Ucuntu n.83

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Vogliamo un governo antimafia E lo vogliamo ora. Altro che Tremonti e Quattroballe! La mafia si sta mangiando l'Italia, Berlusca è nei guai perché i suoi si son fatti beccare in troppi. E della Fiat, nessuno parla più? Eppure il “nuovo modello” è proprio lei... Volete un governo tecnico? Ok. Ma tecnico a modo nostro, non dei padroni Mafia e Politica/ Le origini della P3 Nando dalla Chiesa/ Carlo Gubitosa/ Giulio Cavalli/ Roberto Rossi/ I giornalisti di Calabria Ora/ Pietro Orsatti/ Dacia Maraini/ I ragazzi del Clandestino/ Mauro Biani

Satira Jack Daniel/ C'era una volta il sindacato... || 08 agosto 2010 || anno III n.83 || www.ucuntu.org ||


Italia

A volte ritornano Dopo anni passati a dirci che bisogna votare qualunque candidato premier, perfino Rutelli, pur di non far vincere quell'altro, ora D'Alema rimette al centro la coscienza, o meglio la sua cattiva coscienza: "se si candidasse Vendola non lo voterei". Sara' astensione, voto ai finiani o voto al PDL in coerenza con i suoi ultimi 15 anni di storia politica? Sono anni che mi ribello al ricatto della politica, e continuo a votare secondo coscienza, e quindi spesso a non votare, sfidando gli insulti di amici, parenti e compagni: "così fai il gioco di Berlusconi", "non è il momento dei distinguo", "sei un irresponsabile". Mentre loro sono talmente responsabili nella loro scelta kamikaze del "meno peggio" che nel giro di pochi anni hanno responsabilmente causato l'estinzione dal parlamento della sinistra radicale, senza ridurre di un solo minuto la durata del potere berlusconiano. Ma oggi finalmente ci ha pensato Massimo D'Alema a farci uscire dal ricatto elettorale dove si vota chiunque

perché è contro il Demonio, salvo poi scoprire che il Demonio è il re dei travestimenti. Maximo lo ha detto chiaro: "se si candidasse Vendola non lo voterei", e al diavolo le teorie del voto responsabile, del voto utile, del voto a naso tappato, del voto da non disperdere, del voto pragmatico. Quelle sono storie vecchie, favolette buone per ammansire le folle e fargli votare chiunque sia piazzato lì dai vertici del partito, tipo quel Mirello Crisafulli, senatore siciliano del PD dal 2008, ripreso nel 2001 dalle telecamere della polizia a discutere con il boss mafioso Raffaele Bevilacqua di appalti, assunzioni e raccomandazioni. Oggi però tira aria nuova, e allora seguiamo le indicazioni dell'uomo più intelligente della politica: votiamo quel cavolo che ci pare, senza farne una questione di tattica o strategia, ma affermando il voto come questione di coscienza. Quello che non è chiaro è cosa farebbe D'Alema invece di Votare vendola: astensione, voto ad un eventuale terzo polo di fi-

niani, casinisti e rutelliani o voto al PDL in coerenza con i suoi ultimi 15 anni di storia politica? Sia come sia, D'Alema fa bene a stare attento, perché se siamo al voto di coscienza allora di coscienze nelle urne non ci sarà solo la sua, e se lui è pronto a non votare Vendola anche se non ci saranno altri candidati di opposizione, sappia che per ogni pelo di baffo che si storce di fronte a candidati con eccessi di sinistra ci sono migliaia di persone pronte a sfanculare la coalizione di centrosinistra se produrrà un candidato dalemiano, ovvero inciucista, maneggione, lontano dai cittadini, colluso col vaticano pur di raccattare voti, pronto a rifinanziare le occupazioni militari all'estero pur di compiacere le lobby armiere. E ora facciano pure i seguaci del baffo, candidate a premier Crisafulli o qualche altro boiardo al gusto di muffa, lasciate Vendola da solo a guidare un polo di sinistra radicale, e vediamo chi prende più voti tra i due. Carlo Gubitosa

|| 8 agosto 2010 || pagina 02 || www.ucuntu.org ||


Italia

Riunione di antimafiosi in Sicilia (a Modica,col Clandestino)

Un partito Di Tremonti ha parlato per primo, senza nominarlo, Veltroni (“governo tecnico”) seguito subito dopo da Bersani. Il Fatto, i primi giorni, sembrava incerto fra lui e Draghi. In realtà è una soluzione probabile, e non a caso è quella esorcizzata subito da Bossi e Berlusconi. Qualche rivoluzionario, come Beppe Grillo, preferirebbe direttamente un uomo Fiat, Montezemolo. Ma insomma si va in direzione Tremonti, non per governi “tecnici”, ma proprio per l'assetto finale post- elezioni. Se ce la fanno – cioè se Berlusconi non si ripiglia, se il centrosinistra ci casca, se non scoppia la Grecia nel frattempo – sarà il terzo ventennio, dopo quello di Mussolini e quello di Berlusconi. Ben diversi fra loro, i tre regimi, ma con una cosa in comune: la Fiat. Di Fiat, praticamente, non si parla più. *** La crisi non è politica, è industriale. Comanda Berlusconi? Comandano Tremonti e Marchionne; che tendono a liberarsi, nello sfascio, dall'ingombrante duce e andare avanti da sé. Giovanni Agnelli fu il kingmaker di Mussolini. E Agnelli Gianni, quando ci fu da scegliere, fra Prodi e Berlusconi scelse il secondo. Così nessuno, nè fra i moderati nè fra i radicali ha minimamente citato i centrosinistri "liberal" (giolittiani...) come Ciampi e Prodi. Sarebbe stato naturale. Ma ora implicherebbe una rottura totale con la Fiat, che nella crisi si collloca (come nel '22) all'estrema destra. Questa è la situazione. E' catastrofica non tanto in sé (Berlusconi ha molto meno consenso di quel che dice) quanto perché, essendo la sinistra (tutta) assolutamente priva

di qualsiasi strategia, verrà facilmente egemonizzata dal centro e persino dalla destra, buon pretesto fra l'altro per le componenti peggiori del Pd per calar braghe e mutande in nome della solidarietà nazionale. La solidarietà è necessaria, ed è necessaria non solo l'unità di tutta sinistra, ma addirittura un'apertura a componenti di destra. Non Fini e Lombardo, appendice di altri poteri; bensì la destra “minore”, antipizzo (un nome per tutti: Angela Napoli; oppure l'Azione Giovani di Palermo che tre anni fa, non sostenuta da Fini, si ribellò a Cuffaro). Bisognerà pazientemente disaggregarla e tenerla insieme, come coi “badogliani” monarchici nel '43. *** Questo non può avvenire nella “politica”, ovviamente. Ma può bene avvenire in una Resistenza. Ecco, il centro di tutto è proprio questo. L'unica carta possibile è volare alto, essere e mostrarsi molto radicali, battersi apertamente per cambiamenti di fondo. C'è un terreno su cui ciò è possibile e naturale, ed è la lotta antimafia. I boss mafiosi, oramai, in mezza Italia coincidono coi padroni; e sono sulla via di diventarlo nell'altra mezza.Ieri l'affare-simbolo era Gioia Tauro, oggi è l'Expo di Milano. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti, e il tradimento della Lega non riuscirà molto a lungo a nasconderlo anche al nord. L'antimafia deve diventare il baricentro politico della sinistra, esattamente come la lotta antifascista lo diventò, a un certo punto, per la sinistra di allora. E' facile capirlo per dei giovani, ma non lo è affatto per i

vecchi politici, anche in buona fede. Ma anche per l'antifascismo fu così. Ci volle un salto in avanti radicale, un modo di pensare più giovane, quello dei giovani Gramsci e Gobetti; i vecchi della vecchia sinistra, anche buoni (i Nitti, i Turati, i Bordiga) rimasero irrimediabilmente indietro e non ebbero altro ruolo, anche se nobile, che di testimoniare una indifesa fedeltà. *** Torniamo da un giro all'interno del nostro partito, stavolta in provincia di Ragusa. Il "partito" a Pozzallo era costituito da ragazzi di SL, a Vittoria da quelli del Circolo Impastato di Rifonda; a Ragusa invece il caporione è uno della gioventù francescana e a Modica ci sono i ragazzi del Clandestino, nati da non più di tre anni e su una cosa "piccola" e immediata come la lotta locale (ma poi nazionale, e vincente) per l'acqua. Nè Bersani né Vendola nè Di Pietro o Ferrero, che pure sono delle ottime persone, hanno più di una vaga e lontana percezione di questi giovani, che per noi invece sono il centro (politico, non genericamente simpatico) di tutto, e non da oggi ma da molti anni. Chi ci sta a fare questo partito insieme a loro? Non è uno scherzo. Oggi come ai primordi, un “partito” non deve necessariamente avere tessere e capi. Gli bastano un rudimentale programma (governo antimafia, nel nostro caso) delle idee chiare sulla gravità della situazione, un quadro di poche “semplici” cose da fare e una “ingenua” fiducia nelle vecchie virtù del Paese. Riccardo Orioles

