Mostra
DAGLI OGGETTI
AI GESTI
DELLA TRADIZIONE pearlsofmemory
FROM OBJECTS
TO TRADITION’S GESTURES
A terra mea vere, a terra jaspra meje, c’avaste picca rùzzene d’a zappe cu ttorne n’ata vote sarvagge cu lle vasapiete i lle sccrasce; a terra c’u coru mije agghjuse, udiate cu ttuttu u bbene de totta l’aneme, u sangu mije ambunne. Ca riumésce amarore de fele, ca nange jave forze manghe jasce cu ccange, angandate jind’a morte de ggne ggiurne come a nna véstia malate sobbe ô stagghje totta lassate a lla tambe i ô sulenzie d’u scure. Pietro Gatti, A terra meje
La terra mia vera, la terra mia aspra, che basta poca ruggine alla zappa, perché torni un’altra volta selvatica, coi baciapiedi e le scresce; la terra col cuore mio rinchiuso, odiata con tutto l’amore di tutta l’anima, il sangue mio profondo. Che rumina amarezza di fiele, che non ha forza neppure per mutar giacitura, attonita nella morte d’ogni giorno, come una bestia malata sullo stabbio, prostrata nel tanfo e nel silenzio del buio. Pietro Gatti, A terra meje
INDICE
> PREFAZIONE > LA CHIAVE > IL PROGETTO
6 8 10
> INTRODUCTION > THE KEY > THE PROJECT
7 8 13
> ARTIGIANI
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> ARTISANS
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- l’uomo con la pala e la donna con il cucchiaio - gli oggetti degli artigiani
> CONTADINI
- territorio - enfiteusi - gli oggetti degli artigiani
17 19
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> CIBO E CULTURA
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> GLI OGGETTI DELLA VITA QUOTIDIANA
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> L’USANZA DELLA QUARANTANA NEI PAESI DELLA VALLE D’ITRIA
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> LE FOTO STORICHE
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> I VIDEO RACCONTI
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> CREDITI
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- riti e magia popolare
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- the man with the shovel and the woman with the spoon - Artisan tools
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> FARMERS
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> FOOD AND CULTURE
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> EVERYDAY OBJECTS
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> THE QUARANTANA’S CUSTOM IN THE VALLE D’ITRIA VILLAGES
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> HISTORICAL PHOTOS
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> VIDEO STORIES
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> CREDITS
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- the area - enphyteusis - farmer tools
- rituals and folk magic
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prefazione
Museo, ovvero “luogo sacro alle Muse”. Una fonte di ispirazione straordinaria deve aver illuminato i curatori di questa mostra che, non senza afflato poetico, s’intitola “Perle di memoria”. Nell’ex Chiesa di Sant’Anna, edificio misterioso e ieratico, riscopriamo gioielli rari che scavano fra i nostri ricordi e illuminano il futuro. Un percorso filiale che ci restituisce le nostre radici nella loro abbacinante bellezza. Brilla in questa mostra la straordinaria cultura meridionale, troppo spesso esiliata in un immeritato angolo buio della storia. La memoria, nel museo narrativo, abbandona il comodo approdo della riesumazione e non si lascia solleticare dalla malinconia dei laudatores temporis acti. La memoria diventa avvenire, si priva di ogni orpello formale e si accende di un’affascinante forza espositiva attraverso l’uso sapiente della tecnologia. In questa terra strappata alla pietra si è forgiato quel “popolo di formiche” raccontato da Tommaso Fiore. Qui vivono “le facce dolenti del Sud”, i contadini temprati dalla fatica, gli artigiani che altrove chiamerebbero artisti. Nel museo narrativo trovano dignità d’arte professioni ormai trascurate: il sarto, il calzolaio, il trainiere, la ricamatrice, il trullaro. I suoni, i colori, i gesti e le tecniche di questi mestieri quasi perduti rivivono in questa mostra. Come l’Araba Fenice, pronti a rinascere. Mestieri forti come il fragno, la nostra “quercus troiana” misteriosamente arrivata qui dall’Oriente, dalle sponde dell’antica Troia.
All’ombra della quercia si riassapora il gusto delle fave accompagnate dagli acini di fiano, perle profumate, frutto del lavoro di contadini che accarezzano i tralci come fossero figli. “Non è il mondo di ieri, ma non è ancora il mondo d’oggi”, scriveva Guido Piovene dopo aver conosciuto la Valle d’Itria durante il suo grande viaggio al Sud. Il merito di questo museo è proprio questo: librarsi a mezz’aria, tra le radici e le ali, fra il rigore della ricerca storica e la proiezione al mondo digitale. Ha qualcosa di estremamente poetico questo museo, una festa dello spirito contro la ferialità dei giorni di prosa. È un balsamo per l’anima, un unguento che cura l’indelicatezza del nostro tempo e che racconta la dolcezza di una povertà dignitosa e felice. I silenzi di queste stanze ridestano i sensi del passato perduto, e oggi ritrovato, sulle orme degli uomini e delle donne che hanno reso la Valle d’Itria una terra fatata. “Qui nessuno è senza radici”, osò dire il grande poeta David Maria Turoldo durante la sua visita in Puglia. Aveva ragione. Si può essere senza radici altrove, non qui. Questo museo che oggi presentiamo rinfranca lo spirito e concede al visitatore la straordinaria possibilità di viaggiare nel tempo con un approccio futuristico. “Perle di memoria” è un atto d’amore che l’associazione “Il Tre Ruote Ebbro” ha voluto consegnare alla città. A loro, a quei ragazzi che credono ancora nella bellezza, va la nostra profonda gratitudine.
Valerio Convertini
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introduction Museum or “sacred place to the Muse”. An extraordinary source of inspiration must have enlightened the curators of this exhibition, who, not without poetic afflatus, called it “Pearls of Memory”. In the former Church of Sant’Anna, a mysterious and hieratic building, we rediscover rare jewels that dig through our memories and illuminate the future. A filial journey that returns our roots in their dazzling beauty. Shines in this exhibition the extraordinary southern culture, too often exiled in an undeserved dark corner of history. Memory, in the narrative museum, abandons the comfortable landing of exhumation and does not allow itself to be tickled by the melancholy of laudatores temporis acti. Memory becomes the future, is devoid of any formal pinchbeck and kindles with a fascinating exhibition strength through the clever use of technology. In this land torn from the stone was forged that “people of ants” told by Tommaso Fiore. Here “the sore faces of the South” live, the peasants hardened by toil, those artisans who would elsewhere be called artists. In the narrative Museum, the nowadays-neglected professions find the dignity of the art: the tailor, the shoemaker, the trainiere, the embroiderer, the trulli maker. The sounds, colors, gestures and techniques of these almost lost crafts relive in this exhibition. Like the Arabian Phoenix, ready to reborn. Strong crafts like the fragno, our “quercus troiana” mysteriously arrived here from the East, from the shores of ancient Troy. In the
shadow of the oak, the flavors of the fava beans are accompanied by the grapes of fiano, fragrant pearls, and the outcome of the work of peasants caressing the branches as if they were children. “It is not the world of yesterday, but it is not yet the world of today,” wrote Guido Piovene after having known the Itria Valley during his grand tour to the South. The merit of this museum is right this: Hover in mid-air, between roots and wings, between the strictness of historical research and the projection to the digital world. This Museum has something extremely poetic, a feast of the spirit against the ordinariness of the days of prose work. It is a balm for the soul, an unguent that heals the indelicacy of our times, tells the sweetness of a dignified and glad poverty. The silences of these rooms revere the senses of the past lost, and nowadays, found in the footsteps of men and women who made the Itria Valley a faery land. “Nobody here is without roots,” said the great poet David Maria Turoldo during his visit to Puglia. He was right. You can be without roots elsewhere, not here. This museum, which presents today, refreshes the spirit and gives the visitor the extraordinary opportunity to time travel with a futuristic approach. “Pearls of Memory” is an act of love that the association “Il Tre Ruote Ebbro” wanted to deliver to the city. To them, those guys who still believe in beauty, goes our deep gratitude.
Valerio Convertini
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LA CHIAVE THE KEY
Il concetto di chiave storicamente ha avuto molte declinazioni. Ma già gli antichi romani oltre a considerarla uno strumento indispensabile per la protezione della propria intimità, la ritenevano simbolo di fiducia e condivisione delle proprie tradizioni. Durante i matrimoni infatti, vi era l’abitudine di regalarla alla propria moglie il giorno delle nozze a delega della gestione finanziaria familiare, e a dimostrazione di stima e di fiducia (fides). Nel linguaggio informatico la chiave è un codice indispensabile alla decodificazione di linguaggi specifici. Una chiave di lettura, un elemento o una serie di elementi indispensabili per la comprensione della realtà, sia essa virtuale o fisica. In Perle di Memoria, così come nella storia millenaria dell’umanità, la chiave rappresenta entrambe le dimensioni. Da un lato è difesa delle tradizioni attraverso il recupero e la ricerca, dall’altro è l’accesso alla storia di un popolo, in un’ottica di condivisione e salvaguardia del sapere, del vissuto e della cultura dell’intera Valle d’Itria.
Historically, the notion of ‘key’ has had many meanings. Already the ancient Romans, beside considering it a tool necessary to protect one’s privacy, considered it a symbol of trust and of sharing one’s traditions. On the occasion of weddings, actually, there was the habit of gifting a key to one’s wife on the wedding day as a mandate for the management of the family’s finances and as a token of esteem and trust (“fides”). In computer language, a key is a code necessary to decode specific languages. A key element is also something necessary to understand our reality, whether virtual or physical. In Pearls of Memory, as in the age-old history of humankind, keys also represent both dimensions: on the one hand, they defend the tradition through recovery and research, on the other, they provide access to the history of a people in the perspective of sharing and safeguarding the wisdom, the past, and the culture of the whole of Valle d’Itria.
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IL PROGETTO
“Perle di Memoria” è un progetto dell’Associazione culturale “Il Tre Ruote Ebbro” finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale nell’ambito del bando “Giovani per il sociale” – plico 301 – CUP J18I15000150008
tutela e promozione del territorio attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale tangibile (beni culturali storico-artistico, beni paesaggistici e naturali) e intangibile (tradizione, folklore, enogastronomia).
É un progetto di ricerca, costruzione e restituzione della memoria storica nel territorio della Valle d’Itria. La tesi principale da cui muove è che il sapere tradizionale, mediante la trasmissione della cultura materiale che ne è l’espressione diretta, rappresenta il veicolo principe attraverso cui l’identità e la cultura di una comunità si manifesta e soprattutto si riproduce nel tempo.
