio allenamento, o meglio, io personalmente non mi sto dedicando a nessun tipo di attività fisica specifica in previsione del tentativo di record. Certo, bisogna abituarsi al torrido clima, che talvolta raggiunge picchi di 38-39 gradi e all’ambiente claustrofobico della vettura, combinato alle strette cinture e alla spessa tuta ignifuga. Diciamo che, anche se ogni singola prova dura in tutto un minuto e mezzo, con 20 secondi di velocità massima,
sarà un grande sforzo fisico! La sua famiglia è pro o contro a questa sua nuova sfida? Essendo un pilota da più di trent’anni mia moglie ormai ha rinunciato a distogliermi dal mondo automobilistico. Mia figlia invece sembra incitarmi a questa mia passione. Basti pensare che Gus Gus è il nomignolo che lei mi ha dato. E i suoi amici cosa dicono? Parlano di questa nuova avventura come un qualcosa di marziano e pericoloso, ma sanno che sono in grado di affrontare anche questa e così appoggiano la mia impresa: forse alcuni di loro mi seguiranno anche in Utah ad agosto. Sarebbe ovviamente molto importante per me. Quale sarà il premio in palio a chi batterà il record attuale? Una modesta coppa e una stretta di mano. Diciamo che il premio più grande per tutti noi partecipanti è la soddisfazione di vedere il proprio veicolo sfrecciare su quella vasta distesa di sale, chi più velocemente e chi meno.
[ LE SCIURE ]
[ Studio sociologico maschile ]
Care Sciure, sono una ragazza di 24 anni carina e single. Ultimamente un ragazzo mi ha corteggiata, come non accadeva da tempo: mi ha sempre riaccompagnata a casa anche se avevo la mia macchina,scortandomi fino al portone, mi ha riempita di mail e complimenti. Lui è molto carino ed io, che sono timida, finché le mie amiche non mi hanno fatto notare il suo particolare interesse nei miei confronti, non mi ero accorta di niente. Le sue attenzioni nei miei confronti si sono protratte per mesi e mesi, finché un giorno, ci siamo trovati soli a casa sua. Io, certa che lui fosse cotto a puntino, ho provato a baciarlo. Risultato? Si è scansato e mi ha detto che non voleva rovinare la nostra splendida amicizia. Ok, ho pensato, avrò capito male. Ma il giorno dopo mi sono trovata una sua mail d’amore su facebook. Ma come caspita ragionano gli uomini? Silvia affranta Cara Silvia, se fossimo in grado di rispondere alla tua ultima domanda, saremmo entrate di diritto nel novero dei Sapienti e degli esperti in fantascienza! Tante volte anche noi ci siamo poste la medesima questione e, il risultato delle nostre disquisizioni è sempre stato: arrivano da un altro mondo! Penso che questa sia una di quelle domande che per noi donne non avrà mai risposta! Tuttavia rispetto al tuo caso specifico mi vengono due risposte da darti che nascono entrambe dall’insicurezza: o questo ragazzo è uno di quelli alla continua ricerca di conferme o è un vile. Il fatto che il giorno dopo ti abbia mandato una mail d’amore, mi fa propendere per la seconda categoria ma, potrebbe anche essere, una nuova tipologia di sdoppiamento della personalità maschile, sviluppatasi insieme all’evoluzione della specie. In ogni caso sta a te cercare di capire se tieni a mantenere un rapporto d’amicizia con lui, nel qual caso, sii molto chiara, magari comunicandogli che le mail d’amore non fanno
parte di una “splendida amicizia” ma possono generare degli equivoci e che, quindi, tu non le gradisci (che ingrate che siamo)! Se invece non pensi che un esserino così contradditorio ti possa interessare, allora, la soluzione è una sola: ignoralo, lascialo nel suo brodo e vedrai che a quel punto sarà costretto a svelare la sua vera natura e il suo reale interesse nei tuoi confronti. Che giochi con qualcun’altra! Un bacio Le Sciure P.s. Aspettiamo di sapere come andrà a finire ci serve per il nostro studio sociologico in merito! Grazie Paola e un bacione!
[ Gli ufo siamo noi…. ]
Care sciure, leggo sempre con estremo piacere la vostra rubrica Spunti di Vista perché è una delle poche fra le tante in cui mi capita di incappare (leggo tonnellate di riviste ogni settimana) da cui realmente riesco ad attingere argomenti di riflessione e non solo le mere opinioni di chi scrive, come accade il più delle volte. L’ultimo articolo apparso in cui si parlava della notizia “bufala” secondo cui ONU avrebbe nominato un ambasciatore per gli Affari dello Spazio Extra-atmosferico ha tenuto banco per tutta un’animata cena fra amici: bravo Trantran, continua a farci pensare, continua a farlo gratis! Giuliana Cara Giuliana, grazie davvero per quello che ci scrivi, ci fa molto piacere anche perché è proprio quello che volevamo offrire, qualcosa su cui pensare. Ci fa molto piacere anche sapere di essere stati ad una bella cena in compagnia dei tuoi amici: cercheremo di trovare molti altri argomenti per fare due chiacchiere con voi!
[ NATALE CON I TUOI…
SCAPPA FINCHE’ PUOI ]
Care sciure, la scorsa estate, per motivi di lavoro, sono stato costretto a saltare completamente le ferie. Poco male, mi sono detto, sarà l’occasione per fare quest’inverno un viaggio che pianifico da tempo in Centro America, on the road attraverso Beli-
ze, Nicaragua fino a Panama! La mia ragazza, d’accordo con me ha rinunciato alle ferie estive per consumare tutti i giorni di vacanza nella nostra sognata e mai realizzata avventura. Tutto pronto, tutto pianificato: partenza il 7 dicembre e rientro a metà gennaio. Solo che a questo punto sono iniziati i problemi. La mia adorata quasi suocera ha iniziato a simulare svenimenti e crisi di panico al solo pensiero di trascorrere le feste natalizie senza la figlia. Pianti, lacrime ed ogni bieca forma di ricatto morale per indurre Veronica (la mia ragazza) a rinunciare al viaggio. Lei (Veronica), ovviamente, è caduta nella tela materna ed ora non se la sente più di partire. Io, dal canto mio, mi rifiuto di rinunciare ai miei progetti solo per un capriccio di sua madre, con la quale lei ancora vive e che vede, dunque, tutti i giorni. Io sono disposto a partire anche da solo ma Veronica sostiene che io sia un egoista. Che fare? Cristian Caro Cristian, sicuramente in questa vicenda l’egoismo la fa da padrone ma non penso propri che l’egoista sia tu che hai, invece, il ruolo di vittima di un duplice ricatto: palese ricatto della madre verso la figlia ma anche ricatto che implicitamente Veronica muove a te tentando di colpevolizzarti. Se, come immagino, non vi è proprio possibile posticipare la partenza, la sola soluzione possibile credo si quella di fare ragionare la tua ragazza. Dovrebbe cercare di dialogare con sua madre fino a farle capire che è davvero un peccato costringervi a rinunciare alla partenza pianificata solo per il puntiglio di riunire l’intera famiglia il giorno di Natale. L’unione e l’affiatamento di un nucleo famigliare non si misurano certo in banchetti. L’amore e il rispetto reciproco si manifestano in molti altri modi, primo fra tutti la comprensione delle esigenze (anche di svago e di “fuga”) di chi diciamo di amare. Sono certa che se Veronica le parlerà con calma e sincerità sua madre finirà con l’augurarvi buon viaggio.
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