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Politica

Questa non è una crisi, è un'opportunità “Tranquili, niente colpi di testa, avanti col nuovo centro”. E se invece provassimo a cambiare gioco? Abbiamo passato anni a sentirci dire che nel lato “democratico” del Paese era necessario (e utile) smussare gli angoli e democristianare gli animi per non rimanere schiacciati dal berlusconismo. E mentre tutti si esercitavano in un opposizione sempre più pia e a tratti reverenziale abbiamo reso possibile che un uomo come Mister B. e le sue cricche diventassero un “sistema” stabile, collaudato e proprietario delle istituzioni. In una lenta e nemmeno sotterranea Opa lanciata con successo alla res publica. Alla mia generazione hanno detto di stare tranquilli, di non fare colpi di testa, di non scialacquare la nostra giovinezza in attesa di ottenere il certificato doc dello spettatore prematuramente disarmato mentre vede e commenta i giochi di Palazzo. Ci hanno raccontato che non bisognava attaccarlo frontalmente ma giocare di sponda (chissà, forse per un attaccamento alle buone maniere) in un’opposizione che a guardarla oggi ha l’odore acre del “concorso interno”. Ci hanno fatto raccontato che erano tutti impegnati nell’esercitare la propria “vocazione maggioritaria” per costruire visioni e progetti per il paese e oggi, al primo spiraglio, balbettano Tremonti come neo statista salvifico e una coalizione “magna” (nel senso latino e romanesco del termine) con

centristi adescatori di niente e neo legalitari con la firma in calce alle leggi-regalo alla mafia e al riciclaggio di questi ultimi anni. Abusare della pazienza degli onesti è un gioco vile e codardo tanto quanto opprimerli e, ora, la misura è colma. Quello che stiamo vivendo non è né uno sfascio né una crisi: è un’opportunità. Il momento che si aspettava per esporre i modi e i contenuti. In poche parole per rac-

contare e illustrare la propria identità. E allora dica il Pd se è voglioso di andare a braccetto con questo “nuovo” centro che cambia i simboli ma mai le facce, ci dicano i finiani quanto oltre a pentirsi sono disposti a correggere, scendano in campo i movimenti con il proprio diritto costituzionale a manifestare e (finalmente) anche a pretendere. Con chiarezza, onestà intellettuale e senza remore. Ognuno con la fierezza della propria posizione, se serve. Ma non perdiamo l’occasione del riassestamento per pescare ancora una volta nelle zone d’ombra, ritrovandoci con una valigia di consenso che non possiamo e non vogliamo rappresentare. Il Governo bollito racconta la fine della strategia del grigio e della chiarezza ad intermittenza. Qui fuori c’è il partito più grande d’Italia, senza colonnelli né nominati: il Partito degli astensionisti. Costruiamo coerenza, concretezza e partecipazione e ripartiremo a discutere di lavoro, famiglia, scuola e salute. Con fuori tutti i corrotti e i corruttori di una mignottocrazia che oggi non interessa a nessuno. È saltato il tappo, fuori i contenuti. Giulio Cavalli www.gliitaliani.it

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Politica

Governo antimafia, dico io Un'economia divorata dai capitali sporchi, una poli tica sfregiata dagli interessi criminali. E allora... E’ vero. Sa di muffa, il governo tecnico. Ma potrebbe anche sapere di rivoluzione civile. Di grande progetto di liberazione del paese. Immaginate per esempio un governo tecnico per combattere la mafia, ossia tutte le organizzazioni mafiose e quelle simili. Che si ponga fondamentalmente questo scopo. Partendo dalla consapevolezza (rivoluzionaria) che è questo oggi il primo grande problema del paese. Un’economia divorata dai capitali sporchi, una politica sfregiata dagli interessi criminali nei consigli comunali e in parlamento, un ambiente devastato da rifiuti tossici gettati in mare, nelle aree agricole o sotto le nuove costruzioni, professioni inquinate dai facili guadagni, la sanità come bottino di guerra e mica solo in Calabria, soldi sottratti a sicurezza e cultura per buttarli nelle fauci dei lavori pubblici di cricche e clan. E il bilancio dello Stato. E la finanza. E l’informazione, sissignori pure lei. Un governo tecnico che faccia in ogni campo tutto quel che serve a liberarci finalmente da questo aspirante esercito di occupazione, o a farlo arretrare, a non promettergli più un’Italia-eldorado da conquistare senza fatica. Fino alla fine della legislatura, perchè il governo Berlusconi è cotto, senza onore e non ha più la maggioranza. Tutto quel che serve. Nella sicurezza, nella giustizia, nella programmazione e gestione dei lavori pubblici, nella tutela dell’ambiente e del paesaggio, nelle politiche fiscali, nella scuola. Che fissi anche qualche vincolo alle politiche sanitarie delle regioni nell’interesse superiore della nazione. E che intervenga nell’amministrazione della cosa pubblica e nell’esercizio della democrazia rappresentativa. Immaginiamo, solo per fare qualche esempio: una legge per sveltire i tempi dei

processi e che filtri i ricorsi in Cassazione; un’altra che introduca l’obbligo del certificato antimafia per i lavori di movimento terra (finora incredibilmente esenti); una per vietare concessioni, convenzioni e consulenze a imprese e studi professionali riconducibili ai parenti degli amministratori che le decidono; una per reintrodurre i concorsi per i segretari comunali (oggi “di fiducia” dei sindaci) e ridare poteri di controllo ai consigli comunali; una per cancellare la legge elettorale-porcata, a partire dalle liste bloccate. Una per riempire di maestri di strada i quartieri dell’abbandono e della devianza minorile. Eccetera. E poi i provvedimenti che non hanno bisogno di leggi particolari. I soldi a sicurezza, giustizia e istruzione. E basta invece con il Ponte, basta con i grandi eventi. Dare i soldi per l’Aquila agli aquilani, con ferreo controllo centrale (una bella white list) sulle imprese. E via i disinformatori di regime, a partire da chi usò il suo tiggì per definire “minchiate” (da cui l’eterno diritto all’appellativo di minchiolini) le affermazioni di Gaspare Spatuzza. Di nuovo eccetera. Davvero un governo tecnico così sarebbe il ritorno della vecchia politica? Il problema è semmai un altro: avrebbe un governo del genere una maggioranza parlamentare? Perché sarebbe assai grave sapere (e fare sapere al mondo) che il parlamento non desidera un governo intenzionato a combatte-

re la mafia; e non desidera ripulire l’immagine dell’Italia, oggi considerata - piaccia o no - il principale principio di infezione del sistema occidentale. Certo un governo così dovrebbe sapere rappresentare tutte le aree politico-culturali presenti in parlamento. Ma è così difficile? Possiamo mai immaginare che non ci siano persone di destra e sinistra di valore e oneste, considerate tali dal presidente della Repubblica e dal suo primo ministro incaricato, intendiamoci, non certo dai partiti, visto che se no arrivano i giudici costituzionali “avvicinabili” da un Lombardi qualsiasi? E’ una duplice scommessa. Di là un parlamento che dopo le umiliazioni che la politica si è autoinflitta senta il bisogno di riscattare se stesso con un obiettivo superiore, di interesse nazionale, e di esaltare la propria capacità di selezionare al rialzo la classe di governo. Di qua un elettorato che, in nome di quell’obiettivo comune, esprima la saggezza collettiva di rinunciare su più piani a riforme “di destra” o “di sinistra” e accetti il semplice e pulito buon governo (il quale però sarebbe già in sé una riforma...). Obiettivo troppo ristretto? Troppo ambizioso? L’unica cosa certa è che il paese ne ha un bisogno estremo. Se qualcuno ha genio e coraggio li tiri fuori. Nando dalla Chiesa www.nandodallachiesa.it

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Libertà di stampa

Dodici sotto tiro Non fateli morire di mafia e di abbandono Calabria: almeno dodici cronisti nel mirino della 'ndrangheta e dei poteri mafiosi Chiedono di non morire di solitudine. Chiedono di essere giornalisti, di continuare a fare bene il lavoro di raccontare, senza più il rischio di diventare “martiri”. “Presto ci spareranno addosso”, dicono. Qualcuno li ascolti. Sono giornalisti calabresi e sono “tutti esposti”. Rispondono a chi parla di intimidazioni come di medaglie al valore, a chi dice che in Calabria non si vive nel terrore e viene smentito, quaranta ore dopo, dall’ennesima minaccia di morte consegnata a domicilio. Perché così, come la pizza, è arrivato il solito foglietto vergato a mano dagli ultimi balordi, corredato da una bottiglia colma di benzina. Lucio Musolino l’ha trovato sul tavolo della veranda di casa a Reggio Calabria. Alle quattro del mattino: “Questa non è per la tua macchina, ma per te. Smettila di continuare a scrivere di 'ndrangheta, segui Paolo Pollichieni e vattene pure tu”. E siamo a dodici. Dodici giornalisti minacciati in Calabria dall’inizio dell’anno. Praticamente uno ogni due settimane. Non le avremmo mai volute leggere quelle parole. E per come li conosciamo, questi