Azioni di salvaguardia e valorizzazione possono attecchire e contribuire a produrre sviluppo, solo se gli attori consapevoli di simili processi sono gli abitanti, in particolare i più giovani. Per questo abbiamo realizzato un percorso laboratoriale con gli alunni dell’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore Basile Caramia e Francesco Gigante con l’obiettivo di suscitare interesse, fornire spunti di ricerca, mettere a disposizione strumenti di indagine e di lavoro. I laboratori sono stati contenitori per l’elaborazione, l’analisi e l’apprendimento in un’ottica di scambio e condivisione, veri e propri spazi di incontro e di produzione creativa.
La consapevolezza di ciò ha indotto a riflettere sulla tradizione culturale della Valle d’Itria che è strettamente connessa alle pratiche rurali di gestione del paesaggio. Inoltre il territorio si distingue per una peculiare suddivisione dello spazio urbano e rurale, il primo è caratterizzato da un’alta densità abitativa, mentre il secondo da un abitato diffuso e sparso. Questa particolarità ha determinato nel tempo una dicotomizzazione tra abitanti della campagna e abitanti del paese che ha condizionato gran parte delle pratiche d’uso e di gestione dello spazio quotidiane. L’obiettivo principale è la riqualificazione,
AZIONI DI PROGETTO
Contemporaneamente abbiamo realizzato un “Archivio Digitale della Memoria” per recuperare e conservare le memorie locali, sia in forma orale che visiva, così da poter valorizzare le specificità di contesti locali generalmente trascurati dai tradizionali percorsi di ricerca. L’aspetto principale di questa azione è la condivisone e la costruzione partecipata del patrimonio, a cui ovviamente si
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aggiunge la gestione e rilettura della propria cultura, attraverso il coinvolgimento diretto di giovani e anziani. Parte fondamentale di tale percorso è anche la restituzione delle memorie raccolte al territorio da cui provengono, attraverso specifiche strategie di trasferimento culturale che si traducono in allestimenti museali innovativi. Abbiamo voluto far uscire dalla marginalità quelle pratiche d’uso e le connesse rappresentazioni sociali, fornendo loro una nuova “ragione di vita” se così si può dire, o meglio, fornire loro lo status di museograficamente vivi, senza cadere nella solita riproposizione di rappresentazioni statiche e polverose. CHI SIAMO L’associazione culturale “Il Tre Ruote Ebbro” nasce a Locorotondo nel 2005 per rispondere ad un’esigenza di associazionismo giovanile che emerge sul territorio, con la volontà di promuovere e diffondere nuove prospettive, nonché processi sociali e culturali avvalendosi delle molteplici professionalità dei membri dell’associazione. L’obiettivo è contribuire alla creazione di una nuova sensibilità culturale, sociale ed ambientale, capace di mettere al centro di ogni ragionamento e azione il nostro territorio. Lo stesso nome “Il Tre Ruote Ebbro” esprime questa concezione; infatti Locorotondo è la città del Vino Bianco, dove frequentemente
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si incontrano lungo le stradine di campagna mezzi a tre ruote, impiegati dai contadini locali per trasportare merci, e ovviamente damigiane di vino. La parola “ebbro” è mutuata da una poesia di Arthur Rimbaud tanto cara ai soci fondatori, “Il Battello Ebbro”, che narra il viaggio di un battello, metafora dell’avventura di chi si getta nella vita per indagarne il mistero, per scoprire il mondo. Dal 2005 ad oggi le azioni rivolte al rapporto tra cittadino e territorio hanno abbracciato sia attività di ricerca, sensibilizzazione e informazione come indagini territoriali, mostre, corsi, conferenze e tavole rotonde, sia eventi aggregativi e culturali. Infatti, all’interno dell’Associazione opera un gruppo eterogeneo di persone, costituito da diverse figure professionali, tutti accomunati da una missione, che ciascuno modula e arricchisce in funzione del proprio retroterra culturale, sensibilità e competenze.
THE PROJECT
“Pearls of Memory” is a project by the Cultural Association “Il Tre Ruote Ebbro”. It is funded by the Presidency of the Council of Ministers, Department of Youth and National Civil Service, within the call “Youths for Social” – parcel 301 – CUP J18I15000150008 Pearls of Memory is a project of research, construction and restitution of historical memory in Valle d’Itria territory. It is based on the thesis that traditional knowledge – through the transmission of material culture which is its direct expression – represents the main means of expression and reproduction in time of a community’s identity and culture. The awareness of this made us reflect on the cultural tradition of Valle d’Itria, which is closely connected to the rural practices of landscape management. Moreover, the territory stands out for its particular division between urban and rural space: the first has a very high housing density, while the latter has diffused and scattered houses. Along time, this peculiarity has created a dichotomy between town and country people, which conditioned most of the daily practices of use and management of space. The main target is the requalification, protection and promotion of the territory, through the enhancement of the cultural patrimony, both tangible (historical and artistic objects, landscape and natural places)
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and intangible (tradition, folklore, wine and food traditions). PROJECT ACTIONS Actions of protection and enhancement can take root and contribute to the development of a territory only if locals, above all youths, are conscious participants in the processes. For this reason, we planned a series of workshops with the students of Basile Caramia e Francesco Gigante High School, having the target to arise interest, offer starting points for research and provide search and work tools. The workshops were containers for the development, analysis and learning of a perspective of exchange and sharing, real spaces for meeting and creative production. At the same time, we have realised this “Digital Archive of Memory” to recover and preserve local memories, both in oral and visual form, in order to enhance the peculiarity of local contexts, which are usually disregarded by traditional research paths. The main feature of this action is the sharing and participative construction of the patrimony, as well as the management and re-reading of one’s culture, through the direct involvement of youths as well as elderly people. An essential part of this project is the restitution of the collected memories to the terri-
tory where they come from, through specific strategies of cultural transfer consisting in innovative museum set-ups. We intend to end the marginality of the practices of use and their connected social representations, giving them a new “reason for life,” if we can say so, or better, giving them the status of museologically alive, thus avoiding the usual re-proposal of static and dusty representations. WHO WE ARE “Il Tre Ruote Ebbro” cultural association was established in Locorotondo in 2005 to meet the territory’s need for youth associations, and with the will to promote and spread new perspectives, as well as social and cultural processes, thanks to the several skills and competences of the members of the association. Its target is to contribute to the creation of a new cultural, social and environmental sensibility, which bases all its reasoning and actions on the territory. Its same name “Il Tre Ruote Ebbro” (“The Drunken Three-Wheeler”) expresses this idea: in fact Locorotondo is famous for its white wine and in its country tracks you can often see three-wheelers, used by local farmers to transport goods and, obviously, wine jugs. The word “Ebbro” is taken from a poem by Arthur Rimbaud, much loved by the association’s founding members. It is titled “The Drunken Boat,” and it tells the travel of a boat, being a metaphor for the adventures
of those who rush into life to explore its mystery and discover the world. Since 2005 the actions addressed to the citizens and the territory included research activities, awareness raising projects and information campaigns as well as territory surveys, exhibitions, courses and round tables, along with cultural and community events. In fact the association is formed by an heterogeneous group of people, representing different professional figures, all joined by the same mission, which each of us carries out and enriches according to one’s own cultural background, sensibility and competences.
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ARTIGIANI
La gente di paese spesso e volentieri chiamava “nobili” i proprietari terrieri benestanti, ma in senso figurato; fra i criteri che conferivano agli individui uno status sociale elevato figurano la ricchezza, l’istruzione, il lavoro non manuale e un cognome antico, cioè una lunga appartenenza all’elitè di Locorotondo. Anche all’interno della categoria degli “artigiani” esisteva una gerarchia: le categorie più alte venivano chiamate “li artiri”, in quanto il loro mestiere era considerato un’arte, tra questi si annoverano i sarti, i barbieri, i ciabattini, i falegnami. Quindi si collocavano i tagliapietre “a razze de polvere” [gli uomini impolverati], chiamati così proprio per la polvere di pietra calcarea che li ricoprivano quando lavoravano. Gli scultori erano invece visti con più benevolenza perché svolgevano un lavoro artistico. L’apprendistato era una parte importante della giovinezza di uomini e donne appartenenti alla categoria artigiana, tutti i ragazzi diventavano apprendisti, e non necessariamente presso i loro padri. Talvolta infatti i genitori facevano imparare ai figli un mestiere diverso, quello del sarto, ad esempio, nell’intento di migliorare la propria posizione sociale con un mestiere più prestigioso. Dopo la scuola elementare anche le ragazze diventavano apprendiste presso cucitrici e ricamatrici, tuttavia i genitori si aspettavano che lasciassero il lavoro una volta sposate. La caratteristica più saliente di questo tirocinio di apprendistato era che il carattere dei giovani veniva formato da due tipologie di persone: i genitori, con i quali vivevano, e i maestri con i quali lavoravano, e con cui passavano la maggior parte delle loro giornate. Gli artigiani descrivono i loro maestri come personaggi severi ed esigenti, capaci però di trasmettere competenze e soprattutto il rispetto per il mestiere.
“L’UOMO CON LA PALA LA DONNA CON IL CUCCHIAIO” Questo proverbio rispecchia in maniera figurata la divisione dei compiti e quindi dei rispettivi ruoli che uomini e donne dovrebbero avere nella gestione degli affari domestici. Se di primo acchito si fornisce un’interpretazione letterale si rischia di ridurre notevolmente la portata socio-culturale del proverbio. Infatti analizzando il contesto rurale si evince come le attività svolte dalle donne non sono delimitate dalle mura domestiche. In ogni attività agricola il lavoro viene diviso tra i sessi, ad esempio la raccolta delle olive e della frutta viene effettuata dalle donne, mentre il trasporto è affidato agli uomini, parimenti sono gli uomini ad occuparsi della potatura, ma la raccolta dei rami e dei viticci da scarto, usati nei camini per cucinare, è lasciata alle donne. Quindi la pala e il cucchiaio non rappresentano solo letteralmente i mestieri agricoli e quelli domestici, ma i due oggetti (quasi uguali nella forma ma molto diversi negli usi) cristallizzano la complementarietà dei ruoli dei due sessi. Questa complementarietà è il prodotto di una strategia di adattamento adottata dal contado di Locorotondo, per rispettare il contratto di enfiteusi. Infatti era necessario ottimizzare il lavoro di uomini e donne per poter trasformare la terra in vigne nel giro di pochi anni.
