A ME GLI OCCHI

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A ME GLI OCCHI!! - dalla seduzione all’aiuto La comunicazione odierna sempre più gira per la testa e non per gli occhi: complice la tecnologia informatica, le giovani generazioni stanno perdendo una competenza da sempre stata importante nelle relazioni umane. Nel nostro lavoro ad ogni caso: la relazione d’aiuto, derivante da un rapporto tra due persone che si guardano negli occhi, scivola verso paradigmi di dazione automatica senza alcun interesse conoscitivo reciproco. Parimenti nel rapporto amoroso: si arriva alla genitalità bypassando tutte le fasi della seduzione, con buona pace delle occhiate, degli occhiolini e del famoso occhio di pesce. Riusciranno i nostri eroi a ritornare ad essere umani? Una grande colpa ce l’hanno i ritmi frenetici della vita moderna: i troppi stimoli ci costringono ad estraniarci dalla realtà per non perderci. Ma c’è anche la paura dell’altro, che è diventato un diktat educativo delle mamme moderne: più che mandare i piccoli in giardino o in cortile, li si tiene rinchiusi in casa, davanti al cellulare, o


li si stressa scarrozzandoli tra corsi d’inglese e corsi di nuoto. Quindi persone sole, ma non per condizione, semmai per costituzione: più che intrattenersi coi vicini (di casa o di pendolarismo), ci si isola col computer. Una volta, a miei tempi, un viaggio in treno era occasione di conoscenza: era l’incrocio degli sguardi che faceva partire una conversazione. Non a caso una storica trasmissione di Nanni Loy sulla RAI, chiamate “specchio segreto” (una specie di candid camera) immortalava la naturale tendenza degli italiani ad intrattenere conversazioni con chiunque. Se rivedete queste puntate (in bianco e nero) su internet, troverete che l’inizio parte sempre da uno sguardo negli occhi. Oggi ciò comporterebbe come minimo lo spostamento dello sguardo da un’altra parte o l’abbassamento della testa con imbarazzo. Quindi oggi non ci si guarda più: peccato! Ma analizziamo cosa succede se ci si fissa negli occhi. Provate anche voi a fare l’esperimento con qualcuno: guardarsi negli occhi in silenzio per un minuto. Ne deriveranno sicuramente delle emozioni: risate, vergogna, sudore alle mani, ma anche leggerezza, estasi, felicità, gioia e, in qualche caso (pericoloso), amore. E’ logico che le emozioni dipendono da chi ci sta di fronte, ma l’attivazione e la gestione emozionale potranno anche comportare dei brutti scherzi se non saremo autocentrati. Certamente si tratta di un “atto intimo”, di un contatto tra due anime in cui ci si mette a nudo, in cui cadono le barriere e dove non si può che essere se stessi. E’ interessante come le società umane abbiano codificato delle schermature culturali per limitare o escludere lo sguardo degli occhi. A cominciare dal mondo arabo, passando per le società contadine, per evitare “accoppiamenti automatici” si è preferito allontanare gli sguardi maschili e femminili tra loro: fazzoletti, veli e burqa servivano a questo. Ma anche le grate nei monasteri di clausura o i separatoi nei confessionali servivano non solo a proteggere, ma pure a distanziare: il proverbio “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” riassume in un certo senso il meccanismo di limitazione dell’emozione a fronte dell’assenza di sguardo. Oggi come oggi, per moda o per strategia di