colleghi, non le avrebbero mai volute scrivere. Non avrebbero mai voluto richiamare i “prodi” giornalisti che arrivano, danno lezioni, riempiono i taccuini delle loro imbeccate e le videocassette di “in paese non parla nessuno”, e se ne vanno via frapponendo mille chilometri. Loro rimangono, sanno quello che accade, scrivono, diventano infami. Le loro famiglie, famiglie di infami. Le loro attività – perché molti di loro non possono permettersi di vivere da giornalisti – negozi da lasciare deserti. Qualcuno ne ha scritto, il atto quotidiano online, il manifesto, il tg3, corriere.it, redattore sociale, affari italiani. Per il resto, il vuoto. Non esistono. Come i peccati. Ricacciati dentro, nel fondo più fondo della cattiva coscienza. I parlamentari Franco Laratta, Paolo Gentiloni, Giuseppe Giulietti, Doris Lo Moro, Nicodemo Oliverio e Rosa Villeco Calipari chiedono al ministro Maroni di intervenire con urgenza sul “caso Calabria”. Non c’è tempo da perdere, 22 giornalisti

minacciati in 30 mesi, dicono, sono davvero troppi. Ossigeno per l’informazione propone di istituire il reato di condizionamento alla libertà di stampa, con l’aggravante del metodo minatorio. Alcuni di loro vivono sotto una blanda tutela. Volanti e gazzelle che arrivano sotto casa e alle porte delle redazioni. Si fermano, controllano che non ci siano pacchi sospetti e se ne vanno. Nessuno di loro ha la scorta. “Troppo inflazionato in Calabria il ricorso a questa misura di protezione, abbiamo pochi uomini” ci rispondono gli inquirenti a cui chiediamo il perché. La risposta non ci soddisfa, l’afflitto burocratese non basta, come non bastano più i comunicati di solidarietà, bisogna agire. La stampa si stampa, si stringa attorno ai colleghi di periferia. Ne parli, ne faccia parlare. Accolga nel primo sfoglio le loro paure. Lo Stato sia Stato, non solo quando si contano i morti per strada. Lo Stato sia Stato, tolga l’elmetto dalle loro teste. Garantisca ai calabresi il diritto alla conoscenza. A questi cronisti “il diritto di non essere eroi”. Roberto Rossi

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Libertà di stampa

I giornalisti calabresi: “Non ci fermeranno” Parla la redazione di Calabria Ora, decimata dall'editore e minacciata dai mafiosi Presto ci spareranno addosso. Perché capiranno che con le cartucce, le bottiglie incendiarie, le telefonate, le minacce mafiose perpetrate nelle loro più variegate forme non funzionano. Siamo giornalisti calabresi. "Infami, bastardi, pezzi di merda" dicono gli stessi mafiosi intercettati nelle carceri. E siamo tutti esposti. Noi che raccontiamo questa terra, e che la viviamo perché è qui che lavoriamo, non siamo come quei "prodi" censurati nel crudo fondo di Mimmo Gangemi su La Stampa del 5 gennaio scorso, i quali "col posteriore degli altri" diventano eroi frapponendo il giorno successivo "mille chilometri di distanza", dopo averci dato lezioni di civiltà" fustigando "l'omertà, le bocche cucite, quanti non avevano avuto il coraggio di farsi intervistare o di mostrarsi, di sillabare un nome, una condanna". Sono gli stessi "prodi" che ancora oggi tacciono, lasciandoci nella solitudine dei nostri confini a fare quello che loro, privi dell'umiltà d'imparare a conoscere davvero questa terra, avamposto del Mezzogiorno, hanno provato a fare solo per "una sera". Per questo diciamo che tutti coloro che nelle redazioni dei giornali calabresi si occupano di nera o giudiziaria, o che comunque nel loro lavoro quotidiano fanno inchiesta toccando le commistioni perverse fra poteri forti, indipendentemente se rientrino o meno nel novero dei già minacciati, sono sovraesposti. Qui c'è la 'ndrangheta, che prima di essere l'organizzazione criminale più potente a livello planetario, quella che ammazza e traffica droga, quella che stringe patti con

la politica e l'alta finanza, è "cultura". Una "cultura" che noi siamo costretti ad affrontare ogni giorno, nelle aule di tribunale come fuori dalle questure, per le strade, nei bar. Oggi tocca al nostro Lucio Musolino, ieri ad altri colleghi di Calabria Ora, o del Quotidiano della Calabria o di qualsiasi altra testata. Domani toccherà ad altri colleghi ancora. La Federazione nazionale della stampa porta il nostro caso all'attenzione del capo della Polizia e dei singoli prefetti, mentre solo grazie ad un libro realizzato dai colleghi Roberta Mani e Roberto Rossi o all'amicizia di pochi inviati della grande stampa, qualche testata nazionale dedica poche righe alle nostre vicende. Sia chiaro al mondo: noi non vogliamo pubblicità, perché le intimidazioni non sono per noi galloni d'appiccicare sulle spalle. Chiediamo solo che la resistenza civile della stampa calabrese tutta - perché in questa sede noi di Calabria Ora vogliamo superare i distinguo e gli steccati della concorrenzialità fra testate - trovi sostegno da una categoria che si ricorda della Calabria solo se viene giustiziato il vicepresidente del consiglio regionale con l'unica colpa di essere un uomo perbene, se i sanlucoti compiono una strage a Duisburg, se una ragazza muore per un black out in sala operatoria o se gli immigrati di Rosarno si ribellano alla protervia dell'inciviltà. Aveva ragione Mimmo Gangemi, abbiamo il "diritto di non essere eroi" e, aggiungiamo, di non diventare martiri. Perché noi vogliamo solo lavorare, lavorare bene, e in pace, animati da quell'impegno morale e ci-

vile che ci spinge solo a compiere quotidianamente il nostro dovere. Ha ragione il nostro sindacato, qui non viviamo nel terrore; d'altro canto però, non possiamo negare che spesso la preoccupazione ci assale. Perché il clima che ci avvinghia si ripercuote sulle nostre famiglie, prima che sulle nostre redazioni. E perché, in Calabria, al giornalista non è riconosciuto il ruolo che gli appartiene. Facciamo cronaca spesso costretti a mendicare atti dagli stessi avvocati dei mafiosi di cui scriveremo il giorno dopo. Magari proprio di quei mafiosi che si siedono al nostro fianco durante un'udienza, o che ci fissano in cagnesco dalle sbarre mentre sotto i loro occhi prendiamo appunti. Stiamo da questa parte del nastro bianco e rosso, assieme ai familiari dell'ennesimo morto ammazzato di una faida che non fa rumore oltre il Pollino e lo Stretto. Per gran parte dei nostri politici siamo solo degli spioni che non si fanno mai gli affari loro, mentre magistrati e poliziotti sono costretti a guardarsi con circospezione ogni qualvolta ci avviciniamo anche solo per chiedere notizia su un'udienza preliminare o su un arresto. Diamo il massimo, ogni santo giorno, per offrire un servizio al lettore, per informarlo, per alimentare la sua conoscenza su fatti di straordinario rilievo pubblico dei quali finalmente si scrive e che continueremo a scrivere , nonostante tutto. Non vogliamo essere né eroi, né martiri, vogliamo solo fare il nostro lavoro, il nostro dovere. Sperando di non doverci rassegnare alla solitudine. I giornalisti di Calabria Ora

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Quando il bavaglio non si vede

Tariffe postali: La prova del fuoco dei gruppettari Appello al sottobosco ribelle italiano pronto a mobilitarsi contro i bavagli solo se qualcuno gli apparecchia la piaz za

Per noi che abbiamo iniziato una avventura editoriale in piena crisi economica le tariffe postali agevolate sono l'unico strumento per poter continuare ad esistere. Se le vogliono proprio togliere, che almeno smettano di dare milioni di euro al giornaletto rosa di Confindustria. Sbavagliatori, gruppettari, popoliviola, grillini, fan di Santoro e Travaglio, manifestatori di piazze Navona, antiberlusconiani e contestatori, unitevi! Oggi avete la possibilità di dimostrare la vostra coerenza: reagite in massa al bavaglio che tocca le PICCOLE RIVISTE SPEDITE SU ABBONAMENTO, così come avete reagito al bavaglio sulle intercettazioni che toccava solo i grandi quotidiani (le piccole riviste non le pubblicano perché nessun amico gliele passa). Se vi siete persi le puntate precedenti ve le riassumo io: 1 - Il primo aprile, senza nessun preavviso, hanno cambiato da un giorno all'altro in finanziaria le tariffe di spedizione in abbonamento postale, mandando all'aria i bilanci di migliaia di riviste calcolati sulle tariff-

fe precedenti. È un colpo al cuore della piccola editoria che mette a rischio la biodiversità culturale del Paese. 2 - Di fronte alla sollevazione di popolo sono stati inseriti emendamenti in Finanziaria in cui si è detto che le poste POTEVANO applicare le tariffe precedenti, facendo credere che quel "potevano" fosse un "fate pure, accomodatevi, potete agevolare le riviste senza problemi". 3 - Le Poste Italiane che non sono più un servizio pubblico ma una SPA hanno detto "sì, possiamo, ma non VOGLIAMO". Tiè. È il libero mercato, lo stesso che porta milioni di euro nelle casse di radio, riviste e quotidiani "amici", mentre strozza gli altri che vivono solo di abbonamenti e non di inciuci politici. 4 - A quel punto il governo ha fatto la sua bella figura con l'emendamento farsa, e le Poste fanno il lavoro sporco spremendo come un limone le piccole testate. 5 - Ora la FIEG sta contrattando con le poste per addolcire la pillola trasformando tariffe abominevoli che uccidono sul colpo in tariffe insostenibili che faranno lenta-