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ARTISANS
Village people used to call the big landowners “nobles”, however in a figurative sense; among the criteria that contributed to the higher social status of people there were wealth, education, non-manual work, and an ancient family name, which basically meant a long-term belonging to Locorotondo’s elite. The class of “artisans” also had its hierarchy: the groups with a higher status were called “li artiri”, since their craft was considered an art, and they included tailors, barbers, cobblers, carpenters. Then came the stonecutters “a razze de polvere” [the men full of dust], who were called this way because of the limestone dust covering them when they worked. Sculptors were considered more positively, as theirs was a creative job. Apprenticeship played an important part in the youth of men and women belonging to the class of artisans; every boy became an apprentice and not necessarily at his father’s workshop. Actually, sometimes parents had their children learn a different craft, like that of a tailor, for example, in the pursuit of improving their social standing thanks to a more prestigious craft. After primary school also girls became apprentices under a seamstress or embroiderer, although their families expected them to quit their jobs once they got married. The most significant quality of this apprenticeship was given by the fact that these young people were educated and trained by two kinds of persons: their parents, with whom they lived, and their masters, with whom they worked and spent most of the day. Artisans usually describe their former masters as strict and demanding, able to convey skills and especially respect for the craft.
“THE MAN WITH THE SHOVEL AND THE WOMAN WITH THE SPOON” This proverb reflects in a figurative manner the division of tasks and, thus, of the respective roles men and women were meant to have in domestic life. Interpreting it literally, one would considerably reduce the socio-cultural scope of the saying. In fact, analysing the rural context one learns how the tasks performed by women were not limited to the family’s home. In farming, all activities used to be split between the sexes, for example picking olives and fruits was done by women, whereas men had to carry them, and men were also those who took care of pruning, while collecting the waste twigs and branches that couldn’t be used to make fire for cooking was another of the women’s tasks. So, the shovel and the spoon do not just literally represent farming and housework, but through these two implements (with an almost identical shape, but a very different use) the saying enhances the complementarity of the roles of the two sexes. This complementarity is the result of an adaptation strategy adopted in the district of Locorotondo to abide by the contract of emphyteusis. In fact, it required men and women to optimise their work so as to be able to turn the land into vineyards within a few years.
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GLI OGGETTI DEGLI ARTIGIANI artisans objects
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arrotino / Knife grinder 1 - mola / sharpening wheel
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barbiere / barber 1
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3
4
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1 - arriccia capelli / curling iron 2 - mobile da barbiere / wash stand 3 - bacile / handbasin 4 - pennello da barba / shaving brush 5 - rasoio / razor 6 - pulisci spazzole / hairbrush cleaner
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barbiere / barber 1
2
3
4
1 - taglia capelli / hair trimmer 2 - coramella a strappo (“a strapp�) / razor strop 3 - pietra per rasoio / razor sharpening stone 4 - pettine / comb 5 - spazzola / brush 6 - rasoio / razor
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sarto / tailor 1
2
3
4
1 - forbici / scissors 2 - mezzaluna (“a pezz d ches�) / mezzaluna chopper 3 - stiramaniche / sleeve pressing board 4 - macchina da cucire / sewing machine 5 - macchina da cucire / sewing machine 6 - libretto di istruzioni macchina da cucire / instruction manual
5
6
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falegname / carpenter 1
2
3
4
5
6
1 - trapano manovella (“a mancin”) / hand drill 2 - squadra angolare (“u fals squadr”) / adjustable carpenter’s square 3 - graffietto doppio (“u signature”) / marking gauge 4 - trapano manuale (“u trapn”) / hand drill 5 - sega / saw 6 - scalpello / chisel
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falegname / carpenter 1
2
3
4
1 - compasso / compasses 2 - pialla (“u ngarz”) / plane 3 - pialla (“u chianuzz”) / plane 4 - pialla (“sponderuola”) / rabbet plane 5 - pialla / plane 6 - pialla / plane
5
6
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muratore / bricklayer 1
2
3
4
5
6
1 - lima (“sprufin”) / file 2 - martello / hammer 3 - lazzo (“u lenz” o “lazz”) / mason’s line 4 - martello (“u cazza pet”) / hammer 5 - martello / hammer 6 - martello / hammer
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calzolaio / shoemaker 1 - allargascarpe / shoe stretcher 2 - lesina / awl 3 - trincetto / cobbler’s knife 4 - forma per scarpe / shoe last
1
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3
4
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stagnaio / tinsmith 1 / 6 - saldatore / soldering iron
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fornaio / baker 2
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1 - pala per forno / oven peel 2 - marchio per il pane / bread stamp 3 - marchio per il pane / bread stamp 4 - marchio per il pane / bread stamp
3
4
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CONTADINI
La Valle d’Itria può essere considerata la valle dei trulli per antonomasia, in quanto vi si registra la massima concentrazione di trulli sparsi: ovunque fra rigogliose vigne, piccoli orti e campi di grano, spuntano i coni delle abitazioni rurali locali dette trulli. Non è una vera e propria valle, ma un territorio dolcemente ondulato in cui si alternano avvallamenti e colline, poggi e saliscendi carsici. La valle è un susseguirsi di effetti cromatici, un tripudio di colori che vanno dal verde dei piccoli boschi di querce ai secolari ulivi e ai vigneti, al bianco dei trulli e delle masserie sino alla “terra rossa” della campagna. Il toponimo “Itria” potrebbe derivare dal culto orientale della Madonna “Odegitria” (cioè che indica la via) importato dai monaci basiliani che nel 977 si insediarono nel territorio, provenienti dai territori dell’Impero Romano d’Oriente. Il paesaggio della Valle d’Itria è particolarmente singolare e riconoscibile e rappresenta l’esito di una sapiente integrazione tra le componenti antropiche, naturali e fisiche. Le attività dell’uomo (agricole e insediative) si sono adattate alla struttura e forma dei luoghi, assecondando le asperità del suolo carsico e utilizzandone al meglio le opportunità, contribuendo a costruire quella che Cesare Brandi chiama “una campagna
pianificata come una città”. La fitta trama agraria è caratterizzata da campi, generalmente di piccole dimensioni; una fitta rete di muretti a secco sottolinea il disegno di questa trama minuta. Oggi come allora la campagna si presenta coltivata e densamente abitata, tuttavia c’è stato un tempo in cui la città e la campagna rappresentavano due mondi opposti, esistevano “due culture” ben distinte, che caratterizzavano non solo le dinamiche lavorative ma anche quelle sociali e relazionali. I contadini vivevano fuori paese, in campagna, mentre quasi tutti gli artigiani - sarti, ciabattini, falegnami, barbieri, ecc – abitavano gomito a gomito in paese, dividendo le piazze con professionisti, commercianti e qualche proprietario terriero. Tale dicotomizzazione ha inevitabilmente portato alla creazione di sottogruppi sociali che hanno sviluppato strategie di adattamento per gestire limiti e possibilità nei rispettivi ambienti sociali e naturali [J. Bennet: 1969]. I contadini condividevano visioni e valori, stimavano i loro pari, e ponevano al centro della loro filosofia il duro lavoro e la parsimonia. All’interno delle mura cittadine invece si associava maggior prestigio a quanti facevano un lavoro “pulito”, come quello del sarto o, ancor più, a coloro che non facevano nessun lavoro manuale.
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ENFITEUSI Il paesaggio agrario si presenta densamente abitato e coltivato presumibilmente anche grazie al contratto di locazione tipico di questo territorio: l’enfiteusi. Tale contratto prevedeva che un grande proprietario terriero cedesse la sua proprietà ad un gruppo di contadini, ognuno dei quali ne prendeva un pezzo in cambio di un fitto annuale e della promessa di migliorare il fondo stesso. Il contratto aveva valore perpetuo e poteva trasmettersi agli eredi, purchè i contadini pagassero l’affitto e continuassero i lavori. Generalmente le famiglie contadine usavano il prodotto delle vigne per pagare l’affitto annuale e questo, insieme alla possibilità di guadagnare un pezzo di terra per le generazioni future, richiedeva colture mirate.
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L’istituto dell’enfiteusi ha innegabilmente trasformato il territorio rurale, creando una moltitudine di piccoli appezzamenti. Inoltre la lavorazione dei terreni richiedeva molto tempo e duro lavoro, data la morfologia carsica del territorio e la scarsità idrica dello stesso, (si è stimato che per trasformare un ettaro di terreno incolto in vigna ci volevano in media non meno di 2000 giornate di lavoro – quasi 5 anni e mezzo – [Ricchioni, 1958: Tavole 5 e 6]), tanto da divenire più conveniente per le famiglie vivere in campagna, piuttosto che spostarsi quotidianamente. Ciò ha portato molte famiglie a “migrare” dal centro storico verso le campagne, caratterizzando così il territorio rurale che ancora oggi è densamente popolato.
FARMERS
Valle d’Itria can be considered the valley of the trulli par excellence, as it is the area with the highest density of scattered trulli: everywhere amidst the lush vineyards, small vegetable gardens and wheat fields pop up the cone-shaped roofs of these typical farmhouses called trulli. It is actually not a real valley but rather a region of gently rolling hills with a karst soil. The valley is a series of rapidly changing chromatic effects, a riot of colours ranging from the green of small oak woods, age-old olive trees and neat vineyards, to the whitewash of the trulli and masserie (large farmhouses) up to the “terra rossa”, the red soil of this land. The place name “Itria” may derive from the Oriental cult of the Madonna “Hodegitria” (which means the Holy Virgin who shows the way) imported by Basilian monks who settled in our area in 977, coming from the territories of the Eastern Roman Empire.
The landscape of Valle d’Itria is especially unique and recognizable and is the result of the successful blending of anthropic, natural and physical elements. Human activities (their settlements and agriculture) have fitted into the structure and shape of the places, following the crags of the karst soil and making the best of the opportunities it offered, contributing to build what Cesare Brandi calls “a countryside planned like a
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city”. The densely woven agricultural fabric is made up of mostly small-sized fields; a tight network of dry-stone walls underscores the delicate texture of this pattern. Like in bygone days, the countryside still appears well tilled and densely populated; and yet, there was a time when town and country represented two opposite worlds and there were “two cultures”, totally different one from the other, which marked not only the dynamics of work but also the social and relational ones. Peasants used to live in the countryside, whereas almost all the craftsmen – tailors, cobblers, carpenters, barbers, etc – lived closely side by side in town, sharing the public spaces with high-ranking professionals, merchants and a few great landowners. Such a dichotomy necessarily led to the creation of social subsets that developed adjustment strategies to manage limits and possibilities within their respective social and natural environments [J. Bennet: 1969]. Peasants shared views and values, they held their peers in esteem, and placed at the centre of their philosophy hard work and parsimony. Inside the city walls, instead, greater prestige was assigned to those who had so-called “clean” lobs, like tailors or, even more, those who did no manual job at all.
