Fare sicurezza

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Organo Ufficiale UGL Polizia di Stato

Euroedizioni S.r.l. - ANNO IX - N. 4 Ott/Nov/Dic 2014 - Poste Italiane SpA - Sped. in AP - D.L. 353/2003 (conv. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1, CN/BO - Euro 9,00

fare SICUREZZA

INTRODUZIONE DEL REATO DI TORTURA IN ITALIA

MOBILITà, PUNTO DOLENTE DELLA POLIZIA DI STATO

DIRITTO DI CITTADINANZA E PIENA LIBERTà SINDACALE


Editoriale

politica e sicurezza

M

di Valter Mazzetti*

entre scrivo questo editoriale ancora non ci sono provvedimenti certi al riguardo, e c’è veramente da augurarsi che alcune esternazioni circa un rinnovato blocco biennale dei salari siano solo il frutto di una forte insolazione agostana. D’altronde, mi sembra assurdo che si possa ancora continuare a credere che sia corretto intervenire eternamente sul blocco degli stipendi dei dipendenti e sul loro diritto al rinnovo contrattuale; è un errore grossolano, non solo ormai improponibile sotto il profilo della giustizia sociale, ma anche dimostratosi del tutto inutile per il governo dei conti pubblici. Se negli ultimi quattro anni, a fronte di un sensibile calo dei dipendenti e dei costi per il personale e redditi da lavoro, la spesa pubblica è aumentata, fino a sfuggire ad ogni controllo rispetto al Pil, la ricetta, evidentemente, non quella giusta. Il crescente disagio del Paese, poi, in termini di sicurezza in tutte le sue forme ed il forte malessere esistente e oramai non più sottacibile tra il personale delle forze di polizia dovrebbe indurre il Governo ad una serie di profonde riflessioni. La prima, sicuramente, dovrebbe riguardare l’effettiva ricerca di una seria politica per la sicurezza, abbandonando slogan, conferenze e proclami di falso ottimismo dall’esclusivo e chiaro sapore elettorale, privi di una visione progettuale di medio e lungo tempo in grado di migliorare le cose. E mentre si promuovono politiche, per me del tutto sbagliate, come il parziale blocco del turn-over con la revisione strutturale degli organici, la costante riduzione delle assunzioni, ed il progressivo e costante innalzamento dell’età media del personale che è già attestata sui 45 anni, assistiamo, stupefatti, al pressappochismo con cui, nell’affrontare situazioni emergenziali (oramai ampiamente prevedibili in quanto cicliche), viene impiegato il personale delle forze dell’ordine, sempre più impropriamente chiamato a sopperire alle mancanze di una politica, incapace di affrontare e risolvere i disagi di una collettività che, per tali ragioni, finiscono sovente per trasformarsi da problemi sociali in problemi di ordine pubblico. E il tutto senza adeguati sostegni normativi, logistici e anche di semplice buon senso. La seconda, ovviamente, e torniamo all’incipit, riguarda la politica salariale. Con evidente miopia, o forse con malizioso lungimirante interesse di mero comodo, i Governi continuano a non voler capire (o perlomeno fanno finta) che, per alcune categorie di lavoratori, non possono

essere applicati in “toto” i criteri utilizzati per il pubblico impiego. Gli operatori di polizia sono lavoratori particolari, non perché lavorano più di altri, bensì perché a loro è vietato l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti e perché a questi si richiedono costantemente forti sacrifici e particolari disponibilità, con una serie di sovraesposizioni e responsabilità civili, penali e amministrative che non hanno eguali. Per questo, il legislatore nel 2010 sentì quanto meno il dovere morale di formulare una legge sulla specificità. All’interno della legge, all’articolo 19, trova spazio la cosiddetta “specificità”, che avrebbe dovuto, in sostanza, separare il personale del comparto Sicurezza e Difesa (compresi i Vigili del fuoco) dal resto del pubblico impiego “ai fini della definizione degli ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e della tutela economica, pensionistica e previdenziale”. In questo contesto, una delle violenze amministrative più subdole subite dai lavoratori di polizia, oltre ai tagli economici indiscriminati che fanno da cornice ai mancati investimenti per la sicurezza, è il c.d. blocco del tetto salariale. Un ulteriore proroga del blocco, per il quinto anno consecutivo, sarebbe un provvedimento intollerabile e irrazionale: una immotivata e gravissima sperequazione tra il personale ed una riduzione di migliaia di euro all’anno per ogni dipendente. Un provvedimento che, come una mannaia, colpisce il personale che pur assumendo maggiori responsabilità non vede alcun adeguamento stipendiale, minando anche profondamente l’organizzazione che si erano date le forze di polizia istituendo, ad una certa anzianità e quindi al maturare di una maggiore funzione, il riconoscimento di un assegno funzionale. I poliziotti sono cresciuti, e con loro le rappresentanze sindacali, giorno dopo giorno, ostinati in un lavoro che non lascia tregua, come soggetti attivi nella vita del Paese, convinti di rendere un servizio migliore alla collettività anche quando, lungi dal mito dell’usi obbedir tacendo, per far valere le proprie ragioni trovano il coraggio di alzare la voce e gridare tutta la propria delusione.

* Segretario generale

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SOMMARIO 3

Politica e Sicurezza di Valter Mazzetti

6

Introduzione del reato di tortura in Italia di Brunella Beni

12

G8, morte di Carlo Giuliani: assolta l’Italia a Strasburgo! di Stella Cappelli

14

Mi compete o non mi compete? Questo è il problema di Eduardo Dello Iacono

17

Mobilità, punto dolente della Polizia di Stato di Pamela Franco

18

Legge 121/81 sulla riforma della Pubblica Sicurezza in Italia di Salvo Amico

24

Diritto di cittadinanza e piena libertà sindacale di Cristiano Leggeri

27

Tempo di Spending Review: giovani, a casa! di Paolo Varesi

28

Pubblica Amministrazione? Riforma partita male a cura della Redazione

30

Il trattamento di buonuscita per il dipendente pubblico (TFR-TFS) di Silvano Spadaro

32

Decreto “svuota carceri” e nuove norme sugli arresti di Filippo Girella

34

Diritti del personale. Importante sentenza del Consiglio di Stato a cura della Redazione

36

Nel contesto del diritto internazionale usare la forza armata contro l’ISIS è lecito di Giuseppe Paccione

40

La libertà informatica di Ellera Ferrante di Ruffana

42

Le riunioni pubbliche di Guido Nuovo

47

Le iniziative delle Segreterie provinciali UGL Polizia

Spazio pubblicitario da Euro 350,00 in su. Una copia Italia e paesi CEE Euro 9,00 escluso spese spedizione Copia arretrata Euro 18,00 escluso spese spedizione

ERRATA CORRIGE Nel precedente numero, a pag. 36, il titolo dell’articolo a firma di Giuseppe Quilichini, è stato erroneamente stampato, quello esatto è: “Dosi e Soleti, due vite parallele”. Ci scusiamo con l’autore e con i lettori. La Redazione

Numero 4 Ott/Nov/Dic 2014 Foto di copertina: Davide Procaccini

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introduzione del reato di tortura in italia Lacune giuridiche e contraddizioni di una “legge ideologica” di Brunella Beni*

L’

ordinamento giuridico italiano non prevede una specifica fattispecie penale del delitto di tortura. Il divieto di tortura si desume nel nostro sistema costituzionale dalle disposizioni che vietano ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà (articolo 13, comma 4, Cost.) e che stabiliscono che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (articolo 27, comma 3, Cost.). Il nostro codice penale conosce un consistente numero di norme repressive in vario modo riconducibili alla tipologia di maltrattamenti e violenza: si spazia dalle percosse (articolo 581 c.p.) alle lesioni personali (articolo 582 c.p.), alla violenza privata (articolo 610 c.p.), alle minacce (articolo 612 c.p.), allo stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.) alle ingiurie (articolo 594 c.p.), al sequestro di persona (articolo 605 c.p.), all’arresto illegale (articolo 606 c.p.), alla indebita limitazione di libertà personale (articolo 607 c.p.), all’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (articolo 608 c.p.), alle perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie (articolo 609 c.p.). Sono comunque reati che non riescono a delineare in maniera esaustiva la fattispecie penale della tortura senza dimenticare

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il preciso obbligo giuridico internazionale all’introduzione dello stesso dettato dall’art. 4 del CAT. Il reato di tortura, mancante nel codice penale, è invece presente nel codice penale militare di guerra all’art. 185-bis introdotto nel 2002.

Atti internazionali che prevedono la tortura Numerosi atti internazionali prevedono che nessuno possa essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra gli altri, la Convenzione di Ginevra del 1949 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata nel 1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificata nel 1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con legge n. 489/1988; lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998. La maggior parti dei citati atti, proibisce la tortura ma non ne fornisce una definizione: la prima definizione di tortura si trova nella

Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti del 1975; altra definizione è contenuta nella Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (CAT), e nello Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (Statuto CPI). Ed è proprio la Convenzione ONU del 1984 (CAT) che, all’art. 4, prevede l’obbligo per tutti gli stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia contemplato come fattispecie penale: “Ogni Stato Parte provvede affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale. Lo stesso vale per il tentativo di praticare la tortura o per qualunque complicità o partecipazione all’atto di tortura. In ogni Stato Parte tali reati vanno resi passibili di pene adeguate che ne prendano in considerazione la gravità”. La CAT all’art. 1 definisce la tortura come: qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate. Nella CAT la tortura è individuata come reato proprio del pubblico ufficiale. Quanto all’elemento soggettivo del reato, sono richiesti al pubblico ufficiale due requisiti: il perseguimento di un particolare scopo, ossia ottenere dalla persona torturata (o da una terza persona) informazioni o una confessione; il dolo, consistente nell’infliggere intenzionalmente dolore e sofferenze. Questi ultimi elementi non debbono, tuttavia, essere di lieve entità: le condotte di violenza o di minaccia

per connotare il reato devono cioè aver prodotto sofferenze «forti» a livello fisico o psichico. L’ultima parte della definizione di tortura contenuta nella CAT si prefigge l’obbiettivo di escludere dalle azioni proibite quegli atti che derivano dall’applicazione di sanzioni legittime, quindi previste dalla legge. Parzialmente diversa è, invece, la definizione di tortura contenuta nello Statuto della Corte penale internazionale. Nella quale la tortura è inserita nei crimini contro l’umanità. All’art. 7 per tortura si intende “l’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, ad una persona di cui si abbia la custodia o il controllo; in tale termine non rientrano i dolori o le sofferenze derivanti esclusivamente da sanzioni legittime, che siano inscindibilmente connessi a tali sanzioni o dalle stesse incidentalmente occasionati”. Viene pertanto configurata come reato comune caratterizzato da dolo generico: rispetto sia alla definizione della CAT è infatti assente qualsiasi riferimento allo scopo così come l’identificazione dell’autore della tortura come pubblico ufficiale: la vittima del reato non è più, quindi, un soggetto di cui è limitata la libertà da una pubblica autorità bensì ogni persona di cui un’altra, a qualsiasi titolo, «abbia la custodia o il controllo». Secondo lo Statuto in argomento, il reato di tortura è imprescrittibile, in quanto reato contro l›umanità. Come anticipato la prima definizione della tortura è contenuta nella Dichiarazione ONU sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti del 1975 che all’art. 1 sancisce che “il termine tortura indica ogni atto per mezzo del quale un dolore o delle sofferenze acute, fisiche o mentali, vengono deliberatamente inflitte ad una persona da agenti dell’amministrazione pubblica o su loro istigazione, principalmente allo scopo di ottenere da questa persona o da un terzo delle informazioni o delle confessioni, o di punirla per un atto che essa ha commesso o che è sospettata di aver commesso, o di intimidirla o di intimidire altre persone. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a queste sanzioni o da esse cagionate, in una misura compatibile con le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti”.

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La Dichiarazione costituisce il primo atto in assoluto dedicato esclusivamente alla tortura, ed è la premessa di quella che sarà, nel 1984, la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite. Sebbene di natura non vincolante e mancante di un meccanismo di controllo ha permesso che si realizzasse un vasto consenso degli Stati intorno all’atto, in quanto l’attuazione dei principi enunciati continuava a dipendere dalla volontà dei Governi e ha fissato per la prima volta una serie di principi, che saranno la matrice di tutti i futuri strumenti settoriali in materia di tortura.

Testo approvato al senato Il 5 marzo scorso il Senato ha approvato la proposta di legge n. 2168 concernente il reato di tortura. Il testo si articola in 6 articoli: Art. 1 1. Nel libro secondo, titolo XII (delitti contro la persona), capo III (delitti contro la libertà individuale), sezione III (delitti contro la libertà morale), del codice penale, dopo l’articolo 613 sono aggiunti i seguenti: «Art. 613-bis. – (Tortura). – Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni ovvero da un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio del servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Se dal fatto deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate. Se dal fatto deriva una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e della metà in caso di lesione personale gravissima. Se dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo. Art. 613-ter. – (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta

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ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». Art.2 1. All’articolo 191 del codice di procedura penale, dopo il comma 2 è aggiunto il seguente: «2-bis. Le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale». Art. 3 1. All’articolo 19 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani». Art. 4 1. Non può essere riconosciuta l’immunità diplomatica ai cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale. 2. Nel rispetto del diritto interno e dei trattati internazionali,

nei casi di cui al comma 1, il cittadino straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso lo Stato individuato ai sensi della normativa internazionale vigente in materia. Art. 5 1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato. Art. 6 1. La presente legge entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Attualmente il disegno di legge è in corso di esame in commissione alla Camera dei Deputati. Il testo licenziato al Senato delinea la tortura come reato comune (e non un reato proprio del pubblico ufficiale), caratterizzato dal dolo generico. Entrambi gli elementi contribuiscono a rendere più ampia l’applicazione della fattispecie potendo la tortura essere commessa da chiunque ed a prescindere dallo scopo che il soggetto ha eventualmente perseguito con la sua condotta. La commissione del reato da parte del pubblico ufficiale costituisce, invece che elemento costitutivo, un’aggravante del delitto di tortura. L’articolo 1 introduce nel titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) del codice penale gli articoli 613-bis e 613-ter. L’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 3 a 10

anni chiunque, con violenze e minacce gravi ovvero mediante trattamenti inumani e degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, autorità, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa. Il reato, in quanto reato di evento, è caratterizzato dalla gravità della tortura (le sofferenze «acute» inflitte alla vittima). Nel testo è completamente assente quanto esplicitato nell’ultima parte della definizione di tortura della CAT, secondo la quale il reato non sussiste in relazione agli atti che derivano dall’applicazione di sanzioni legittime, quindi previste dalla legge. L’articolo 613-bis contempla specifiche circostanze aggravanti del reato di tortura. La prima è l’aggravante soggettiva speciale costituita dalla qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell’autore del reato; la pena prevista è la reclusione da 5 a 12 anni. La seconda, aggravante oggettiva ad effetto comune, consiste nell’aver causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà). Le altre circostanze aggravanti riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi di morte non voluta, ma conseguenza dell’attività di tortura (30 anni di reclusione) e della morte invece conseguita come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato (pena dell’ergastolo). L’articolo 1 della p.d.l. 2168 aggiunge, poi, al codice penale l’articolo 613-ter con cui si punisce il reato proprio consistente nell’istigazione a commettere tortura, commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, sempre nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. L’articolo 2 è norma procedurale che novella l’articolo 191 del codice di procedura penale, aggiungendovi un comma 2-bis che introduce il principio dell’inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. L’articolo 3 coordina con l’introduzione del reato di tortura l’articolo 19 del TU immigrazione (D.Lgs 286/1998) vietando, quindi, le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona possa essere sottoposta a tortura. La norma precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni «si-

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stematiche e gravi» dei diritti umani. L’articolo 4 della proposta di legge prevede, al comma 1, l’impossibilità di godere delle immunità diplomatiche da parte di agenti diplomatici che siano indagati o siano stati condannati nei loro Paesi d’origine per il delitto di tortura. Il comma 2 dell’articolo 4 prevede l›obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale. Gli articoli 5 e 6 sono relativi, rispettivamente, alla norma di invarianza finanziaria ed all›entrata in vigore del provvedimento.