mente morire di asfissia tutte le piccole riviste. E c'è chi di fronte a questa sodomia programmata della microeditoria dirà che basta mettere un po' di vaselina per non avere più ragione di lamentarsi. E ora tocca a voi, cittadini attivi nei movimenti di resistenza civile, decidere se si farà qualcosa o no per scongiurare il silenzioso omicidio della piccola editoria a cui si negano le agevolazioni postali per continuare a foraggiare con milioni di euro i giornali dei padroni e dei partiti. Questa volta siete da soli, perché non avrete nessun grande blog, nessun grande comico, nessuna grande testata giornalistica, nessun grande giornalista e nessun grande opinionista a farvi da apripista. Di fronte questa mascalzonata gli "opinion leader" preferiscono occuparsi d'altro. In breve: se domani chiuderanno migliaia di testate, questa volta non prendetevela con Berlusconi, ma con la vostra incapacità di mobilitarvi se non c'è nessun gregge da seguire. Ulisse Acquaviva www.mamma.am

|| 8 agosto 2010 || pagina 08 || www.ucuntu.org ||


Promemoria

Noi che ricordiamo noi che non ci accontentiamo “Noi che sappiamo come la nostra democrazia, democrazia, la nostra economia, il nostro patto sociale siano da sempre condizionati...”

Won’t you help to sing These songs of freedom? ‘Cause all I ever have: Redemption songs Siamo ancora qui, noi che ci ricordiamo la rabbia per la morte di Peppino, che abbiamo lasciato il segno delle nostre mani dove è caduta Giorgiana, che non ci scordiamo di Walter e di Valerio. Noi che ci siamo fatti le ossa nelle radio libere, sui dazebao e le fanzine, sui giornali che nessuno voleva distribuire. Siamo ancora qui, con i segni delle bastonate prese a Comiso e del freddo penetrato nelle ossa davanti ai cancelli di Montalto. E che poi, a Genova, siamo stati cancellati, spazzati via, dalla violenza del potere e dalla stupidità dei luoghi comuni. Continuiamo a dirci vivi noi che eravamo un milione in piazza “in nome del popolo inquinato”, che abbiamo vinto un referendum e perso l’ingenuità, che a contarci eravamo niente ma che poi per una breve stagione abbiamo fatto la differenza. Siamo ancora qui, noi che definiamo “fascista” la strage di Bologna e che cerchiamo e chiediamo ancora la verità su Ustica. Siamo ancora qui a disubbidire all’ordine di andare in guerra, al quieto vivere mentre si combatte a un’ora di volo da casa. Siamo noi che abbiamo preso un traghetto per Spalato per essere testimoni civili della prima guerra in Europa dopo il 1945. Siamo ancora qui, vivi, noi che abbiamo pianto al funerale di Berlinguer e in silenzio siamo andati a fare un saluto a Alex che aveva scelto la via più difficile. Siamo ancora qui noi che conserviamo ancora quella prima pagina de “il manifesto” del 1996 che titolava, semplicemente, “Buongiorno”. Noi che abbiamo tremato quando uccise-

ro Falcone e poi urlato contro il potere di quel sistema politico in dissoluzione quando la storia confermò se stessa a via D’Amelio, quando l’innominabile patto fra un pezzo di Stato e il potere di mafia chiese altro sangue. Noi che a Portella della ginestra ci andiamo in silenzio, che sia il primo maggio o no. Noi che abbiamo fatto teatro civile e poi documentari sulla povertà, l’esclusione, il lavoro. Noi che abbiamo scritto milioni di parole denunciando il potere e il malaffare, la violenza e l’arroganza e che continuiamo a farlo nonostante tutto. Noi che si facevano duemila chilometri in autosop in un giorno e non avevamo paura di essere libri aperti. Noi che abbiamo cercato di raccontare il mondo così come lo vedevamo. Dalla Somalia alla Cecenia, dalla Bosnia al Mozambico, dal Brasile a Gerusalemme. Noi che non abbiamo votato per la prima Guerra del Golfo, che abbiamo disobbedito alla chiamata alle armi in Kosovo, noi che chiediamo da quasi un decennio il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, noi che in Iraq non volevamo neanche un soldato italiano. Noi che sappiamo perfettamente quali innominabili interessi sono stati coperti in Somalia, noi che sappiamo perché sono stati uccisi Ilaria e Miran. Abbiamo ancora voce noi che il giorno che è scoppiato davvero il caso Marrazzo, con la sua coda di testimoni morti, abbiamo fatto subito il collegamento con quella lurida vicenda di qualche anno fa a Bologna: la Uno bianca. Divise diverse, forse, ma lo stesso profilo. Noi che ci ricordiamo a memoria la lista della Loggia P2 e i contenuti della legge Anselmi e che appena sentiamo il nome di

Flavio Carboni ci ricordiamo immediatamente di Calvi appeso sotto il ponte del Frati Neri a Londra e della morte di Ambrosoli. Siamo ancora qui a raccontarci e a raccontare. Con tutti i linguaggi che abbiamo imparato e continuiamo a scoprire. Perché sappiamo di non avere ancora risposte, da quella festa violentemente interrotta con le armi sui monti alle spalle di Palermo il primo maggio del 1947. Noi che sappiamo che esiste un potere visibile e un altrettanto forte potere invisibile, che troppo spesso coincidono, al controllo di questo Paese. Perché sappiamo che la nostra sovranità è stata limitata per più di mezzo secolo da interessi e poteri esterni, da un lato, e dall’odore dei soldi della criminalità organizzata dall’altro. Noi che sappiamo come la nostra democrazia, la nostra economia, il nostro patto sociale siano da sempre condizionati da accordi illegali e innominabili fra apparati e criminali e imprenditori senza scrupoli. Noi che abbiamo deciso di metterci la faccia, di testimoniare. Di denunciare violenze e estorsioni, affari truccati e gruppi di potere illegali, politici corrotti o – perfino peggio – accecati dal narcisismo. Noi che non vogliamo guru o salvatori ma vorremmo essere parte di una società di eguali. Noi che non crediamo alle parole d’ordine e alle semplificazioni ma al dialogo e a un progetto comune e condiviso. Noi che non abbiamo eroi ma ricordi, che non abbiamo testi sacri ma un laico dubbio. Siamo ancora qui, più cinici e disincantati, forse. Ma ci siamo ancora. Pietro Orsatti gliitaliani.it

|| 8 agosto 2010 || pagina 09 || www.ucuntu.org ||


Libri

In libreria Luigi Politano Pippo Fava Lo spirito di un giornale

ROUND ROBIN

Edizioni

Round Robin

Catania 1980. Nella Milano del sud il clan di Nitto Santapaola domina, in una terra meravigliosa e maledetta, una città in cui coesistono cosa nostra e istituzioni in un gioco di potere fatto di morti ammazzati, grandi opere, corruzione e fiumi di denaro. A Catania vive e lavora un giornalista, Giuseppe Fava, che racconta la verità senza tralasciare nessun particolare. Amori, morte, disperazione e bellezza nelle parole di “Pippo” che diventa il pericolo da abbattere a tutti i costi. Dalla pittura, ai racconti, alle opere teatrali tutto di Pippo Fava è pieno dell'amore per la sua terra. Ed è proprio dopo un anno di pubblicazione de I Siciliani - un mensile di denuncia che farà storia nella lotta per la libertà di informazione - che il giornalista verrà ucciso con cinque proiettili sparati a sangue freddo da spietati killer che il 5 gennaio del 1984 decisero di giustiziare colui che non sarebbero mai riusciti a far tacere.

Il fumetto narra l'esperienza di un uomo che affronta a viso aperto, e con la sola forza delle parole, un sistema che nessuno ebbe il coraggio di denunciare. Nel 1981 Pippo Fava scriveva: “A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: 'Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!'”

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La Round Robin nasce nell'autunno del 2004 dall'idea di giovani studenti universitari, con l'idea di costituire un nuovo soggetto editoriale indipendente in grado d entrare nel mondo dell'informazione con un giornale on line – rivistonline.com – e con la pubblicazioni di romanzi e saggi di giovani promesse della letteratura italiana e straniera. Costituitasi come società editrice nel maggioos 2005, vanta la produzione di un catalogo con titoli che riscuotono un discreto successo nelle librerie. Oltre alla produzione di romanzi e saggi, nelle collane “Parole inviaggio”, “Fuori rotta”, “Fari”, “Corsari”, la casa editrice continua a proporre ai suoi lettori temi di stretta attualità inaugurando la pubblicazione di una serie di Graphic novel, certi dell'importanza di sperimentare nuovi linguaggi. Fumetti dedicati agli eroi dell'antimafia prendono vita nella collana “Libeccio”, in collaborazione con l'associazione “DaSud onlus”.