EMPHYTEUSIS The agrarian landscape appears densely populated and cultivated, presumably also thanks to the typical lease contract of this area, called emphyteusis. According to this contract, a big landowner leased his property to a group of farmers, each of whom took a portion for a yearly rent and the promise of increasing the value of the property. The contract had no expiration date and could be passed on to one’s heirs, as long as the farmers paid the rent and continued taking care of the land. Generally, the families of farmers would use the product from the vineyards to pay the yearly rent; this, along with the possibility of acquiring a patch of land for the future generations, required the accurate selection of crops. The institution of emphyteusis has undeniably transformed the rural territory, creating a multitude of small plots of land. Moreover, the tilling of the land required a lot of time and hard work, given the karst nature of the soil and its scarce water resources, (according to estimates, transforming one hectare of barren land into a vineyard took on average at least 2000 days of work – almost 5 and a half years – [Ricchioni, 1958: Tables 5 and 6]), so that it was more convenient for families to live in the countryside, than having to move back and forth from town every day. This situation induced many families to “migrate” from the old town to the countryside, thus leaving a typical mark on the territory which is still today densely populated.
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GLI OGGETTI DEI CONTADINI farmers objects
contadino / farmer 1
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1 - zappascure / mattock 2 - zappa / hoe 3 - zappa / hoe 4 - zappa / hoe 5 - trappola / trap 6 - tagliafieno / hay cutter
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contadino / farmer 1
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1 - Spruzzatore di zolfo (“sulfarul”) / sulfur sprayer 2 - sega (“u strung”) / saw 3 - seghetto (“u serracc”) / small saw 4 - roncola / billhook 5 - rastrello / rake 6 - piantatoio (“u chiandatur”) / dibble
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contadino / farmer 1
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4
1 - marchio per gli animali / branding iron 2 - misuratore di semi / seed measuring scoops 3 - incudine / anvil 4 - forca / hayfork 5 - falcetto / sickle 6 - ditali / finger protection when working with a scythe
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contadino / farmer 1
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4
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1 - campanaccio da pascolo / bell 2 - tinozza / wooden vat for grape must 3 - arpione / harpoon 4 - punta di aratro / plough point 5 - accetta (“l’accett”) / hatchet 6 - mortaio / mortar
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contadino / farmer 1
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1 - forca / hayfork 2 - falce / scythe 3 - filtro per olio di oliva / olive oil filter 4 - “u crisciture” / vessel used to skim the oil floating above water 5 - “lu map” / olive oil skimmer 6 - trappola per topi / mousetrap
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CIBO E CULTURA
Il cibo è essenzialmente nutrimento, sostentamento e bisogno, ma è anche cultura, sovrastruttura e pensiero. L’alimentazione è infatti una forma di comunicazione, un insieme simbolico che individua i rapporti fra le classi sociali, stabilisce l’unicità e la diversità rispetto agli altri, separa il “noi” dagli “altri”. Del resto è noto che il modo di preparare un piatto è un’azione culturale, dove è possibile riconoscere la geografia e la storia di un popolo, le strategie adattive applicate da una comunità rispetto all’ambiente esterno. I ritmi stagionali scandivano la produzione e la conservazione dei cibi; c’erano periodi dell’anno in cui le risorse alimentari diminuivano e la necessità di reperirle si faceva impellente, determinata anche dalla disparità dei ceti sociali. Ad esempio le questue, che segnavano nelle campagne il primo e più freddo periodo dell’anno fino alle festività pasquali, avevano una duplice finalità: quella rituale legata alla “morte” e rifondazione del tempo agrario e quella sociale, in cui in un’ottica quasi paternalistica le classi più abbienti provvedevano ai bisogni della classi più povere. Aspetti religiosi si innestano in questa trama del bisogno (Canto all’Uovo) anche se, con il passare del tempo e il miglioramento generale delle condizioni economiche, le questue si sono arricchite di una dimensione più ludica, diventando pretesto di festa. Un ulteriore aspetto culturale del cibo è ravvisabile nelle preparazioni legate ai “pasti rituali”, ossia quei pasti strettamente legati a momenti collettivi di condivisione e/o tri-
buto nei confronti della natura prima e dei santi dopo (il Falò di San Giuseppe ne è un esempio). L’assunzione di particolari alimenti si lega ad un ulteriore aspetto della cultura popolare, che è quello dei rimedi contro le malattie, che se in alcuni casi non avevano un riscontro di guarigione, servivano quanto meno ad alleviare la morbilità. I cibi curativi erano, e talvolta lo sono ancora, somministrati da chi conosceva le proprietà e l’uso delle piante che crescevano spontanee o che venivano coltivate appositamente con questi scopi. Le stesse pratiche di cura (l’affascina ne è un esempio) fanno della cucina il loro spazio d’elezione: l’uso dell’olio come elemento terapeutico appare in moltissime comunità ed è considerato simbolo di positività, inoltre l’acqua è stata usata fin dall’antichità per allontanare la negatività e gli spiriti maligni (già fra gli Ebrei, i Greci e i Romani, era utilizzata per i riti di purificazione o lustrazione, spesso con l’aggiunta di sale). Cibo che si intreccia con i riti di passaggio della vita dell’uomo, cibo che sottolinea la sacralità di una ricorrenza religiosa, cibo e preghiera, cibo magico che cura, cibo dei ricchi e cibo dei poveri. “Il cibo insomma nasce con noi e diventa parte integrante della nostra vita, si amalgama alle emozioni, al nostro sistema di valori […]. Ce n’è abbastanza per considerarlo non solo dal punto di vista biologico bensì come vero e proprio linguaggio: una lingua antica quanto il genere umano.” [Cfr. Schiavon, “La parola al cibo”]
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FOOD AND CULTURE
Food is basically nourishment, sustenance, and a need, but it is also culture, superstructure, and a way of thinking. Actually, food is a form of communication, a symbolic whole that identifies the relationships among social classes, establishes the uniqueness and diversity in comparison with others, and separates “us” from “them”. After all, we all know that preparing a dish is a cultural act, in which we can recognise the geography and history of a people, the adaptive strategies applied by a community in relation to its environment. The rhythm of the seasons would mark the production and preservation of food; there were times of the year when food resources became scarce and the necessity of spotting them became impellent, also determined by the disparity between social classes. The almsgiving, for example, which usually marked the beginning of the year, namely the coldest period, and went on till Easter, had a double purpose: the ritual one associated with “death” and the renewed beginning of the agricultural cycle, and the social one, in which in a sort of paternalistic manner the upper classes took care of the needs of the lower ones. Religious aspects were also added to this basic act of meeting needs (Canto all’Uovo) although with the passing of time and the overall improvement in the living conditions, the almsgiving rituals have been enriched by a more playful note, becoming the excuse for a merry celebration. Another cultural aspect of food becomes manifest in the preparation of “ritual meals”, namely those meals that are strictly associ-
ated with gatherings having the purpose of sharing and/or honouring nature first and then the saints (the bonfires on St Joseph’s Day are a typical example). Eating particular kinds of food is also linked to another aspect of folk tradition, which is that of home remedies against diseases; even if in some cases they were not able to heal, they certainly reduced the morbidity. Medicinal foods used to be, and sometimes still are, administered by persons who knew the properties and use of plants that grew wild or were grown especially for such purposes. The healing practices (like the ‘affascina’, for example) find in certain foods their preferred ingredients: the use of oil as a therapeutic element is widespread in many communities, as it is considered the symbol of positivity, while water has been used since Antiquity to divert negativity and evil spirits (among ancient Jews, Greeks and Romans, it was already used for purification or lustration rituals, often with the addition of salt). Food that becomes intertwined with the rites of passage of human life, food that underscores the sacredness of a religious event, food and prayer, magical food that heals, food of the rich and food of the poor. “In other words, food was born with us and represents an essential part of our life, it merges with our emotions, with our value system […]. If we look at all its meanings, it cannot possibly be considered just from the viewpoint of its biological significance, it is actually a downright language: a language as old as humankind.” [Cfr. Schiavon, “La parola al cibo”]
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GLI OGGETTI DELLA VITA QUOTIDIANA everyday objects
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cucina / kitchen 1
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1 - zangola / churn 2 - catena (“a camastr”) / trammel chain and hook 3 - paiolo (“bulzinett”) / cauldron 4 - caffettiera / coffee pot 5 - grattugia / grater 6 - tosta caffè / coffee roaster
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uso comune / common use 1
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1 - tappatrice / corker 2 - rampino / grappling iron 3 - portatabacco / tobacco box 4 - cartella / briefcase 5 - orologio da tasca / pocket watch 6 - martello / hammer
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uso comune / common use 1
2
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4
1 - lucchetti / padlocks 2 - chiavi “maschio” / keys 3 - chiavi “femmina”” / keys 4 - ombrello / umbrella 5 - bilancia / scales 6 - dinamometro / dynamometer
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abbigliamento / clothing 1
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1 - borsa / bag 2 - borsa / bag 3 - canotta / camisole 4 - mutande / drawers 5 - calze / socks 6 - sottoveste / petticoat
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casa / home 1
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1 - anfora / amphora 2 - setaccio / sieve 3 - baule / trunk 4 - lampada / lamp 5 - lampada / lamp 6 - scaldaletto / bed warmer
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casa / home 1
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1 - asciugapanni (“a monec”) / laundry drying rack 2 - braciere / brazier 3 - bacile / handbasin 4 - poggia braciere / brazier support 5 - orinatoio (“u rinnel”) / chamber pot 6 - raschietto / scraper
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casa / home 1
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1 - macina caffè / coffee grinder 2 - tappa bottiglie di sughero / bottle corker 3 - spiritiera / spirit burner 4 - specchio da toilette / handheld mirror 5 - scaldino / brazier 6 - oliera / oil cruet
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casa / home 1
2
3
4
