Ucuntu n.81

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Aguzzatelavista C'è ancora qualcosa che non riuscite a vedere? Camorristi al governo, mafiosi con Berlusconi, terremotati presi a botte, giovani a spasso, ndrangheta a Milano? Bene, ora vi riveliamo un segreto. La colpa non è di Berlusconi. Non è dei mafiosi. Non è nemmeno della, diciamo così, ”opposizione”. E allora di chi è? Guardati allo specchio, distratto concittadino. E lo saprai... De GennaroDell'Utri Dalla ChiesaMafia al nord Mani e RossiI Calabresi Mangano&SturnioloPonte G.RutaRagusa CondorelliCuntu CaldarellaUFistinu Elio Camilleri Schegge di Storia siciliana Chi comanda in Italia - Mafia e P2 || 18 luglio 2010 || anno III n.81 || www.ucuntu.org ||


Modesta proposta v

I primi nomi del nuovo governo... Non si può dire che abbia avuto molto successo la nostra proposta di un governo di unità nazionale guidato da un magistrato sicuramente al disopra delle parti e volto al superamento dell'attuale gravissima crisi, causata principalmente dalla presenza di Mafia, Camorra e Ndrangheta in tutti i principali centri di potere nazionali. Contrariamente a quanto ci aspettavamo né il Presidente Napolitano né i segretari delle varie forze politiche hanno ritenuto di convocarci per chiederci ulteriori delucidazioni. Neanche il Presidente del Consiglio deludendoci profondamente - ha voluto trarre le conseguenze del nuovo clima politico costituendosi alla più vicina caserma dei Carabinieri, continuando ad alloggiare tranquillamente nei suoi vari palazzi come se non fosse successo niente. Sta bene. Incuranti del caldo e dell'indifferenza noi andiamo avanti indefessamente, producendo altresì i primi nomi – visto che uno solo non è bastato – del costituendo Governo. Il cui scopo è, lo ripetiamo per chiarezza e perché nessuno poi dica di non essere stato avvertito, di risolvere il principale e anzi in fondo l'unico problema del Paese, il predominio mafioso. Dunque: agli Affari Esteri abbiamo deciso di mettere, dopo ponderata riflessione, l'esperto e autorevole Romano Prodi. E' l'unico che per ”estero” intenda la Francia, la Svizzera, la Russia, l'Inghilterra e altri tradizionali paesi. Tutti gli altri politici, chi più chi meno, considerano stranieri chi la

Padanìa, chi il Meridione, chi sta un po' più in su o un po' più in giù di loro. E non va bene. Da Prodi (che è federalista serio, e cioè europeo) ci aspettiamo dunque un buon lavoro, e lo preghiamo di comunicarci al più presto la sua accettazione. Agli Interni – sempre che voglia accettare – andrà per la prima volta una donna, Angela Napoli. “Ma è di destra” obietteranno i miei amici, storcendo il muso. Ebbene sì: ma vi sembra il momento di far gli schizzinosi? “Che il gatto sia rosso o nero non importa, basta che prenda i mafiosi” disse una volta il Presidente Mao. E dunque buona fortuna alla camerata Angela, vediamo come se la caveranno i mafiosi contro una buona testa di ferro di calabrese. Alla Difesa, padre Zanotelli. Ci difenderà dai banditi, dai ladri d'acqua, da tutti i talebani in giacca e cravatta che ammazzano più gente in un anno che i talebani selvaggi in cento. L'esercito, naturalmente, sarà stanziato in Italia dov'è il posto suo. Tuttavia, per rispettare i sentimenti patriottici dei patrioti, sarà concessodi stanziarsi liberamente a Kabul (e in Mongolia, su Klingoon, dove cazzo vorranno) alle unità di volontari che vorranno farlo: “Padania Warriors” “Militiae Lepanti”, “Magnafoco del Labbaro” e quant'altro. Così finalmente potranno combattere i nemici dell'Occidente e della Religione in prima persona e non per interposti sldati. Grazie, padre Zanotelli, buon lavoro anche a lei. Al Lavoro ci va, naturalmente, un sinda-

calista. Personalmente, preferirei il mio amico Gigi Malabarba, operaio di Arese; ma mi dicono che è troppo estremista per un ruolo così istituzionale, e allora mettiamoci Guglielmo Epifani. (Notate che il ministero torna del Lavoro e non del welfare, del producing e di altre americanate. Qua siamo in Italia, grazie a Dio, e si parla italiano). Fine parentesi e buon lavoro anche a lei, compagno Epifani. All'Industria invece ci va un industriale, categoria rarissima oramai, sostituita da giocatori di poker, venditori di chiacchiere e ogni tipologia di lestofanti. Un industriale vero l'ho trovato però ed è Renato Soru, che Tiscali se l'è fatta da solo senza farsela regalare né da Berlusconi né da D'Alema. Mi mandi una mail, dottor Soru, ché qua il tempo passa e c'è da fare in fretta. Commissari alle Regioni Mafiose, con poteri adeguati, saranno i tre generali Aurigo, Bozzo e Gualdi, coadiuvati rispettivamente dai Prefetti Serra (già a Roma), Frattasi (Fondi) e Linares (Trapani). Prenderanno ordini direttamente dal Presidente e mi auguro che siano già al loro posto. Va bene. Il resto al prossimo numero, per oggi mi sembra che basti. Con questo caldo, e con tutte le altre cose da fare, vi pare un lavoro da niente mettere su un governo? Eppure a poco a poco ci stiamo arrivando: basta un po' di buona volontà e si riesce a far tutto. Eppoi dicono che noi meridionali non abbiamo voglia di lavorare. Riccardo Orioles

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Chi comanda in Italia

Miss Mafia e Mr Stato Matrimonio difficile Fidanzamento lungo L'accordo era che ciascuno si facesse i fatti suoi, senza pretendere troppo: troppo: controllare controllare il territorio, raccogliere un po' di voti, e soprattutto tener buoni i contadini, cioè i “comunisti”. Poi la mafia, coi soldi dell'eroina, dell'eroina, è diventadiventata troppo potente. Allora Andreotti ha cercato di tirarsi indietro. Ma... Ci sembra il caso di riproporre questa analisi (uscita su Ucuntu esattamente un anno fa) peché proprio in queste settimane viene a maturazione tutta una serie di elementi presenti in a. In particolare comincia ad essere senso comune (v. Mafia FAQ di Bolzoni) l'idea che l'ascesa della “nuova” mafia ai danni della vecchia non sarebbe potuto avvenire senza l'appoggio di forze più propriamente “politiche” e non mafiose: cosa che andiamo scrivendo dagli anni '80 e che, per pura vanità, ci piace adesso sottolineare. (R.O.)

Lo stato, in Italia, ha sempre trattato con la mafia. Ha trattato ai tempi di Giolitti ("camorrista" per Salvemini), di Mussolini (la fine del povero Mori), del'Amgot (Calò Vizzini, Lucky Luciano), di Scelba (Giuliano e Pisciotta) e, naturalmente, di Andreotti. Quest'ultimo, come si sa, si incontrava con boss come Bontate che, con Badalamenti e Inzerillo, formava il triumvirato della mafia di allora. Sia Bontate che Inzerillo furono uccisi dai "Nuovi", i corleonesi. Badalamenti scappò in Brasile, e l'uomo di cui si fidava era Tommaso Buscetta. Falcone, mediante Buscetta, aveva l'obiettivo preciso di far parlare Badalamenti. Non ci riuscì. Che cosa avrebbe potuto dire – e provare - Badalamenti, se Falcone fosse vissuto abbastanza da convincerlo? Che l'onorevole Giulio Andreotti, capo del governo italiano, aveva come interlocutori industriali, prelati,

politici, e anche i boss di Cosa Nostra. Adesso la cosa non farebbe granché scalpore, perché è una storia vecchia, e perché l'opinione pubblica non è più quella di prima. Ma nel '93, o anche qualche anno prima, sapere ufficialmente che un politico aveva commesso il "reato di partecipazione all'associazione per delinquere" Cosa Nostra, "concretamente", "fino alla primavera 1980" avrebbe fatto saltare per aria l'Italia. Altro che Mani Pulite. *** Per questo Falcone è morto e per questo è morto Borsellino. Ovvio che ci siano entrati (come rozzamente si dice) "i servizi", pezzi di stato. Deviati, ma fino a un certo punto. In certi anni, erano quasi ufficiali. I rapporti fra Andreotti e Bontate – ossia, fuor di metafora, fra mafia e stato – non erano finalizzati a assassinii (tranne che di comunisti, che allora giuridicamente non erano esseri umani) , né ponevano a rischio l'autonomia dello stato. Erano rapporti periferici, asimmetrici, localizzati. Il mafioso, a quei tempi, al politico chiedeva cose circoscritte e locali, e il politico gli rispondeva su questo terreno. Al massimo poteva chiedergli una strage di contadini, seppellibili in fretta e senza troppo casino. E' il tipo di rapporto che un ufficiale americano può avere oggi con questo o quel warlord afgano, di cui si conoscono benissimo le atrocità, ma che tutto sommato torna utile per tenere il territorio. "Datemi i voti – diceva alla mafia lo stato - ammazzatemi un po' di comunisti e fate quel