Pacifismo

Nonviolenza: intervista a Dacia Maraini “Sono cresciuta in una famiglia che aborriva la guerra...” Come è avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza? Sono cresciuta in una famiglia che aborriva la guerra, che ha fatto una coraggiosa scelta pur di non aderire al nazifascismo, per cui ci siamo fatti due anni di campo di concentramento in Giappone. La nonviolenza l'ho bevuta col latte materno. Quali personalità della nonviolenza hanno contato di più per lei, e perché? Come prassi, l'ho detto, i miei genitori. Come ideali, anche dei miei, Gandhi, Madre Teresa di Calcutta, I medici Sans Frontieres, i medici a piedi scalzi, Emergency, Amnesty international. Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica? Intanto si dovrebbe dire che, salvo alcuni rari casi, tutti i grandi romanzieri sono stati contro la guerra e contro la violenza. Anche coloro che l'hanno cantata la guerra, come ha fatto Omero, ne hanno mostrato l'orrore e la miseria. Comunque consiglierei agli studenti di leggere Tolstoj, Hermann Hesse, Bertolt Brecht, Tiziano Terzani, Renata Viganò e il suo bellissimo L'Agnese va a morire, Anna Maria Ortese: Il mare non bagna Napoli, Lalla Romano: Maria. Quali iniziative nonviolente in corso oggi nel mondo e in Italia le sembrano particolarmente significative e degne di essere sostenute con più impegno? Si può intendere la violenza come fatto collettivo e nazionale: la guerra. Si può intendere invece come fatto personale: lo stupro, le botte, la schiavitù della prostituzione. tutti coloro che combattono contro questi fenomeni, sia che lo facciano come imsegnanti nelle scuole, sia come suore e mo-

naci, sia come volontari laici, sia come fondatori di case per le donne picchiate, sia come medici di frontiera, sia come magistrati che applicano coraggiosamente la legge, combattono praticamente contro la violenza. In quali campi ritiene più necessario ed urgente un impegno nonviolento? Comincerei con l'esercito e i volontari. Finché non si sfata il mito della guerra e della violenza ci saranno sempre pericoli. Quali centri, organizzazioni, campagne segnalarebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia? Ce ne sono molti. gli direi comunque di informarsi, di andare a vedere e poi scegliere. Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali? La nonviolenza secondo me si basa su due condizioni essenziali: rispetto per l'altro e sviluppo dell'immaginazione. Non è il cuore ma l'immaginazione che ci fa capire le sofferenze altrui e ci spinge ad agire. Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo? Le donne hanno subito storicamente e continuano in molti casi a subire violenze terribili, basti pensare alle migliaia di donne ferite, picchiate in famiglia, alle donne uccise dai loro partner e questo succede anche nei paesi industrializzati che si pretendono emancipati. Per tutti questi motivi le donne sono più sensibili ai temi della nonvioalenza e direi che sono istintivamente dalla parte di chi la pratica. Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia? È una questione di cultura. Chi difende il territorio e l'integrità dell'ambiente non può

non stare dalla parte della pace e della nonviolenza. Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani? L'ho già detto: non si tratta di un sentimento ma di una cultura, di una scelta precisa che deriva da conoscenza, consapevolezza e responsabilità. Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia? Mi sembra evidente: la mafia coltiva la violenza, anzi direi che è la sua arma preferita, quindi essere contro la mafia vuol dire essere contro la violenza. Qualcuno sostiene che la severità contro i crimini possa essere interpretata come un'altra forma di violenza. Ma direi che sbagliano. La violenza è sempre l'imposizione del più forte sul più debole, mentre il rigore della legge colpisce il più forte in nome del più debole. Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte del movimento dei lavoratori e delle classi sociali sfruttate ed oppresse? E tra nonviolenza e lotte di liberazione dei popoli oppressi? Ho già risposto prima. Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo? Sono due facce della stessa medaglia. Come caratterizzerebbe la formazione alla nonviolenza? Bisognerebbe cominciare dalle scuole primarie, portando i bambini a riflettere sui temi della nonviolenza, leggendo libri che insegnino a rifiutare la violenza, ma sopratutto insegnando loro il rispetto dell'altro sempre e in qualsiasi condizione. Paolo Arena e Marco Graziotti Viterbo oltre il muro

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Libri

In libreria Antonio Mazzeo I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina Prefazione di Umberto Santino

Dall’Introduzione: Speculatori locali o d’oltreoceano; faccendieri di tutte le latitudini; piccoli, medi e grandi trafficanti; sovrani o aspiranti tali; amanti incalliti del gioco d’azzardo; accumulatori e dilapidatori di insperate fortune; frammassoni e cavalieri d’ogni ordine e grado; conservatori, liberali e finanche ex comunisti; banchieri, ingegneri ed editori; traghettatori di anime e costruttori di nefandezze. I portavoce del progresso, i signori dell’acciaio e del cemento, mantengono intatta la loro furia devastatrice di territori e ambiente. Manifestazioni di protesta, indagini e processi non sono serviti a vanificarne sogni e aspirazioni di grandezza. I padrini del Ponte, i mille affari di cosche e ’ndrine, animeranno ancora gli incubi di coloro che credono sia possibile comunicare senza cementificare, vivere senza distruggere, condividere senza dividere.

Agli artefici più o meno occulti del pluridecennale piano di trasformazione territoriale, urbana, ambientale e paesaggistica dello Stretto di Messina, abbiamo dedicato questo volume che, ne siamo consapevoli, esce con eccessivo ritardo. Ricostruire le trame e gli interessi, le alleanze e le complicità dei più chiacchierati fautori della megaopera, ci è sembrato tuttavia doveroso anche perché l’oblio genera mostri e di ecomostri nello Stretto ce ne sono già abbastanza. E perché non è possibile dimenticare che in vista dei flussi finanziari promessi ad

una delle aree più fragili del pianeta, si sono potuti riorganizzare segmenti strategici della borghesia mafiosa in Calabria, Sicilia e nord America. Forse perché speriamo ancora, ingenuamente, che alla fine qualcuno

avvii una vera inchiesta sull’intero iter del Ponte, ricostruendo innanzitutto le trame criminali che l’opera ha alimentato. Chiarendo, inoltre, l’entità degli sprechi perpetrati dalla società Stretto di Messina. Esaminando, infine, i gravi conflitti d’interesse nelle gare d’appalto ed i condizionamenti ideologici, leciti ed illeciti, esercitati dalle due-tre famiglie che governano le opere pubbliche in Italia. Forse il recuperare alla memoria vicende complesse, più o meno lontane, potrà contribuire a fornire ulteriori spunti di riflessione a chi è chiamato a difendere il territorio dai saccheggi ricorrenti. Forse permetterà di comprendere meglio l’identità e la forza degli avversari e scoprire, magari, che dietro certi sponsor di dissennate cattedrali nel deserto troppo spesso si nascondono mercanti d’armi e condottieri delle guerre che insanguinano il mondo. È il volto moderno del capitale. Ribellarsi non è solo giusto. È una chance di sopravvivenza.

Scheda autore Antonio Mazzeo, militante ecopacifista ed antimilitarista, ha pubblicato alcuni saggi sui temi della pace e della militarizzazione del territorio, sulla presenza mafiosa in Sicilia e sulle lotte internazionali a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ha inoltre scritto numerose inchieste sull’interesse suscitato dal Ponte in Cosa Nostra, ricostruendo pure i gravi conflitti d’interesse che hanno caratterizzato l’intero iter progettuale. Con Antonello Mangano, ha pubblicato nel 2006 Il mostro sullo Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte (Edizioni Punto L, Ragusa).

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Sport

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Appuntamenti

Le cinque giornate di Messina Teatro, musica, cultura, NoPonte: Messina giovane comincia a venir fuori Consequenze in collaborazione con Libera, NoPonte, Associazione antimafie Rita Atria, NoTav, Energia Messinese, Blindsight Project, LaSpecula.com con la partecipazione delle Compagnie teatrali Daf, Teatr02, Luna Obliqua, Peppino Impastato e degli Attori Indipendenti per le 5 Giornate presenta "Le 5 Giornate di Messina - Il Tempo Nuovo dalla libera espressione artistica di testimonianza sociale". Dal 27 al 31 Agosto 2010 Messina ospita dunque uno straordinario appuntamento di teatro, musica , fotografia e impegno sociale e civile. Tantissimi ragazzi daranno vita a una kermesse artistica unendosi alla popolazione per dare vita a un tempo nuovo. Con questa manifestazione prende vita un grande progetto per il recupero degli spazi espressivi e democratici indispensabili per costituire una consistente piattaforma di sviluppo e di crescita collettiva. Oltre 100 ragazze e ragazzi tra i 15 e i 27 anni scendono in strada per rappresentare con vitalità e passione il profondo desiderio di essere protagonisti di un tempo nuovo. Metteranno in campo la loro forza espressiva per manifestare con responsabilità, l’esigenza non più rimandabile di ricoprire un ruolo centrale e decisivo nel governo del futuro di questo Paese. Da Messina verrà lanciato un messaggio forte fondato sul lavoro, sulla cultura e sull’identità, e sarà un segnale limpido e determinato affinché Istituzioni e Partiti po-