Altre proposte legge Fornendo ora una veloce panoramica delle altre proposte di legge si evidenzia come la proposte di legge C. 276 (Bressa ed altri) e C. 1499 (Marazziti ed altri), all’articolo 1, di pressoché identica formulazione, prevedono l’introduzione degli artt. 613-bis e 613-ter nel codice penale. Con il primo (articolo 613-bis c.p.) viene delineato il reato di tortura come reato comune a dolo specifico, punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La formulazione della norma fa riferimento, in particolare, alla sottoposizione di una persona a tortura con violenza fisica o morale allo scopo di ottenere informazioni ovvero per motivi di discriminazione, così come previsto dall’articolo 1 della Convenzione ONU del 1984 (motivazioni non presenti nel testo approvato dal Senato). Proprio quest’ultimo profilo segna l’unica limitata differenza tra l’articolo 1 della pdl 276 e quello della pdl 1499: mentre la prima precisa

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che i motivi di discriminazione sono di natura razziale, politica, religiosa o sessuale, la p.d.l. 1499, più ampiamente, fa riferimento a «qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione». Rispetto al testo approvato dal Senato manca qualunque riferimento alla condizione di privazione della libertà personale della vittima, alla gravità delle violenze fisiche e morali (come ai trattamenti inumani e degradanti) nonché all’evento prodotto dal reato (le acute sofferenze inflitte). Come nel testo-Senato, anche in tal caso l’articolo 613-bis prevede specifiche circostanze aggravanti del reato di tortura. L’articolo 613-ter c.p. chiarisce, invece, l’ambito di applicazione della nuova fattispecie stabilendo che il cittadino italiano o lo straniero autore della tortura è punito secondo la legge italiana. L’identico articolo 2 delle proposte di legge prevede l’istituzione di un Fondo per le vittime della tortura presso la Presidenza del Consiglio – la cui dotazione è stabilita annualmente con la legge di bilancio – volto al risarcimento dei danni subiti ed all’erogazione di contributi per la riabilitazione psico-fisica delle vittime. Tale Fondo – la cui gestione è affidata ad una commissione ad hoc (Commissione per la riabilitazione delle vittime della tortura) – in caso di morte della persona torturata, è accessibile agli eredi. La proposta di legge C. 189 Pisicchio, all’articolo 1, introduce gli articoli 613-bis e 613-ter nel codice penale. Quanto alla configurazione del reato di tortura, si prevede, segnatamente, che è punito con la pena della reclusione da quattro a dodici anni chiunque, con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali, allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale. La pena è aumentata se tali condotte sono poste in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, ovvero se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima. Nel caso che ne derivi la morte, la pena è raddoppiata. La tortura, anche nella proposta di legge C. 189, è configurata come reato comune in quanto il reato può essere commesso da chiunque; sotto il profilo dell’elemento psicologi-

co viene configurato il dolo specifico. La proposta di legge C. 588 (Migliore e altri) introduce, all’articolo 1, il delitto di tortura, configurandolo come reato proprio a dolo specifico, e lo inserisce tra i delitti contro la libertà personale, prevedendo un nuovo articolo 608-bis, in base al quale: «Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale. La pena è raddoppiata se ne deriva la morte. Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente». L’articolo 2 interviene in materia di immunità diplomatica ed estradizione. L’articolo 3 prevede la costituzione di un fondo per le vittime dei reati di tortura. Anche la proposta di legge C. 979 (Gozi ed altri) prevede l’introduzione nell’ordinamento del reato di tortura qualificandolo come reato proprio sanzionato con la reclusione da 4 a 10 anni. L’articolo 1 della p.d.l. introduce, infatti, la tortura nel codice penale tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale aggiungendo l’articolo 593-bis, i cui elementi caratterizzanti sono: la commissione del reato solo da parte di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (reato proprio); lo scopo di ottenere informazioni o fare pressioni sulla vittima o di punirla per un atto da essa commesso (o di cui è sospettata) o commesso da un terzo (dolo specifico); il dolore e le sofferenze fisiche e mentali inflitte alla vittima con qualsiasi atto. La stessa pena prevista per la tortura è stabilita dall’articolo 593-bis in capo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio: che istiga altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio a commettere il reato di tortura (anche in tal caso, si fa eccezione alle previsioni dell’articolo 115 c.p., v. ante); che si sottrae volontariamente ad impedire la tortura; che acconsente tacitamente alla tortura. Una specifica disposizione prevede una esimente nel caso in cui il fatto costituisca oggetto di obbligo legale (in tal caso, l’autore non è punibile). Anche in tal caso, l’illecito conosce specifiche circostanze aggravanti: un aumento di pena fino a un terzo, in caso di

lesioni personali (non si distingue tra comuni, gravi o gravissime); un raddoppio di pena, in caso di morte della vittima. Infine, come già gli articoli 2 della p.d.l. 276 e della p.d.l. 1499, l’articolo 3 prevede l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio, di un Fondo per il risarcimento delle vittime dei reati di tortura.

Osservazioni L’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della specifica fattispecie penale della tortura per alcuni incarna la indiscussa necessità per un paese civile di tutelare e garantire sempre e comunque la dignità dell’essere umano. Ciò premesso non toglie che la proposta di legge n. 2168, approvata al Senato, con particolare riferimento agli operatori di polizia, sembra presentare alcuni vulnus: 1. L’eccessiva indeterminatezza dei termini e del testo in genere, porterebbe condurre ad una soggettiva interpretazione e non applicazione di una norma rigida nelle sanzioni ma estremamente flessibile nella definizione del fatto-reato con buona pace del principio di tassatività della norma penale; 2. Il testo, per la configurazione del reato in capo al pubblico ufficiale, non prevede il dolo specifico; 3. né prevede l’esclusione della configurazione del reato qualora le azioni derivano: - dall’applicazione di una sanzione legittima (è il caso delle acute sofferenze che, comunque, vengono inflitte nell’applicazione di misure limitative della libertà personale); - o rispondono all’applicazione di protocolli operativi appositamente stilati che disciplinano le modalità d’intervento (è il caso dell’operato delle Forze di polizia che, nell’esercizio dei loro doveri, usano la forza per impedire l’esecuzione di un reato o per ottemperare a obblighi di legge); - o qualora la sofferenza a persone private della libertà personale sia causata da cause di forza maggiore (è il caso delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale e ospitate nelle celle di sicurezza delle Forze di Polizia o nei penitenziari, ove, alla luce delle note condizioni logistiche degli ambienti carcerari, potrebbero trovarsi in condizione di sofferenza fisica e psichica). * Primo Dirigente della Polizia di Stato

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G8, MORTE DI CARLO GIULIANI: ASSOLTA L’ITALIA A STRASBURGO! di Stella Cappelli *

E’

definitivo: Carlo Giuliani non è un eroe! E’ stato rigettato, infatti, il ricorso presentato a Strasburgo dalla famiglia del ragazzo che durante i disordini di Genova attaccò una jeep dei Carabinieri e rimase ucciso a seguito di un colpo di pistola esploso da uno dei carabinieri che si trovava all’interno della camionetta. E’ stato definitivamente accertato che non ci sono state lacune nelle indagini - così come lamentato dalla famiglia - e che l’Italia non ha avuto alcuna responsabilità per la sua morte. La vicenda in realtà sembrava già evidente indipendentemente dal ricorso. Appare, infatti, abbastanza palese l’indifendibilità di un ragazzo che impugna un estintore contro una camionetta dei carabinieri assediata da giovani che non sembrano certamente avere intenzioni pacifiche. All’interno del mezzo un Carabiniere, un giovane ragazzo senz’altro impaurito, che, vistosi accerchiato da una banda di “facinorosi” impugna l’arma di ordinanza senz’altro per allontanarli, per intimorirli, non certo con intenti omicidi e, purtroppo, il triste epilogo: un colpo sparato accidentalmente che colpisce mortalmente Carlo Giuliani. E tra l’altro, la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo stabilirà in seguito che “il Carabiniere sparò per la percezione di un reale e imminente pericolo per la sua vita e quella dei colleghi, non facendo uso sproporzionato della forza”. Ma in questo Paese spesso accade che “si invertano i ruoli di chi ha ragione e di chi ha torto” tant’è che il carabiniere diventa immediatamente il colpevole, il cattivo, il violento ed il povero ragazzo morto la vittima, l’eroe. Premesso che ciascuna morte in questi casi è una sconfitta per le istituzioni, è una perdita incolmabile per le famiglie, è una giovane vita stroncata per sempre … viene spontaneo chiedersi perché un ragazzo che si reca a Genova per protestare “pacificamente” improvvisamente decide di attaccare una camionetta dei Carabinieri brandendo

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un estintore. E, ancora, è lecito chiedersi: se il giovane militare non si fosse difeso e fosse morto sarebbe stato considerato un eroe (?!?) o - come giustamente hanno rilevato in tanti - sarebbe stato solo l’ennesimo appartenente alle Forze dell’Ordine morto nell’adempimento del suo dovere, un semplice servitore dello Stato che per pochi spiccioli è obbligato a rischiare la propria vita ed a mettere sempre e comunque a repentaglio la propria incolumità. In tal caso la vicenda certamente non avrebbe fatto tanto scalpore perché la verità è che in questo Paese un Carabiniere o un Poliziotto morto per certa politica non hanno lo stesso peso di un giovane morto mentre protesta ”legittimamente” (?!?) con un estintore e un cappuccio. E, invece, di fronte a certi indifendibili comportamenti, rispetto ad una strenua, assurda difesa sarebbe stato preferibile un dignitoso, composto silenzio. D’altronde nessuna Corte e nessun Tribunale potranno mai negare che ciascun genitore ha il dovere di insegnare ad un figlio a difendersi in maniera civile, con la forza della ragione e non con quella della violenza, a protestare democraticamente avendo sempre rispetto dei suoi simili e soprattutto di chi lavora e magari in un determinato contesto si trova dalla parte opposta della barricata solo perché quello è il suo dovere, è il suo credo, il modo onesto con il quale ha deciso di mantenere la sua famiglia, i suoi bambini. Ciascun figlio dovrebbe sapere che i veri eroi sono coloro che ogni mattina si alzano e rischiano la propria vita per gli altri, per prevenire i reati, per contrastare la criminalità, per garantire la sicurezza, coloro che per senso del dovere mettono in secondo piano se stessi, i propri affetti, la propria vita e, troppo spesso, la perdono. E soprattutto coloro che ci mettono la faccia, senza brandire estintori e senza passamontagna a mascherarne il volto … * Segretario Nazionale Vicario

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MI COMPETE O NON MI COMPETE?

QUESTO E’ IL PROBLEMA di Eduardo Dello Iacono *

S

iamo ormai vicini al trentesimo compleanno del mansionario dei tecnici della Polizia di Stato, adottato con D.M. 18.7.1985, e non v’è nulla da festeggiare considerando le controversie che il suo mancato aggiornamento ha creato nel corso degli anni. Profili professionali e mansioni desuete riempiono le pagine di un decreto

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il dilemma dei tecnici causato da un mansionario obsoleto

che ormai non risponde alle esigenze dell’Amministrazione, ma ancor peggio crea gravi disagi per noi tecnici che a volte disconosciamo il nostro reale campo d’azione. Leggendo il nostro mansionario, alla luce delle attuali lavorazioni presso gli uffici ove prestiamo servizio, può scappare un sorriso perché non credo ci sia qualcuno di noi che ancora si occupa dell’ingrassaggio delle macchine utensili oppure è addetto al funzionamento di macchine scarbonatrici, rilegatrici, stamperine. La questione diventa ancor più complessa nel momento in cui, considerando che le mansioni previste non corrispondono più alle lavorazioni necessarie al raggiungimento degli obiettivi dell’Amministrazione, ci si trova dinanzi a dirigenti che individuano impropriamente delle mansioni ad hoc per i colleghi tecnici con l’unico obiettivo di impiegarli costruttivamente. Ecco quindi che ci troviamo con tecnici impiegati presso le segreterie dei dirigenti oppure negli archivi e tante altre situazioni ove il collega lavora in contesti che nulla hanno a che fare con il profilo professionale di inquadramento. Trincerarsi dietro l’espressione “non

mi compete” a volte può essere un modo per evitare problemi, ma allo stesso tempo ci espone al dissenso perché c’è chi crede che non abbiamo voglia di lavorare senza invece capire che è l’unico strumento mediante il quale ci si può salvaguardare. Infatti, molti non comprendono che una lavorazione non andata a buon fine e non di specifica competenza espone il collega tecnico a gravi conseguenze anche dal punto di vista disciplinare. Unico responsabile di tale situazione è il mansionario del 1985 e, conseguentemente, l’Amministrazione che distratta o forse disinteressata al personale del ruolo tecnico-scientifico, non ha provveduto a far si che venissero disposte le adeguate modifiche. Noi di UGL Polizia di Stato, in più circostanze, siamo intervenuti presso le competenti sedi dipartimentali al fine di segnalare l’improprio impiego dei tecnici, giungendo anche a diffidare alcuni questori o dirigenti di uffici. I risultati non sono tardati ad arrivare, infatti, abbiamo assistito alla cessazione dell’erroneo impiego del collega e sovente abbiamo spiegato (per non dire insegnato) ai dirigenti cosa il tecnico della Polizia di Stato possa fare. Riteniamo ormai improcrastinabile che l’Amministrazione istituisca un gruppo di lavoro che, contrariamente al passato, sia composto da personale del ruolo tecnico-scientifico e professionale e dalle Organizzazioni Sindacali maggiormente rappresentative al fine di individuare con precisione i contenuti dei diversi profili professionali. Auspichiamo, tuttavia, che su un simile gruppo di lavoro non echeggi lo spirito di chi in un passato recente si è dilettato a scrivere una bozza di riassetto ordinamentale del ruolo tecnico nella quale ha dimostrato di disconoscerlo, ma

piuttosto la comune credenza che i tecnici della Polizia di Stato costituiscono una task force di personale altamente specializzato che può contribuire ad un contenimento della spesa pubblica atteso che talune lavorazioni possono

essere svolti all’interno dell’Amministrazione piuttosto che essere devolute, con ampie spese, a società esterne. * Segretario Nazionale Responsabile del ruolo tecnico

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M obilit à , punto dolente della Polizia di Stato

Avv. Fabio Strazzeri

Fabio Strazzeri è avvocato del foro di Milano. Ha pubblicato come coautore in questa collana “Stranieri in Italia”. E’ curatore del sito: www.studiolegalestrazzeri.it

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DIFENDERSI DALLE BANCHE Le banche sono al centro del sistema economico e politico italiano e internazionale. Sovrastano i cittadini e gli stessi Stati, che subiscono le conseguenze delle condotte dei banchieri, finalizzate a perseguire – talvolta in modo illegale – gli interessi di ristrette oligarchie. Il libro indica i possibili strumenti di difesa dell’utente. In modo semplice e chiaro sono illustrate le pratiche bancarie scorrette e i rimedi offerti dall’ordinamento giuridico. La crisi del 2008, causata dalle condotte irresponsabili delle banche, ha colpito i cittadini, le famiglie e le imprese in modo drammatico, ma può essere l’inizio di una nuova consapevolezza della necessità di reagire e porre al centro della vita economica e sociale i diritti della persona umana. Temi trattati: il sistema bancario e il diritto bancario, i contratti bancari, i servizi bancari, banche e intermediazione nei pagamenti, banche e servizi di investimento, gli istituti a difesa dell’utente bancario, il segreto bancario e la normativa antiriciclaggio, le centrali rischi, le banche centrali e la moneta.