che cazzo volete nella vostra isola di merda". Poi, verso la fine degli anni '70, i signori della guerra si sono impadroniti di testate nucleari. Cioè, oltre metafora, i mafiosi hanno messo le mani sulla totalità del traffico mandiale di eroina e sono diventati dei grossissimi imprenditori. *** A questo punto i rapporti di forza si sono squilibrati. "Col cazzo che restiamo a fare qualche affare di merda quaggiù in Sicilia! Vogliamo contare dappertutto, vogliamo avere la nostra fetta d'Italia esattamente come tutti i vostri imprenditori". Si aggiunge, proprio in quegli anni, una diciamo così infiltrazione. Ad esempio, gli ultimi 150 inscritti alla P2 stanno in Sicilia o sono siciliani. All'estero (“golpe” Sindona) Cosa Nostra comincia a essere un interlocutore a livello alto. Quindi la partita cambia completamente. Quelli come Andreotti si spaventano, cercano di tirarsi fuori. Però è un po' tardi, anche perchè se hai aiutato il talebano a rubare una vacca e ammazzare un paio di comunisti, quello ti ricatta per il resto della tua vita e pretende, pretende, pretende... Mr Stato dice: va bene, adesso ti aiuto a rubare anche un paio di capre. Miss Mafia dice: Col cazzo. Voglio il culo della regina Vittoria, se no dò al Times le foto di te che rubi le vacche e ammazzi i comunisti insieme a me. E il ciclo ricomincia e continua, sempre più incontrollabile e sempre più in alto a ogni giro. Sta continuando tuttora.

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Paese 1/ Il caso Dell'Utri

Non è al governo Ma i governi li fa È molto probabile, se non addirittura certo, che se solo lo volesse il senatore del Pdl, Marcello Dell’Utri, sarebbe ministro. È lui che non lo vuole, l’ha dichiarato egli stesso – con puntuale arroganza – proprio nel giorno in cui è stato condannato in secondo grado a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza della Corte d’Appello di Palermo dice che Dell’Utri ha avuto rapporti con i boss di Cosa Nostra “solo” fino al 1992, mentre nel periodo delle stragi e della nascita di Forza Italia – di cui il senatore è artefice insieme all’amico Silvio Berlusconi – questo genere di rapporti non sussisteva. Improvvisamente, guarda caso. nel ’93, Dell’Utri non ha più alcun contatto con la mafia, a dispetto della parola di numerosi pentiti, secondo i quali Cosa Nostra, per volere soprattutto del boss Bernardo Provenzano, decise di dare il suo appoggio a Forza Italia, come dimostrò poi la piena e incontrastata vittoria in Sicilia di questo partito. Per la giustizia italiana, dunque, dal ’93 Dell’Utri non è più un mafioso, o perlomeno non esistono prove sufficienti a dimostrare che lo sia. È vero che ribadire la propria stima nei confronti dello “stalliere” di Arcore, il pluriomicida Vittorio Mangano, definito “un eroe”, è indubbiamente un messaggio

trasversale di fedeltà alla mafia, ma non ha certo la forza di una prova. Detto questo, anche se ammettiamo che a partire dal ’93 il co-fondatore di Forza Italia, parlamentare da quattro legislature, non sia più classificabile come “mafioso”, resta una condanna a sette anni, definitiva nel merito. Non è sufficiente, questo, perché l’opposizione presenti una mozione di sfiducia al governo chiedendo le dimissioni del senatore? Evidentemente no. Nei commenti dell’opposizione scandalosa era non tanto la conferma della condanna, quanto l’esultanza del centrodestra per il mancato accoglimento da parte dei magistrati d’Appello del “teorema Spatuzza” sulle origini di Forza Italia e il rapporto con la mafia. Niente affondo, niente conta. È vero che

la sfiducia non sarebbe passata, ma avremmo perlomeno avuto un risultato importante: verificare come avrebbero votato – uno per uno - gli ex di An e gli esponenti del centrosinistra per inchiodarli alle loro responsabilità morali e stabilire l’esatta portata della presunta spaccatura nella maggioranza. Dell’Utri, che potrebbe beneficiare della prescrizione e non andare mai in galera, è da considerare, dunque, un intoccabile. Sapere che uno dei fondatori e organizzatori del partito votato dalla metà degli italiani da oltre quindici anni è stato per lunghissimo tempo, si presume dal ’73, colluso con la mafia non fa venire i brividi? Il “bibliofilo” che cita i Karamazov, ma non sa pronunciare il nome Andrej, ha sempre ammesso di essere entrato in politica per difendersi dai processi e, dopo la sentenza di primo grado a Palermo, in cui ebbe una condanna per nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, disse che non si sarebbe dimesso neppure a fronte di un’analoga sentenza in secondo grado. Così è stato. Uno degli slogan più “gettonati” del Popolo Viola è: “Fuori la mafia dallo Stato”. Ma chi, a questo punto, potrà estrometterla? Non è più questione di “trattative”, ma di un intreccio indissolubile. Riccardo De Gennaro

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Paese 2/ “Qui di mafia non ce n'è”

Qualcuno difenda il nord La valanga di arresti in provincia di Milano dimostra che cosa succede in Padania mentre i riflettori sono accesi su Palermo, Napoli e dintorni Protetta dal suo cono d’ombra, la ‘Ndrangheta galoppa a briglia sciolta nella prateria nordista. Fa letteralmente quello che vuole. Sembra che la cosa preoccupi solo un gruppo di magistrati e di esponenti delle forze dell’ordine. Ma il cuore economico del paese, quello su cui soffiò un giorno il vento della Liberazione e fu roccaforte della più combattiva cultura operaia, viene mangiato giorno dopo giorno dai clan attivi ormai in ogni settore della produzione e dei servizi. Le autorità politiche e amministrative, i rappresentanti delle istituzioni di governo, si affannano a dire, da Milano a Imperia, che non esiste un rischio ‘Ndrangheta. Che ci sono solo i rom e i clandestini, che sono loro il problema della sicurezza. E poi i cinesi, già, anche loro ci volevano. Ma organizzazioni mafiose no, quelle non ci sono. Finché, dopo mesi di denunce ultraminoritarie, riecco la conferma: interi paesi trasformati in colonie dei clan. Sta accadendo qualcosa di clamoroso: è al governo del paese una forza che ha fatto della difesa del nord la propria ragione sociale e che invece lo sta lasciando totalmente in balia di bande armate dotate di arsenali di guerra. Scappano, letteralmente scappano amministratori e dirigenti politici. Tanto sanno alzare la voce, fare il petto in fuori, ergersi a santi protettori delle genti davanti ai mi-

nori rom e ai borseggiatori, tanto voltano le spalle, fanno finta di non vedere, se la danno a gambe quando hanno di fronte gli uomini dei kalashnikov. Colpisce questa vigliaccheria diffusa, che viene ancora prima della complicità in voti e affari. Che inevitabilmente seguirà. E anzi già sta emergendo in forme preoccupanti in settori del ceto politico lombardo, dove troppi sono stati i silenzi e gli occhi chiusi, pure a sinistra (le ‘ndrine che si riuniscono in una sede dell’Arci...). Stiamo assistendo a un film surreale. A Erba vengono fatte saltare per aria nella stessa notte due discoteche. Un messaggio chiaro, che non è la pretesa del pizzo, ma una pretesa di controllo sull’industria del divertimento, sui luoghi dove si mescolano gli ambienti sociali e si fa amicizia con i rampolli della buona borghesia, dove si smercia la “roba” senza rischi. I carabinieri dicono: “E’ stato un lavoro da professionisti”. Gli amministratori locali rimbalzano: “E’ stata una ragazzata”. In provincia di Milano si incendiano tabaccherie, bar, locali pubblici, perfino cinema multisale in pieno centro, ma è sempre un cortocircuito, ovvero le cosche come problema elettrico. Saltano le auto ed è sempre per autocombustione, ovvero le cosche come problema termico. A Bordighera e un po’ in tutto l’imperiese si incendiano stabilimenti balneari e negozi, ma il questore smentisce l’offensiva criminale, che invece la magistratura denuncia con forza.