litici evadano da una sterile conflittualità per porsi in ascolto delle istanze che provengono dalla cittadinanza. Il lavoro di questi giovani è fatto di presenza e di impegno, di dignità e coraggio. Si ispira al primo Articolo della nostra Costituzione e oltrepassa le appartenenze per riappropriarsi di diritti fondamentali e di valori, quali quelli della legalità, della solidarietà e dell’uguaglianza. Tutti coloro che partecipano attivamente alla riuscita di questo evento sono consapevoli che non esiste futuro senza riferimenti culturali solidi e condivisi. L’identità che rivendicano non si limita alla realtà territoriale e non segue indirizzi localisti, ma viene affermata con chiarezza nei principi che alimentano il loro entusiasmante

progetto. L’Italia è lacerata da una straziante crisi morale, in cui rischiano di venir meno molti dei riferimenti essenziali per la convivenza pacifica. Le 5 Giornate di Messina nascono da una grande iniziativa popolare e giovanile che con orgoglio sceglie di battersi per contribuire alla rinascita anche etica del Paese. L’adesione a questo appuntamento non può e non deve fermarsi all’atto di presenza, così come il progetto complessivo che parte dallo Stretto non si esaurisce nei cinque giorni di rappresentazioni e di incontri. Tutti i ragazzi de Le 5 Giornate chiederanno a Istituzioni ed Enti Locali la gestione autonoma di teatri dismessi o non utilizzati, in quanto spazi espressivi e aggregativi capaci di essere punti di riferimento per le comunità. Una proposta che di certo non si ferma al solo aspetto artistico ma vuole diventare uno strumento di socialità e di formazione, per valorizzare le potenzialità presenti nei territori e creare nuove opportunità di lavoro, anche riducendo le distanze tra entità produttive, distribuzione e consumo. Il tempo nuovo non è un processo solo stabilito dallo scorrere degli anni, ma spesso è determinato dai sentimenti, dai sogni e dalla volontà popolare. Info e adesioni: le5giornatedimessina@consequenze.org www.consequenze.org 392.5398886

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Appuntamenti

Il Festival di giornalismo del “Clandestino” Modica: giornalisti indipendenti da tutta Italia con la giovane e combattiva rivista iblea

L’idea di un Festival del Giornalismo nasce dal desiderio di promuovere, a Modica, la conoscenza del panorama informativo azionale, con particolare attenzione al mondo giornalistico siciliano. Figure di spicco hanno, infatti, segnato la storia del giornalismo in Sicilia, sia per la loro incessabile ricerca della verità, portata avanti con un’attenta dedizione al mestiere, sia per le loro tragiche vicende. Giornalisti come Giovanni Spampinato e Pippo Fava, spesso dimenticati nell’indifferenza della società, devono invece servire da monito in un contesto difficile come quello che si profila in Italia. Proprio a queste due figure abbiamo dedicato due giorni del nostro Festival. A Pippo Fava e al cambiamento dello scenario informativo in Sicilia è dedicata un nostro incontro: Riccardo Orioles, Marco Benanti, Francesco La Licata e Antonello Mangano racconteranno la loro esperienza sul campo e ci aiuteranno a comprendere meglio l’idea del "giornalismo etico" di Fava. Sarà inoltre proiettato un video di Pino Finocchiaro dedicato alla sua figura e saranno presenti

anche i figli Elena e Claudio Fava. “Giovanni Spampinato: la vicenda oscura di un giornalista ragusano” è invece l’argomento della nostra seconda conferenza, che prevede l’intervento del fratello Alberto Spampinato, dei giornalisti Carlo Ruta e Roberto Rossi (con la presentazione dell’ultimo libro di Rossi) Per guardare al panorama nazionale e all’attuale fase di polemiche e malcontenti che riguarda il mondo della stampa,

abbiamo invitato i giornalisti Franco Fracassi e Bruno Tinti. All’incontro sulla libertà d’informazione sarà presente anche il sostituto procuratore di Palermo, Antonio Ingroia, che fornirà senz’altro un’ulteriore momento di grande interesse culturale. Inoltre avremo la presenza dei Procuratori di Modica e Gela, Puleio e Lotti. Un intero pomeriggio del festival sarà inoltre dedicata ai numerosi progetti editoriali giovanili: un forum consentirà di conoscere tutte le nuove realtà siciliane impegnate nella comunicazione. Al forum seguirà l’intervista al giornalista Walter Molino. Saranno poi istituiti due workshop, giornalismo fotografico e giornalismo d’inchiesta, con due docenti qualificati Franco Fracassi e Simone Donati, mentre la sera lasceremo spazio a musicisti e artisti locali, come Davide Di Rosolini, il quintetto jazz a cura di Giuseppe Scucces, Salvatore Rendo, Pietro Giunta, Armando Barni ed Ennio Maltese e a momenti teatrali con Fatima Palazzolo, Riccardo Tona e Leandro Medica. Il Clandestino

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Mafia e politica//Prima della P3

Chi sono i piduisti siciliani I Siciliani, aprile 1985

Ben 25 anni fa dalle pagine de I Siciliani di Giuseppe Fava partiva una denuncia tornata improvvisamente d'attualità: dietro gli omicidi di mafia, come quello di Dalla Chiesa, c'era un progetto politico eversivo. Attuato?

Chi sono i piduisti siciliani? Che fine hanno fatto? Che cosa facevano? E soprattutto: a che cosa serviva un'organizzazione come la P2 in terra di mafia? Ufficialmente, il catalogo della P2 in Sicilia consta di trentadue nomi, diligentemente aggiornati in un apposito registro ("Gruppo 1, Bellassai") dal capogruppo per la Sicilia Bellassai. Ma in realtà, sono molti di più. Dalle liste sequestrate a Gelli e dagli altri documenti in possesso della Commissione Anselmi, risulta infatti che i piduisti operanti in Sicilia erano almeno centosei (vedi elenco). Altri sessantasette (la cifra è largamente parziale) erano invece i piduisti di origine siciliana operanti in campo nazionale. Fra essi, personaggi di primissimo piano nelle varie trame eversive, come il banchiere Sindona, il magistrato Spagnuolo, i generali Giudice, Miceli e Musumeci. Particolare significativo, ai piduisti siciliani venivano spesso affidati incarichi di particolare responsabilità nell'organizzazione anche al di fuori della regione di provenienza: il fondamentale settore piemontese, ad esempio, era affidato al siciliano Ioli. Erano siciliani ben venti dei componenti del "gruppo centrale", personalmente diretto da Gelli, che raggruppava gli affiliati meglio inseriti nelle istituzioni. E così via. *** In conclusione, un affiliato su sei alla P2 o era siciliano od operava in Sicilia: di

gran lunga il gruppo regionale più consistente dopo quello toscano, che era peraltro alimentato da una tradizione e un radicamento massonici "ufficiali" infinitamente maggiori. Altro particolare significativo: la maggior parte dei piduisti siciliani non viene dalle province di più antica (e liberale) tradizione massonica come Messina e Siracusa, ma dalle province "nuove" di Palermo, Trapani e Catania. Quanto ai singoli personaggi, è inutile dilungarsi sul ruolo - per esempio - di un Sindona: banchiere della mafia, l'uomo era anche - per usare le parole del giudice Turone - "il grande mediatore di un'associazione segreta"; l'intervento delle Famiglie mafiose palermitane e americane è decisivo e costante in tutte le sue operazioni, e così pure i contatti con i grandi imprenditori siciliani. Un altro piduista siciliano, Musumeci, era al centro del gruppo eversivo che manovrava di fatto - secondo le risultanze della Commissione Parlamentare d'inchiesta - il servizio segreto SISMI, dava copertura agli autori delle più efferate stragi terroristiche e utilizzava uomini come Pazienza e Carboni in contatto, a loro volta, con i rappresentanti delle Famiglie mafiose (Calò, ed altri); altri boss mafiosi (ad esempio Santapaola) ricorrono in vicende in qualche maniera legate alle attività di Musumeci. Un altro piduista siciliano, il generale Giudice, amico dell'imprenditore siciliano

Rendo, è il protagonista di uno scandalo, il MiFoBiali, che si può considerare la prima grossa apparizione della P2. Si potrebbe continuare. Ma forse a questo punto i dati sono sufficienti per una prima sommaria analisi, che è la seguente: nelle liste della P2, la componente "siciliana" quantitativamente è seconda solo a quella toscana e qualitativamente non lo è a nessun'altra. *** La situazione è ancora più chiara se dalle liste "ufficiali" della P2 si passa ad altri strumenti operativi di cui Gelli si serviva con almeno altrettanta frequenza. Per esempio, il tabulato-agenda di 994 nomi sequestrato nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi e messo agli atti della Commissione Anselmi sotto la dizione "reperto 2/B". Qui, ai nomi che compaiono nelle liste se ne aggiungono altri non meno significativi; fra i siciliani, la novità più importante è data dalla presenza dell'industriale catanese Rendo, di cui s'è largamente riferito sull'ultimo numero del giornale. Ma che credibilità ha questa agenda, e in che termini entravano, i nomi in essa elencati, nell'organizzazione di Gelli? *** E' presto per dare una risposta certa alle due domande. Ma, dall'analisi del documento, emergono incontestabilmente alcuni punti che possono fin d'ora essere dati per certi. Primo. L'agenda rivestiva nella mente di