1 - orinatoio “cantre” / chamber pot 2 - lume / oil lamp 3 - lumino portatile / portable oil lamp 4 - lava panni / washboard 5 - lampada / lamp 6 - gioco “ruzzola” / “Ruzzola” game
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casa / home 1
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6
1 - rompi fave / fava bean opener 2 - chitarra per spaghetti / tool for spaghetti making 3 - avvolgilana / yarn swift 4 - coltello / knife 5 - brocca / jug 6 - anfora (“u pdel�) / amphora
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casa / home 1
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4
1 - ferro da stiro / flat iron 2 - ferro da stiro / flat iron 3 - ferro da stiro / flat iron 4 - ferro da stiro / flat iron 5 - ferro da stiro / flat iron 6 - ferro da stiro / flat iron
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> L’USANZA DELLA QUARANTANA NEI PAESI DELLA VALLE D’ITRIA
Se si visitano i paesi della Valle d’Itria durante la Quaresima si è inevitabilmente incuriositi da fantocci con le sembianze di vecchiette terrifiche, sospesi con fili tesi tra le case, ai crocicchi e negli slarghi dei centri antichi, un’orrida allegoria della Quaresima. Si sa che la Quaresima per i cattolici era alle origini un periodo di privazione opposto all’abbondanza simboleggiata dal Carnevale appena conclusosi. Carnem levare, togliere la carne, da cui Carnevale, in origine alludeva al mercoledì delle Ceneri, il primo giorno di Quaresima che si concludeva il Sabato Santo. Quaranta giorni di astinenza dai cibi grassi, carni, uova, latte e derivati dopo i sollazzi del Carnevale, quando tutto era concesso in funzione della penitenza che incombeva dopo il martedì grasso. Quaranta giorni di privazioni (quadragesimam diem) che ricordano il periodo che Gesù Cristo passò nel deserto nutrendosi solo di erbe ma soprattutto nutrendo il suo spirito. La privazione dei cibi grassi durante la Quaresima per i cattolici assumeva, e assume per chi rigorosamente ancora osserva l’usanza, una connotazione simbolica come percorso di purificazione preparatorio alla Santa Pasqua. L’immaginazione popolare, si sa, trasforma tutto in simboli molto più efficaci e comunicativi. Così è nata la Quarantana, la vecchietta sospesa tra i vicoli, vestita poveramente con in mano il fuso per filare, una fascina o comunque strumenti che simboleggiano il lavoro quotidiano, domestico soprattutto. La tradizione popolare la considerava
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la moglie del Carnevale che si era spento il martedì Grasso. Per questo, affranta dal dolore, la Quarantana ha un aspetto dolente e trasandato e porta sempre con sé alcuni cibi che ne rammentano l’astinenza obbligata e qualche oggetto. Le varianti di paese in paese e in altre regioni dell’Italia meridionale sono minime. In Valle d’Itria si vedono i taralli, 7 come le settimane quaresimali, in altre regioni un’arancia con 7 penne di gallina infilzate a raggiera; i salumi, un fiasco di vino. Curiosa è la grattugia, in Valle d’Itria, che rammentava di non mangiare formaggi, che si sostituivano sui primi piatti con il pan grattato. A Martina Franca si vedono anche le forbici come ammonimento ai bambini ai quali la Quarantana avrebbe mozzato la lingua se avessero trasgredito con i cibi proibiti. Le macellerie anticamente rimanevano chiuse, tranne un giorno a settimana in cui il macellaio era autorizzato dal clero a distribuire la carne ai malati. Né uova e né latte si consumavano. Succedeva, infatti, che durante la Quaresima nelle masserie si trasformava tutto il latte munto quotidianamente in formaggio che sarebbe stato venduto stagionato dopo la Pasqua. Le uova, naturalmente, si accumulavano e usanza era, di pochi gruppi di suonatori e di cantori, di visitare masserie e case rurali dal Sabato Santo fino alla mattina di Pasqua per questuare uova o altro. Nasce forse così l’usanza della immancabile frittata del Lunedì dell’Angelo, la Pasquetta, proprio per
impiegare tutte le uova accumulate. Trascorso il tempo, il Sabato Santo, giorno della Resurrezione, la Quarantana finiva di campare o a colpi di schioppo o arsa, rito quest’ultimo ancora in voga. Il fuoco purificatore arricchisce il rito di altre simbologie. Dal fuoco i contadini traevano gli auspici della buona annata; il fuoco rappresentava la vittoria dell’abbondanza sulla povertà (l’astinenza quaresimale); la vittoria della vita (la rinascita, la primavera) sulla morte (l’inverno). Questi elementi culturali evidenziano certamente una origine pagana del rituale, legato per esempio alle culture agricolo-pastorali dei popoli indoeuropei, che con il fuoco celebravano il rigenerarsi della natura dopo l’inverno. La simbologia di cui la Quaresima e la Quarantana sono cariche hanno un significato che travalica i confini religiosi, forse un invito a cercare una sintesi tra gli eccessi dell’abbondanza e i rigori delle privazioni, per trovare una più moderata forma del vivere tra gli inevitabili bene e male.
Maria Teresa Acquaviva
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> THE QUARANTANA’S CUSTOM IN THE VALLE D’ITRIA VILLAGES
If you visit the Valle d’Itria villages during Lent you will inevitably be curious by puppets with terrific old women likeness, hanged in wires between the houses, at the junctions and in the small squares of the historic centre, a horrid allegory of Lent. It is known that Lent for Catholics was, at the origin, a period of deprivation opposed to the abundance symbolized by the Carnival just concluded. Carnem levare, (“remove the meat” from which Carnival) originally referred to Ash Wednesday, the first Lenten Day that ended on Holy Saturday. Forty days of abstinence from fatty foods, meat, eggs, milk and derivatives after the Carnival’s revelry, when everything was granted in function of the penitential which fell on after Fat Tuesday. Forty days of deprivation (quadragesimam diem) that refer to the time Jesus Christ passed into the desert, feeding only on herbs but above all feeding his spirit. The deprivation of fatty foods during Lent for Catholics assumed, and assumes for those who strictly still observe the custom, a symbolic connotation as a path of purification preparatory to Holy Easter. The popular imagination, it is known, transforms everything into effective and communicative symbols. So was born the Quarantana, the old woman hanged in the alleys, dressed poorly, holding a spinning spindle, a fagot or any other tools that symbolize daily and especially domestic work. The popular tradition consider her as the wife of the Carnival who had left on Fat Tuesday. For this reason, suffering from pain, Quarantana has
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a aching and shabby look and bring with her some food, that refers to obligated abstinence, and some objects. Variations between the villages and other regions of southern Italy are minimal. In Valle d’Itria the seven lenten weeks are often symbolized by seven taralli, in other regions you can find an orange with 7 chicken’s feathers roundly skewered, salami or a bottle of wine. in Valle d’Itria is bizarre the grater, which reminded not to eat cheeses, replaced in the first courses with bread crumbs. In Martina Franca you can also see scissors as a warning to the children to whom the Quarantana would cut off their tongue if they had transgressed with forbidden food. The butchers in past times were closed, except one day a week when the butcher was authorized by the clergy to distribute meat to the sick. No eggs or milk were consumed. In fact, during Lent in the farmhouses, all the milk daily milked was turned into cheese that would be sold aged after Easter. The eggs, of course, were accumulated and a some groups of players and singers, used to visit farmhouses and rural houses from Holy Saturday until Easter morning to beg eggs or anything else. Maybe this is the way the custom of unmissable Easter Monday omelet was born, just to use all the accumulated eggs. At last, on Holy Saturday, the Resurrection Day, the Quarantana kicked the bucket by gunfire or at the stake, this last ritual still in vogue. The purifying fire enriches the rite with other symbols. From the fire the farmer took the wishes for a good year; fire represent-
ed the victory of abundance on poverty (the lenten abstinence); the victory of life (rebirth, spring) on death (winter). These cultural elements certainly point to a pagan origin of the ritual, linked, for example, to the agricultural-pastoral cultures of Indo-European peoples who celebrated the regeneration of nature after the winter with fire. The symbolism of Lent and Quarantana has a meaning that goes beyond the religious boundaries, perhaps a call to seek a synthesis between the excesses of abundance and the rigors of privations, to find a more moderate form of living among the well and the evil.
Maria Teresa Acquaviva
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riti e magia popolare
Ritualità e magia popolare nell’Italia del sud trovano le proprie origini nelle antiche civiltà degli Ittiti e degli Egizi [Noviello, 1986]. L’uomo, privo di un’adeguata conoscenza di natura e scienza, di fronte alle misteriose forze che regolano la vita, si affidava a rituali magici che mescolavano antiche pratiche omeopatiche alla religione. Formule e invocazioni contro vermi, malocchio, dolori intestinali o legati alla gravidanza, fino all’allontanamento di spiriti e folletti capricciosi e molesti come i “monachelli”. Qui, come altrove, sono le donne a fare da tramite fra il mondo reale e quello trascendentale. Antiche pratiche che mescolano sacro e profano, una vera e propria dottrina senza testi, tramandata oralmente, mantenuta inalterata per secoli. E tutto ciò è sotto i nostri occhi, una rete di tradizioni che da luogo a luogo, prende nomi differenti, ma che “funziona” a detta di alcuni perchè permette di avvicinarsi a Dio, alla natura, a quel mistero chiamato vita che da sempre l’uomo ha cercato di svelare. ‘AJURE Spirito maligno che appare di notte, si siede sul petto delle persone immobilizzandole e rendendo loro impossibile persino aprire gli occhi. Ingarbuglia i capelli del malcapitato e dà dei pizzichi che lasciano il segno fino al mattino. Le vittime cercano di sbarazzarsi di questa creatura sedendosi in bagno con del cibo e invitandola, con una cantilena magica,
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a dividerlo con loro, cosa che trova disgustosa e quindi riuscendo a farla scappare. MONACHIDDE Un piccolo omino non più alto di due palmi di mano, vestito con un saio, piuttosto suscettibile, che non risparmia scherzetti nel cuore della notte. Si invaghisce spesso delle belle fanciulle e, secondo alcuni, ama frequentare le stalle in quanto ghiotto di biada. Inoltre questo spiritello nell’oscurità, si diverte a giocare con le lunghe criniere dei cavalli, creando delle perfette trecce oppure, le arruffa, le aggroviglia in un modo così stringente che risulta molto difficile metterle in ordine. Altre volte ama spostare o far sparire oggetti, far cascare dalle sedie la gente e sporcare il bucato appena steso. Alcuni sostengono che l’unico modo per mettere il Monachello alla porta sarebbe quello di porre un ferro di cavallo e delle corna di bue sull’uscio. Questo stratagemma, utile per raggiungere un po’ di tranquillità, potrebbe portare, secondo la leggenda, anche alla perdita di una grossa opportunità. Il folletto infatti, conosce i luoghi in cui sono nascosti grandi tesori, simpatizzarci non è quindi una cattiva idea. Questo buffo e permaloso omino, tiene in modo particolare al suo lungo cappello rosso a forma di cono e adorno di campanelli che indossa in ogni momento. Se le sue vittime dovessero riuscire a sfilarlo dal suo capo, lo spiritello sarebbe disposto a sborsare fior di quattrini pur di riaverlo indietro.