Il governo del nord ha deciso di mettere il bavaglio anche qui: guai a chi parla di mafia nelle nostre terre, che nessuno si mobiliti, guai a chi ci rovina l’immagine, l’Expo milanese deve temere semmai la criminalità straniera, anche se sono le imprese della ‘Ndrangheta a essere spuntate nei lavori delle autostrade e nell’alta velocità. Basta con gli scandalismi; e se c’è un clan è perché ce l’ha mandato Roma trent’anni fa con il confino. C’è un allarme settentrionale, rendiamocene conto. Un’emergenza che va colta rapidamente. Cambiando i sistemi degli appalti, difendendo con unghie e denti le intercettazioni sui reati “satelliti” (un incendio di una ruspa non è un incendio e basta...), puntando a raffica gli accertamenti sui negozi e ristoranti del riciclaggio, e altre cose ancora. Ma prima di tutto dicendo che il nemico c’è, esiste. Quello che è successo al sud, non dimentichiamolo mai, lo dobbiamo ai sindaci e ai politici che negavano l’esistenza della mafia. Lo dobbiamo al cardinale Ruffini, che faceva altrettanto. Lo dobbiamo a quel Tito Parlatore, procuratore generale della Cassazione che al processo agli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale disse che la mafia era materia per i sociologi, mica per i tribunali. Anche il nord oggi ha i suoi Lima, i suoi Ruffini, i suoi Parlatore. Che siano costretti da subito a prendersi le loro responsabilità. Nando dalla Chiesa www.nandodallachiesa.it

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Stampa libera

Un altro giornalista minacciato in Calabria Pietro Comito è l'ultimo collega minacciato in Calabria. Ma già questa probabilmente è una notizia sbagliata. Avremmo dovuto scrivere: “l'ultimo minacciato fino al momento in cui scriviamo”

«Smettila coi Soriano, ché ti buttiamo due fucilate e ti gettiamo nel cimitero». Pietro Comito, caposervizio della redazione di Vibo Valentia di Calabria Ora, ci ha raccontato che quando ha ricevuto la telefonata, aveva appena accompagnato la sua famiglia al mare. Era di corta Pietro ieri mattina e nonostante questo era al lavoro. Appena ritornato in città, in strada a fare il giro di cronaca, come sempre. Pietro come altri diciassette. Perché da quando abbiamo cominciato a occuparci di cronisti minacciati in Calabria, sono già diciotto i colleghi nel mirino. Due, nella manciata di giorni che ci separano dall’uscita di Avamposto. Due settimane fa la telefonata è arrivata a Giovanni Verduci, collega del Quotidiano a Siderno. Numeri impressionanti che confermano il primato negativo della Calabria nei tentativi di imbavagliare la stampa attraverso le minacce di morte. In tutta Italia nell’ultimo anno si contano una trentina di casi, dieci solo in Calabria. Una proporzione che non ha bisogno di commenti. Nel vibonese poi, negli ultimi tre anni, sono saltate in aria due macchine, sono arrivate due buste con pallottole e ora l’ultima telefonata. Diciotto minacce di morte in due anni e

mezzo sono un dato e i dati vanno interpretati. Da una parte una delle mafie più potenti del mondo, abituata e coccolata da un silenzio che per decenni, sia sul piano nazionale che su quello locale, l’ha fatta crescere fino a questo punto. Dall’altra parte un gruppo di cronisti appassionati e mossi dalla voglia di dimostrare che in Calabria si può fare informazione, e si può fare bene. Perché è questo il vero dato di novità. Da quindici anni a questa parte il giornalismo in Calabria si fa e si fa bene. Due nuovi giornali si sono attestati come autorevoli narratori della difficile realtà calabrese, vincendo una scommessa che sembrava impossibile, dato l’asfittico mercato pubblicitario in questa terra. Se si fa buona informazione in Calabria, lo si deve soprattutto alle persone. A quelli che come Pietro in un giorno di vacanza lasciano la famiglia al mare e vanno a cercare notizie. A quelli che vanno avanti con poche tutele e con i pochissimi spiccioli che questo lavoro mette loro in tasca. Naturalmente, a parte Il Fatto Quotidiano, di tutto ciò nemmeno una riga sulle testate nazionali. L’informazione dei grandi numeri non vuole capire. Non vuole capire i rischi, non vuole capire che in questo momento in Calabria le cose stanno cambiando, che una nuova generazione di magi-

strati sta sferrando duri colpi agli uomini della ‘ndrangheta. Non vuole capire che l’informazione ha dato una luce nuova a questa terra, raccontandola così come andrebbe fatto in ogni parte d’Italia. Non vuole capire che da questi avamposti può svilupparsi in tutta la società un vero e profondo sentimento di ribellione contro il malaffare. Ed è proprio questo che non va giù ai criminali, politici e mafiosi. Proprio questo quello che annebbia la ragione di uomini pericolosi. Le nuove leve della ‘ndrangheta. I giovani che prendono il posto dei vecchi boss, maestri nella gestione del silenzio, nell’evitare di fare troppo rumore per crescere sottotraccia. Violenti, assetati di denaro, meno disposti ad accettare che si faccia luce sulle loro azioni e connivenze. E per questo più suscettibili e disponibili alla rappresaglia omicida. Speriamo che la Calabria non diventi mai il carnaio in cui, in passato, Cosa Nostra ha trasformato la Sicilia. Ci hanno detto molti colleghi e molti magistrati. Speriamo che non si ripeta quella’esperienza. Ché in quel carnaio, nel volgere di un trentennio, sono stati seppelliti otto giornalisti. Roberta Mani e Roberto Rossi

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Società civile

Il Ponte e il ricatto del lavoro “No Ponte” non deve diventare un movimento di “ricchi” contro i poveri. Perciò bisogna... Stanno trivellando entrambe le sponde dello Stretto. Una barca va su e giù per il monitoraggio ambientale, il cui costo totale ammonta a 29 milioni di euro. Da dicembre hanno deciso di spostare un binario nei pressi di Cannitello,sponda calabrese: descriverà una curva anziché una retta. Ai contribuenti costerà 30 milioni di euro. Le trivelle dovranno fornire informazioni ulteriori alla progettazione finale, un processo pluridecennale che è già costato un mare di denaro pubblico. La situazione (in tempo di tagli ai servizi essenziali) è molto grave. Non si tratta di un bluff né di un atto di propaganda elettorale ma di un sistema che prevede il trasferimento dei soldi della collettività a pochi soggetti privati, che poi ridistribuiscono le briciole ai più poveri, spessocollegati in maniera clientelare ai grandi decisori. In una situazione “normale”, è facile etichettare questo meccanismo come spreco e disprezzare chi si vende per poco. In un tempo ordinario è possibile evidenziare che i posti di lavoro creati saranno pochi e temporanei. Ma nei giorni della crisi, anche pochi posti di lavoro saranno una manna dal cielo. Anche un incarico temporaneo significa andare avanti per qualche settimana. Gli stessi accordi con le università vogliono lanciare un chiaro messaggio: non saranno coinvolti solo carpentieri e ingegneri, ma anche tanti “disoccupati intellettuali”. Non capire città allo stremo – come quelle dello Stretto – e pronte a emigrare in massa, specie nei settori popolari, significherebbe in breve tempo trasformare il movimento in un circolo di benestanti sensibili assediati da folle di bisognosi. Il movimento No Ponte ha avuto fin dal-

l’inizio una forte componente ambientalista, già da tempo collegata ad altre sensibilità più marcatamente sociali. Bisogna, pero`, riflettere su cosa è diventato certo ambientalismo. I dirigenti di Anas e “Strettao di Messina” non odiano le tematiche “verdi”. Hanno capito che la cura del paesaggio può essere una ulteriore voce di spesa (tra l’ altro è molto più facile studiare i cetacei che mettere in piedi i piloni sul mare) molto consistente. Può essere il modo per introdurre ulteriori opere compensative che coprano il disastro e distribuiscano ulteriore denaro, anche attraverso studi, sopralluoghi, rapporti. Si tratta di un meccanismo ormai sperimentato per tante opere infrastrutturali. Tutto il processo sarà molto lento e terribilmente inefficiente. Dal progetto ai lavori preliminari fino alle fasi successive. Come è avvenuto anche in passato. La lentezza servira` anche a rafforzare il classico luogo comune (“tanto non lo faranno mai”) che indebolisce il movimento contro il mostro sullo Stretto. Nessuno avrà fretta, né i ricchi e ovviamente nemmeno i poveri,perché i posti di lavoro temporanei potranno essere più duraturi grazie a un meccanismo che non funziona bene. Per questo sarà poco utile rinfacciare lentezze ed errori che sono connaturati al sistema. Più il processo sarà lungo, più guadagneranno i politici, il general contractor e tutti gli altri. Persino le azioni di disturbo, quelle che potranno rallentare l’iter, come i ricorsi, non saranno visti come problemi. Discorso diverso – invece – per tutto quelloche potrà bloccare il processo. La manifestazione nazionale No Ponte del 19 dicembre, tenuta a Villa San Giovan-