I

di Pamela Franco *

l poliziotto, al termine del corso Allievi Agenti, viene assegnato, sulla base di una graduatoria di fine corso, ad un Reparto e/o Ufficio (sempre diverso da quello di residenza). Dal giorno dell’ assegnazione potrà presentare domanda di trasferimento, per fuori provincia, non prima di quattro anni (due se la sede è dichiarata “disagiata”) e una volta presentata domanda al Dipartimento, questo lo inserirà in una graduatoria per la provincia o l’Ufficio richiesto. Da qui ha via il travaglio! Se la sede richiesta è una città del nord l’attesa non sarà così lunga, anzi…ma se la richiesta interessa sedi di piccolo raggio, dislocate principalmente dal centro Italia in giù, allora inizia un’attesa agonizzante. Il Direttore Centrale e il Direttore del Servizio Sovrintendenti, Assistenti ed Agenti delle Risorse Umane del Ministero dell’Interno avevano presentato una proposta di riorganizzazione della mobilità del personale per il detto ruolo, molto più fluida e trasparente di quella attualmente in vigore, ma questa macchina vorticosa, che è la nostra Amministrazione, vuoi per la cosiddetta “spending review”, vuoi per altri motivi, non riesce a garantire soluzioni idonee atte a ridurre i tempi elefantiaci propri di questo Dicastero circa le aspirazioni e le esigenze del personale della Polizia di Stato che quotidianamente, invece, porta avanti il proprio lavoro con grande impegno, responsabilità e professionalità. Purtroppo, nonostante i tentativi di migliorare la mobilità non siano andati in porto, dobbiamo riconoscere che il Direttore Centrale per le Risorse Umane ed il Direttore del Servizio sono però riusciti, dopo anni di lavoro, ad accorciare l’attesa in alcune provincie e farle diventare così raggiungibili col minimo dell’anzianità richiesta. La mobilità viene oggi, però, strozzata da una problematica forse ancor più incalzante, la carenza di personale. A fronte di ogni 100 poliziotti che stanno andando in pensione lo Stato ne assumerà solo 55, i quali avranno sulle spalle anche il lavoro degli altri 45 mancanti, con l’effetto di forte

Carenza di personale e mancato turn over costringono ad attese anche di 20 anni prima di tornare presso le proprie famiglie malessere, profondo disagio e mortificazione professionale ed economica. Il numero dei colleghi che chiedono di lavorare al nord è nettamente inferiore rispetto a quello che chiede il centro – sud e la mancanza di nuove assunzioni preclude, a chi attende di rientrare a casa, di avere il cambio per essere trasferito. Oltre a questo va ricordato che sul poliziotto “bloccato” in servizio fuori casa grava anche e soprattutto una forte perdita di soldi. L’Ugl Polizia di Stato si batte da anni contro governi, che a rotazione, si passano la palla senza portare concrete proposte per migliorare la Polizia di Stato. Non è infatti da dimenticare l’intento delle Istituzioni di chiudere numerosi Presidi di Polizia su tutto il territorio nazionale. Anche questo non gioverà alla problematica della mobilità in quanto la chiusura di taluni Uffici causerà flussi di personale in entrata su altri ( sicuramente limitrofi a quelli che chiuderanno) con la conseguenza, per chi attende fuori da anni, di vedere slittare, chissà a quando, il proprio tanto atteso trasferimento. L’età media di un poliziotto oggi è di 44 anni, la nostra Polizia sta invecchiando. Occorrono assunzioni, tante, di uomini e donne giovani che hanno voglia e desiderio di fare per il Paese. * Segretario nazionale

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Legge 121/81 sulla riforma

della pubblica sicurezza in Italia di Salvo Amico *

Analisi dell’impatto sociale, a trentatre anni dall’entrata in vigore, e ammodernamenti apportati

L’

entrata in vigore di una legge – è un fatto scontato – produce degli effetti coincidenti, almeno per grandi linee, con la volontà del legislatore e con le aspettative di buona parte di quella giurisdizione sociale alla quale la norma stessa si rivolge. Ciò perché il processo legislativo è costituito da fasi in cui, dalla percezione e raccolta di un dato problema al suo superamento in chiave regolamentare pubblica, gli attori, a vario livello coinvolti, sottopongono il provvedimento a forme di estemporanea valutazione che ne garantiscono l’applicazione, con buoni margini di successo; alla legge, quindi, resta da verificare l’efficienza, nonché la rispondenza alle esigenze dello Stato e dei suoi destinatari. La Riforma del nostro apparato sicurezza non diserta i passaggi, peraltro obbligatori, sopra indicati e, infatti, nel momento in cui acquisisce efficacia, ogni componente che ne risulta interessata – dai politici alle Guardie di P.S., alla società ed alle altre Forze dell’Ordine – è ben conscia di un rinnovamento che, d’altra parte, ha voluto, sofferto e realizzato. Nella sua materiale attuazione, la 121 incontra poche difficoltà, non di carattere interpretativo, semmai di natura organizzativa.

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I principi cardine sono chiari: l’Amministrazione di P.S. è ben definita così come ben definiti sono il Dipartimento di P.S. e le sue funzioni; il Ministro dell’Interno è Autorità nazionale di Pubblica Sicurezza e al Capo della Polizia è affidata la duplice responsabilità della guida della Polizia di Stato e la massima direzione dello stesso Dipartimento. L’autorevolezza di tali previsioni è così forte che queste saranno riformulate e confermate nella Legge n. 78 del 31 marzo 2000, titolata: Delega al Governo in materia di riordino dell’Arma dei Carabinieri, del Corpo Forestale dello Stato, del Corpo della Guardia di Finanza e della Polizia di Stato. La Polizia di Stato, quindi, nuova derivazione del badogliano Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, deve affrontare ora una realtà sociale, politica ed operativa di gran lunga diversa da quella di provenienza; lo fa senza indugi, il suo adattamento alle nuove circostanze avviene seguendo un percorso fisiologico e per niente traumatico, forse solo caratterizzato da un piacevole stupore. E guai se così non fosse, di fronte al riconoscimento di tanti diritti prima negati, ad un trattamento economico dignitoso, ad una rappresentanza sindacale e alla giusta perdita di doppie catene di comando! Forse, solo la presenza delle donne, a cui si era completamente disabituati, porta un certo disagio iniziale, che però va a coincidere con una più che legittima forma di riscatto pubblico del gentil sesso. La reazione fu di superiorità, di distacco, di mortificazione del femminile, che aveva osato mettere piede dove fino ad allora le era stato impedito. Dietro a tutto ciò non poteva che esserci la paura, l’angoscia per un’altra grossa fetta di potere che il già troppo potente genere procreante era riuscito a conquistare (da: “La sessualità nella Polizia di Stato dall’ingresso della donna nelle caserme ad oggi”, di Francesco ALBANESE).

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Oggi la donna ha trovato, in un’Amministrazione che parlava soltanto al maschile, la sua adeguata collocazione e, soprattutto, ha conquistato il rispetto dei colleghi. Tutto ciò, in termini meno retorici, equivale a dire che le poliziotte godono dello stesso trattamento degli uomini, vanno incontro alle stesse progressioni di carriera, partecipano agli stessi concorsi e rivestono gli stessi ruoli. Anche l’Arma dei Carabinieri ed il Corpo della Guardia di Finanza accettano favorevolmente l’avvento della riforma, che, peraltro, investe pure loro, nella parte in cui ne viene ratificata l’appartenenza alle Forze di Polizia e, prima ancora, all’Amministrazione della Pubblica Sicurezza; ma non solo: Carabinieri, Finanza, Forestali e Penitenziari sono direttamente interessati dalla primaria funzione di coordinamento del Ministro dell’Interno. Tuttavia, la 121, con l’istituzione del ruolo degli Ispettori, introduce delle qualifiche che, sotto l’aspetto della equiparazione, non hanno gradi omologhi negli altri Corpi di Polizia, che, addirittura, si pongono al di sopra dei Sottufficiali di questi. Se tale particolare aspetto, in un primo tempo, viene, in modo particolare da Carabinieri e Finanza, subìto, in un secondo momento – a seguito della presentazione, da parte delle due Forze – di specifici ricorsi in sede giurisdizionale amministrativa, porterà ad un riordino delle carriere del personale non direttivo, che riequilibrerà le qualifiche delle

cinque Forze dell’Ordine, nonché delle Forze Armate. L’impatto che la riforma registra sulla società, in ogni caso, è assolutamente positivo e completa quell’opera di avvicinamento tra la polizia e la gente che, con l’istituzione del 113, numero di soccorso pubblico gestito dalla Pubblica Sicurezza, alla fine degli anni sessanta, l’allora Capo della Polizia Angelo VICARI aveva iniziato, puntando molto, e non a torto, proprio sul conseguimento di un rapporto fiduciario tra cittadini e Istituzione. Una legge, specialmente una legge di riforma, dal momento della sua adozione, deve esprimere una solidità di principi tale da determinare una svolta effettiva nello spazio giurisdizionale cui si rivolge; a testimoniare ulteriormente il valore dei suoi contenuti sarà, poi, il carattere dell’efficacia, protratta per un periodo di tempo che sia il più lungo possibile. La centoventuno, ad oltre trentatre anni dal 1° aprile 1981, risponde bene alle immutate esigenze della civile convivenza, poiché rimane integra nei suoi principi di base, quali l’individuazione delle Autorità nazionale, provinciale e locale di P.S., l’attribuzione di una basilare importanza al coordinamento degli Organi di Polizia, la smilitarizzazione della Polizia di Stato, la sindacalizzazione, ecc. Se, però, il mantenimento di tali capisaldi, per un verso, conferma la modernità della riforma della Sicurezza interna del Paese, dall’altro, bisogna ammettere che una legge, per quanto ancora attuale, non può che aver presentato, tra i continua a pag. 23 >

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suoi programmi, anche tratti suscettibili di aggiornamenti, variazioni o, addirittura, di abrogazioni. La 121, dunque, non ha fatto eccezione a questa regola, tanto da aver registrato qualche sostanziale ammodernamento, per effetto di norme, ovviamente successive, emanate in materia ordinamentale della P.S. È inevitabile, a questo proposito, citare il Decreto Legislativo 197 del 12 maggio 1995 che, dando esecuzione alla delega governativa di cui alla legge n. 216 del 6 marzo 1992, riordina le carriere del personale non direttivo della Polizia di Stato. Il decreto, tuttavia, è accompagnato da altri cinque provvedimenti, che hanno analogo effetto sull’Arma dei Carabinieri, sul Corpo della Guardia di Finanza, sul Corpo Forestale dello Stato, sul Corpo della Polizia Penitenziaria e sulle Forze Armate. La finalità comune dei sei decreti è quella di creare, per ciascuna struttura, un numero uguale di qualifiche, assolutamente equivalenti tra loro, per gerarchia e retribuzione. La Polizia di Stato, che ha un ruolo in più rispetto agli altri organismi, quello degli Ispettori, funzionalmente al di sopra dei Sottufficiali dei Carabinieri, Finanza, ecc.., è costretta a subire l’innesto, nelle strutture omologhe, di tante qualifiche quante ne servono per livellare i gradi di tutte le Polizie e dell’Esercito; gli Ispettori del post riordino, quindi, perdendo la loro sovraordinazione, vengono ora equiparati ai Marescialli. I Carabinieri e la Finanza, dopo ben quattordici anni dalla riforma, vincono, così, la causa da essi stessi promossa in sede giurisdizionale amministrativa, non avendo mai accettato di buon grado che i loro Marescialli fossero sottordinati agli Ispettori della Polizia di Stato. Ma il 197/95 non è l’unico riordino a cui va incontro la Polizia di Stato, ne seguirà un altro, ratificato con Decreto Legislativo n. 334 del 5 ottobre 2000, che interesserà i ruoli direttivi e dirigenziali, ed un altro ancora, approvato con Decreto Legislativo n. 53 del 28 febbraio 2001, relativo al personale non direttivo. I tre riordini modificheranno gli aspetti ordinamentali del personale contenuti nella 121, ma presenti pure nel D.P.R. n. 335 del 24 aprile 1982 (Ordinamento del Personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia). Si vuole, inoltre, ricordare che nuovi adattamenti vengono apportatati a quelle parti della riforma in qualche modo interessate all’entrata in vigore della Legge 226 del 23 agosto 2004, relativa alla sospensione definitiva del servizio militare di leva, nonché del Decreto Legislativo n. 193 del 30 maggio 2003, riguardante l’adozione dei parametri stipendiali in luogo dei livelli retributivi per il personale non dirigente della Forze di Polizia e delle Forze Armate.

È appena il caso di aggiungere che - con ulteriori interventi legislativi, diluiti tra il 1991 ed il 2002 - il Dipartimento di P.S., rispetto alle previsioni di cui all’articolo 5 della 121/81, subisce una riorganizzazione dell’assetto interno, che comporta, oltre che la riformulazione della nomenclatura di diversi settori che lo compongono, l’istituzione di nuove Direzioni, come la Direzione Centrale dei Servizi Antidroga, la Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere e la Direzione Centrale Anticrimine, nonché la creazione dell’Ufficio Centrale Interforze per la Sicurezza, della Segreteria del Dipartimento e dell’Ufficio per l’Amministrazione Generale del Dipartimento. Assume, infine, particolare rilievo operativo l’istituzione della Direzione Investigativa Antimafia – con Decreto Legge n. 345 del 29 ottobre 1991, convertito nella legge n. 410 del 30 dicembre 1991 – alla cui formazione interviene personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza. È, questa, una struttura destinata a svolgere esclusivamente indagini sulla criminalità organizzata, in stretta correlazione con la Direzione Nazionale Antimafia, composta da magistrati inquirenti tra i più autorevoli, anch’essa di nuova costituzione, per volontà del D.L. n. 367 del 15 novembre 1991, convertito nella legge n. 8 del 20 gennaio 1992. A voler approfondire l’odierna analisi, si ritiene, che talune prospettive della 121 possano essere ancora ampliate ed aggiornate, seguendo schemi di adattamento ad una fisionomia sociale ed operativa in dinamica evoluzione. Si dovrebbe, allora, pensare ad un coordinamento delle Forze di Polizia nell’ambito dell’attività investigativa delegata dall’Autorità Giudiziaria, al riconoscimento di sistemi di una più forte recriminazione sindacale, fino a novellare anche i testi normativi che fanno da corollario alla riforma. A puro titolo di esempio, è vigente, infatti, un Regolamento di Disciplina in cui coincidono le Figure di chi contesta la mancanza e di chi è chiamato a giudicarla! Ma anche l’Ordinamento e il Regolamento della P. di S. soffrono di “stanchezza previsionale”, come mostrano pure “stanchezza” i ruoli e le qualifiche dei poliziotti, che attendono di essere riordinati, in un ottica di seria comparazione con le altre Forze dell’Ordine e di giusta gratificazione economica! La preoccupazione, comunque, non sta tanto nell’aver individuato delle criticità o nel fatto che queste sussistano, ma nella triste consapevolezza che nel nostro Paese le riforme pensate da una tal generazione di uomini, difficilmente saranno godute dai loro stessi ideatori! * Segretario nazionale

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Diritto di cittadinanza e piena libertà sindacale Limiti e prospettive per l’agibilità sindacale dei poliziotti

te avulse dal contesto sociale in cui sono chiamate ad operare piuttosto che spostare l’asticella verso l’alto, verso lotte di riforma. Quindi, a rigida disciplina corrente, per le libertà sindacali, pur nel medesimo comparto di trattative, Corpo Forestale dello Stato e Polizia Penitenziaria possono aderire direttamente a sindacali confederali CGIL CISL UIL UGL, la Polizia di Stato no. Ma fortunatamente così non é stato e, anche sulla scor-

ta degli sviluppi legislativi che hanno interessato la materia, il legislatore ha evidente esteso l’alveo della rappresentanza sindacale per quei lavoratori dimenticando però le restrizione della 121/81 seppur tutti i dipendenti insistono in uno stesso comparto di contrattazione e quindi, sottoposti ai medesimi meccanismi, patirebbero, se così fosse, differenti discipline sindacali. Ed Invero per l’appunto se si fossero volute tener vivi e cogenti i dettami degli articoli della legge 121, non

di Cristiano Leggeri *

D

a quando siamo stati investiti da questa drammatica crisi due sono le parole che più di tutte nominiamo: crisi, per l’appunto, e cambiamento. Sulla prima credo sia stato detto veramente tutto ed estrapolando l’essenza dei suoi richiami più autorevoli potemmo dire che é : quell’occasione di miglioramento che forse non avremo mai più. L’altra é Cambiamento. É diventata la parola più svuotata di senso che ci sia. Tutti parlano di cambiamento, anche quelli che non cambiano mai neppure il posto in tavola. Abbiamo quindi questo drammatico difetto: usiamo molto le parole e le abbandoniamo prima che siano diventate cose. E già perché siamo così indietro che non ci basta mettere insieme cose ma bisogna mettere insieme cose più evolute. Allora viene quasi naturale un semplice ragionamento: per quale motivo in una società sempre più complessa, caotica ed articolata, dove tutti sono continuamente connessi magari non con se stessi ma con gli altri, alcune persone debbano rinunciare a fornire il loro contributo? Già, perché quella che tutti auspichiamo é una Comunità del cambiamento nell’ambito della qualità della democrazia dell’innovazione dei territori e che da questi appunto riparta. Ora, esiste una categoria di lavoratori in particolare, quelli appartenenti alla Polizia di Stato, che in virtù di

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norme anacronistiche è limitata nei loro diritti di partecipazione sociale, nonché in quelli più peculiari di rappresentanza sindacale. Mi rendo conto che può sembrare un argomento molto tecnico e da addetti ai lavori, ma andando ad analizzarne i paradossi ci renderemo conto che esso ha a che fare con il livello e la qualità del servizio reso dagli operatori della sicurezza e con il loro armonico sviluppo con le nuove istanze di cambiamento delle nostre società. La libertà sindacale con La legge 121/81, quella legge che ha portato la riforma dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, ha concretizzato il diritto di ciascun appartenente alla Polizia di Stato di associarsi in sindacati ma, al secondo comma dell’art. 82 – pur innanzi alla chiara ed esplicita previsione dell’art. 39 della Costituzione che dall’entrata in vigore continua a volere una forma organizzativa sindacale di tipo libero - ha introdotto il vincolo del divieto di aderire ad un’associazione sindacale con altri lavoratori impiegati in altri lavori e assumerne, dunque, la rappresentanza. Ciò con tutti i limiti relazionali e di confronto ed eventuale valorizzazione di specificità che oggi ne conseguono. Cosicché, oggi, gli innumerevoli sindacati di Polizia, tutti costituiti da poliziotti, proprio in virtù di questa restrizione – come è intuibile - avrebbero dovuto tendere a somigliare alle rappresentanze militari, a dei Cocer, correndo il rischio di avere la tendenza a porre in essere politiche di tipo corporativo e quindi assolutamen-