AFFASCINA Forma di “maleficio” - anche involontario - lanciato principalmente per mezzo dello sguardo o con i complimenti. - Sintomatologia: mal di testa, vomito, sonnolenza, pesantezza delle palpebre, perdita delle forze, pallore, febbre, intontimento, spossatezza, dolori diffusi. - Tipologia del “male”: sortilegio, maleficio (anche e spesso involontario). - Riti esplorativi (“diagnostici”): rituali relativamente complessi con utilizzo di orazioni segrete, formule, preghiere, piattino con acqua e olio. - Riti riparatori: formule, gesti, orazioni segrete o preghiere o segni della croce ripetuti per 3 volte. Il rito del “piattino con acqua e olio” ha in genere una funzione esplorativa ma si protrae sino alla fase riparatoria (è in un certo senso parte integrante anche della “cura” e viene ripetuto per verificare se il soggetto è guarito). - Persone deputate a “guarire”: donne che hanno appreso la pratica per via segreta o iniziatica, spesso tramandata di generazione in generazione ad “eredi” prescelti e/o considerati predestinati (massimo 3 “eredi”) attraverso una vera e propria iniziazione eseguita il venerdì della Settimana Santa.
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rituals and folk magic
Rituals and folk magic in the south of Italy originate from the ancient civilization of the Hittites and Egyptians [Noviello, 1986]. Lacking an adequate knowledge of nature and science, faced with the mysterious forces that control life, humans entrusted themselves to magic rituals that combined ancient homeopathic practices with religion: formulas and invocations against worms, evil eye, intestinal pain, pains linked to pregnancy, up to the chasing away of capricious spirits and pixies like those called “monachelli”. Here, like elsewhere, it’s the women who act as mediators between the real and the transcendent worlds. Ancient practices mix sacred and profane, a true doctrine without sacred texts, passed down orally, maintained unchanged for centuries. All this is for all the world to see, a web of traditions which was given different names, depending on the place, but which “works” according to some people, because it helps to get closer to God, to nature, to that mystery called life that humans have always tried to unveil. ‘AJURE Mischievous spirit that appears at night, sits down on the chest of persons immobilizing them and even preventing them from opening their eyes. It tangles the hair of the victims and pinches them, with the marks still showing the next morning. The victims try to get rid of this being sitting down in the bathroom with some food and inviting it to partake
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in the meal with a magic chant, but the spirit deems it disgusting and thus disappears. MONACHIDDE A tiny man no taller than two palms of a hand, wearing a monk’s habit (in fact, his name means Little Monk), rather touchy, who won’t spare you some tricks in the middle of the night. He often takes a fancy to some beautiful girl and some say the monachidde even love to hang around stables as they love cattle fodder. Moreover, in the dark these little pixies have fun playing with the long manes of horses, creating perfect plaits or ruffling them so they get tangled to the point that it is difficult to brush them straight again. Other times they move objects around or make them disappear, have people fall down from their chairs or dirty the freshly washed laundry on the line. Some people say the only way to throw the Monachello out of the door is by placing a horseshoe and a pair of ox horns over the door. However, legend has it that this stratagem, useful to get some rest, might also lead to miss some big opportunity. Actually, the little sprite knows the places where big treasures are hidden, so making friends with them is not a bad idea. This odd and prickly midget is particularly fond of his pointed red cap decorated with bells, which he is always wearing. Should his victims manage to take it off his head, he would be willing to pay a fortune to get it back.
AFFASCINA A form of “evil spell” – that can also be unintentional – cast mainly by means of a glance or a compliment. - Symptoms: headache, vomit, sleepiness, heavy eyelids, loss of strength, pallor, fever, drowsiness, fatigue, diffuse pain. - Kind of “ill”: enchantment, malefice (also and often involuntary). - Exploratory rituals (“diagnostic”): relatively complex rituals involving the use of secret prayers, formulas, dish with water and oil. - Reparatory rituals: formulas, gestures, secret prayers or sign of the cross repeated three times. The ritual of the “small dish with water and oil” usually has an exploratory function but goes on until performing a reparatory role (in a certain sense, it is also an essential part of the “cure” and is repeated to check whether the person has been healed). - Persons appointed to “heal”: women who learned the rituals secretly or by means of an initiatory rite often handed down across generations to the chosen “heirs” and/or persons deemed to be foreordained (maximum 3 “heirs”) through a real initiation ritual performed on Good Friday.
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FOTO STORICHE historical photos
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IL CAFFÈ ESTRATTO DALLO SCAMPOLO DI RICORDI N.11 DI ANGELO GIORGIO MUTINATI “Pepp de M’nginz F’lippe” aveva il Caffè in piazza, ove adesso è il tabaccaio con ricevitoria lotto; si chiamava “caffè”, perchè la fredda ed insignificante parola “Bar” era allora sconosciuta. Certo che ne abbiamo fatti di progressi. Detto “caffè” aveva (ed ha) l’accesso dalla piazza ed anche una apertura su piazza Dante (a chiazze d’a Durlete), ove Peppe, durante le maggiori feste di allora (Crist susprann - Gesù Spirante, il 12 giugno - santa Lucigghie - Santa Lucia , il sei luglio - e Santrocche - San rocco 16 agosto), disponeva alcuni tavolini, affinchè le persone più abbienti potessero consumare gli inimitabili (e, purtroppo, non più imitati) spumoni. Questi spumoni, con l’ausilio del fido “ualletto” (Neglia Romualdo, il papà di Alfredo della bottega) erano preparati nel locale sottano in Largo Piave con contenitori di acciaio immersi in di tine di legno, ghiaccio e sale pastorizio. Uno dei compiti di “Ualletto”, assurto quasi al livello di liturgia, era la preparazione mattutina del caffè (ne ho un ricordo perfetto). Soggiungo che era assai difficile reperire il caffè vero; in casa, quando si aveva la fortuna di averne un poco, si riutilizzava almeno tre volte: fatto il primo caffè, si rompeva e rigenerava la posa e si riutilizzava. In ogni casa, vi era un attrezzo detto “tostacaffè” : un piccolo telaio dimensionato per essere poggiato sulla fornacetta; a questo tela-
io, era incernierato un recipiente ovoidale bucherellato, posto lievemente inclinato e dotato di un portellino di accesso e svuotamento. Questo recipiente, era solidale con una manopola; posto il caffè all’interno, si poggiava sulla fornacetta e si girava, avendo cura di essere costanti, fino alla buona tostatura. Solo che, nella maggior parte dei casi, mancando il caffè, si tostava l’orzo. Come cambiano i tempi: ora si va al bar e si assumono atteggiamenti da raffinati, chiedendo il caffè d’orzo; allora, ci si sarebbe vergognati. Moltissime persone, volendo esprimere particolare riguardo per l’ospite, miscelavano la posa relitta del caffè vero (gelosamente custodita e conservata) con l’orzo tostato e macinato: per dare maggiore simiglianza col caffè vero. “Ualletto”, verso le 7,30 del mattino, portava la fornacetta su quella sella pianeggiante che separa lo “stradone” - c.so XX settembre - dal “lungomare” - Via Nardelli - delimitata a Nord d’a “i culonn da chiazze” - le colonne della piazza - ed a Sud da “i culonne d’a ville”- le colonne della villa. Dopo pochissime ventilazioni con una cartolina, il fuoco (bucce di mandorle) prendeva subito corpo, alimentato dalla particolare esposizione al vento. Al momento giusto, “ualleto” riponeva la caffettiera e, quando era pronta (dopo averla opportunamente girata) avvisava, ad alta voce : “il caffè pronto”. Era un rito.
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COFFEE “Pepp de M’nginz F’lippe” was the owner of the Café in the Piazza, the main square, where there’s now the tobacconist with the lotto agency; it was called “café”, because the cold and banal word “bar” was unknown at the time. Obviously, we have moved forward since then. Said “café” used to have (and still has) its entrance from the square, and also a door on Piazza Dante (a chiazze d’a Durlete), where Peppe, during the main holidays of the time (Crist susprann – the Dying Christ, on the 12th of June - santa Lucigghie – Saint Lucy, on the 6th of July and Santrocche – Saint Rocco on the 16th of August), set up a few tables, so that the more affluent guests could enjoy his inimitable (and, unfortunately, no longer imitated) spumoni. These spumoni were prepared with the help of the unfailing “Ualletto” (Neglia Romualdo, the dad of Alfredo, the owner of the bottega bearing his name) in a basement in Largo Piave with steel containers immersed in wooden vats filled with ice and salt of the kind given to cattle to lick. One of “Ualletto”’s tasks, by them already a sort of ritual, was the preparation of the coffee each morning (I have such a neat memory of that). I must add that it was really difficult to source some true coffee in those days; at home, when you were lucky enough to have some in store, it was used at least three times: after the first coffee making the grounds were broken up and regenerated, and then reused. In every home, there was an implement called “coffee roaster” : it was a made up of a small frame of the proper size to be placed on a small barbe-
cue; the frame was connected by way of a hinge to an oval container with small holes in a slightly slanted position, provided with a small door from where it could be emptied. This container had a handle. Once the coffee had been placed inside, the container was put on the barbecue and the handle rotated with great care, until the proper roasting had been achieved. But since most of the times there was no actual coffee, people would roast barley. How the times have changed! Now we go to the bar and look very posh ordering some barley coffee; back then, we would have felt embarrassed. Many people, trying to show greater respect for the guest, would mix real coffee grounds (that were jealously stored and preserved) with the roasted and ground barley: thus the brew resulted more similar to actual coffee. Around 7.30 in the morning “Ualletto” carried the little barbecue to the hilltop that separates the “stradone” – Corso 20 settembre – from the “lungomare” - Via Nardelli -, with its boundaries marked to the north by “i culonn da chiazze” – the two pillars at the entrance of the “piazza” – and to the south by the “culonne d’a ville”- the two pillars at the entrance of the town park. After some short fanning with a postcard the fire would soon be lit (with almond shells), with the help of the wind always blowing in that place. At the right time, “Uualletto” placed the coffee machine on the fire, and when it was ready (after having turned it properly upside down) he would announce in a loud voice: “coffee is ready”. It was a ritual.