ni, aveva spostato l’attenzione dall’opposizione alla proposta. Al no alla mega-infrastruttura seguivano quattro idee: la bonifica dei territori inquinati (con particolare riferimento alla vicenda calabrese delle navi dei veleni), la messa in sicurezza del territorio (era ancora nelle menti di tutti il dramma di Giampilieri), un sistema di trasporti efficiente nello Stretto (la smobilitazione del servizio pubblico prosegue inesorabile), infine un sì alle infrastrutture utili e necessarie. Un nuovo welfare, in altre parole, una politica che ridistribuisca reddito, possa affrontare la crisi, rompa i legami di sudditanza, sia attenta a un territorio fragile. Queste idee, però, per diventare concrete e tradursi in un percorso credibile hanno bisogno di un movimento straordinariamente forte e ampio e di soggetti politici, sindacali, sociali, associativi che abbiano il coraggio di accoglierle. Proprio sul palco della manifestazione del 19 dicembre moriva di infarto Franco Nisticò, alle 14. L’unica ambulanza presente era andata via un’ora prima (“pensavamo che non ci fosse più bisogno di noi”, dirà un surreale comunicato dell’ASL) . Un evento fortemente simbolico (grande spiegamento di apparati repressivi ma l’assenza di un servizio essenziale),anche perché Nisticò aveva speso la sua vita per vedere completata la 106, una “piccola opera” che dovrebbe collegare Reggio a Taranto e che invece da sempre è nota come la “strada della morte”, grazie alla collaborazione funesta tra imprese mafiose e grandi ditte nazionali (alcune delle quali impegnate nella costruzione del Ponte). Antonello Mangano e Luigi Sturniolo www.noponte.it

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Sicilia

Elegante dibattito su mafia sì mafia no Dove? Ma in provincia di Ragusa. Le autorità locali sostengono che qui di mafia non se ne prova. Ma i numeri, ahimè, dicono tutt'altra cosa: arresti, morti ammazzati, intimidazioni, minacce, politici molto “amici” e latitanti eccellenti. E allora? La verità è che la mafia c'è se sei disposto a vederla, e dunque – da cittadino – a prendere le misure conseguenti. Altrimenti “non c'è”: come ieri a Catania, come oggi a Milano...

La mafia in provincia di Ragusa esiste? No, al massimo “qualcosina”. È quello che emerge da un incontro a Modicatra il presidente della commissione antimafia siciliana Lillo Speziale e i politici locali. «La provincia - afferma il presidente della provincia - costituisce un'isola felice nel panorama siciliano per quanto concerne il preoccupante fenomeno dell'illegalità». Un'analisi che fa irritare molti: da Libera alla Federazione della Sinistra di Ragusa, passando per le vittime di racket. «La mafia in provincia di Ragusa esiste eccome - dichiara la vittima di un’estorsione, in una lettera firmata au Corrierediragusa.it - e meno male che l´antimafia di Catania ha riconosciuto il mio status di vittima del racket». La provincia di Ragusa è una provincia in cui la mafia non si vede, dove non fa clamore e fa affari tranquillamente. Non si vede ma c’è. A dimostrarlo ci sono innumerevoli episodi. Il più importante solo qualche settimane fa quando venne scoperta, con l’operazione Sud Pontino, una alleanza tra i clan Casalesi - Mallardo, Santapaola Ercolano e altre organizzazioni criminali. Dall’operazione è emerso che il sodalizio criminale imponeva il monopolio del trasporto su gomma tramite la “Laziofrigo”, una società controllata dalla società Paganese Trasporti & co., legata ai casalesi.

|| 18 luglio 2010 || pagina 08 || www.ucuntu.org ||


Sicilia

Questa agenzia pare si imponesse pure nel mercato di Vittoria. Ma è pure la direzione nazionale antimafia a segnalare pericoli. Infatti, nella relazione del 2008 si legge che per i mercati di Fondi e Vittoria «i punti più sensibili per le infiltrazioni malavitose sono costituiti dai servizi di trasporto su gomma dell’ortofrutta da e per i Mercati; dalle imprese dell’indotto; dalla falsificazione delle tracce di provenienza dell’ortofrutta; dal livello anomalo di lievitazione dei prezzi». Ma non c’è solo il mercato. Ci sono pure i tantissimi incendi ad esercizi commerciali; solo negli ultimi due mesi diverse segherie sono state bruciate. Perché sono andate in fiamme? Chi è stato? Sembra evidente che l’ipotesi più plausibile è che sia stata la criminalità organizzata. A Ragusa la mafia c’è e non bisogna sottovalutarla. I numeri parlano da soli: «oltre venti operazioni di polizia e carabinieri negli ultimi dieci anni» – scrive Giuseppe Bascietto, nel marzo 2009, su accadeinitalia.it – «1600 persone inquisite o arrestate per mafia su una popolazione di appena 280.000 abitanti, che, tradotto in cifre, significa un carcerato o un inquisito ogni duecento abitanti (in Italia uno ogni 1200). Ci sono stati oltre 150 morti ammazzati nel territorio ibleo; c'è stato un comune, quello di Scicli, sciolto per infiltrazioni ma-

fiose nel 1993; ci sono stati politici e amministratori locali arrestati con accuse che vanno dalla corruzione all'associazione a delinquere; ci sono capi clan che fondano partiti e partecipano attivamente alla vita politica e amministrativa. Ci sono beni confiscati per oltre 20 milioni di euro (appartamenti, ville, automobili, camion, appezzamenti di terreni, aziende agricole, agenzie di autotrasporti e conti correnti bancari)». Ci sono pure i dati recenti dell’Agenzia per i beni confiscati che documenta a Ragusa 44 beni alle criminalità organizzate. Ma nonostante la storiografia sulla mafia a Ragusa sia scarna alcuni episodi sono emblematici: anche nella provincia “babba” per eccellenza la mafia è presente, e da tanto. Per esempio la storia di Giuseppe Cirasa di Vittoria, affiliato a Cosa Nostra alla metà degli anni ’60 che mise su un impero tramite il contrabbando di sigarette ma anche di armi, droga, antiquariato e reperti archeologici. Tutto questo sfruttando i controlli blandi nella costa orientale. Oppure potremmo ricordare un’altra vicenda, quella degli “esattori di Salemi”: i cugini Salvo. Questi acquistarono ad Acate, tra Vittoria e Gela, mille ettari di terreni agricoli e li adibirono a colture di agrumi, vigneni e serre. Ma non c’è solo il versante occidentale della provincia. Infatti, a Poz-

zallo e Ragusa sono state scovate, anni fa, due grandi aziende metallurgiche dirette da un prestanome di Tano Badalamenti, boss di Cinisi. Ma Ragusa è pure terra di soggiorno. Qui si è rifugiato Gaspare Gambino, nipote del capomafia newyorchese Joseph; e anche, pare, il boss di Catania Nitto Santapaola. Il vero boom criminale si ha tra la fine dagli anni ’80 e ’90 quando si insedia la quinta mafia: la Stidda. Vittoria diventa teatro di numerosi scontri ed omicidi, una città di guerra. Nel 99 c’è la strage di San Basilio a Vittoria in cui perdono la cinque uomini, tra cui due ragazzi innocenti. Forse sarebbe più opportuno, al posto di affermare che la mafia non c’è, di aprire gli occhi su alcuni punti oscuri della provincia più a sud della Sicilia. Come mai sono sorti tanti centri commerciali nell’area modicana? C’è tutta questa richiesta in un paese di 50.000 abitanti? Oppure perché non si sta attenti su personaggi che, nati dal nulla, diventano milionari? Forse la mafia a Ragusa è mafia di “colletti bianchi”? Su questo non ci si vuole interrogare, è più facile dire che la mafia non esiste. Giorgio Ruta, Il Clandestino

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A Ccatana

U' cuntu dell'ex Manifattura Tabacchi “Picch’ i catanisi catanisi non si ribellunu? Picch'i non si pigghianu i chiavi e ci fanno na scola vera, un teatro, un dopuscola un museo, na palestra? palestra?

ci fannu ccà i catanisi. Pinsai: ci fanno un cinima, ci fanno un teatro, una scuola, ci giocano al tri oru tri oru, a zecchinetta…allura trasii e...