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si sarebbe potuto, almeno senza evidenti pregiudizi e discriminazioni, applicare i provvedimenti intervenuti sulla materia della contrattazione D.Lgs.165/2001 e successivo D.Lgs. 150/2009 in particolare ad esempio alla durata dei contratti collettivi della categorie. Tale dibattito sulle libertà sindacali e di rappresentanza, ad oggi limitate per gli operatori della Polizia di Stato, non possono trascurare quanto invece accaduto per i diritti di partecipazione politica che, rispetto ai primi, sono sicuramente più estesi e generici. Si giunge quindi allo strano paradosso che un appartenente alla Polizia di Stato, possa oggi essere. Sindaco di un ente locale, ma non già a capo di una struttura confederale. Cosa cambia?! Quali i diversi interessi in gioco?! I cittadini amministrati non sono forse anch’essi lavoratori?! Il sindaco non appare come controparte nel momento dei confronti sindacali con i dipendenti dell’ente territoriale e della polizia locale?! Considerata l’incoerenza delle disposizioni dell’Ammi-

nistrazione circa l’argomento di che trattasi da diversi anni e per un tempo indefinibile, di diritti di rango Costituzionale, risulta necessario: a) Dirimere ai più alti livelli di Giurisdizione la questione delle libertà sindacali all’interno del Corpo della Polizia di Stato, ad esempio invitando l’Avvocatura di Stato ad esprimere un Parere, che si ripropone ad ogni piè sospinto e teso a chiarire quello che nei fatti é stato già

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accettato ed interpretato e che si spera quanto prima venga abrogato definitivamente; b) Attuare con provvedimenti di qualsivoglia carattere, tanto lo svolgimento della più libera, ampia e serena attività sindacale, quanto la realizzazione del principio di specificità sancito dopo anni di rivendicazione dal Comparto Sicurezza evidentemente solo per i peculiari aspetti retributivi e di salario accessorio. Favorendo che parti di una norma del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, sia applicato a tutti i lavoratori così come i provvedimenti ( vedasi anche quelli relativi a blocchi contratto) colpiscono tutti indiscriminatamente, le problematiche del Comparto Sicurezza e dell’Amministrazione della Polizia di Stato sono sicuramente diverse da quelle che caratterizzano ad esempio le relazioni sindacali all’interno delle fabbriche, ma medesimo é il panorama sociale e le conseguenti scelte che in questi anni hanno dovuto interessare indiscriminatamente tutti i lavoratori, per contribuire a quel risanamento invocato e da tutti auspicato. Certamente la discontinuità dovuta al repentino susseguirsi di governi e quindi di ministri, con linee d’azione molto spesso in netto contrasto fra loro, non ha aiutato un’opera di trasparenza e legalità, che oggi più che mai è necessaria e che rende improcrastinabile una parità di diritti e regole all’interno del mondo del lavoro e delle sue rappresentanze. Per passare dall’istanza di cambiamento all’etica del cambiamento servono scelte come queste, che non lascino nessuno indietro sulla scorta di retaggi anacronistico. I lavoratori della polizia di stato sono i migliori interpreti della realtà sociale e non si comprende in virtù di quale ratio dovrebbero essere esclusi dal dibattito e dalla partecipazione sulle dinamiche politiche e di tutela del lavoro. Si tratta di parlare nuovamente di termini ci ci piacciono quali cittadinanza attiva e responsabile e di giungere a quell’auspicata amicizia civile che consenta a tutti di confrontarsi sul l futuro anche per innalzare la qualità del consenso e delle persone in una terra che vive di simboli. * Vicepresidente Ugl Polizia di Stato

Tempo di Spending Review:

giovani, a casa! di Paolo Varesi *

H

o la possibilità e il piacere di essere affiancato nel mio lavoro da giovani collaboratori. Sono così a contatto con il loro modo di vedere le cose e sopratutto con i racconti (loro o quelli che mi riportano di amici coetanei) di tutte quelle difficoltà che affrontano nel quotidiano oltre che di quei cambiamenti a cui solo loro, figli di questo nuovo mondo del lavoro, possono dar voce. Ebbene è con rabbia e sincero dispiacere che ascolto giorno dopo giorno notizie di giovani ragazzi che “rimangono a casa” proprio quando un posto di lavoro, a fatica, speravano di esserselo conquistato. Mi stupisce amaramente, guardando alle tante iniziative messe in campo proprio per offrire ai più giovani una opportunità di lavoro (e di futuro) il cinismo di tante aziende, anche a partecipazione pubblica, che per effetto della cosiddetta spending review, invece di tagliare su premi, sprechi, monumenti auto-celebrativi o di spulciare fra i tanti stipendi a 5 zeri, decidono semplicemente di scegliere la via più semplice: non rinnovare i contratti in scadenza agli under 30. Uno fra tanti, l’esempio del Gestore Servizi Energetici (GSE), società controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che opera nel settore delle rinnovabili. Come noto, il DL Irpef prevede per le società partecipate un taglio dei costi operativi del 2,5% per il 2014 e da quanto è emerso dalla nostra attività sindacale, la quinta azienda italiana per fatturato sta effettuando in queste settimane tagli sul personale, scegliendo di non rinnovare il contratto di inserimento a circa 60 giovani. Senza preavviso, senza garantire una valutazione di merito, senza prima fare tagli

di altro tipo o senza sfruttare, ad esempio, i contratti di solidarietà, dall’oggi al domani questi ragazzi vengono “liquidati”. Il che è tutto consentito dalla natura stessa dell’istituto con cui sono inquadrati, ma con che risultato? Nessuna rogna e conti fatti per l’azienda, tanto più che il 30% dei compensi variabili del management è legato al raggiungimento degli obiettivi di risparmi indicati dal decreto. Risultato per il lungo periodo e per il nostro Paese? La perdita di competitività. La perdita di una possibilità di ritrovare crescita, per l’azienda e per tutti noi. Perchè tagliare sui rami più freschi e produttivi dell’azienda significa non dargli acqua, non nutrirla. Significa non aver capito la direzione da prendere. Vengono lasciati a casa giovani meritevoli, giovani che stavano iniziando ad essere una risorsa per l’azienda e che adesso entreranno forse in quel bacino enorme di chi spera nella Garanzia (?) Giovani e che, molto probabilmente, perderemo. Perché è così che li perdiamo: non vengono confermati (nel felice caso in cui riescano ad inserirsi), si ritrovano giovani e disoccupati e decidono (per rabbia o per NON alternativa) di andare a portare la loro esperienza e la loro voglia di lavorare altrove. E gli altri Paesi se li prendono. Ben contenti. Nel frattempo apprendo che il GSE sta aprendo le porte a nuova forza lavoro giovanile: nuovi stagisti? E qui il perchè e i commenti sono superflui. Se continuiamo per questa strada, l’Italia non si riprenderà. Perlomeno diciamocelo. * Vice Presidente Ugl Polizia di Stato

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Pubblica Amministrazione? Riforma partita male

Gruppo poliarma

A cura della Redazione

A

chi mi ha chiesto un commento sulle scelte del Governo Renzi sulla pubblica amministrazione ho risposto, senza mezzi termini, che la riforma è partita male. E che il confronto con i sindacati non è un optional. Riservo commenti e decisioni sui passi da fare dopo aver approfondito i testi di legge del Consiglio dei Ministri, ma non escludo alcuna ipotesi di reazione, compreso lo sciopero, se determinate misure non verranno ritirate. Noi non ci siamo mai sottratti alla sfida del rinnovamento e del rilancio della macchina amministrativa, ma mettere in campo una riforma basata solo sulla consultazione popolare via mail è totalmente sbagliato. Il “frutto” di non averla condivisa anche con i sindacati è infatti emerso dal fatto che le questioni fondamentali sono finite in coda alla lista degli interventi! Ad esempio, il rinnovo della contrattazione collettiva, ferma dal 2009 sarebbe dovuto essere il primo punto ed invece è il 45° nel capitolo titolato “Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione”. Gli interventi di riduzione degli apparati dello Stato e di semplificazione burocratica previsti nella riforma del Ministro Madia sono certamente obiettivi condivisi, ma non è pensabile che questo processo inizi, ad esempio, dall’abolizione dei Corpi di Polizia pe-

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Noi non ci siamo mai sottratti alla sfida del rinnovamento e del rilancio della macchina amministrativa nitenziaria e del Corpo forestale dello Stato e dal loro accorpamento alla Polizia di Stato. E’ una proposta che non tiene conto delle specificità di ciascuno in relazione alle importanti funzioni di tutela della pubblica sicurezza e di difesa ambientale. Con l’abolizione dell’istituto del trattenimento in servizio il Governo punta alla staffetta generazionale: anche qui, lo sblocco del turn over e il ringiovanimento della pubblica amministrazione sono fondamentali ma vanno attuate con le dovute tutele di chi ha prestato servizio per una vita alle dipendenze della PA e con misure realmente efficaci. La possibilità di anticipare la pensione in base ai criteri contributivi, anche in assenza dei requisiti dell’età, mi sembra positiva. Ma sull’effettivo ricambio generazionale mi sembra che le idee siano ancora va-

ghe e contraddittorie. La riforma punta anche su strumenti per favorire la conciliazione dei tempi lavoro/famiglia e non prevede licenziamenti. In caso di esuberi si punta sulla mobilità volontaria e obbligatoria: certo, E’ fondamentale che non si perda alcun posto di lavoro ma non si può nemmeno rendere impossibile la vita delle famiglie con trasferimenti “coatti” in altre sedi. Soprattutto perché quelle persone per tornare nella propria città hanno aspettato almeno dieci anni. Prevedere trasferimenti senza alcun incentivo economico, non migliorerà l’efficienza del settore pubblico anzi, avrà solo gravi ripercussioni sui lavoratori, vista anche la condizione delle infrastrutture del nostro Paese e le drammatiche conseguenze a livello fiscale per quei dipendenti che decidessero di trasferire anche la propria famiglia (IMU). Anche su questo vigileremo con attenzione e soprattutto non intendiamo rinunciare acché queste scelte siano oggetto di confronto con il sindacato. Il Ministro Madia ha sollecitato il sindacato a non fare resistenze e a non essere “conservatori”. Ecco, noi oggi ci sentiamo tutto fuorché questo! Abbiamo la stessa voglia di “fatticrazia”, di metterci in discussione e rimboccarci le maniche per aiutare il Paese che dice di avere il Governo.

annuncia la stipula di una convenzione con

uGl polizia di Stato il protocollo riguarderà una serie di iniziative riservate ai soci ed agevolazioni sull’acquisto di complementi d’arredamento e numerose altre tipologie merceologiche. per ogni iniziativa alla quale la Cooperativa aderirà sono previste specifiche convenzioni. in più saranno estratti dei Premi per i futuri soci di poliarma. Tra le estrazioni in programma, poliarma, divenuta sponsor del motomondiale, sorteggerà dei pass esclusivi di accesso riservato al paddok del team ambroGio raCinG

Per informazioni: Tel. 055.8991055 email: poliarma@poliarma.it


IL TRATTAMENTO DI BUONUSCITA PER IL DIPENDENTE PUBBLICO (TFR-TFS)

Termine di 12 mesi dalla cessazione se: 1) 57 anni e 3 mesi di età e 35 anni di anzianità contributiva maturati dopo01/01/2014 2) 40 anni e 3 mesi di anzianità contributiva utile maturati dal 01/01/2014 3) 53 anni e 3 mesi di età e la massima anzianità contributiva prevista dall’ordinamento di appartenenza (al 31/12/2011) maturata dal 01/01/2014.

di Silvano Spadaro *

S

C) Cessazione per Dimissioni

ono sempre più numerosi i quesiti e le richieste di informazioni che giungono presso la Segreteria Nazionale dell’Ugl Polizia di Stato in merito al trattamento di buonuscita. A tal proposito è opportuno, quindi fare il punto sulla situazione e chiarire che per tutti i dipendenti pubblici, e quindi anche per gli appartenenti al comparto sicurezza difesa e soccorso pubblico, si prevedono tempi sempre più lunghi, introdotti dalla legge di stabilità 2014, per mettere in tasca i trattamenti di fine lavoro (tfr) e di fine servizio (tfs) dovuti a statali e dipendenti pubblici (ex Enpas ed ex Inadel). Si deve attendere, infatti, un periodo da circa 3 mesi e mezzo a 27 mesi a seconda che il collocamento a riposo avvenga per fisica inabilità, decesso, raggiunti limiti di età, o a domanda (1). E neanche que­sto è sufficiente: se la prestazione supera un certo importo, la som­ma è frazionata in due o tre rate annuali.

1) Se la buonuscita non supera 50 mila euro lordi il pagamento è completo. 2) Tra 50 mila e 100 mi­la euro il pagamento è diviso in due tranches annuali: 50 mila eu­ro il primo anno e la rimanenza il secondo. 3) Oltre 100 mila euro il pagamento è in tre rate; 50 mila il primo anno, 50 mila il secondo, la rimanenza il terzo. Tanto per rendere l’idea; chi si dimette oggi con diritto alla buonuscita di 120 mila euro lordi, intascherà il netto resi­duo derivante dagli ultimi 20 mila euro tra 51 mesi, cioè dopo quattro anni e tre mesi.

• Per i cessati dal servizio per inabilità o per decesso il tempo è breve; blocco di tre mesi e altri 15(1) giorni per consentire all’Inps di liquidare la domanda ; • Il blocco sale a un anno intero (cui si aggiungono i tre mesi per lavorare la pratica: nel complesso 15 mesi) in caso di raggiungimento dei limiti di età o dei limiti di servizio, per cessazione del lavoro a tempo determinato, o per risoluzioni unilaterali dell’amministrazione (esempio, per gli esuberi). • Il blocco schizza a 27 mesi (24 + 3) nei casi di dimissioni volontarie, licenziamenti e destituzioni. • Se si superano i tempi indicati l’Inps deve riconoscere sulle somme gli interessi di mora.

B) Cessazione per limiti di età

Terminata l’attesa, scatta un’altra norma di legge che spezzetta in rate annuali la buonuscita quando supera i 50 mila euro lordi.

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A) Cessazione dal servizio per inabilità o per decesso. (2) Termine di 105 giorni dalla cessazione

Termine di 105 giorni dalla cessazione se: 1) 53 anni di età e la massima anzianità contributiva prevista dall’ordinamento di appartenenza maturata entro il 12/08/2011 2) 40 anni di anzianità contributiva utile maturati al 12/08/2011 Termine di 6 mesi dalla cessazione se: 1) 57 anni e 3 mesi di età e 35 anni di anzianità contributiva maturati al 31/12/2013 2) 40 anni di anzianità contributiva utile maturati dal 13/08/2011 al 31/12/2013 (dal 01/01/2013 + 3 mesi) 3) 53 anni (fino al 31/1/2013) e 3 mesi di età e la massima anzianità contributiva prevista dall’ordinamento di appartenenza maturata entro il 31/12/2011

Termine di 105 giorni dalla cessazione se: 1) 40 anni di anzianità contributiva utile maturati al 12/08/2011. 2) 53 anni di età e la massima anzianità contributiva prevista dall’ordinamento di appartenenza maturata entro il 12/08/2011 Termine di 6 mesi dalla cessazione se: 1) 40 anni di anzianità contributiva utile maturati dal 13/08/2011 al 31/12/2011 2) 53 anni (fino al 31/13/2013) e 3 mesi di età e la massima anzianità contributiva prevista dall’ordinamento di appartenenza maturati dal 13/D8/2011 al 31/12/2011 Termine di 12 mesi dalla cessazione se: 53 anni e 3 mesi (età) dal 01/01/2014 e massima anzianità contributiva prevista dall’ordinamento di appartenenza (al 31/12/2011). Termine di 24 mesi dalla cessazione se: i requisiti dei 57 e 3 mesi (età) e 35 (anzianità) nonché 40+ 3 mesi (anzianità). * Segretario nazionale

note (1) In particolare, si ricorda che l’ente datore di lavoro è tenuto a trasmettere all’Inps gestione dipendenti pubblici la documentazione necessaria entro 15 giorni dalla di cessazione dal servizio del dipendente. (2) Circolare Insp nr.73 datata 5 giugno 2014 (3) Circolare Ministero Interno nr. 73 datata 1° luglio 2014