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FUNERALI ESTRATTO DALLO SCAMPOLO DI RICORDI N.17 DI ANGELO GIORGIO MUTINATI I funerali erano notevolmente diversi rispetto a quelli attuali. I funerali erano graduati in funzione del censo del defunto. Vi erano i funerali comuni, i quali, pressappoco si svolgevano nella maniera che vi racconto. Il feretro, giunto in Chiesa, era poggiato su comuni cavalletti, allocati al centro della navata centrale, coperti con panno nero, ed aveva quattro candelieri con candele accese, disposti ai vertici del quadrilatero occupato. Allora, come ho già raccontato, non vi erano i banchi a sedere; le sedie erano ammassate all’interno della porta destra della Chiesa, ed il loro deposito e distribuzione erano curati da “Tonett’ di’ sigg’ “ – Tonetta delle sedie – la quale viveva dell’obolo che i fedeli le corrispondevano al momento della riconsegna. Un solo sacerdote si recava a casa del morto, in occasione del prelievo della salma, e seguiva il corteo dalla casa alla Chiesa. Celebrata la funzione religiosa del commiato, accompagnava il corteo funebre fino alle spalle della Chiesa della Greca, ove avveniva il “visto” – il saluto di condoglianza dei partecipanti, posto ai congiunti del morto -. In genere vi era una sola corona di fiori, o poche; quasi sempre, vi era la banda musicale.
funerale. In occasione del prelievo della salma dalla casa, vi si recavano tre sacerdoti, oppure, nel migliore dei casi, l’intero capitolo seguiva il corteo dalla casa alla Chiesa. La cerimonia religiosa era celebrata da tre Sacerdoti, o dall’intero capitolo. In chiesa, la salma, non era più poggiata sui cavalletti coperti con drappo nero, ma, il buon Ignazio il sacrestano, predisponeva, sempre al centro della navata centrale, “a’ cast’llen’ “ – la castellana -, che era una composizione di cubi e parallelepipedi neri (una specie di mattoni “Lego”); la “castellana” era di altezza variabile in funzione del lusso del funerale, ed aveva numerosissime candele. Non potrò mai dimenticare Ignazio il sacrestano arrampicato su queste strutture imponenti ed impegnato ad accendere e, poi, a spegnere i numerosissimi ceri.
Quando il funerale aumentava di classe, in funzione del censo della famiglia del defunto, allora cambiava anche il tenore del
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FUNERALS Funerals were quite different from those celebrated today. Funerals were graded according to the wealth of the dead person. There were ordinary funerals, which took place more or less as follows. The coffin, once in the church, was placed on plain sawhorses - covered with a black cloth and set up at the centre of the nave - and provided with four candelabra with burning candles at the corners of the rectangular space taken up. Back then, as already mentioned, there were no pews to sit down; there were chairs piled up behind the right door of the church, and their storage and distribution was entrusted to “Tonett’ di’ sigg’ “ – Tonetta of the chairs – who lived on the offers the faithful left her upon handing her back their chairs. One single priest went to the home of the departed when the corpse was picked up, and followed the procession from the home to the church. After the mass for the departed had been celebrated, he accompanied the funeral procession as far as the back of the Chiesa della Greca, where the so-called “visto” took place – namely when the participants would offer their condolences to the relatives of the departed. Usually, there was just one or very few flower wreaths, but mostly a music band would accompany the ceremony.
If the dead person belonged to a higher social class, the standard of the funeral increased according to the family’s wealth. As many as three priests went to pick up the corpse from the home, or sometimes even the whole chapter followed the procession from home to church. The mass was celebrated by three priests, or by the entire chapter. In the church, the coffin was no longer placed on sawhorses covered with a black cloth, instead, Ignazio the sacristan arranged – still in the middle of the nave - “a’ cast’llen’ “ – the ‘castellana’ -, which was a composition of black cubes and parallelepipeds (like a sort of “Lego” bricks); the “castellana” could vary in height depending on the lavishness of the burial, and had a great number of candles. I will never forget Ignazio the sacristan climbing on these imposing structures, busy with lighting and then putting out all those candles.
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LA NEVE DEL ‘56 ESTRATTO DALLO SCAMPOLO DI RICORDI N.1 DI ANGELO GIORGIO MUTINATI Locorotondo rimase isolata per un mese ed oltre. Le uniche notizie le avevamo dalla radio (non avevamo la televisione); apprendevamo che era stata disegnata una croce sul campo sportivo e l’elicottero calava medicinali e materiale di ogni genere. Non avevamo telefono, nè lo avevano alle nostre case. Dopo oltre due settimane di questo stato, eravamo preoccupati, anche perchè era finita la pasta che Linuccio portava da casa e le polpette di Nonna Graziella, che portavo io (il pranzo, fisso, era costituito da pasta col sugo di polpette e fettine di cavallo arrostite sul gas di città). Avevamo, in due, 500 lire (allora avevano un valore notevole); spendemmo tutto acquistando sigarette e fiammiferi (per mio padre), carne, pasta e quant’altro. Con lo zaino così predisposto, prendemmo il treno per Fasano (la Sud-Est era bloccata); giunti alla stazione di Fasano, apprendemmo che neppure la corriera (Di Tano) era in servizio. A piedi, quindi, percorremmo, nella neve, il tratto dalla stazione di Fasano a Locorotondo, ove giungemmo nel primo pomeriggio, affaticatissimi, quanto convinti di essere accolti come eroi. Giunti nei pressi dell’ospedale, vedemmo la figura di don Ciccio PANELLA (indimenticabile medico condotto) il quale, a nostra preoccupata richiesta, ci disse, spezzando ogni nostra immaginazione, che stavano come beati porci (il mulino Sampietro, ov’è ora la casa rurale, era pieno di farina ed il piazzale antistante
pieno di camion di grano, bloccati; il deposito pluricomunale di don Carletto, era stato appena rifornito di sale e tabacchi e non aveva potuto effettuare la distribuzione a motivo del blocco neve; giù a Sant’Anna era bloccato il camion di bombole di pibigas dirette a Ciccio “Zuliddo”). I giorni successivi, con i volontari dell’Azione Cattolica, ci dedicammo a prelevare malati dalle campagne, ed anche a trascinare qualche bara (nelle contrade più lontane ed inaccessibili, qualcuno era stato costretto a conservare il cadavere sotto la neve, in attesa che mest Peppe Grassi riuscisse a farvi arrivare la bara). Per la vegetazione arborea, fu un vero disastro. Gli olivi ne hanno risentito per un quarantennio.
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THE BIG SNOW OF 1956 Locorotondo was isolated for over one month. We got the news by radio only (we had no TV sets at that time); in this way we were informed that a cross had been drawn on the football field and a helicopter dropped off medicines and other supplies. Neither our neighbours nor we had a telephone. After two weeks, we were very worried, also because both the pasta that Linuccio brought from his home and Nonna Graziella’s egg balls had ended – I used to bring the latter (our lunch was always pasta with tomato sauce and egg balls and horse fillets cooked over a gas-powered stove. We had 500 lire in total (which at that time was quite a good sum); we spent it all in cigarettes and matches (for my father), meat, pasta and other basic supplies. With a rucksack filled with these things, we took a train to Fasano (the South-East Railway Line didn’t work); but when we arrived at Fasano station, we realized that not even the bus line (Di Tano) was functioning. Therefore, we walked, in the snow, all the way to Locorotondo, where we arrived in the early afternoon, exhausted, and sure that we would be welcomed as heroes. When got near the hospital, we met Don Ciccio PANELLA (the unforgettable municipal doctor), who told us – to our surprise - that there was plenty of food (Sampietro’s mill had a big stock of flour and its courtyard was full of trucks
filled with flour as they were stuck there). Moreover, Don Carletto’s warehouse had just been stocked up with salt and tobacco and couldn’t deliver it because of the snow. In addition, the truck transporting the gas tanks that had to be delivered to Ciccio “Zuliddo,” was stuck near the town, at Sant’Anna. In the following days, with the volunteers of Azione Cattolica we committed to pick sick people up from the outskirts, and we even had to carry some coffins (in far away and inaccessible districts some people had to store corpses under the snow while waiting for Peppe Grassi to deliver coffins there). It was a real disaster for trees. Olive trees were affected by it for forty years.
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LOCOROTONDO COME ERA ESTRATTO DALLO SCAMPOLO DI RICORDI N.14 DI ANGELO GIORGIO MUTINATI Questo angolo di Paradiso, nel periodo della mia fanciullezza, era delimitato nella maniera che vi sintetizzo. A Nord, finiva con le case della Via Cavour, ed io ricordo perfettamente che, affacciandomi dalle finestre della casa di Zia Annunziata, la vista spaziava verso Laureto ed il mare. Affacciandomi dalla casa di zia Petronilla, vedevo la via Cisternino, ove “Paul’ Mest’ Traiin’ “ – Paolo maestro dei traini – Paolo Smaltino, eccellente e rinomato fabbricante di carri da traino - costruiva i traini e riscaldava i cerchi nei quali infilare le ruote, adagiandoli sulla carreggiata della strada, deserta, oltre la quale, era campagna. Quindi, percorrendo la via per Cisternino, a destra vi erano le case ed a sinistra era campagna: l’unico corpo di fabbrica esistente, era la cabina elettrica. Oltre tale cabina, era tutta campagna. La scalinata che congiunge Corso Cavour con la Via Cisternino, subito ad Est del largo della “Ruotella” (vi era la ruota per la raccolta dei neonati indesiderati), era chiamata “a’ schel’ d’u maccill’ ” – la scala del macello – perché l’edificio posto ad angolo fra detta scala e la via per Cisternino, ora adibito a bar e/o ritrovo, era il macello comunale. Superata la chiesa di San Rocco, anche la fila delle case a nord di Corso Cavour, fino alla chiesa della Greca, finiva, a Nord, sulla campagna. La piazza davanti alla chiesa Greca, era stata ricavata sul sito dove prima era il vecchio cimitero.