Signuri mei viniti, viniti! Signuri mei viniti ca vi cuntu ‘ncunticeddu! Signori mei, ho fatto un viaggio: un lungo viaggio!

...indovinate che cosa si faceva lì dentro? Bravi! Non si faceva niente e indovinate chi ho visto? Bravi! Non visti a nuddu! Ah pecciò ccu tuttu stu laggu ca cc’è non ci fannu nenti! E cu l’avi i chiavi di cca? U Cumuni?

Sapete da dove vengo? Vuatri pinsati…do Mulinu? No! Da Chiana? No! Di Fondachello?No! Di Roma? No! Di Parigi? No! Siguri mei…vengo dall’aldilà! Ho visitato tutto il paradiso! E sapete chi ho incontrato?

E picchì u cumuni inveci di chiuriri i scoli a San Cristofuru non ci fà cca intra! e c Picchì i catanisi non s’arribbellunu!!! Non alo sanno ca cu je fissa sinni và all’infernu?

Si, Sant’Aituzza bedda ca mi pigghiau a sulu e mi rissi: “Arazieddu, ma picchì i catanisi si sumpottunu tanti ingiustizi, tanti supprusi, tanti abusi? “ E iu c’arrispunnii: “Sant’Aituzza, picchì parri daccussì?” E idda: “Mi fici ‘ngiru ppe strati di Catania (strati, sempri, ppi modu di diri), comunque mi fici stu giru ppi viriri come sono combinati i Catanisi, chi fannu, unni stannu e caminannu caminannu arrivai a San Cristofuru e visti l’ex manifattura Tabacchi, un’edificio bello, grande, magnifico. Ppi curiosità pigghiai u me bellu righel-

lu (tanto di tempu ‘navevu un’infinità) e mi misi a misurallu: stanza ppi stanza, metru ppi metru, centimitru ppi centimetru, puttusu ppi puttusu e visti ca misurava 16 mila metri quadrati non sacciu quanti voti cchiu danni da piazza Duomu... MARONNA!

Na vota visti cche me occhi u Signuri ca piggiu a unu per le orecchie e ci rissi: T’arribbillasti? NO? Allura si fissa! E cu je fissa sinni và all’infernu” E giù…e u ittau adda sutta! Arazieddu ci devi dire ai Catanesi d’arribbillarisi, ca cu non s’arribbella è fissa e finisci all’Infernu!” Catanisi chistu mu rissi Sant’Aituzza Bedda: Arribbillativi! Chiamativi i vostri diritti ca cu je fissa, finisci all’Infernu!

E ‘ntisi na vuci darreri ca mi diceva ”Chi c’è?” No, mi scusi signora non chiamavo a lei ma era un’escalamazione: visto quant’è grande sta Manifattura Tabacchi? chissà chi

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Orazio Condorelli, Gapa


'M Paliermu

“Cellentissimu Sinnicu, vulemu...” A Palermo si potrebbe risparmiare per il Festino di Santa Rosalia, se solo si usasse la barca del sindaco Cammarata, quella dove lavorava lo skipper pagato con i soldi dei cittadini, contribuenti a matula. La proposta è dei "Cammarata Toys", costola del famigerato e defunto periodico di satira "Pizzino"

All'ill.mo Signor Sindaco del Comune di Palermo Diego Cammarata Oggetto: Richiesta di messa a disposizione della barca “Molla 2” per il Festino di Santa Rosalia Gentilimissimo Signor Sindaco, con la presente intendiamo rappresentarLe una richiesta di oltre 500 persone iscritte alla pagina Facebook “La barca di Cammarata per il Festino” e dei numerosi negozianti e cittadini palermitani che hanno affisso la locandina realizzata dai promotori del comitato autofedinitosi “I Cammarata- Toys” (come è possibile vedere dalla stessa pagina ueb). In sintetico, Le chiediamo di mettere a disposizione la barca “Molla 2” per rendere il Festino di Santa Rosalia più giocattoloso, economico e soddisfacevolmente quisquiglioso per tutti i palermitani. Siamo coscientissimi del fatto che la richiesta è irrituale, in quanto non siamo così ignoranti da ignorantare che la barca non è di proprietà del Comune, ma di qualcuno dei componenti della di Lei famigghia. Non per niente e per questa - aggiungiamo e princhiamo - soprattutto motivazzione, facciamo appello alla sua smisurata generosità, al suo flagrante senso di respondisabilità verso una comunità vezzata dai bilanci in rosso e dagli arredi in nero lucido smartato, tipo sacco di munnizza amorevolmente messo a marcire sulle pub-

blichevoli vie, piazze e curtigghi storici. Invece, offrirendo ai palermitani tutti lo spettacolicchio della sua barca che si muove per la città, sarebbe come ripetere il miracolo di colui che camminò sulle acque. Un sindaco che si spoglia per un giorno dei suoi averi per farne dono alla comunità. Immagini un po'. La Santuzza potrebbe pure muoversi a commozione e dare a questa città la spinta che ci manca. U miraculu si po' fari. Ci vorresse solo un poco di buona volontà, un priciolo di magnaminità e lo potrà vedere pure Lei, Eccelenza Illustristrissima, come la situazione canbierà

da così a cossì. Sarebbe un gesto che i nipoti dei consuoceri dei nostri nipoti esalterebbero come se fusse il primo segnale di un francescanesimo dalla fascia tricolore che uno spettacolo pirotecnico in confronto ci parerà come un pirito di mulo. E poi, sempre che Vossìa è d'accordo, ci sarebbero un sacco di vantaggi, tutti che vasano la barca, tutti che mandano fiori, Vossìa che fa gli auguri dritto sulla prua come il famoso esploratore Maccellano. Che a quello c'hanno fatto pure la statua e Vossìà secondo noi ha fatto pure di meglio. Artro che scoprire l'Ammerica! Cose che i nostri occhi non ci volevano credere e manco se lo potevano immagginare. E poi quanto si potesse risparmiare? Il Barcarro è là, fermo che aspetta, basta una piccola azzizzata e per questo ci abbiamo pensato noi medesimi a fare il progetto e con quello che si rispammia ci si potessero pagare pure i corsi di aggiornamento e ricualificazione per gli impiegati della Comune. Metti che ci fosse pisogno di uno skipper nel prossimo futuro, meglio portarsi avanti col lavoro. Dico bene, Sua Eccellenza? E perciò, senza volere fare pressione di nessun tipo, -che con tutti gli impegni che Vossìa c'ha, sarà assicutato in questo momento- La preghiamo cortesissimamente di rispondere a questa nostra umile e devota richiesta. Gianpiero Caldarella & Pizzino comitato Barca di Cammarata pizzino@scomunicazione.it www.mamma.it

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Quartieri

“Era come vivere in campagna” Catania: il borgo antico di Librino nei ricordi di chi non si rassegna. E fa proposte per recuperare...

Ci vive da trentasei anni, tutta una vita. Ci ha portato a viverci anche suo marito Santo. Eleonora Guzzetta è librinese di nascita e di paternità, figlia di quell’Alfio Guzzetta che tanti palcoscenici ha calcato e tanto impegno profonde per l’arte ed il suo quartiere. Ma lei, la figlia, dottoressa in Lettere Moderne con una tesi su "Le donne del fumetto" che, per i tipi di Tunuè, è diventato un piccolo bestseller a tre voci nel suo genere, non è da meno. Operatrice culturale, progettista grafica, fotografa, è fondatrice dell’Officina Culturale (e circolo ARCI) "South Media", con cui ha portato a Catania il "bookcrossing" ed eventi letterari e cinematografici unici e preziosi. Eventi che abbracciano tutta Catania e la Sicilia, ma Librino, il borgo vecchio, è lì, nel suo cuore, nella sua quotidianità. Ed ha deciso, con un preciso e duro sfogo pubblicato su internet, di raccontare un pezzo di questa "storia", che nasce dalla vecchia scuola, prima "Pestalozzi" e poi plesso della "Brancati", ma ha un respiro profondo e mai domo. Quindi, la vecchia scuola come paradigma di un quartiere, dove non si è tenuto conto della socialità, dove si sono creati, con il cemento dei palazzoni dormitorio senza servizi, senza spazi comuni, l’isolamento fra le persone, l’incomprensione, la frattura sociale fra i "vecchi librinesi" che non hanno accettato l’esproprio, lo scempio, e i "nuovi librinesi", che in pochi sembrano rispettare chi in quel quartiere ci vive da sempre, da generazioni.