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L’ASILO DIPLOMATICO E CASO ASSANGE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE E PROTEZIONE DIPLOMATICA E CONSOLARE NELL’UE

decreto “svuota carceri” e nuove norme sugli arresti UN ENNESIMO COLPO ALLA SICUREZZA DEI CITTADINI

di Filippo Girella *

P

er risolvere il problema delle carceri sovraffollate si rimettono in libertà ladri, spacciatori e rapinatori; contemporaneamente si chiudono i presidi delle forze dell’ordine e della magistratura; così si mette si mette a rischio la sicurezza dei cittadini che rischia di essere sempre più penalizzata dai progetti governativi. E’ questa la situazione che si è venuta a creare dopo l’approvazione del decreto legislativo n. 92 entrato in vigore il 1 luglio che modifica le norme sugli arresti e che sembra essere passato quasi in sordina. La strada che il governo sta prendendo sul tema della sicurezza non ci piace per niente in quanto i segnali che vengono mandati sembrano andare nella direzione opposta a quella chiesta dai cittadini. Da una parte il governo ha messo in piedi un progetto che prevede la chiusura di centinaia di presidi delle forze di polizia e dall’altra vengono approvate delle norme che rimettono in libertà i colpevoli di pericolosi

reati, come spaccio di droga, rapine, furti, maltrattamenti, ed altro. Inoltre, per effetto di questo decreto legge entrato in vigore il 1 luglio, la misura cautelare del carcere non può essere prevista nei casi in cui il giudice possa prevedere, in caso di condanna, una pena inferiore ai tre anni. Facciamo un esempio: se domani viene arrestato sul fatto un ladro d’appartamento senza fissa dimora, cosa succede grazie alle nuova legge? Succede che, siccome per questo reato raramente si arriva a condanne sopra i tre anni, il giudice non disporrà l’arresto in carcere e neanche i domiciliari, quindi l’arrestato, seppur colpevole, rimarrà libero. Il meccanismo nefasto introdotto dalla nuova legge, che va addirittura a peggiorare un ordinamento che già prima era eccessivamente garantista, è stato subito compreso da delinquenti e banditi di tutte le nazionalità. Infatti non sono rari i casi in cui, al momento dell’arresto, gli appartenenti alle forze dell’ordine si sentono rispondere dal fermato: “tanto siamo in Italia, uscirò subito”. Questa legge nefasta segue poi il cosiddetto “decreto svuotacarceri” di maggio che ha già ridotto le pene ed ha permesso ai piccoli spacciatori di andare agli arresti domiciliari, ma poiché si tratta soprattutto di persone senza dimora molti di essi sono liberi. Il provvedimento contro il sovraffollamento delle carceri parte da una motivazione nobile ma un provvedimento del genere non risolve il problema. La soluzione, a nostro avviso, è opposta: certezza della pena e costruzione di nuove carceri; Consentire che persone condannate possano uscire senza avere pagato il debito con la società è un grande regalo alla criminalità è un danno ai cittadini onesti. * Segretario Nazionale

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Giuseppe Paccione traccia con sicurezza una compiuta ricostruzione dell’istituto dell’asilo diplomatico, attraverso la pubblicazione della sua prima opera, soffermandosi sullo sviluppo dell’istituto dove afferma che alle origini l’asilo era concesso ai comuni criminali e non a coloro ricercati per reati politici. In età contemporanea tale l’asilo trova le proprie fonti, oltre che nella prassi, anche nelle Convenzioni internazionali sottoscritte da taluni paesi dell’America Latina, nonché nelle Convenzioni diplomatica e consolare di Vienna e - per quanto riguarda l’asilo diplomatico per ragioni umanitarie - nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e nella Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. All’esegesi delle fonti, l’autore aggiunge una dettagliata, e interessante anche per i lettori non specialisti della materia, casistica. Ricordando come l’istituto abbia trovato applicazione, quasi costantemente, in occasione dei maggiori conflitti del ‘900 e che pure nell’era della globalizzazione svolga un’importante funzione. E così riviviamo il dramma della guerra civile spagnola, dell’occupazione dell’Ungheria e della persecuzione del Cardinale Mindszeny, del dissidente cinese Chen Guangcheng e del soldato Sukhanov, e da ultimo di Assange. La ricostruzione dei fatti non è, però, mai disancorata dall’esame delle decisioni della Corte internazionale di giustizia che si sono pronunciate sulla legittimità dell’asilo concesso. La lettura della monografia porta a condividere le conclusioni dell’autore sulla vitalità dell’istituto – che pare oggi integrarsi con il principio del non respingimento dei rifugiati – e che costituisce insopprimibile presidio a tutela di un valore, la vita e la dignità umana, di fronte al quale la ragione di stato è destinata ad arretrare.

Il libro L’ASILO DIPLOMATICO E CASO ASSANGE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE E PROTEZIONE DIPLOMATICA E CONSOLARE NELL’UE dell’autore Giuseppe Paccione Casa editrice Photocity - edizioni open ISBN 978-88-6682-588-3

anno 2014 - € 15,00

può essere ordinato: - tramite il sito http://ww2.photocity.it/Vetrina/DettaglioOpera.aspx?versione=21384& formato=10265 - in qualsiasi libreria - direttamente all’editore: Photocity.it srl Via Francesco Caracciolo, 17 80122 Napoli


Diritti del personale. Importante sentenza del Consiglio di Stato

Il poliziotto, anche se marito di una casalinga, ha diritto ai permessi giornalieri per assistere il bambino

I

A cura della Redazione

l Consiglio di Stato, III Sezione, con sentenza n. 4618 del 10.9.2014, ha stabilito che il poliziotto, anche se marito di una casalinga, ha diritto ai permessi giornalieri per assistere il bambino. La questione è scaturita da una decisione di una questura della Liguria che aveva respinto l’istanza di un assistente della Polizia di Stato volta al godimento dei riposi giornalieri previsti dall’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio; a seguito di tale diniego il dipendente ha proposto ricorso al TAR Liguria. Il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D.Lgs. n. 151 del 2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo “che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente”. A seguito di tale sentenza l’assistente è ricorso al Consiglio di Stato che, invece, gli ha dato ragione. Le norme di riferimento, ossia gli artt. 39 e 40 del citato T.U., così dispongono: “Art.39. Riposi giornalieri della madre: 1 - Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore. 2 - I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall’azienda. 3 - I periodi di riposo sono di mezz’ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.

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“Art. 40. Riposi giornalieri del padre: 1. I periodi di riposo di cui all’articolo 39 sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermità della madre”. Il Collegio ha ritenuto che, alla stregua di detto apparato normativo ed alla luce del principio espresso nella sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 (che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente ), l’opposto diniego si riveli illegittimo. Ha rilevato infatti tale pronuncia che, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall’art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato. A sostegno della condivibisibilità di tale interpretazione va richiamata Cass. n. 20324 del 20.10.2005, che, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della ca-

pacità di lavoro, assimila l’attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principii di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione. E’ pur vero che in senso diametralmente opposto si è espresso il Consiglio di Stato in sede consultiva: “In merito all’interpretazione dell’art. 40 D.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, deve smentirsi l’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. VI n. 4293 del 2008), secondo cui con l’espressione non. lavoratrice dipendente il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa; ciò perché la madre casalinga non può farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio” (C.d.S, Sez. I, 22.10.2009, n. 2732). Ritiene tuttavia il Collegio di dovere aderire al primo orientamento, perché aderente alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula “nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente”. La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa. Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all’educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31. Né può condividersi l’assunto secondo cui “la considerazione dell’attività domestica, come vera e propria attività lavo-

rativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali”(così il citato parere del C.d.S., Sez. I, 22.10.2009, n. 2732), poiché esso oblitera l›innegabile circostanza, che costituisce il fondamento dell›istituto dei permessi giornalieri, della estrema difficoltà di cura della prole da parte anche della madre casalinga, specie laddove si ponga mente alle complesse esigenze di accudimento dei figli nel primo anno di vita (nel corso del quale spettano i permessi de quibus). Del resto, proprio perché i compiti esercitati dalla casalinga risultano di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d›opera dipendente (Cass. civ., Sez. 3, n. 17977 del 24 agosto 2007; idem, 20 luglio 2010 n. 16896; da ultimo, Cass. civ., III, 13 dicembre 2012, n. 22909) è del tutto incongruo dedurne, coma ha fatto il Giudice di primo grado, «l›oggettiva possibilità, nel caso della lavoratrice casalinga, di conciliare la delicate e impegnative attività di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico» (pag. 12 sent.); laddove, invece, è dato di comune esperienza che l›attività dalla stessa esercitata in ambito familiare spesso necessita, alla nascita di un figlio, di aiuti esterni (collaboratore/rice familiare e/o baby-sitter), utilmente surrogabili, nel caso delle famiglie mono-reddito, proprio mediante ricorso al godimento dei permessi di cui all›art. 40 cit. da parte dell›altro genitore lavoratore dipendente. Ancora, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell›armonico e sereno sviluppo della sua personalità (Corte cost., 1 aprile 2003, n. 104); ed in tale prospettiva sarebbe del tutto irragionevole ritenere che l›onere di soddisfacimento degli stessi debba ricadere sul solo genitore che viva la già peculiare situazione di lavoro casalingo. Proprio, in conclusione, lo spostamento dell›asse della ratio normativa sulla tutela del minore impone, invero, di ritenere che il beneficio, di cui uno dei due genitori può fruire, costituisca il punto di bilanciamento tra gli obblighi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (con riferimento al rispetto dell›orario di servizio) e gli obblighi discendenti dal diritto di famiglia paritario, che gli impone comunque la cura del minore pure in presenza dell›altro genitore eventualmente non lavoratore (T.A.R. Abruzzo, L›Aquila, sez. I, 10 maggio 2012, n. 332). Tale beneficio sostanzialmente grava sul datore di lavoro dell›uno o dell›altro genitore (ed in tal senso è da intendersi il principio dell›alternatività richiamato dal T.A.R.), ma, allorché uno dei due genitori per una ragione qualsiasi non se ne avvalga (perché «non lavoratore dipendente» e dunque anche non lavoratore «tout court»), ben può essere richiesto e fruito dall›altro.

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NEL CONTESTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE USARE LA FORZA ARMATA CONTRO L’ISIS È LECITO di Giuseppe Paccione *

la coercizione militare armata, id est l’impiego della forza, all’interno del territorio iracheno. Un luogo significativo della minaccia dell’ISIS e la fonte degli attacchi in corso è senza dubbio la Siria. Che cosa accade se il conflitto prenda piede oltre il confine ovvero si allarga aldilà della demarcazione territoriale? L’uso della forza sul territorio siriano, senza il consenso del governo di Damasco violerà, prima facie, la sua integrità territoriale e comporterà una violazione dell’articolo 2 (4) della Carta delle Nazioni Unite. L’unica giustificazione per tale azione sarebbe stata la legittima difesa, che, a mio parere, permette una caratterizzazione più appropriata a favore di azioni irachene e degli alleati sia fuori, che dentro l’Iraq.

Sommario: 1. Introduzione; 2. L’inibizione dell’uso della forza armata; 3. Il diritto alla legittima difesa e attacco armato; 4. Necessità e proporzionalità nell’uso della forza armata. 1. L’Islamic State in Iraq & Siria, in arabo: ‫ةيمالسإلا ةلودلا‬ ‫ماشلاو قارعلا يف‬, al-Dawla al-Islāmiyya fī al- Irāq wa alShām – che denominiamo ISIS –, ha fatto notizia nel mese di giugno del 2014, nel momento in cui la sua offensiva è venuta sempre più intensificandosi nello Stato iracheno. Dai primi giorni del mese di giugno, l’ISIS ha conquistato la seconda città più grande dopo Baghdad, Mosul, seguite dalle altre città come Tikrit, Rawa, Ana e via discorrendo. Esso controlla i confini con la Siria e sta per preparare una marcia alla volta della capitale irachena. Il suo obiettivo consiste nel determinare, a tutti i costi, uno Stato vero e proprio in tutta la regione, il c.d. califfato1. Questo gruppo terroristico ha una roccaforte in Siria, dove controlla vaste aeree di territorio, includendo Aleppo orientale e Raqqa, come pure i giacimenti di gas e petrolio. Con un patrimonio del valore di un presunto 2 miliardi di dollari, l’ISIS ha poca difficoltà al reclutamento di personale o all’acquisto di armi. L’Iraq ha adottato misure per contrastare l’ISIS sul proprio territorio, con l’assistenza limitata degli Stati Uniti. Il discorso abbonda della prospettiva di attacchi militari guidate dagli Stati Uniti attraverso la frontiera. Quando i responsabili politici considerano le loro opzioni, è essenziale considerare questa domanda: quali sono le norme giuridiche internazionali che disciplinano l’uso della forza da applicare alle azioni militari contro l’ISIS in Iraq e/o in Siria? (

2. Il cuore delle norme sull’uso della forza è l’articolo 2(4)

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della Carta delle Nazioni Unite, che inibisce la minaccia o l’impiego della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di ciascuno Stato2. Essendo tale disposizione riconosciuta come jus cogens (diritto consuetudinario), gli Stati non possono derogare o contravvenire dall’articolo poc’anzi citato. Le uniche eccezioni, ampiamente accettate, al divieto dell’uso della forza sono l’applicazione del Capitolo VII, attraverso il Consiglio di Sicurezza, e il diritto di autodifesa o legittima difesa, sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite3. Prima di passare all’esame di talune eccezioni, una questione logicamente precedente è se l’intervento in Iraq, su richiesta del governo di Bagdad, possa includere totalmente l’articolo 2(4)4. L’Iraq è uno Stato sovrano e indipendente e come tale ha il diritto di chiedere agli altri Stati di essere supportato per contrastare gli attori non statali – in questo caso ci si riferisce all’ISIS –presenti sul suo territorio. Tale azione non soverchierà l’indipendenza politica o l’integrità territoriale dello Stato iracheno. Infatti, ai sensi dell’articolo 20 del Progetto di articoli sulla Responsabilità degli Stati della Commissione del diritto internazionale, viene enunciato che il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione da parte di un altro Stato di un atto determinato esclude l’illiceità di tale atto nei confronti del primo Stato sempre che l’atto medesimo resti nei limiti del consenso5. Ciò offre un fondamento giuridico per la messa in atto del-

3. Secondo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, nessuna disposi-zione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazio-nale6. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Quest’articolo non è inteso per delineare il fine della legittima difesa, ma piuttosto di afferma-

re la sua continuazione dopo il 1945 e di salvaguardare gli accordi regionali sulla sicurezza. Inoltre, come confermato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il contenuto di autodifesa è influenzato dallo jus cogens o diritto internazionale consuetudinario. Consuetudine, a sua volta, che dipende dall’evoluzione della prassi degli Stati, e quindi il diritto internazionale non è statico. Oggi, si è alla presenza di tre requisiti: il primo è quello di un attacco armato effettivo o imminente contro uno Stato; il secondo consiste nell’avere un attacco che deve raggiungere una scala minima; il terzo è quello secondo cui vi deve essere l’elemento della necessità e della proporzionalità della risposta armata7. La prima domanda da porsi è se l’Iraq ha subito un vero e proprio attacco armato. Questo a sua volta riprende la polemica sul fatto se gli attori non statali possono de jure compiere attacchi armati, giustificando la risposta forzata in terra straniera. Per alcuni, il caso Caroline del 1837 sostiene questa proposta. Una nave, la Caroline, era stato utilizzata durante una ribellione contro il dominio britannico in Canada, ma non riguardava il coinvolgimento degli Stati Uniti. Le forze britanniche l’avevano sequestrata e distrutta, mentre era ormeggiata nel porto di New York8. La difficoltà di questo argomento è che, fino a poco tempo fa, la prassi dello Stato, senza alcun dubbio, statuiva che gli attacchi andavano attribuiti a uno Stato. Nel 1985, ad esempio, lo Stato d’Israele attaccò l’OLP (organizzazione per la liberazione della Palestina), che aveva il suo quartiere generale a Tunisi, sulla base del fatto che la Tunisia aveva dato ospitalità all’OLP. È ovvio che l’azione fu condannata dal Consiglio di Sicurezza mercé la risoluzione n.°573/1985 come soglia per l’attribuzione non fu soddisfatta9. Nel 1995, la comunità internazionale condannò le azioni della Turchia contro il PKK – Partîya Karkerén Kurdîstan, cioè il partito dei lavoratori del Kurdistan – nel nord dell’Iraq10. Analogamente, in Nicaragua, la CIG asserì che un attacco messo in atto da un gruppo di ribelli sarebbe soltanto un attacco armato se fosse inviato da uno Stato o dal comportamento di supporto di uno Stato11. Si sa che il diritto ha dei suoi mutamenti negli anni. Oggi, un attacco armato può essere commesso anche da attori non statali senza che vi sia la complicità di qualche Stato (anche se, a parere di chi scrive, ritengo che nel caso dell’ISIS, pare che ci sia qualche Stato, come il Qatar, che finanzia questo gruppo terroristico12) o il suo coinvolgimento. Ciò è stato posto in modo conclusivo oltre ogni dubbio dalla benvenuta risposta internazionale alle operazioni contro Al-Qaeda in Afghanistan tra il 1998 e il 2001. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 1368 e 1373 hanno riconosciuto il diritto naturale di autodifesa o legittima difesa nell’ambito terroristico, senza suggestione di attribuzione a uno Stato. An-