ruolo, usiamo gli occhiali da sole per smorzare ogni emozione, per “capire senza essere capiti”: roba da poliziotti ed investigatori! Guardarsi negli occhi invece è metodo e strumento di trasparenza. Non ci si può mentire, tutta la razionalità salta e l’esplosione dei sentimenti è molto probabile. Finanche nella prostituzione, in cui si cede il corpo, ma non l’anima, una delle poche regole è quella di non guardare negli occhi il cliente. Al contrario, gli ipnotizzatori sono capaci di indurre comportamenti subentrando sul controllo della persona semplicemente attraverso la fissità dello sguardo: nelle famiglie era (ed è, lo spero!) il ruolo educativo del padre, normativo per definizione. Trasparenza, quindi, che abbatte ogni barriera, specie se di controllo, con l’altro sesso: è il caso della seduzione. D’altra parte i copioni classici dell’amore si basano su protocolli ben rodati: chi si piace, prima di tutto si guarda. Accettare o rifiutare uno sguardo significa mandare messaggi al partner. Il gentil sesso è invece abituato a non restituire il benché minimo ok al maschio, ma costui ben lo sa che trattasi di simulazione, per cui non fa altro che riprovarci: è un vecchio gioco umano. Due persone che si piacciono sono soliti infatti comunicare con gli occhi: lo sguardo può essere sfuggente, ma anche ammiccante, il famoso occhiolino italico serve a questo. Gli amanti sanno che devono più volte “studiarsi” (i siculi parlano di “tagliarsi”) da lontano per poi giungere allo sguardo diretto, occhi negli occhi, di fronte al quale, normalmente, si cede al naturale istinto della fusione corporea. Lo sguardo è infatti un atto intimo, una penetrazione al pari di quella genitale, chi non vuole l’unione carnale fa bene a non guardare negli occhi nessuno. L’intimità non è solo sessuale, può anche essere spirituale, amicale, profondamente umana: in tal senso è profonda e vera. Lo stesso Gesù Cristo, di fronte al giovane ricco - ricorda il Vangelo – “lo guardò e lo amò”. Si ama infatti chi si vede volentieri, chi si fa guardare negli occhi, chi sa creare sintonia senza le parole. Lo sguardo appartiene alla comunicazione non verbale, esso non è solo un tipo di comunicazione, ma sovente il preambolo per una comunicazione efficace. Nel mio lavoro da assistente sociale ormai l’ho imparato: per


saltare tutte le resistenze e le schermature il miglior metodo è guardare negli occhi l’interlocutore. Guardare negli occhi non è solo controllo, ma chiaro messaggio di interesse all’altro: costui lo percepisce chiaramente e risponde di conseguenza. E’ un pò come lo sguardo madre-bambino: se ci si guarda ci si rassicura e ci si fida di conseguenza. Ogni essere umano che abbia avuto un positivo attaccamento, secondo le note teorie bowlbyane, risponde con fiducia se l’interlocutore lo ama con lo sguardo, cioè lo ascolta “attivamente”. Nella pratica del servizio di cura l’attenzione allo sguardo è elemento basilare da osservare e praticare. Ricordo l’osservazione del rapporto genitore-bambino, positivo se condito da scambi di sguardi, ma anche l’osservazione di coppia, nel cui caso di conflitto l’elemento preminente è invece l’assenza di reciprocità visiva. In verità lo sguardo è il principale strumento di aiuto attivo: cogliere lo sguardo è lo strumento-base di aiuto, presupposto di qualsivoglia azione di consulenza. Se siamo amati, considerati, ascoltati, siamo già curati a metà: ciò lo facciamo guardando l’interlocutore in maniera attiva, trasformando così i nostri occhi in mani carezzevoli. Se la vita oggi è frenetica e, come dicevo sopra, non c’è più l’abitudine a guardarsi, chi soffre, al contrario, è abituato ad un tempo lento. Sovente chi è bloccato in un letto, o -peggio ancora!- in un corpo immobile, ha come finestra sul mondo solo gli occhi. In costoro c’è un’attenzione immensa, per cui è difficile sfuggire alle loro intenzioni a capire chi siete e come siete. Chi sa di dover morire è estremamente sensibile agli sguardi: essi possono diventare addirittura delle carezze, le ultime carezze prima della fine. Non a caso chi muore lo fa quasi sempre con gli occhi aperti, è come se la sua anima fosse ancora presente oltre l’ultimo respiro. Alcuni studi su persone uscite dal coma o ritornate in vita dopo una morte apparente parlano di testimonianze dirette di “coscienza” (uditiva e visiva) astratta dal corpo: per dire che, morto il corpo, l’anima ancora persiste attraverso gli occhi. Forse non è un caso che l’ultimo atto d’amore verso un defunto è chiudergli gli occhi con le mani, un gesto di definitiva consegna di un anima al buio eterno.


Per il professionista dell’aiuto diventa quindi importante imparare a mantenere un buon contatto visivo con le persone durante il lavoro. Certo, parliamo di una capacità innata che però deve rafforzarsi e migliorare di continuo. Si tratta di un importante aspetto della comunicazione efficace: guardare le persone negli occhi durante le conversazioni, in maniera da riuscire a dare la giusta impressione di sé e sbloccare ogni resistenza alla verità da parte dell’altro.

Ugo Albano


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