E uno spazio di socialità potrebbe tornare ad essere (come lo era già in passato: per i genitori degli alunni, per chi la frequentava, finanche per i parrocchiani per riunioni, manifestazioni, incontri) quella scuola, che già chiusa è però stata usata come seggio elettorale, lasciando intuire che è stata lasciata così, con tutti gli arredi, palesando il non sapere che farne da parte di chi ha trasferito alunni e insegnanti nel nuovo plesso. «Si potrebbe risolvere il problema della temporanea non agibilità di parte dell’edificio, o comunque usare la parte ancora e comunque agibile - dice Eleonora - ma invece gli incendi si sono ripetuti nelle settimane, anche se il fatto che i Vigili del Fuoco siano stati chiamati è pur un segno di partecipazione, di attenzione, di attaccamento». Ma non basta, ci vuole l’intervento delle istituzioni per evitare che nasca «un nuovo palazzo di cemento», o un nuovo palazzo delle poste, aggiungiamo noi, con il triste accamparsi di emarginati e tossicomani, che spesso concludono lì la loro triste esistenza con una siringa nel braccio. «Una "casa per le associazioni", un luogo di ritrovo per gli anziani - prosegue - non voglio proporre un utilizzo univoco, ma si eviti la perdita di questa struttura, e il suo bagaglio, anche simbolico, di memoria, e la si restituisca ai cittadini, perché la sentano nuovamente come propria, che non si sentano ancora e sempre più scippati». Non ci sta a veder finire e sfinire la sua terra, Eleonora, non intende barricarsi in casa e "non vivere Librino". Lo ha dimostrato negli anni, in discorsi pubblici e

scritti ben affilati, ad esempio con le lotte per le linee bus urbane (portando la voce dei librinesi anche al "Maurizio Costanzo Show", anni fa), lei, affascinante e giovanissima "vecchia librinese" che fa parte di quella piccola minoranza ignorata dai politici attratti dai grandi e facili numeri di Librino "nuovo". «Siamo quasi come i palestinesi - ci dice - la nostra terra è stata colonizzata in maniera violenta e dissennata. Si è pensato a costruire senza tener conto, e secondo me è stato un errore anche antieconomico per gli speculatori palazzinari, della vocazione agricola, e particolarmente vitivinicola, del vecchio Librino, snaturandolo. Il nostro vino, come ho scoperto, è stato decantato anche in un ditirambo di Micio Tempio, ed oggi è solo un ricordo lontano». In una Sicilia dove, riflettiamo, il wine business sta assumendo proporzioni notevoli, il rosso librinese, tanto forte quanto gradevole, oggi farebbe la parte del leone. Un’occasione irrimediabilmente perduta. Eppure, la guardi con l’incarnato che sembra venire da lontano, il sorriso disarmante e quegli occhi azzurri che "bucano" e inchiodano la tua attenzione, e capisci che mica per questo lei si fermerà, che mica farnetica, che mica Librino è perduto. Perché lei, che è librinese e si sente librinese, sa bene, con fede e analiticità, che il corso della storia si può invertire. Roman Henry Clarke, La Periferica

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Quartieri

“Vietato ai grandi!”

Che fine fa un'area verde, in un quartiere abbandonato? Venite in via De Lorenzo, qui a San Cristoforo, e vedre te...

Doveva essere “un polmone verde all'interno di un tessuto urbano degradato” con aree per l'infanzia, per la terza età e per la conversazione ed il relax. Doveva avere un impianto fotovoltaico, una fontana e una bambinopoli. I lavori di costruzione sono stati fatti, ma la vita di questa piazza è stata estremamente breve. Solo due parole bastano a raccontare cos’è oggi: degrado e pericolo. Le altalene, gli scivoli, e gli altri giochi un paio di mesi fa sono addirittura scomparsi e secondo qualche abitante il Comune provvederà presto a chiudere tutta l’area. Erba secca e rifiuti ovunque. All’ombra delle uniche due file di pannelli solari scampati all’assalto dei vandali, ci sono quattro bambini su un tavolo di pietra. Hanno tutti circa cinque anni. Alle loro spalle il ricordo della bambinopoli. “Si purtaru tutti cosi. Prima i smuntaru e poi si purtaru…”, spiega uno. “E perché hanno portato via i giochi?” “Perché erano tutti rotti, dipinti e qui venivano a fumare. Ci hanno detto che la stanno chiudendo e ce li hanno tolti.” “E che faranno di questa piazza?”, chiedo cercando di capire la frontiera infantile tra realtà e immaginazione. “Ora la chiudono, questa piazza! Di-

struggono tutto, poi la risistemano, ci mettono un custode e poi fanno entrare solo i bambini. E qua davanti ci attaccano un cartello con su scritto “vietato ai grandi”!”. I piccoli parlano senza prendere fiato, le loro frasi si accavallano nell’entusiasmo di spiegare a una che non è della zona la vita di quella piazza, in cui almeno adesso se la giocano da padroni. Poi iniziano a camminare tra resti bruciati e rifiuti, dove doveva sorgere un tempo un casotto di cui restano i bassi muretti della base. I bambini ci salgono e continuano i loro racconti senza stare fermi. “Qua ci abitava un vecchio con un cane. Poi un giorno gli hanno incendiato la casa e lui è andato a chiamare i pompieri”. “Anche dà sutta c’è n’autra casa ca incendiaru!”. Questa piazzetta è il luogo di ritrovo “dei grandi, di quelli che si baciano”, mi dicono con un sorriso maliziosetto, “e di quelli che vengono a bere e fumare spinelli”. Con un’asticella di plastica piegata in due a mo’ di pinza i bambini iniziano a scavare tra i rifiuti ammassati nei pozzetti scoperti. E qui di pozzetti scoperti ce ne sono almeno tre. Tirano fuori rifiuti che vanno ad infittire lo strato di munnizza che a chiazze riveste l’area. I bambini afferrano pezzi di carta

stagnola accartocciata “ca servi a fari i stecchi!”, poi uno trova un pacco di cartine lunghe ancora integro (perché di già usati se ne contano a bizzeffe), ne sfila una e la alza come un trionfo. “Cu chista si fannu i spinelli!”. Poi mi mostrano le cassette degli impianti elettrici sconquassate che sono i “ripostigli” utilizzati dagli habitué. All’interno c’è di tutto. Con le loro pinze i quattro continuano a estrarre cartacce, cartine e pattume. Improvvisamente uno inizia a gridare “Signora, signora! Vinissi a taliari! U fumu c’è!”. La sua pinza regge stavolta una bustina di erba. Tutti restiamo a guardare. Poi la lanciano via e con quattro calci è già dentro un tombino. Sotto l’ulivo, con la pinza mi mostrano una cosina blu. “U veleno pi surici!”. “Il veleno per le sorcie”, traduce uno. “Ci sono i topi?”, faccio io. “Sì, ma ci mintemu chistu, iddi su mangiunu e nuatri putemu jucari!”. “E in quali altri posti andate a giocare?” “Ai Saletti, ‘nfacci all’oratorio, ma macari dda fumunu spinelli!… Oppure a piazza Barcellona, ma è a stissa cosa… ci venunu i grandi…”. Sonia Giardina, I Cordai

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Movimenti z

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Libri

In libreria Luigi Politano Pippo Fava Lo spirito di un giornale

ROUND ROBIN

Edizioni

Round Robin

Catania 1980. Nella Milano del sud il clan di Nitto Santapaola domina, in una terra meravigliosa e maledetta, una città in cui coesistono cosa nostra e istituzioni in un gioco di potere fatto di morti ammazzati, grandi opere, corruzione e fiumi di denaro. A Catania vive e lavora un giornalista, Giuseppe Fava, che racconta la verità senza tralasciare nessun particolare. Amori, morte, disperazione e bellezza nelle parole di “Pippo” che diventa il pericolo da abbattere a tutti i costi. Dalla pittura, ai racconti, alle opere teatrali tutto di Pippo Fava è pieno dell'amore per la sua terra. Ed è proprio dopo un anno di pubblicazione de I Siciliani - un mensile di denuncia che farà storia nella lotta per la libertà di informazione - che il giornalista verrà ucciso con cinque proiettili sparati a sangue freddo da spietati killer che il 5 gennaio del 1984 decisero di giustiziare colui che non sarebbero mai riusciti a far tacere.