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che durante l’offensiva d’Israele in Libano, nel 2006, alcuni Stati nelle discussioni all’interno del Consiglio di Sicurezza affrontarono la questione circa il diritto d’Israele a rispondere a degli attacchi dei missili e dei rapimenti; il disaccordo avvenne quando si dibatté sul problema della proporzionalità. In ogni caso, pertanto, lo Stato ospitante aveva violato il suo vincolo internazionale dal tollerare gli attori non statali armati sul proprio territorio13. Di conseguenza, non gira sul fatto che gli attacchi dell’ISIS non possono essere attribuiti a uno Stato. A prima vista, i suoi attacchi costituiscono dei veri e propri attacchi armati, ai sensi dell’articolo 51, purché soddisfino le altre condizioni. Secondo il Nicaragua, un attacco armato deve avere un minimo di misura per qualificarlo come un reale attacco armato. La ratio sta proprio nell’escludere i tumulti minori. In modo analogo si sostiene che un attacco armato presup-pone l’utilizzo della coercizione armata che può produrre serie conseguenze, personificato dalle incursioni territoriali, dalle perdite umane o dalla notevole distruzione della proprietà14. Nelle piattaforme di greggio15, quindi, la CIG, ad esempio, si rifiutò di escludere la possibilità che l’estrazione di una sola nave da guerra potesse soddisfare la richiesta. Su ciascun’interpretazione, gli attacchi dell’ISIS sono abbastanza sufficienti. Questo gruppo islamico di terroristi ha, attraverso l’uso della forza, conquistato alcune città dell’Iraq e hanno attaccato sia le forze armate, che i civili. Anche se iniziato con il conflitto fra Stati, i suoi attacchi rientrano nello spirito dell’articolo 316 della Definizione di aggressione delle Nazioni Unite17. Com’è stato asserito prima, un attacco armato deve essere in corso o imminente. Nello Stato iracheno, aggiungo pure in quello siriano, sono in corso gli attacchi dell’ISIS. In aggiunta, Inoltre, data la posizione dell’intelligence reso pubblico in concomitanza con gli obiettivi futuri dichiarati dell’organizzazione e la sua capacità, esiste una minaccia imminen-te di ulteriori attacchi. 4. Va dimostrato che gli attacchi del gruppo terroristico ISIS non sono puramente interni. In altri termini, ci deve essere una dimensione internazionale. Ora, la CIG, nella sua analisi giuridica sull’edificazione del muro nel territorio palestinese occupato18, ha sostenuto che la minaccia che [Israele affrontava] nasce dentro, e non fuori, che il territorio, e quindi Israele, non poteva invocare il diritto alla legittima difesa. A parere del sottoscritto, ritengo che gli attacchi dell’ISIS sono in modo netto e sufficientemente internazionalizzati. Fino a poco tempo fa, la preponderanza della sua attività era in Siria, dove già controlla ampie zone di territorio, risorse naturali e armi. Ancora, sembra che il personale dell’ISIS e il loro armamento attraversa il confine con l’Iraq. Infatti, ha sottoposto sotto il suo controllo i valichi di frontiera, per tale scopo, fra i due Stati, id est la Siria e l’Iraq. Si aggiunga che

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questo gruppo ha grandi obiettivi a livello internazionale. La minaccia, dunque, non ha origine esclusivamente all’interno del territorio iracheno. Affermare il contrario minerebbe inutilmente il diritto di difendersi dell’Iraq19. Anche se l’ISIS ha compiuto attacchi armati, a tal punto deve essere ancora necessario che l’Iraq, assieme a Stati terzi, adotti le misure necessarie, come l’uso della forza, per contrastare o debellare l’avanzata dell’ISIS. Il grande internazionalista Roberto Ago ebbe a dire che lo Stato non deve aver avuto dei mezzi per fermare, respingere o prevenire l’attacco diverso dal ricorso dalla forza armata20. Nell’attuale situazione, la necessità sfocia in modo automatico dalla ragione che un attacco è in corso. Inoltre, ogni tentativo di risolvere la questione in maniera pacifica consentirebbe all’ISIS di consolidare le sue conquiste e preparare futuri attacchi. Nulla di tutto questo sta a indicare che sia ammesso utilizzare l’azione coercitiva armata sul suolo della Siria per se. Dopo gli attacchi del 2001 alle Torri gemelle, la prassi dello Stato ha indicato che la legittima difesa contro gli attori non statali (come per l’appunto l’ISIS) è consentito nel momento in cui lo Stato di residenza non si sia opposto agli attacchi contrari al diritto internazionale. Un esempio è possibile trarre dall’Afghanistan che è stata sempre tollerante con Al - Qaeda. La Siria al contrario non ha accettato le attività dei ribelli sul suo territorio; manca piuttosto la capacità di smantellare l’ISIS, che di per sé non è illegale e sbagliato smontarlo. Di conseguenza il consenso deve essere ricercato dal governo siriano prima di intervenire sul suo territorio. Data la mancanza di capacità delle autorità stesse di Damasco ad affrontare e debellare l’ISIS, l’eventuale rifiuto sarà irragionevole e consolida la necessità per un’azione. Qualsiasi risposta di carattere difensivo, ovviamente, deve essere proporzionata, e che ha due elementi fondamentali21. In primis, la risposta non deve essere manifestamente sproporzionato alla dimensione degli attacchi dell’ISIS. Questo non richiede, tuttavia, una totale simmetria dell’ampiezza fra i due contendenti; si consideri, a titolo d’esempio, ciò che avvenne nel 1982 quando la Gran Bretagna ha dovuto usare in modo significativo un’azione coercitiva armata maggiore nel ripristinare lo status ante quo le isole Falklands-Malvinas, rispetto alla forza armata dell’Argentina22. In secundis, l’obiettivo dell’azione deve essere ragionevole, e l’azione stessa non deve andare oltre quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo. Gli attacchi aerei contro le postazioni dell’ ISIS, le attività e il personale all’interno del territorio siriano e iracheno saranno forse commisurate sia alla dimensione degli attacchi da parte dell’ISIS, sia l’obiettivo ragionevole di ridurre o depennare del tutto la sua capacità. In conclusione, l’Iraq ha il pieno diritto di difendersi dagli attacchi armati perpetrati dall’ISIS e può anche chiedere

supporto alla comunità internazionale, attraverso l’intervento armato di Stati terzi. Esistono dei vantaggi per caratterizzare gli attacchi come attacchi armati, dal momento che, in prima battuta, lo rende lecito intraprendere il conflitto a favore del territorio della Siria. I rigidi requisiti della necessità e proporzionalità limitano o circoscrivono la portata della conseguente risposta23. Nel caso dell’Iraq, quest’ultimo ha il pieno diritto, com’è stato poc’anzi evidenziato, di chiedere assistenza da parte dei suoi alleati, come gli Stati Uniti, e anche l’Unione Europea24, tra cui L’Italia25, trasformando l’azione da autodifesa singola in legittima difesa collettiva. * Esperto di Diritto Internazionale e dell’UE

note 1. G. PACCIONE, La pericolosità dell’ISIS ovvero dello Stato Islamico alle porte dell’Europa, 19 agosto 2014 in http://www.formiche.net/2014/08/19/ la-pericolosita-dellisis-ovvero-dello-stato-islamico-alle-porte-delleuropa/; E. ZACCHETTI, Che cos’è l’ISIS?spiegato bene, in http://www.ilpost. it/2014/06/19/isis-iraq/ 2. M. ARCARI, Il mantenimento della pace e l’uso della forza, in Corso di Diritto Interna-zionale, Parte I, T. SCOVAZZI (a cura di), Giuffrè, Milano, 2014, p.185 ss. 3. T. RUYS, Armed Attack’ and Article 51 of the UN Charter: Evolutions in Customary Law and Practice, Cambridge, 2010, pp. 127 ss.; B. CONFORTI, C. FOCARELLI, Le Nazioni Unite, Cedam, Padova, 2012, p.219 ss.; S. MARCHISIO, L’ONU, il Diritto delle Nazioni Unite, il Mulino, Bologna, 2012, p.219 ss. 4. A. CASSESE, Diritto Internazionale, I. I lineamenti, il Mulino, Bologna, 2003, p.69 ss.; N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, IV Edizione, Giappichelli, Torino, 2011, p.25 ss. 5. R. P. MAZZESCHI, “Due diligence” e responsabilità internazionale degli Stati, Giuffrè, Milano, 1989, p.25 ss.; M. MANCINI, Stato di guerra e conflitto armato nel diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2009, p.9 ss.; A. SINAGRA,P. BARGIACCHI, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffrè, Milano, 2009, p.373 ss. 6. A. A. STANIMIR, Self-defense against the use of force in international law, Kluwer Law International, The Hague, London, Boston, 1996, p.122 ss.; J. P. COT, A. PELLET, M. FORTEAU, La Charte des Nations Unies, Economica, Paris, 2005, p.1329 ss. 7. E.CANNIZZARO, Il principio della proporzionalità nell’ordinamento internazionale, Giuffrè, Milano, 2000, p.15 ss.; A. ANNONI, L’occupazione ostile nel diritto internazionale contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2012, p.134 ss.; M. ANNATI, T. TREVES, Diritto internazionale e bombardamenti aerei, Giuffrè, Milano, 2012, p.31 ss. 8. C. AVENIA, legittima difesa e diritto internazionale, dal caso Caroline alla conferenza di Kampala, Aracne, Roma, 2012, p.25 ss. 9. A. FALZEA, P. GROSSI, E. CHELI, U. BRECCIA, Uso della Forza, in Enciclopedia del Diritto, Annali, V Vol., 2012, p.1410 ss.; A. LANCIOTTI, A. TANZI, Uso della forza e legittima difesa nel diritto internazionale contemporaneo, Jovene, Napoli, 2012, p.1ss. 10. M. SOSSAI, La prevenzione del terrorismo nel diritto internazionale, Giappichelli, Torino, 2012, p.92 ss. 11. Caso delle attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua, sentenza di merito del 27 giugno 1986, reperibile in: http://www.icj-cij.org/docket/ files/70/6503.pdf 12. Si veda un interessante articolo del 21 agosto 2014, scritto da Maurizio Molinari de La Stampa:http://www.lastampa.it/2014/08/21/esteri/iraq-lislamismoda-esportazione-del-qatar-per-il-califfo-un-tesoro-di-due-miliardi-UfDueKARAxYnPOuEhOTfoM/pagina.html 13. A. MANEGGIA, Attori non statali, uso della forza e legittima difesa nella

giurispru-denza più recente della Corte Internazionale di Giustizia, in Le nuove frontiere del diritto internazionale. Attori non statali, spazio virtuale, valori fondamentali e governo multinazionale di territori, C. FOCARELLI (a cura di), Morlacchi, Perugia , 2008, p.31 ss. 14. Y. DISTEIN, War, Aggression and Self-Defence, Cambridge University Press, Cambridge, New York, Melbourne, Madrid, Cape Town, Singapore, Sao Paulo, 2005, p. 24 ss. 15. Si veda la sentenza della CIG sulle piattaforme petrolifere del 6 novembre 2003: http://www.icj-cij.org/docket/files/90/9715.pdf 16. Per aggressione deve intendersi l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato,o in qualsiasi altro modo incompatibile con lo Statuto delle Nazioni Unite, che consista nel a) l’invasione o l’attacco del territorio di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato, o un’occupazione militare, anche temporanea, risultante da una tale invasione o da un tale attacco, o un’annessione con l’impiego della forza del territorio o di una parte del territorio di un altro Stato; b) il bombardamento, da parte delle forze armate di uno Stato, del territorio di un altro Stato, o l’impiego di qualsiasi arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato; c) il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato; d) l’attacco da parte delle forze armate di un Stato contro le forze armate terrestri, navali o aeree, o la marina e l’aviazione civili di un altro Stato; e) l’utilizzazione delle forze armate di uno Stato che sono stanziate sul territorio di un altro Stato con l’accordo dello Stato ospite, in violazione delle condizioni previste nell’accordo o un prolungamento della loro presenza sul territorio in questione al di là della scadenza dell’accordo; f) il fatto che uno Stato consenta che il suo territorio, che ha messo a disposizione di un altro Stato, sia utilizzato da quest’ultimo per perpetrare un atto di aggressione contro uno Stato terzo; g) l’invio da parte di uno Stato o in suo nome di bande o di gruppi armati, di forze irregolari o di mercenari che si dedicano ad atti di forza armata contro un altro Stato di tale gravità che essi equivalgono agli atti sopra enumerati, o il fatto d’impegnarsi in maniera sostanziale in una tale azione. E. SCISO, L’aggressione indiretta nella definizione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in Riv. Dir. Int., 1983, p.255 ss. 17. Definizione di aggressione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (NU) con la risoluzione n.° 3314-XXIX del 1974.; M. C. CICIRIELLO, L’aggressione in diritto internazionale, Ed. Scientifica, Napoli, 2002; P. FOIS, Sul rapporto tra i crimini internazionali dello Stato e i crimini internazionali dell’individuo, in Rivista di Diritto Internazionale, 2004, pp.929 ss.; M. POLITI, G. NESI (Eds.), The International Criminal Court and the Crime of Aggression, Ashgate, London, 2004, p. 35 ss.; E. GREPPI, Aggressione e crimine di aggressione: accertamento “politico” e riflessi giurisdizionali internazionali, in Individual Rights and International Justice, Giuffré, Milano, 2009, p.367. 18. Si consultino le varie opinioni reperibili nella pagina della Corte Internazionale di Giustizia: http://www.icj-cij.org/docket/index. php?p1=3&p2=4&case=131&p3=4 19. M. CALAMAI, ISIL rimette in discussione le frontiere di Siria e Iraq, 2014, si veda in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2726; V. GRADO, Guerre civili e terzi Stati, Cedam, Padova, 1998, p. 62 ss. ; G. ACQUAVIVA, La repressione dei crimini di guerra nel diritto internazionale e nel diritto italiano, Giuffrè, Milano, 2014, p.103 ss. 20. Eighth report on State responsibility by Mr. Roberto Ago, Special Rapporteur -the internationally wrongful act of the State, source of international responsibility (part 1), Stato di responsabilità, in: http://legal.un.org/ilc/documentation/english/a_cn4_318_add5-7.pdf 21. G. VENTURINI, Necessità e proporzionalità nell’uso della forza militare in diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1988, p.49 ss. 22. N. RONZITTI, La questione delle Falkland-Malvinas nel diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1984, p.123 ss. 23. L. MIRACHIAN, Questa guerra ha bisogno di una strategia, 2014, reperibile sulla pagina: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2781 24. Si veda la decisione adottata dal Consiglio dell’UE sulla situazione in Iraq e la decisione adottata all’unanimità per supportare la regione del Kurdistan e il governo iracheno: http://italia2014.eu/media/1626/council-conclusions_iraq. pdf 25. Intervento dei Ministri degli Esteri e della Difesa sui recenti sviluppi della situazione in Iraq anche con riferimento agli esiti del Consiglio straordinario dei Ministri degli esteri dell’Unione europea del 15 agosto 2014, consultabile sul sito della Camera dei Deputati: http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/ commissioni/bollettini/pdf/2014/08/20/leg.17.bol0288.data20140820.pdf

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La “rivoluzione dell’informatica” rappresenta una rivoluzione culturale dagli infiniti risvolti che ha imposto un nuovo modo di concepire la realtà

LA LIBERTA’ INFORMATICA I

di Ellera Ferrante di Ruffana*

l tema dei Nuovi Diritti, emerge ogni qualvolta si affronta la questione riguardante i rapporti tra Stato e Cittadino, fra doveri di Giustizia sociale che competono all’Autorità e Diritti che, seppur non previsti dalla Costituzione, devono “rigorosamente” ricevere riconoscimento e tutela, in ragione del loro “carattere fondamentale” in quanto strettamente connessi con i Diritti Fondamentali del singolo di cui costituiscono una estensione ed una evoluzione. La ricerca verso il riconoscimento della più ampia sfera possibile dei Diritti facenti capo alla persona, a tutti i livelli, trae origine dal Sistema Anglosassone: dalle concessioni della Magna Charta Libertatum (1215) alla “Petition of Rights” (1628), dalle garanzie riconosciute dall’Habeas Corpus Act (1679 e 1812) ai Principi sanciti dal Bill of Rights (1689), tale ricerca non cessa di progredire e ispirare l’Umanità alimentandola. L’attuale Crisi Interna ed Internazionale, ha destato l’attenzione dei Cittadini (Elettori), da anni abituati ormai ad ascoltare la convincente voce dei media, soprattutto televisivi che, con promesse e modelli di vita “paradisiaci” aveva “drogato” la coscienza di gran parte dell’Elettorato. Il brusco risveglio determinato dalla crisi ha contribuito a

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restituire la ragione e la consapevolezza a quei Cittadini che si sono accorti dell’inganno di una “democrazia consociativa” che fondava le sue scelte più sull’accordo tra le forze politiche interessate più a conservare privilegi e portone che a governare con equità. Di straordinaria “rilevanza e delicatezza” è la libertà informatica che con il suo settore e tutto il sistema di comunicazione, ha registrato una crescita esponenziale che ha completamente mutato le regole di vita e di relazione interumana determinando l’ avvento di una società globale, con il conseguente abbattimento delle barriere che caratterizzavano e, un tempo, separavano ambiti nazionali e culturali differenti. La “rivoluzione dell’informatica” rappresenta una rivoluzione culturale dagli infiniti risvolti che ha imposto un nuovo modo di concepire la realtà, non solo per le opportunità di dialogo che si sono aperte a tutti, ma anche per problemi che da essa sono scaturiti. Nell’ambito delle nuove frontiere “aperte” dall’informatica un posto di rilievo ha assunto l’ utilizzo di Internet che ormai costituisce uno strumento indispensabile non solo per il privato cittadino, ma anche per l’ attività dei pubblici poteri.