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Mafia e politica//Prima della P3

Gelli un'importanza estrema, e il suo contenuto doveva essere tenuto assolutamente segreto. L'agenda veniva infatti conservata in cassaforte e c'era l'ordine espresso, per i collaboratori di Gelli, di controllare che vi fosse rimessa al termine di ogni giornata di lavoro. Questo si evince, fra l'altro, dalla deposizione resa il 21 maggio 1981 alla Procura bresciana dalla segretaria personale di Licio Gelli, Carla Venturi: "Quanto all'uso dell'agenda con l'indirizzario, il commendatore l'adoperava direttamente. Quando lui era assente la tenevo in cassaforte". La deposizione viene confermata davanti alla Commissione Anselmi il 16 settembre 1982. Secondo. Rispetto alle varie liste P2, l'indirizzario dell'agenda è più recente e più "operativo", nel senso che viene più frequentemente aggiornato e dunque utilizzato per contatti correnti. Terzo. Le liste della P2 (riportate, nella Relazione Anselmi, nel libro primo tomo primo a pagine 803-874 e 885-942 e nel libro primo tomo secondo a pagine 213 e seguenti e 1126 e seguenti) contengono in totale 953 nomi. Di essi, ben 464 compaiono anche nel tabulato-agenda "2/B". Questi 464 nomi sono accuratamente selezionati (militari, funzionari imprenditori, ecc.): il loro peso nelle istituzioni è in media decisamente maggiore di quello dei piduisti esclusi dal tabulato-agenda. Quarto. I 464 piduisti che compaiono nel tabulato-agenda "2/B" non solo sono in

media più "importanti" degli altri; ma costituiscono anche il nucleo centrale attorno al quale il tabulato-agenda viene successivamente composto. Ciò è suggerito dalle dichiarazioni della Venturi ("L'agenda è stata scritta a macchina mediante trascrizione da un'altra agenda", Commissione Anselmi, data citata), ma è indubitabilmente provato dal fatto che molto spesso intere sequenze di nomi tratti dalle liste P2 vengono riportati pari pari nel tabulato-agenda, nell'identico ordine (non strettamente alfabetico) e persino con la stessa divisione in pagine: a partire da queste sequenze, e in generale dall'elenco dei piduisti "scelti", il tabulato è stato costruito per successive aggiunte. Ed è logico pensare che i nomi successivamente aggiunti siano stati scelti in base a caratteristiche comuni a quelli del nucleo iniziale: a cominciare dalla disponibilità, quantomeno potenziale, ad essere coinvolti in iniziative "non ufficiali". *** Tutto questo per dire che il meccanismo piduista, in Italia e quindi in Sicilia, non si limita semplicemente alle liste P2 fin qui riconosciute. Esso, ad anni di distanza, non è noto che in parte; ma non è impossibile, attraverso l'analisi delle connessioni, ricostruirne altre parti. Il tabulato-agenda "2/B" è quantomeno uno strumento fondamentale per questa ricostruzione. Quanto alla Sicilia, abbiamo visto la connessione che almeno in un caso - quello del cavalier Mario Rendo -è stato possi-

bile ipotizzare, sulla base di questo documento, fra le attività di Gelli e quelle di soggetti ufficialmente estranei al mondo della P2. Ma connessioni possono essere istituite anche in altri casi. Per esempio, almeno cinque piduisti siciliani compaiono anche fra i massoni affiliati (vedi elenco) "all'orecchio" del gran maestro Corona, in via del tutto anomala e riservata; sarebbe interessante sapere da che cosa è motivata, nel caso dei non-piduisti, questa strana riservatezza. *** Una connessione ancor più inquietante è data dalla presenza del capogruppo della P2 per la Sicilia, Salvatore Bellassai, nella loggia segreta "I Normanni di Sicilia", operante a Palermo (sede ufficiale, Monreale) dagli anni '50 fino al 13 novembre 1979. Il carattere di riservatezza di questa loggia era tale che i suoi affiliati si conoscevano solo tramite pseudonimi (quello di Bellassai era "Saba"); anche qui, non si sa perché ci fosse bisogno di tanta segretezza. Dei "Normanni di Sicilia" s'ignora infatti praticamente tutto, salvo il fatto che operavano su un terreno - quello delle associazioni paramassoniche palermitane - che dal dopoguerra in poi è stato il luogo privilegiato d'incontro di gran parte della classe dirigente siciliana. Ancora, sono noti i rapporti fra le operazioni "piduiste" finora note in Sicilia (rapimento Sindona) e i gruppi paramassonici

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autonomamente e da lungo tempo operanti nell'Isola, come la Camea di Michele Barresi e Joseph Miceli Crimi (più volte incontratosi con lo stesso Gelli per concordare insieme le iniziative da prendere): rispetto a costoro la P2, in Sicilia, aveva ben poco di nuovo da insegnare. Si tratta di gruppi con alle spalle una lunga tradizione di influenza non solo sulla politica siciliana, ma su quella nazionale: basti dire che viene dalla Sicilia, negli anni 50-60, l'iniziativa per l'unificazione fra le varie e disperse famiglie massoniche italiane e per il collegamento fra esse e le potenti centrali massoniche degli Stati Uniti (protagonisti dell'operazione, l'agente dei servizi segreti americani Frank Gigliotti e il principe siciliano Giovanni Alliata di Montereale, poi entrato nella P2). Altri nominativi, che non compaiono negli elenchi della P2, sono tuttavia in qualche maniera correlati con essi, e come tali oggetto d'indagine della Commissione Anselmi. Abbiamo già parlato dell'ex-presidente della Regione D'Acquisto, non piduista ma in grado di garantire per i piduisti; non è difficile credere che i casi analoghi al suo, nelle istituzioni e nell'economia regionali, siano tutt'altro che rari. E non è azzardato presumere che molte decisioni importanti per le istituzioni e per l'economia siciliane siano passate - quanto meno, a titolo di mediazione - all'interno di "punti d'incontro" occulti di varia natura:

non esclusivamente siciliani, ma soprattutto siciliani. *** In un'economia assistita, come quella siciliana, e in una classe politica casuale, come quella siciliana, un sistema di potere occulto come quello di cui parliamo finisce per essere di fatto l'unico potere in grado d'imporre le sue scelte. Se questo è vero, trovano una spiegazione non solamente le - apparentemente irrazionali contorsioni del "modello di sviluppo", economico e politico, siciliano; ma anche l'improvvisa e del tutto anomala crescita di tutta una serie di singoli personaggi, finanziari e politici, che di questo modello sono insieme i padroni e i beneficiari. Da Scelba in poi, nessun uomo di partito siciliano ha più raggiunto - nel bene o nel male - una statura politica di rilevanza nazionale; eppure, il peso delle lobbies "siciliane" nei vari partiti e nel complesso degli apparati dello Stato è andato via via crescendo, fino a farsi su certe questioni determinante; ed ha raggiunto l'acme negli ultimi tre anni. Sulle esattorie dei Salvo, praticamente, è caduto un governo; si è fatto, e con successo, quadrato a Roma per non dare i poteri a Dalla Chiesa; l'affaire Calvi - cioè, l'affaire Sindona - ha sconvolto l'assetto bancario sul piano nazionale; sulle vicende d'una Procura di provincia, come quella catanese, sono pesantemente intervenuti i vertici nazionali di determinati partiti; e così per sabotare un'inchiesta di mafia, come quella

del giudice Palermo. Tutto questo è ben strano. E, in tema di mafia: l'unico dato di fondo realmente certo, al di là del polverone, è che da alcuni anni a questa parte la mafia esegue dei delitti politici; non solo, ma li mette al centro della propria azione, anche a discapito della sicurezza di attività più lucrose (vedi omicidio Dalla Chiesa); in nome di quale superiore interesse? C'è un progetto politico, evidentemente. C'è un progetto e un partito, un "partito" modernissimo e arcaico, coi suoi collegamenti, i suoi obiettivi, la sua organizzazione. Un "partito" che solo parzialmente corrisponde al ceto politico-mafioso degli anni Cinquanta e Sessanta, ma che ha sviluppato un salto di qualità parallelo a quello segnato - sul piano più strettamente criminale - dalla mafia con la conquista del mercato della droga. Numerosi elementi insospettabili, apparentemente isolati, si ricollegano alle attività mafiose proprio attraverso la mediazione del progetto e del "partito". *** "Coerentemente alle dichiarazioni televisive del Presidente della Repubblica sulla massoneria propriamente detta e la loggia P2, distinguendo fra la massoneria storica tradizionale e l'attuale massoneria italiana, La invito ad operare in riferimento alla nuova legge sulle società segrete e nel rispetto dell'articolo 18 della Costituzione italiana per ampia pubblicità dei nomi dei