Il fumetto narra l'esperienza di un uomo che affronta a viso aperto, e con la sola forza delle parole, un sistema che nessuno ebbe il coraggio di denunciare. Nel 1981 Pippo Fava scriveva: “A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: 'Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!'”

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La Round Robin nasce nell'autunno del 2004 dall'idea di giovani studenti universitari, con l'idea di costituire un nuovo soggetto editoriale indipendente in grado d entrare nel mondo dell'informazione con un giornale on line – rivistonline.com – e con la pubblicazioni di romanzi e saggi di giovani promesse della letteratura italiana e straniera. Costituitasi come società editrice nel maggioos 2005, vanta la produzione di un catalogo con titoli che riscuotono un discreto successo nelle librerie. Oltre alla produzione di romanzi e saggi, nelle collane “Parole inviaggio”, “Fuori rotta”, “Fari”, “Corsari”, la casa editrice continua a proporre ai suoi lettori temi di stretta attualità inaugurando la pubblicazione di una serie di Graphic novel, certi dell'importanza di sperimentare nuovi linguaggi. Fumetti dedicati agli eroi dell'antimafia prendono vita nella collana “Libeccio”, in collaborazione con l'associazione “DaSud onlus”.


Schegge di storia siciliana

Ottocento, Novecento: le fucilazioni degli affamati ”Cari tutti, a causa dello squallore di questo periodo preferisco rifarmi alla Storia e quindi avrò il piacere di inviarvi settimanalmente schegge di storia siciliana. Croce diceva che la Storia è viva e la cronaca è morta, e aveva ragione. La cronaca vale un giorno, mentre la storia vale sempre...”. Così l'autore, che è un vecchio militante del movimento anti mafia: ma forse non siamo d'accordo. La storia è un insieme di cronache di tante perso ne comuni. E tutte le cose diventano anch'esse storia, prima o poi. Comun que, ecco le storie che Elio Camilleri sta facendo girare per l'internet. Antiche e attualis sime, siciliane

LA STRAGE DI CALTAVUTURO I contadini e la terra da lavorare per i padroni se la terra è dei padroni, anche per loro se i padroni l’hanno data da lavorare magari a mezzadria, da lavorare solo per loro se la terra è solo loro. I contadini e la lotta per avere la terra da lavorare almeno per non morire di fame e allora si occupa quella terra che i padroni non hanno mai coltivato e che i contadini esigono che sia loro assegnata giusto per non morire di fame. A Caltavuturo i contadini avevano occupato le terre demaniali che dovevano essere loro assegnate come indennizzo all’abolizione degli usi civici, ma che gli amministratori comunali avevano pensato di assegnare agli amici ed agli “amici degli amici”. Quando arrivarono le forze dell’ordine, i contadini abbandonarono il campo che stavano dissodando e si dir-

essero verso il Municipio, chiedendo di essere ricevuti dal Sindaco. Anche i Regi Carabinieri si erano messi nel mezzo per convincerlo a ricevere una delegazione del corteo. Non ci fu nulla da farea: il Sindaco si rifiutò di ascoltare le richieste dei manifestanti perché aveva già ascoltato e assecondato quelle dei suoi amici latifondisti e mafiosi, campieri e sovrastanti. Il corteo fu respinto e dal paese i contadini si diressero verso i campi per rioccuparli. Sulla strada incontrarono una compagnia del Regio Esercito e fu strage. Senza preavviso spararono ad altezza d’uomo, violando tutte le norme che impedivano ai militari di sparare se impegnati in operazioni di ordine pubblico. Era il 20 gennaio 1893. L’eccidio di Caltavuturo, uno dei tanti nel contesto del movimento dei Fasci dei lavoratori, provocò tre morti ed una cinquantina di feriti.

Bernardino Verro partecipò ai funerali e commemorò al cimitero i caduti; dopo un mese tornò a Caltavuturo e consegnò ai familiari gli aiuti che i contadini di Corleone avevano raccolto. L’ASSEDIO DI ANNETTA Annetta, un anno dopo l’altro, si era fatta una bella signorina, aveva straordinari occhi blu e portava liberi i nerissimi e lunghi capelli, ora dietro le spalle, ora a coprire il suo visino, piccolo e delicato. Nei primi mesi del 1861, la tredicenne Annetta si trovò dentro una vicenda incredibilmente complicata a causa delle collusioni non del tutto chiare tra esercito, forze dell’ordine, magistratura del nuovo Stato sabaudo. Al suo papà, Vito Bommarito, incarcerato come presunto responsabile dell’uccisione di due componenti della famiglia

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Schegge di storia siciliana

del Sindaco di Terrasini, Palazzolo, di soprannome “Picuredda” fu proposto dal generale Giovanni Serpi, comandante dei carabinieri e amico di famiglia del Sindaco di chiudere il caso col matrimonio tra il figlio del Sindaco, Pietro, ed Annetta. Vito Bommarito respinse la proposta perché non voleva sacrificare Annetta per ottenere la scarcerazione, ma fu costretto ad accettare che Annetta, passati due anni, avrebbe acconsentito a maritarsi con Pietro. Ma Annetta non ce la faceva proprio a sopportare il suo promesso – imposto sposo, sapeva delle pressioni dei Picuredda, del dolore dei suoi genitori. I genitori, per parte loro, assieme ai Palazzolo-Picuredda, mandavano regali al comandante Serpi. Il promesso -imposto sposo capì che Annetta non lo amava, ne informò il Serpi che sbattè in faccia a Vito ed alla figlia “disubbidiente” tutta la sua collera. La persecuzione assunse le forme incredibili di un assedio dell’intero paese di Terrasini. Da Capaci una colonna del 19mo Fanteria fu dirottata verso Terrasini e bloccò le entrate dalla parte di Cinisi, da quella di Gazzara e dalla parte del cimitero: nessuno poteva entrare o uscire dal paese. Furono arrestate la mamma di Annetta, la nonna, tre zii e una cognata e due amici di

famiglia. Annetta non si piegò neppure al cospetto del comandante della divisione che, finalmente, ordinò a Serpi di liberare tutti da quello strazio. “TRADITORI DA FUCILARE” Alla stazione ferroviaria di Alcamo (TP), il 20 luglio 1943, un’altra strage di civili; a causarla fu la fame, l’istinto di sopravvivenza, l’arte di arrangiarsi: “In paese si era sparsa la voce che alcuni vagoni-merce erano stati sventrati da un bombardamento e in quei tempi di stenti un fatto del genere risuonava alle orecchie di tanta povera gente come una lieta notizia. Per racimolare qualcosa, qualsiasi cosa da portare a casa o che potesse essere scambiata al mercato nero, si poteva persino superare il timore delle bombe. Fu così che il luogo del bombardamento fu presto raggiunto da una da una quindicina di persone per raccattare quello che era fuoriuscito dai vagoni danneggiati, ma è probabile che ve ne fossero molti di più”. (Asta, 2007) Da un carro sventrato dal bombardamento erano venuti fuori e sparsi tutto intorno pacchi di riso, di zucchero, scatolette di carne, formaggini: una manna per tutti quelli accorsi per raccattare qualcosa da

portare a casa, da barattare. Arrivarono di lì a poco anche i Regi Carabinieri che ordinarono a quelle persone rimaste lì a raccogliere cibarie di fermarsi e di riunirsi nel piazzale lì vicino e di allinearsi. Il comandante dei Regi Carabinieri ordinò di fare fuoco e non furono pochi quelli che non intesero ubbidire, cosicché fu lui stesso a cominciare a sparare e in un attimo fu il massacro di otto persone, di otto miserabili morti di fame. I loro nomi e, tra parentesi, gli anni che fu permesso loro di campare: Francesco (18), Giuseppe (56), Salvatore (34), Giuseppe (30), Mariano (30), Salvatore (40), Salvatore (34), Giuseppe (56). Il giorno dopo ad Alcamo arrivarono gli americani e furono accolti festosamente. Questo fatto aiuta a capire il perché della strage del giorno prima perché si vide bene che i siciliani rifiutavano una guerra assurda, non la capivano e avevano già voltato le spalle al fascismo e a Mussolini. “Il disprezzo verso i siciliani che reagivano a modo loro all’insopportabilità della guerra, fu probabilmente all’origine dello scriteriato comportamento degli ufficiali che ordinarono di aprire il fuoco su delle persone inermi: erano siciliani... traditori”! (Asta, 2007)