In questo senso, lo stesso Articolo 3 della Costituzione che sancisce l’ uguaglianza senza alcun tipo di distinzione, va riletto alla luce di uguali condizioni di accesso ai nuovi strumenti informatici: le istituzioni devono assicurare a tutti un adeguato livello di conoscenza delle nuove tecnologie anche attraverso l’ esame delle sollecitazioni che generalmente emergono nel World Wide WEB. L’importanza di un diritto che disciplini l’ utilizzo dei nuovi strumenti informatici ed in particolare l’ uso di internet, risiede nella considerazione che bisogna regolare i rapporti instaurati per mezzo della “Rete” anche e soprattutto al fine di garantire una “navigazione” libera sicura. L’Unione Europea, quindi, si è spinta nella direttiva 2009/140/CE del 25 novembre 2009, a riconoscere Internet quale diritto fondamentale. In particolare, tale provvedimento “riconoscendo che Internet è essenziale per l’istruzione e l’esercizio pratico e delle libertà di espressione e l’accesso all’informazione, qualsiasi restrizione imposta all’esercizio di tali diritti fondamentali, dovrebbe essere conforme alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali”. A garanzia di una corretta ed uniforme applicazione di tale direttiva e, più in generale delle Normativa dell’Unione Europea riguardante il mercato interno delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, è stato istituito con Regolamento N. 1211/2009 del 25 novembre 2009, l’Organismo dei Regolatori Europei delle Comunicazioni Elettroniche (BEREC), una nuova Autority indipendente formata da tutte le Autorità Nazionali di regolazione. Nell’universo dell’informatica uno dei problemi maggiormente sentiti è la “Tutela della Privacy”. Relativamente a tale fattispecie si deve considerare la portata dell’art. 15 Cost. che, garantendo la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, include anche il contratto informatico. Tuttavia, stante la particolarità della comunicazione elettronica (es. la mail), è stato necessario fornire una regolamentazione specifica; in tal senso è stata emanata la L. 23

dicembre 1993, N. 547 che ha dettato modifiche ed integrazioni del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale in tema di “criminalità informatica”. Altresì, particolare rilievo assume nel nostro sistema, l’art. 617 quinquies c.p. che punisce chi, fuori dai casi previsti dalla Legge, installa apparecchiature dirette ad intercettare, impedire od interrompere comunicazioni informatiche o telematiche. Un dato rilevante può rinvenirsi anche nell’art. 615 ter c.p. che punisce chiunque, abusivamente, si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza o si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Da precisare che, comunemente, suol indicarsi il criminale informatico con il termine “hacker”, sebbene tale voce indichi in realtà colui che segue “una filosofia” fondata sul libero accesso di tutti alle informazioni ed ai programmi senza alcun fine di lucro, ma di comprendere a fondo il funzionamento della rete. Il termine invece corretto per indicare il criminale informatico è “cracker”, ossia colui che infrange la sicurezza del computer o elude password e licenze di un software. Come evidenziato in dottrina, in particolare dal Frosini, l’evoluzione tecnologica ha condotto ad inquadrare la libertà personale sotto una luce differente al punto di poter parlare di “libertà informatica”, intesa in senso generale come diritto a controllare le informazioni sulla propria persona in senso più specifico come pretesa attiva e passiva nei confronti dei detentori del potere informatico, privati o pubblici che siano. In queste accezioni tale diritto si configura anche come “diritto all’identità personale” che implica il diritto ad una proiezione di se nella rete informatica in base alla propria volontà e non in forza di un abuso esterno illegittimo (cfr. Cass. pen., III, 15/02/2005, N. 5728). E’ questo il medesimo principio sancito dall’art. 4 D. Lgs. 1 agosto 2003, N. 259, in base al quale la disciplina delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica è volta a salvaguardare, nel rispetto del “principio della libera circolazione delle persone e delle cose”, i diritti costituzionalmente garantiti di: - Libertà di comunicazione; - Segretezza della comunicazioni, anche attraverso il mantenimento dell’integrità e della sicurezza delle reti di comunicazione elettronica; - Libertà di iniziativa economica e suo esercizio in regime di concorrenza, garantendo un accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica, secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità. * Membro di Organizzazione Intergovernativa tra gli Stati per la Sicurezza e la Pace

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Le riunioni Pubbliche Il profilo storico, la disciplina e l’attuazione normativa

S

otto il profilo storico-normativo, il diritto di riunione ha avuto un primo riconoscimento, all’interno dell’ordinamento nazionale con il cosiddetto “Statuto Albertino” il cui articolo 32 prevedeva testualmente che “è riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senza’armi uniformandosi alle leggi che possono regolarne l’ esercizio nell’interesse della cosa pubblica aggiungendo di questa disposizione non è applicabile alle finanze locali pubblici o aperti al pubblico”. Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana libertà di riunione ebbe anche un’importante riconoscimento, in quanto l’articolo 17 sancisci espressi verbis “i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senza armi”, con ciò rimarcandone la natura di diritto inviolabile dell’uomo sussumibile nell’alveo dell’articolo 2 della stessa Carta fondamentale. Nel vigente testo unico delle leggi di sicurezza la libertà di riunione si scrive nel novero delle cosiddette “libertà negative” o “libertà dallo Stato” che si caratterizzano come “diritti pubblici soggettivi aventi come oggetto la sfera di autonomia dei cittadini dello stato”, in antitesi alle cosiddette “libertà positive” o “libertà nello stato”,che, di converso presuppongono alcune situa-

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di Guido Nuovo * zioni giuridiche soggettive strumentali attribuite ai singoli e dalle formazioni sociali in vista del raggiungimento dell’obiettivo della partecipazione e dell’integrazione dei governanti nell’aria di governo. Quale libertà negativa, il diritto di riunione rientra, dunque, fra i “diritti inviolabili” dell’articolo 2 della Costituzione. Dette libertà sono garantite nella misura in cui le limitazioni da parte delle autorità pubbliche non possono essere adottate a discrezione o ad arbitrio, ma nei soli casi e modi previsti dalla legge e/o soltanto sulla base di provvedimenti motivati dall’autorità giudiziaria. La libertà di riunione si caratterizza come le altre libertà collettive, per il fatto che il suo esercizio postula “il concorso di una pluralità di persone accomunate da un unico obiettivo non esaurendosi nella difesa di una sfera di autonomia individuale, ma indirizzandosi alla salvaguardia delle finalità comuni”. E’ stato osservato che la norma costituzionale garantisce il diritto dell’individuo a riunirsi e nel contempo, il diritto della riunione alla protezione costituzionale tanto che si avrebbe “un esercizio collettivo di un diritto individuale”. Ne discende, dunque, che la libertà di riunione si colloca in un quadro con-

trassegnato, da un lato, da un generale favor libertatis. Secondo la disposizione costituzionale, tuttavia, il diritto di riunione non è illimitato, in quanto il suo esercizio sarà costituzionalmente legittimo se e nella misura in cui avverrà “pacificamente e senza armi”, ossia in modo non violento. Tuttavia, al fine di un’esatta comprensione della reale sfera di operatività della norma fondamentale, appare indefettibili, chiarire, sotto il profilo oggettivo la nozione di “riunione” ed individuare sotto il profilo quello soggettivo quali ne siano i destinatari. L’articolo 17 della costituzione non fornisce espressamente una definizione riunione con ciò imponendo tale gravoso delicato compito l’interprete. Secondo la migliore dottrina costituzionalistica per riunioni deve intendersi “qualunque raggruppamento di più persone non stabili che tuttavia non occasionali” è sempre ravvisabile “quando più persone convengono in un determinato luogo accordo tra loro ho finito dei promotori al fine di soddisfare i loro interessi individuale”. Sul punto sembra prezioso citare un illustratore che alcuni anni addietro aveva definito con grande chiarezza la riunione come “il convegno temporaneo volontario non casuale di più persone in un luogo determinato per uno scopo prestabili-

to” identificando sostanzialmente tre elementi costitutivi: 1) le persone che si trovano insieme raccolte in vista del movente unico predeterminato educazionale che ha originato la riunione, 2) lo scopo che prestabilito occasionale determina il raccogliersi delle persone lo stesso luogo, 3) la transitorietà e temporali e temporalità della riunione che sorge nel col concorso delle persone che cessa con l’allontanamento. Su posizioni analoghe sembra porsi anche la giurisprudenza secondo la quale costituisce riunione “qualsiasi raggruppamento di persone che sia caratterizzato da una genericità di intenti, in ciò differenziandosi dall’assembramento in cui ognuno è mosso da fini autonomi”. Proprio come prescrive la corte di cassazione sezione uno 5 agosto 1977 nu-

mero 97 42. Da tali definizioni deriva perciò che il concetto costituzionale di riunione molto ampio in quanto capace di comprendere assemblea adunanze cortei, processioni sit in meeting. La disciplina delle riunioni si rinviene essenzialmente nell’articolo 17 della carta costituzionale degli articoli 18 e seguenti del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza così come integrata degli articoli 19 e 28 del relativo regolamento di esecuzione. L’articolo 18 della citata legge di pubblica sicurezza ha Previsto che i promotori di una riunione in luogo pubblico devono dare di preavviso almeno tre giorni prima al questore precisando che considerata pubblica anche una riunione che sebbene indetta in forma privata, tuttavia il numero delle persone che dovrà inter-

venirvi e per l’oggetto di essa ha carattere non privato. Sul punto va rilevato che la corte costituzionale con sentenza 31 marzo 1958 numero 27 dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della citata fonte primaria nella parte relativa alle riunioni non tenute in luogo pubblico riferimento all’articolo 17 della costituzione. Dalla citata declaratoria di parziale incostituzionalità deriva quindi che la disciplina racchiusa nella costituzione e nella la legislazione ordinaria risulta applicabile esclusivamente alle riunioni tenute in un luogo pubbliche non invece quello aperto al pubblico e tantomeno quelle private. Va aggiunto che dottrina tradizionale aveva riconosciuto in sintonia con la giurisprudenza della cassazione la natura di norma

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percettiva di in immediata applicazione dell’articolo 17 della costituzione con la conseguenza che soltanto per le riunioni pubbliche rimaneva prescritto l’obbligo del previsto. Va chiarita la natura giuridica del previsto che i promotori della riunione pubblico sono obbligati da almeno tre giorni prima dello svolgimento della manifestazione al questore territorialmente competente. La migliore dottrina ha sposato la tesi della duplice natura giuridica del preavviso ritenendo che questo configuri da un lato un obbligo giuridico in capo ai promotori, che in tale modo forniscono ausilio alle funzioni di vigilanza della polizia e dall’altro mondo un onere nell’interesse degli stessi promotori quali possono fare affidamento sulla protezione dell’autorità di pubblica sicurezza.

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Ne discende pertanto che l’avviso per le riunioni pubbliche non rappresenta una condizione di esistenza ne di legittimità della riunione stessa non concretandosi vengono in una richiesta di autorizzazione alla pubblica amministrazione ma semplicemente in un atto partecipativo con cui promotori comunicano al questore determinati elementi informativi che siano strettamente necessari fini di un’attenta valutazione circa eventuali profili di ordine sicurezza pubblica; in caso contrario secondo la dottrina prevalente si sarebbe infatti attribuito all’inadempienza dei promotori effetti che si ripercuotono sul pubblico degli intervenuti incolpevoli, i quali riunendosi pacificamente, senza armi e senza compromettere altre esigenze non devono essere turbati nell’ esercizio del loro diritto. Detto obbligo

grava poi su cosiddetti promotori della riunione che secondo la dottrina prevalente sono non soltanto coloro che hanno ideato, progettato, promosso e organizzato la manifestazione ma anche tutti coloro che hanno in qualche modo cooperato alla realizzazione pratica: partecipando alla fase preparatoria della stessa o comunque ponendo in essere un’attività ben distinta dalla semplice partecipazione alla manifestazione. Sembra dunque il concetto di promotore rilevanti sensi della disciplina in esame nella sua accezione assai ampia così da ricomprendere anche chiunque contribuisca in modo fattivo alla riuscita di una durata in luogo pubblico non soltanto ex ante ma anche in itinere. A parte i particolari profili di responsabilità penale discendenti dall’omissione del previsto, la dottrina prevalente

ritiene che sui promotori non gravi proprio un obbligo generale di garantire l’ordinato e pacifico svolgimento della riunione non solo perché ciò darebbe luogo della sottile responsabilità oggettiva preclusa dall’articolo 27 della costituzione, ma anche perché potrebbe generare confusione tra le funzioni proprie degli organi di polizia e compiti dei promotori. Sembra allora opportuno soffermarsi sui limiti generali della libertà di riunione derivanti da tale disciplina. In particolare l’articolo 17 della costituzione individua un limite generale alle riunioni nella misura in cui impone che esse debbano svolgersi pacificamente senza armi a prescindere dal luogo interessato e, nel contempo, prevede una disciplina speciale per le sole riunioni in luogo pubblico soggette all’obbligo del preavviso all’autorità di pubblica sicurezza che potrà vietarne lo svolgimento soltanto “per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” Con il comma quattro l’articolo 18 del t.u.l.p.s. ha attribuito al Questore un potere interdittivo consistente nell’impedire in via preventiva lo svolgimento delle riunioni soltanto “in caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico di moralità o di sanità pubblica” ed in alternativa un potere effettivo consistente nell’imposizione di prescrizioni per le stesse ragioni” sanzionando penalmente con l’arresto fino ad un anno e l’ammenda da 206 € a 413 i contravventori. Come già in parte chiarito nel paragrafo precedente l’omissione del preavviso non costituisce ex se ragione di interdizione ne di scioglimento della manifestazione. Dal combinato disposto dell’articolo 17 della costituzione del citato articolo 18 del t.u.l.p.s. sembra dunque emergere in modo chiaro che i poteri del questore quella autorità provinciale di pubblica sicurezza livello tecnico operativo presuppongono ben altre condizioni.