Ad Est, cioè alle spalle della Chiesa della Greca, era campagna. L’attuale piazza Mitrano era un campo sul quale si svolgevano le fiere del bestiame; infatti, era comunemente noto come “Largo Fiera”. Di fronte (verso Cisternino) ed a Sud (verso Martina), era tutta campagna. A sud, il centro abitato era delimitato, come ora, dalla Via Nardelli (Lungomare); seguiva la villa comunale; quindi, a sud dello stradone, fra la villa e l’edificio scolastico, vi era una serie di locali al piano terra. Tutta la piazza del Municipio, era un grande slargo aperto sulla libera visione della serra. Questa piazza, denominata “u’ llarie’ d’ Sant’ Piit’ “ - il largo di San Pietro – era suddivisa in un sistema molto armonico di piazzuole collegate da gradinate; in quella centrale, vi era la vasca ornamentale: per questo motivo, quelli della mia età, la chiamavano “abbasc’ a’ vasch’ ” – abbasso alla vasca -. Era il luogo preferito per i nostri giochi. A valle di questa piazza, estesa fino all’attuale limite settentrionale del Municipio, vi era una strada ed un grande spiazzo erboso, ove sostavano le giostre durante le feste. Ad Ovest, il paese terminava sul “largo delle taverne” (abbasci’ o’ llarie di taverne) – giù al largo delle taverne -, che era l’attuale piazza Marconi. Questa piazza era delimitata a Nord dal palazzo Agrusti e da una serie di fabbricati al
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solo piano terra, tranne il palazzo terminale ad angolo della via di Fasano, che era la casa ed ambulatorio di don Michele Campanella. Ad Ovest vi era, isolato, l’ospedale; oltre, era aperta campagna. Sul lato sud, di fronte all’ospedale, vi era uno stabilimento vinicolo (“Sparisc’ “ – Curri, poi trasferitosi nella stabilimento Mitrano sulla via Stazione), poi, vi era il mulino di “Pasquel’ catarrin’ “ – Pasquale Sampietro - e, infine, una serie di ampi locali al piano terra destinati a taverne, donde derivava il nome del largo “u’ llarii’ di tavern’ “. Locorotondo ha sempre avuto la maggior parte della popolazione residente stabilmente in campagna. Un Popolo di formiche operose, parsimoniose ed infaticabili, dotato di una dignità superiore ad ogni immaginazione, il cui sudore, mai risparmiato, ha sempre emanato il profumo sublime della fatica ed il calore della generosità e della fratellanza autentica e sentita. In paese si veniva al mercato, il quale ricorreva di domenica (non era concepibile interrompere la settimana
lavorativa) e si svolgeva lungo lo stradone (c.so XX settembre); oppure, si veniva al paese nelle maggiori feste, o per eccezionali necessità. Moltissimi, meno abbienti, raggiungevano il paese a piedi, talvolta scalzi, ma, comunque venissero, avendo sempre cura di portare, in un sacchetto, le scarpe buone da indossare all’ingresso, in una commovente forma dignitosa di autorispetto e di rispetto. Il mezzo usato per raggiungere il paese, era il calesse – “a’ sciarrett’ “ – per i più benestanti, oppure “u’ sc’rrabball’ ” – un calesse con ripiano bagaglio posteriore -, oppure “u soprammoll’ “ – un traino con delle primitive sospensioni a balestra -, oppure “u’ traiin’ “ – il carro da trasporto vero e proprio. Giunti in paese, bisognava parcheggiare il veicolo (cosa che, tranquillamente, avveniva al bordo della strada); ma bisognava custodire la bestia (cavallo, o mulo o asino), la quale non poteva essere lasciata attaccata per lungo tempo. I locali posteriori di detti ampi locali, erano, appunto, destinati al ricovero temporaneo del bestiame. Le taverne, però, servivano anche come stazione di posta per i trasporti a trazione animale intercomunali. A latere del ricovero delle bestie da tiro o da soma, però, le taverne offrivano anche la ristorazione. Ricordo benissimo la taverna “della Romana”, posta proprio a fianco dell’attuale Cassa Rurale, e quella “da’ Campion ‘ ”, ubicata all’inizio della via per Cisternino, di fronte al palazzo Agrusti.
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LOCOROTONDO, WHAT IT WAS LIKE When I was a child, the boundaries of this little heaven were as follows: to the north, the town ended with the houses of Via Cavour, and I perfectly remember that when I looked out of the windows of the house of my auntie - zia Annunziata, I could see as far as Laureto towards the sea. From the house of my other auntie - zia Petronilla, I saw via Cisternino, where “Paul’ Mest’ Traiin’ ““ – Paul the carriage master – Paolo Smaltino, excellent and famous builder of carriages – built them and would then heat up the rings into which he inserted the wheels, putting them down on the desert carriageway, beyond which the countryside began. So, walking down the road in direction of Cisternino, on the right-hand side there were houses, while on the left there was the countryside: the only existing building on that side was the power distribution substation. Beyond it, there were just open fields. The steps connecting Corso Cavour with Via Cisternino, east from the square known as Largo della “Ruotella” (it was the place of the foundling wheel where mothers could leave their unwanted babies), were called “a’ schel’ d’u maccill’ ” – the steps of the slaughterhouse – because the building at the corner between said steps and the road to Cisternino, now a bar and/or hangout, was the city’s slaughterhouse. Past the Church of San Rocco, also the line of houses north of Corso Cavour as far as the church called Chiesa della Greca bordered the countryside to the north. The square in
front of Chiesa della Greca had been built on the site of the former graveyard. To the east, namely behind Chiesa della Greca, there was the countryside. Today’s Piazza Mitrano was a field where the cattle fair took place; in fact, it was widely known as “Largo Fiera” (Fair Square). On the opposite side (towards Cisternino) and on the southern side (towards Martina), there were open fields. To the south, the city’s border was marked, as it still is today, by Via Nardelli (Lungomare, namely the so-called Sea Promenade); from there one got to the Villa Comunale, the Town Park; and then, south of the main street known as Stradone, between the park and the school building, there were several premises on a level with the street. The whole square of the Town Hall was a large open space with a view on the hill called Serra. This square called “u’ llarie’ d’ Sant’ Piit’ “ – the square of St Peter – was split into a harmonious system of smaller spaces connected by steps; the central one included an ornamental fountain (‘vasca’ in Italian): for this reason, those that are my age used to call the place “abbasc’ a’ vasch’ ” – down at the fountain -. It was our favourite place where to play. Further down from this square, stretching as far as today’s northern front of the Town Hall, there was a road and a large field where the carousels were set
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up during village fairs and festivals. On its western side, the town ended at “largo delle taverne” (abbasci’ o’ llarie di taverne) – down at the square of the inns -, the current Piazza Marconi. On the north side of this square stood Palazzo Agrusti and a series of building with just a ground floor, except the building on the corner of the road to Fasano, which was the home and the doctor’s surgery of don Michele Campanella. On the western side, in an isolated position, there was the hospital, and beyond it the countryside. To the south, opposite the hospital, there was a winery (“Sparisc’ “ – Curri, which then moved to the Mitrano plant on via Stazione), then the mill of “Pasquel’ catarrin’ “ – Pasquale Sampietro - and, finally, a row of spacious rooms used as inns; hence the name of the square “u’ llarii’ di tavern’ “. Most of Locorotondo’s population has always lived in the countryside all year round. A hardworking folk, parsimonious and indefatigable, and extremely dignified, sparing no effort, thus celebrating the value of hard work but also the warmth of generousness and of a genuine and heartfelt solidarity. People used to come to town on market days, namely Sundays (interrupting the working week was inconceivable); the market took place on the main street, the ‘Stradone’ (officially named Corso Venti Settembre); otherwise farmers came to town on the occasion of important festivals and fairs, or
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for special needs. Many of them, the poorer ones, reached the village on foot, sometimes barefoot, in any case, however they came, they took care of carrying along with them, in a little bag, the good shoes to put on at the town’s entrance, a dignified and touching form of self-respect and respect for others. The means used to get to town was the calash – “a’ sciarrett’ “ – for the better-off people, or “u’ sc’rrabball’ ” – a calash with a trunk for luggage in the back -, or “u soprammoll’ “ – a carriage with primitive leaf suspensions -, or “u’ traiin’ “ – the big carriage used for transportation. Once in town, one had to park one’s vehicle (which was done without problem along the very street); but the animal had to be taken care of (whether a horse, mule or donkey), which could not be left tied to the carriage for a long time. The rooms at the back of these large inns were therefore meant to temporarily accommodate the animals. The inns were also coaching inns for transportation by means of draught animals between towns. Besides the stables for draught and pack animals, the inns also provided catering to travellers. I perfectly remember the inn called “Taverna della Romana”, right next to today’s Cassa Rurale, and the one “da’ Campion ‘ ”, located at the beginning of Via per Cisternino, opposite Palazzo Agrusti.
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credits
Cura | care of Il Tre Ruote Ebbro
Progettazione grafica | Visual design Marina Cito
Progetto espositivo | exhibition project Livianna Curri
Fotografia | Photograph Antonella Convertini Livianna Curri Luciano Gentile Michela Neglia
Testi mostra | texts exhibition Annalisa Adobati Vito Perrini Si ringrazia | we thank Mariateresa Acquaviva Angelo Giorgio Mutinati Allestimenti | Installations Il Tre Ruote Ebbro Partner allestimento | Installations partner Enersetting Ufficio stampa | press Il Tre Ruote Ebbro
Musiche | Music Massimiliano Morabito Adolfo La volpe Pierpaolo Martino Voci | voices Don Antonio Rosato Catia Caramia Traduzioni | Translations Vanessa Martini Chistina Jenkner Claudia Comis Leandro Vichi
Ringraziamo tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione della mostra “Perle di memoria – dagli oggetti ai gesti della tradizione” | We thank all those who have contributed to the Exhibition Un ringraziamento speciale all’ispiratore del progetto Perle di Memoria | Special thanks to Antonio Scanni Pasquale Lodeserto, Corrado Rodio, Nunzia Spalluto, Michele Latorre, Provino Conte, Giovanni Gianfrate, Paolo Smaltini, Nicoletta Narracci, Giorgio Palmisano, Domenico Palmisano, Alessandro Lisi, Angelo Montanaro, Tommaso Magazzese Salamida, Gino Colavecchio, elettrotecnica Menga, Giovanni Giotta, Don Antonio Rosato, Catia Caramia, Ermelinda Prete e il Comune di Locorotondo, Banca di Credito Cooperativo di Locorotondo, Anna Neglia, Il preside, i docenti e soprattutto i ragazzi della III A e III B impegnati con noi nel progetto “alternanza scuola-lavoro” dell’Istituto Agrario “Gigante - Caramia” di Alberobello, Giorgio Palmisano.
I MIEI RACCONTI DEL PASSATO My stories of the past
Š 2017 Associazione culturale Il Tre Ruote Ebbro Volume stampato in coedizione da Pietre Vive Editore / Il Tre Ruote Ebbro ISBN 978-88-99076-22-1 Progetto Grafico: Marina Cito Stampa: Ragusa Grafica Moderna srl Finito di stampare nell’anno 2017
www.pietreviveeditore.it
“Perle di Memoria” è un progetto dell’Associazione culturale “Il Tre Ruote Ebbro” finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale nell’ambito del bando “Giovani per il sociale” - plico 301 - CUP J18I15000150008
Con il patrocinio
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