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diciottomila affiliati come risultante dagli archivi sequestrati. La mancata pubblicità di tali nominativi provoca un'attenuazione della credibilità politica dei lavori della Commissione Parlamentare P2, essendo la massoneria il presumibile contesto naturale ed operativo dell'attività di detta loggia. L'opinione pubblica italiana richiede una democratica ed ampia informazione sui nomi degli affiliati alla massoneria al fine di fugare ogni sospetto sicuramente infondato su collegamenti di avallo e copertura a tutti i livelli passati e presenti a partire da componenti della stessa Commissione Parlamentare". *** Quando la commissione parlamentare sulla P2 cercava - senza molto successo di farsi dare le liste riservate delle varie massonerie, le arrivò, fra gli altri, anche questo messaggio. Arrivò, non casualmente, da Catania, dove in quel momento l'iniziativa della mafia - non solo di quella armata - era allo zenith. Chi l'aveva mandato, Giuseppe D'Urso, esprimeva in fondo un concetto di elementare buon senso: se la mafia "fa politica" e si avvale del segreto, cominciamo a sgombrare il campo da tutti i segreti più o meno artificiali che possono nascondere ogni cosa; facciamo un po' di luce, e lavoriamo. Ma, a qualche anno da allora, le organizzazioni segrete, in Sicilia come altrove, continuano a rimanere segrete: le logge innocue, e quelle di potere. Gli episodi di potere occulto (e mafioso)

su cui, del resto, si hanno informazioni specifiche son ormai vecchi di di vari anni. Il tentato "golpe" siciliano di Sindona (in realtà un congegno per coinvolgere funzionari dello Stato, notabili politici e militari in un più terreno disegno di ristrutturazione dei poteri), per esempio, è del '79. Non si sa assolutamente che cosa abbiano fatto e che evoluzione abbiano subito, nei sei anni trascorsi da allora, le forze soprattutto imprenditoriali - evocate in quell'occasione. Ai primi anni Ottanta risalgono, secondo le conferme di Buscetta, le operazioni mafioso-piduiste di Pazienza e Calò. Ma siamo nell'85: cos'è successo nel frattempo? *** Quando scoppiò il caso P2, il vertice della piramide - veramente, l'Anselmi parla di due piramidi, collegate in un punto coincideva ancora, almeno ufficialmente, con la persona di Gelli: ma adesso? La P2, o meglio il disegno affaristico-eversivo che nella P2 aveva uno degli strumenti, ai tempi di Bellassai contava in Sicilia su centosei nomi: ma adesso? E per quanto riguarda Catania: nell'agosto '79 gli uomini di Sindona potevano contare, in qualche modo, sull'amicizia del cavaliere Graci: i loro omologhi del 1985, sono ancora fermi a Graci? A Torino, nel processo per le tangenti (un processo, in buona sostanza, contro la P2), contro il principale testimone d'accusa si preparava un attentato di mafiosi catanesi...

Di esempi, se ne potrebbero fare tanti. Il fatto è che dall'epoca del MiFoBiali, della prima P2 e di Sindona, il peso dei poteri occulti non è diminuito ma è andato crescendo; la "politicizzazione" della mafia siciliana non si è affievolita ma è aumentata; la presenza - in particolare - di "catanesi" fra un meccanismo e l'altro si è fatta sempre più consueta. Quest'ultimo dato, in particolare, merita una riflessione. *** Catania ha una strana storia criminale. La mafia catanese, che oggi è probabilmente se non la più forte la più attiva, diventa mafia - da malavita di contrabbandieri - in epoca relativamente recente; analogamente, l'imprenditoria mafiosa catanese è molto posteriore rispetto a quella palermitana, e di molto più rapida accumulazione. L'una e l'altra, nel giro di circa tre anni dal '79 all'81 - assumono una posizione di primissimo piano, scalzando in diversi casi le corrispondenti forze "palermitane" e non subendone contraccolpi degni di rilievo. Qual è il fattore che ha favorito questa così rapida trasformazione? E quale quello che ha garantito questa inspiegabile "immunità" (Dalla Chiesa: "...da Catania va alla conquista di Palermo...")? Le domande fondamentali, forse, oramai sono queste. Domande catanesi ma risposte - in buona parte - probabilmente anche romane. Giuseppe D'Urso e Riccardo Orioles

|| 8 agosto 2010 || pagina 19 || www.ucuntu.org ||


Satira

Morizzi C'era una volta

“In verità vi dico: a quel tempo esisteva un Sindacato...”

«La Confraternita è al completo?» «Sì, Grande Anziano, lo è.». «Anziano, sei tu presente?» «Sì, Grande Anziano» «Neofita Apprendista, sei tu presente?». « Sì, Grande Anziano, sono in attesa.» «E tutti voi dei nobili Gradi intermedi della nostra Sacra Confraternita, siete tutti presenti?». «Sì, Grande Anziano, siamo presenti. Pronunciati, Grande Anziano, raccontaci dell’altro tempo.» « Per l’ultima volta, Fratelli, mi rivolgerò alla Confraternita: i miei giorni tra voi volgono ormai al termine, mi restano soltanto poche settimane. Tu, o Anziano, diverrai allora Grande Anziano e sarà tuo il compito di educare i più giovani al ricordo, come prima di me e te fecero tanti altri Anziani.». «Sia così, Grande Anziano. Ma ora rammenta, Grande Anziano, e insegna: quando avvenne la caduta? Cosa ci ridusse nell’angustia? ». «Non accadde improvvisamente: accecati dalla stoltezza, abituati alla libertà, convinti della nostra invulnerabilità e della nostra forza, non ci rendemmo conto che, giorno per giorno, il male diffondeva le sue cellule maligne. Quando cominciammo a comprenderlo era ormai troppo tardi, il morbo s’era diffuso, ed era incontrollabile. Da allora cercammo di resistere, con poche forze e ancor minore convinzione, ma fummo sopraffatti, i più si ritirarono nell’indifferenza. E cominciò la rovina.». «Racconta, Grande Anziano, tu conoscesti il mondo di prima.». «Sì, io conobbi quel mondo». «Uomo fortunato tu sei, Grande Anziano.». «Non dir così! - non farmi alzare la voce, ci possono sentire - Non sai di cosa parli, mio giovane Fratello: possa tu non conoscere mai quella vita il cui domani sia sempre peggiore dell’oggi. Neofita, in te alberga la speranza che mai muore nei cuori belli, a me solo il lontano ricordo resta.».

«Racconta, Grande Anziano, come vivevano coloro della mia età?». «In quel mondo i giovani venivano assunti con contratto a tempo indeterminato.». «E dopo quanti lustri, Grande Anziano?». «Subito, il primo giorno.».

«E’ arduo crederti, Grande Anziano.». «Comprendo, ma così era. E in quei tempi si lavorava dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio. E se talvolta si rendeva necessario trattenersi oltre, veniva riconosciuto lo straordinario.». «Lo straordinario? Grande Anziano, tu vedesti uno straordinario?» «Lo vidi». «E com’era, Grande Anziano? Qual era il suo aspetto?». «Era una riga, in fondo alla busta paga, dopo le ritenute. Era bello.». «Ripetilo ancora, Grande Anziano. Cosa poteva accadere se non veniva

corrisposto?». Segui un silenzio gravido di rivelazioni. «Poteva accadere persino uno sciopero ». «Sciopero? Grande Anziano, tu ti burli di noi!». «No, credetemi, dico il vero.». «Ma come potevate? L’Azienda non faceva strame di voi? ». «In verità, in verità vi dico: a quei tempi esisteva un Sindacato.». «Non è una leggenda, allora! Anche mio nonno ne parlava, ma credevo fosse a causa dell’Alzheimer…» «Silenzio… dei rumori, laggiù. Sta per passare la ronda. Addio, Fratelli. Il 15 settembre andrò in pensione. Ricordate, perseverate. Sperate. Addio!». Uscirono rapidamente dai bagni e si sparpagliarono in diverse direzioni precipitandosi ai posti di lavoro. Ma uno di loro fu scorto e fermato da una guardia dotata di frustino. «Ragionier Morizzi! Lei ha diritto a 10 minuti giornalieri (in due sessioni) per pausa urina e a 6 minuti e 40 secondi per pausa feci (unica sessione, non cumulabile con urina, fatti salvi i quattro giorni di dissenteria annuali previsti dal contratto integrativo). Ragioniere! Cosa faceva nel bagno da 10 minuti consecutivi?». Il Ragioniere si fece minuto, contemplava la punta delle scarpe. «Ragioniere! Non ne avrà approfittato per... fumare una sigaretta? Ragioniere! Non rammenta come il fumo sia vietato in Azienda? La salute dei nostri lavoratori è preziosa per noi!» e intanto col frustino batteva il ritmo sulla mano sinistra. Il Ragioniere taceva colpevole. «Voglio essere indulgente, Ragioniere. Ma non succeda più. Per vostra fortuna, alla salute vostra ci pensiamo noi. E ora vada!» Jack Daniel http://dajackdaniel.blogspot.com/ http://it-it.facebook.com/people/Jack-Daniel/100000731772371

|| 8 agosto 2010 || pagina 20 || www.ucuntu.org ||


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