In particolare va rilevato che la disposizione fondamentale prevede fini dell’esercizio del potere di divieto preventivo, esclusivamente la sussistenza di “comprovati motivi di sicurezza incolumità pubblica” mentre la soluzione legislativa subordine l’esercizio di tale potere anche ragioni di ordine pubblico, di moralità e di sanità pubblica”, oltre al caso di omesso avviso. Per quanto attiene poi dall’aggettivo “comprovanti” posto dal legislatore costituzionale a sostegno dei motivi di sicurezza ed incolumità pubblica, la stessa dottrina ha ritenuto trattarsi di una superfetazione, poiché il potere discrezionale dell’autorità competente deve necessariamente fondarsi non su semplici sospetti bensì su elementi probatori seri. Più precisamente la dottrina più recente e la giurisprudenza di legittimità hanno affermato che dette ragioni attengono l’attività di polizia perché abbracciano quelle attività dirette, mediante accertamenti mirati, al controllo della regolarità di situazioni soggettive ovvero la scoperta di possibili illeciti. Ultimo potere ma non certo di minor importanza spettante all’autorità di pubblica sicurezza è rappresentato dal potere di scioglimento delle riunione che in considerazione del suo carattere di ultima ratio non può che essere ammesso nei soli casi tassativamente contemplati dalla legge, in cui cioè si presuma un rischio serio di lesioni di beni interessi della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico. I presupposti dell’esercizio del cennato potere sono scolpiti dall’articolo 20 del testo unico secondo cui “quando in occasione di riunioni o di un assembramento luoghi pubblici o aperti al pubblico avvengano manifestazioni o grida sediziose e lesive del prestigio dell’autorità o che comunque possono mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini, ovvero quando nelle riunioni o negli assembramenti predetti sono

commessi delitti, le riunioni serramenti possono essere 18”. Una prima riflessione di carattere preliminare concerne l’estensione del potere di scioglimento della riunione di assembramenti luogo aperto al pubblico, un secondo elemento di riflessione offerto dall’uso da parte del legislatore del verbo potere con ciò caratterizzando lo scioglimento non già in termini di potere dovere ma solo in termini di potere dovendo gli organi a ciò preposti valutare caso per caso se farne uso sempre nei limiti dell’assoluta indispensabilità dell’intervento. Ma il legislatore ha individuato con assoluta chiarezza il procedimento attraverso cui addivenire allo scioglimento delle riunioni in un luogo pubblico. In primo luogo spetta all’ufficiale di pubblica sicurezza, che sarà un funzionario della polizia di stato preposto alla direzione tecnica del servizio la valutazione circa la necessità o meno dello scioglimento. Solo in caso di assenza del predetto funzionale la competenza sarà degli ufficiali o dei sottufficiali dei carabinieri. Il procedimento di scioglimento inizia con l’invito che i soggetti sono tenuti a rivolgere ai manifestanti sensi dell’articolo 22 tulps. A riprova del valore negoziale che il legislatore ha voluto fortemente fornire sono previste altre tre intimidazioni volte allo scioglimento. Disattesi anche quest’ultimi ai sensi dell’art. 24 si può procedere coattivamente allo scioglimento della riunione stessa. In conclusione va osservato che l’art. 18 prevede una causa di non punibilità per quei manifestanti che prima dell’ingiunzione si ritirino con ciò introducendo una sorta di desistenza volontaria in favore di coloro che abbandonino la manifestazione. * Professore - Avvocato Segretario Provinciale Milano

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LE INIZIATIVE DELLE SEGRETERIE PROVINCIALI UGL POLIZIA Verona Non abbiamo equipaggiamento idoneo per tutelarci dalle infezioni, la denuncia dell’UGL Polizia Due straniere in stazione con neonato in braccio: scatta l'allarme scabbia a Porta Nuova la polizia cerca di identificare le donne: loro dichiarano di essere somale e di essere arrivate in barcone. Interrogate dalla polizia, hanno confessato di essere arrivata dopo una traversata sui barconi. E a una di loro è stata diagnosticata la scabbia, una malattia infettiva e contagiosa dovuta ad un parassita non visibile ad occhio nudo. Si insinua sotto pelle e causa un costante prurito allergico. Può essere trasmessa dopo un contatto prolungato tra la pelle degli individui. A denunciare la grave situazione a cui sono andati incontro passeggeri dei treni, persone in stazione e agenti è stato il segretario provinciale dell’Ugl della polizia, Massimiliano Colognato. “Le donne hanno detto di essere sbarcate nell’Adriatico e come da prassi, sono state accompagnate in ufficio per ulteriori accertamenti e successivamente, a seguito di visita medica effettuata dal medico della polizia di Stato, s’è appurato che una delle due persone adulte presentava segni di malattie infettive, diffuse, parassitarie o comunque patologiche, riconducibili alla scabbia. Gli operatori della Ferroviaria di Verona Porta Nuova, spesso e volentieri si trovano ad affrontare situazioni come questa e, purtroppo, non hanno a disposizione tutti i dispositivi di protezione individuale che potrebbero essere utilizzati a tutela igienico – sanitaria per la propria salute. Infatti, negli uffici della polizia ferroviaria sono a disposizione unicamente i guanti in lattice ed il sapone per lavarsi le mani. Non esistono altri dispositivi di protezione individuale che possano essere utilizzati dagli operatori e nemmeno i previsti disinfettanti che andrebbero

utilizzati per la pulizia delle mani a seguito di contatto accidentale con possibili persone infette. Addirittura, sulle stesse autovetture che vengono utilizzate per i normali servizi istituzionali, gli operatori avrebbero dovuto trasportare in questura le donne, rischiando l’eventuale contagio”.Per questo il sindacato di polizia tenta ancora una vota di alzare la voce e spiegare le “enormi carenze della propria amministrazione e la situazione alquanto precaria in cui sono costretti a lavorare giornalmente gli operatori della Polfer

Rovigo Demis Scarpecci neo Segretario Generale Provinciale L’UGL Polizia di Stato di Rovigo cresce e da Roma la Segreteria Nazionale nomina Demis Scarpecci Segretario Generale Provinciale di Rovigo. Una nomina che arriva per premiare l’impegno profuso da Demis in particolar modo in Questura a Rovigo a favore di tutto il personale turnista. Lo stesso sarà affiancato in Segreteria Provinciale da Tony Novellino, in servizio presso la Sottosezione Autostradale di Rovigo A\13 in qualità di Segretario Amministrativo e Beccari Massimo, in servizio presso il Distaccamento di Polizia Stradale di Adria come Segretario Provinciale Vicario. “Un impegno che assumo con enorme senso di responsabilità” ha dichiarato Demis Scarpecci all’indomani della nomina “poichè in questo periodo di crisi, anche per la nostra categoria, non è facile guidare un sindacato. Il primo impegno sarà quello di rapportarmi costantemente con la Segreteria Regionale e Nazionale al fine di scongiurare in tutti i modi, la chiusura di qual si voglia presidio di Polizia nella nostra provincia. Un altro onere che intendo assumere, è quello di lottare per migliorare le condizioni di

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lavoro di tutti i Colleghi con particolare riguardo a quegli Operatori che svolgono il loro sempre più difficile compito su strada. Un particolare interesse sarà rivolto ai lavori per la realizzazione della nuova Questura, che speriamo non debbano subire ulteriori ritardi. Massima attenzione riserverò anche al personale in servizio presso la specialità della Polizia Stradale, nella quale ho prestato servizio per 13 anni e per le altre specialità, Polizia Ferroviaria e Polizia Postale. Il tutto senza dimenticare i colleghi dei reparti più piccoli, come i Distaccamenti e i Commissariati, che molto spesso sono chiamati a rappresentare Istituzioni complesse come la nostra, in realtà territoriali con problematiche assai articolate.

Latina Iniziativa dell’UGL Polizia a favore dei bambini cerebrolesi In occasione delle manifestazioni celebrative dell’ottantesimo anniversario della città di Sabaudia si è svolto in Piazza Oberdan dove l’architettura post moderna di natura razionalista della città esprime tutto il suo fascino, un concerto di beneficenza in favore dell’Associazione Bambini Cerebrolesi e Disabili (ABCeD) – ONLUS. Sul palco in veste anche di showman il cantautore Tony Riggi che ha rallegrato, con la collaborazione del cantante Simone Sciarresi e del DJ Alex B, un folto numero di spettatori. Durante la serata è intervenuto anche il sindaco Maurizio Lucci che ha premiato per conto dell’ABCeD il segretario generale Provinciale dell’Ugl Polizia di Stato Elvio Vulcano e Tony Riggi, ringraziandoli per la splendida serata e per il lavoro della Polizia di Stato sul territorio Pontino; il vice presidente dell’associazione Anna Raccuja ha illustrato le iniziative e gli scopi statutari. A margine dello spettacolo, ha dichiarato il segretario Vulcano: “Questa manifestazione ha avuto un duplice scopo, contribuire a far conoscere l’Associazione Bambini Cerebrolesi e Disabili e lo splendido lavoro dei propri volontari della Provincia di Latina, a mostrare il volto dei tutori della legge sotto un altro aspetto, più vicini alle persone e specialmente ai giovani”. Più volte Riggi durante la serata ha ricordato la figura del poliziotto come amico al quale ci si può rivolgere senza esitazioni per qualsiasi problema. Ha proseguito Vulcano: “Continueremo con ulteriori iniziative che andranno a coinvolgere sempre più i ragazzi del territorio Pontino”.

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Venezia La denuncia dell’UGL Polizia: in questura necessitano lavori urgenti «Risarcire i detenuti per i disagi? E a noi chi ci risarcisce?». I poliziotti in servizio alla questura di Venezia, a Santa Chiara, protestano per gli spazi in cui sono costretti a vivere e cambiarsi. «Mentre Renzi e Alfano pensano a risarcire i detenuti con 8 € al giorno a causa del sovraffollamento dei carceri e si decide di non far andare in galera più nessuno, ai poliziotti non ci pensa nessuno. costretti a lavorare in uffici sporchi e in spogliatoi impraticabili», dice Mauro Armelao, segretario generale provinciale dell’Ugl Polizia di Stato, «e tutto questo succede nella bellissima questura della città più bella del mondo. Che siano dati anche ai poliziotti 8€ al giorno a causa delle condizioni in cui versano i nostri ambienti di lavoro». Secondo Armelao: «A causa dei lavori del tram, gli spogliatoi della questura a Santa Chiara, sono praticamente invasi dall’acqua dovuta alle infiltrazioni venutesi a creare dopo i lavori. I locali di proprietà dell’Autorità Portuale, dati in affitto alla questura di Venezia, sono oramai invasi dall’acqua. Gli armadi sono oramai arrugginiti sulla base e le divise contenute sono umide alcune delle quali piene di muffa. Per non parlare poi dei muri pieni di muffa e infiltrazioni. Chiediamo che il nuovo questore intervenga in maniera celere affinché siano trovati nuovi locali da adibire a spogliatoio e nel frattempo restaurare radicalmente i locali, verificando se vi siano anche delle responsabilità da parte della ditta incaricata ai lavori del tram. Non possiamo più permetterci di essere trattati in questo modo.

coinvolta la provincia di Sondrio. Solo 5 veicoli attualmente sarebbero utilizzabili rispetto ai 15 previsti alla nascita dei due reparti e lo stesso per le moto, solo 2 rispetto alle 15 inizialmente previste. I mezzi rimasti, spiegano i sindacati, «risultano usurati ed ampiamente sfruttati, superano anche i 320 mila km, sono costretti a percorrere anche 700 km in una giornata e al primo guasto verranno fermati essendo finite le risorse per le riparazioni». Per non lasciare scoperto il territorio, verrebbero quindi utilizzati anche veicoli non propriamente idonei al servizio mentre il budget destinato per le riparazioni del parco autovetture della stradale di Lecco, «oltre ad essere insufficiente, allo stato attuale è praticamente esaurito. In sostanza il settore è al collasso.

garantiscono adeguata traspirabilità e comfort, a scapito della professionalità ma, anche, della propria ed altrui incolumità. Ad aggravare un quadro già oggettivamente difficoltoso per l’instabilità climatica, si aggiunge il fatto che il personale citato, sulla camicia atlantica d’istituto, debba indossare anche la giacca antitrauma della Ditta Dainese. Alla luce di quanto esposto ed in riferimento all’incontro col Prefetto Marangoni che, tra l’altro, ha chiarito che stanziamenti economici per la problematica esposta saranno assicurati non appena verranno definiti specifici accorgimenti sull’indumento sopra descritto, l’Ugl Polizia ha chiesto di attivare ogni possibile iniziativa tesa a garantire che quel “miraggio” si trasformi presto in una tangibile certezza.

Roma

Milano

Carenza vestiario alla stradale, iniziativa dell’UGL Polizia Con una nota inviata al Servizio di Polizia Stradale , il segretario generale l’Ugl Polizia di Stato di Roma, Massimo Nisida, ha segnalato che le condizioni climatiche hanno accentuato l’annosa problematica della divisa estiva da motociclista, destinata al personale del R.O.S. di Settebagni, quotidianamente impegnato in servizi di scorta alle più alte cariche dello Stato, al Santo Padre e ad altre personalità straniere. Al momento, Infatti, per il personale di cui sopra, la tanta attesa maglietta ”polo” estiva appare sempre più come un miraggio mentre, invece, è tutt’altro che un miraggio il gravoso disagio di dover operare con indumenti che non

L’UGL Polizia in campo per tutelare il diritto al pasto del personale Con una nota inviata al dirigente della Sezione Polizia Stradale di Milano, il Segretario generale Provinciale dell’Ugl Polizia, Giuseppe Camardi, ha segnalato che, nei Reparti della Polizia Stradale di Milano, al personale che svolge la propria attività lavorativa nel quadrante 13/19, qualora protragga il servizio sino alle ore 20.00, non gli sia concesso di beneficiare del 2° buono mensa. Invero, la circolare Ministeriale nr. 750.C.1.AG 340.1.1/1806 del 25 maggio 2012, diramata al fine di chiarire (e uniformare) i criteri di attribuzione del beneficio in questione

Lecco Grave carenza di automezzi alla Polizia Stradale «A Lecco, nonostante anni di segnalazioni, siamo lasciati da soli dal ministero dell’Interno e dal dipartimento della polizia di Stato: come se questa fosse una provincia di serie C”. Sindacati di polizia ancora una volta uniti nel denunciare le condizioni in cui sono costretti ad operare gli agenti della stradale di Lecco e Bellano, in particolare la mancanza di automezzi rispetto alle necessità del territorio e l’inadeguatezza di quelli in dotazione. Con ricadute, ovviamente, sui controlli che riguardano la superstrada 36 e che vede direttamente

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testualmente recita: al punto 1 “il beneficio è fruibile per il personale che permane in attività almeno un’ora oltre le 14.00 ovvero le 19.00 come prolungamento, per effettive esigenze di servizio, dell’ordinario turno di lavoro (e non come prolungamento dell’orario straordinario) non esclude la possibilità di beneficiare di un doppio buono mensa”;al punto 2 “sia impossibilitato a consumare i pasti presso il proprio domicilio a causa dell’orario di inizio dei turni di servizio”; tale condizione è presente in linea di massima per tutto il personale che effettua servizi continuativa con orario 13.00-19.00 e 19.00-24.00 (ad eccezione di coloro che fruiscono di alloggio collettivo ubicato nello stesso stabile della sede di servizio). La suddetta circolare, dunque, non ha espressamente previsto l’esclusione del cosiddetto buono mensa per il 2° ordinario nel caso in cui il dipendente abbia già fruito del buono mensa per il 1° ordinario!Pertanto, alla luce delle predette disposizione Ministeriali, che non lasciano adito a nessun dubbio interpretativo di sorta, l’Ugl Polizia ha chiesto di impartire le dovute direttive affinché al personale sia concesso il beneficio di fruire della Mensa Obbligatoria di Servizio.

Ferrara Due poliziotti positivi al test della TBC I sindacati della polizia hanno denunciato la positività ai test della Tbc per due poliziotti della questura di Ferrara che saranno sottoposti a profilassi . Due poliziotti (dislocati)

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della questura di Ferrara, che nei mesi scorsi hanno svolto servizio di accoglienza dei migranti, sono risultati positivi alla tubercolosi e ora saranno sottoposti a una lunga profilassi. La denuncia arriva dall’Ugl Polizia e dagli altri sindacati di polizia che hanno avanzato una lunga serie di altrettante denunce dello stato di crisi in cui versa la questura ferrarese. Da qui il monito pubblico con una nota durissima “perché i cittadini, le loro rappresentanze politiche e istituzionali, devono sapere che non possiamo più garantire la sicurezza a livelli accettabili in queste condizioni”.

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Pordenone l’UGL al sindaco: “Tagliate su tutto ma non sulla sicurezza”! “Tagliate su tutto ma non sulla sicurezza”! E’ l’appello del sindacalista pordenonese dell’Ugl Polizia Raffaele Padrone al Sindaco Claudio Pedrotti e all’amministrazione comunale di Pordenone, dopo che la stessa, per voce dell’assessore ai lavori pubblici Flavio Moro, ha dato mandato, in via sperimentale, in questo particolare momento di grave crisi economica, di ridurre in alcuni punti della città l’illuminazione nelle ore notturne. Secondo il responsabile del comparto sicurezza Ugl in Friuli Venezia Giulia la mancanza di illuminazione o la parziale riduzione alla notte potrebbe innescare, nei male intenzionati l’occasione di commettere reati, perché liberi di agire indisturbati nell’oscurità senza il pericolo di essere visti o, successivamente, in fase di processo di essere riconosciuti. Secondo il Segretario dell’Ugl Polizia -” l’occasione fa l’uomo ladro” ed è’ convinto che in quelle vie, dove nelle prossime settimane prenderà il via questa sperimentazione potremmo avere possibili incidenti o creare episodi di reati contro la persona o assistere ad un aumento dei furti o creare dei luoghi dediti allo spaccio, e quindi, si renderebbe necessario aumentare la vigilanza, una vigilanza che si andrebbe ad aggiungere e quindi a gravare ancora una volta sul nostro Ufficio in particolare sulle pattuglie della Sezione Volanti, già fortemente in deficit per carenza di uomini e comunque su uomini e donne delle forze dell’ordine, compresi i colleghi della Polizia Locale anch’essi presenti sul territorio ma in numero ridotto.. Mi rendo conto conclude Padrone - delle difficoltà economiche che hanno tutti gli Enti Pubblici, dettata oltre che dalla spending review, dalla una Legge di Stabilità o peggio, da errate gestioni, ma auspico quanto prima che qualcuno comprenda che tagliare su determinate cose, significa mettere a rischio la sicurezza dei cittadini, e la sicurezza non dimentichiamolo e’ il pilastro di un paese democratico.

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