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Interventi

s L'ipocrisia del “risveglio” complice del degrado “Svegliarsi”; “svegliamoci”; “ne abbiamo abbastanza”. Questi slogan si sentiti dopo gli avvenimenti di piazza Dante, che hanno sconvolto la società civile catanese. Già, “svegliarsi”... ma svegliarsi comporta essersi addormentati prima, ed è evidente che è stato un sonno molto lungo. È stato un sonno lunghissimo delle istituzioni catanesi, che si presentano in piazza e nei quartieri sotto forma di consiglieri comunali, assessori, professionisti della chiacchiera, salvo poi tornare a propri palazzi, e alle proprie poltrone. Ma dov'erano quando si decretava lo sgombero dell'Experia, quando si progettava di chiudere i presidi ospedalieri Santa Marta e Vittorio Emanuele e soprattutto la scuola Manzoni? Questi signori hanno dimostrato di non saperne molto di questo quartiere, l’Antico Corso, e della gente di questo quartiere: lavoratori, padri e madri di famiglia, vicini di casa; è gente cui non si ha alcun diritto di dire “svegliatevi”, o “la mafia fa schifo perché lo sa benissimo; molti sono uomini e donne che hanno vissuto gli anni di piombo locali, i primi ’90, he hanno ben presente la scena del fratello, del vicino, del compagno di giochi da bambini, esanime sull’asfalto. Ed è gente che di queste scene non ne vuole più vedere. Ragion per cui, signori politici, vi preghiamo di un paio di cose: 1. Non permettetevi mai più di trattare gli abitanti dell'Antico Corso con i toni delle ultime dichiarazioni: non sono delinquenti, ma lavoratori e gente onesta che si guadagna da vivere col lavoro, il lavoro vero, non firmando carte e presentandosi ai comizi. 2. Tornate ai vostri palazzi, alle vostre poltrone, tanto siamo abituati a fare a meno di voi. Se chiunque può uscire la pistola e ridurre in fin di vita due persone in pieno

giorno, vicino a una caserma dei Carabinieri, vuol dire che lo Stato ha fallito. Se se lo Stato deve essere presente solo in corso Sicilia, quando c’è da picchiare qualche extracomunitario o quando c’è da sgomberare un luogo di aggregazione popolare coi manganelli, allora meglio farne a meno. Se poi vogliamo veramente discutere di antimafia, eccoci qua, a dire la nostra, a dire che i capi delle famiglie mafiose spesso e volentieri hanno non sono collusioni ma addirittura parentele con chi governa la città e il territorio locale e nazionale. Qui la stessa Università ha per Rettore il presidente regionale di un partito con più indagati per mafia che voti... Ma molti studenti cominciano a interrogarsi, a chiedersi cosa è possibile fare per cambiare la situazione, perché non avvengano più certe cose. Bene, noi una proposta ce l’abbiamo, e la portiamo avanti da 18 anni a questa parte; non è una proposta cui bisogna tesserarsi, né svegliarsi presto una domenica mattina ogni 5 anni per mettere una crocetta e dare una preferenza: è una proposta di lavoro quotidiano, faticoso, invasivo, anche poco gratificante a livello personale. Lavorare per un progetto di aggregazione sociale dal basso, con un doposcuola popolare, un campionato di calcio per i ragazzi del quartiere e organizzato CON i ragazzi del quartiere, attività sportive, momenti di piazza, di denuncia e di aggregazione. Riprendersi spazi abbandonati al degrado strutturale, per riconsegnarli ad una funzione sociale, al quartiere. Il vero messaggio di lotta antimafia è restare radicati in un quartiere popolare che ha subito mille trasformazioni in ve'nt'anni , esserci di casa e non estranei. Centro Popolare Experia, Catania

__________________________________ SCHEDA “I Carabinieri arrestano 16 persone per gare di appalto pilotate per la fornitura di assistenza a fasce sociali deboli” I Carabinieri di Catania hanno tratto in arresto sedici persone appartenenti ad un sodalizio criminale, composto da amministratori, funzionari, e responsabili di cooperative, indagati per “associazione a delinquere finalizzata alla turbativa degli incanti, frode in pubbliche forniture, truffa aggravata in danno dello Stato, falso, abuso d’ufficio ed altro”. Avrebbero fatto aggiudicare a cooperative “amiche” appalti per milioni di euro per servizi di assistenza a fasce sociali deboli. I servizi poi offerti ad anziani, disabili e minori poveri erano di qualità inferiore al dovuto. E’ stato disposto il sequestro preventivo di beni mobili ed immobili per un valore di circa 12 milioni di euro. Fra gli arrestati Giuseppe Zappalà, assessore alle Politiche sociali della giunta Scapagnini, Nunzio Parrinello, consigliere provinciale Mpa, Anna Donatelli, presidente della cooperativa Orizzonti, Salvatore Falletta, vicepresidente della Lega Coop della provincia Catania, Isaia Camerini, Antonino Novello e Paolo Guglielmino. __________________________________

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Lavoro

“Lavorava in nero”. “Non lo conosco”. Aveva vent'anni La morte di Riccardo Spadaro, trovato cadavere dopo molte ore dalla morte (nessuno si era accorto della sua assenza) nella sala macchine della piscina del Palace Hotel Silvanetta di Milazzo, oltre allo sconforto che umanamente ne deriva per la tragica fine di una giovane vita, pone e deve porre seri interrogativi non soltanto nella ricostruzione della dinamica dei fatti, delle circostanze, delle responsabilità che hanno condotto alla sua morte, ma anche delle ulteriori responsabilità di quanti, ad ogni livello, hanno il dovere istituzionale di occuparsi delle condizioni e della qualità del lavoro in Italia, in Sicilia, a Milazzo. L’associazione antimafie Rita Atria, il Presidio Antimafie “Rita Atria” Libera Milazzo-Barcellona con l’Associazionismo Sindacale di Base CUB, intanto, elèvano la propria denuncia per il dilagare del lavoro nero, del lavoro sotto ricatto, del lavoro discriminante il sesso e la razza, del lavoro malpagato, del lavoro che non ha diritti ed ancor più del lavoro a rischio della vita. In questi tempi in cui si pretende l’unanimità sulla negazione dei diritti dei lavoratori (pena il licenziamento), “i diritti e fare sicurezza” negli ambienti di lavoro “costano” e , fatta eccezione di casi di magistrature autorevoli (si veda Guariniello sul caso ThyssenKrupp che contesta l’omicidio volontario), i casi delle morti cc.dd. “bianche” difficilmente ricevono “giustizia”. Chiediamo allo Stato di aprire finalmente gli occhi su tutto ciò e di agire prima che si verifichi l’irreparabile e, vicini a Riccardo ed ai suoi familiari agiremo noi stessi nelle sedi preposte per fare chiarezza ed ottenere giustizia. Nadia Furnari, Ass. “Rita Atria” Santa Mondello, RdB-Cub Santo Laganà, Libera - Milazzo

SCHEDA “Factotum muore in hotel, titolari negano. Aveva 20 anni. Secondo i genitori, lavorava in nero”

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R E T E

MESSINA, 14 LUG - Un giovane di 20 anni è stato trovato cadavere in un hotel dove, secondo i genitori, lavorava come factotum. Ma i proprietari negano. Il giovane era nel vano motori della piscina del 'Silvanetta Palace Hotel' di Milazzo. Secondo gli inquirenti sarebbe morto per un incidente avvenuto nella struttura alberghiera. Il ragazzo - hanno raccontato i genitori ai carabinieri - lavorava da oltre un mese in nero nell'albergo come factot um. I titolari invece sostengono di non conoscere la vittima. (ANSA) *** ''Mio figlio lavorava con la società che gestisce l'albergo dallo scorso 3 giugno ed aveva un contratto part time a tempo determinato. Aveva già lavorato l'estate dell'anno scorso nella stessa struttura che conosceva bene. Non capisco come sia morto e come mai sia stato mandato a quell'ora a controllare l'impianto". Lo dice, affranto, Filippo Spadaro il padre di Riccardo, 20 anni, trovato morto la notte scorsa nel vano motori della piscina del ''Silvanetta Palasce Hotel''. In un primo momento alcuni dipendenti hanno detto che il giovane perito meccanico, che d'estate lavorava nell'albergo per intascare qualche soldo, sarebbe caduto accidentalmente nel vano sbattendo con la testa nel motore. L'amministratore dell' hotel non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. La procura di Barcellona l'ha iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo.

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L I B R E R I A

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|| 18 luglio 2010 || pagina 19 || www.ucuntu.org ||


Antimafia

|| 18 luglio 2010 || pagina 20 || www.ucuntu.org ||


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