due piedi in una scarpa

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DUE -

PIEDI

IN UNA

SCARPA

l’ipercomunicazione moderna e la scissione mentale -

Se una volta si moriva di fame ed ora di iperalimentazione, allo stesso modo oggi rischiamo di farci male per l’eccessiva comunicazione, pur provenendo da un passato -abbastanza recente di isolamento. Dai tam-tam primitivi ad internet, passando per l’invenzione della stampa di Gutenberg e la scoperta delle onde radio di Marconi, oggi noi possiamo definirci uomini completi solo se sappiamo stare in relazione “vera” con l’altro. Ma occorre non abusare delle opportunità di oggi, perché di troppa comunicazione si può anche soffrire. L’iperofferta a cui si assiste oggi più che aiutare crea sbandamento e confusione, oggi sopravvive solo chi è capace di “selezionare” tutto il mare di informazioni esistente e gestire in maniera oculata i mezzi a disposizione. Sopravvive anche chi è capace di un uso attento della tecnologia e sa equilibrare la comunicazione mediata dall’elettronica con quella in carne ed ossa. Riconosciamo le trappole, dalla simulazione d’identità al fishing, dall’ossessività a rischio stalking fino al sapiente governo dell’uso di questi strumenti. Riconosciamo questa pericolosa tendenza a “vivere scissi” tra noi ed i nostri pensieri, tra il qui e l’altrove, tra l’oggi ed il trasposto, scissione invece favorita dai moderni sistemi. Siamo quindi attori e non fruitori passivi della comunicazione, sappiamo accettare - come dicevano i nostri nonni - che ogni piede ha bisogno di una scarpa e che voler far più cose allo stesso tempo ci spinge alla pazzia. Ricordandoci che la comunicazione vera è quella “in carne ed ossa”, abbiamo il coraggio di staccare le spine, di spegnere gli interruttori e di incontrare le persone: ritroveremo sicuramente noi stessi. L’essere umano, se esente da malattie, comunica per sua natura. Diversamente dalle pietre e dai vegetali, noi esseri umani siamo naturalmente portati a rapportarci col nostro ambiente di continuo, sia per soddisfare ogni nostro bisogno, sia per percepire noi stessi. Finanche i malati terminali -


parlo di coloro che sono immobilizzati in un corpo che non risponde più ai comandi del cervellohanno un estremo bisogno di comunicare, di rapportarsi col mondo, di ricevere risposte, di sviluppare un dialogo. Pure quando siamo da soli, in meditazione o in preghiera, noi comunichiamo solo apparentemente con noi stessi; che cos’è la lettura di un libro o l’ascolto di una musica, se non comunicazione tra chi fruisce e chi ha prodotto l’opera? Tutto ciò per dire che l’uomo non può non comunicare; magari per un pò può non mangiare e pure non bere, ma non pensare è impossibile, lo diceva pure Cartesio col detto “cogito, ergo sum”. E siccome il pensiero è per sua stessa natura dinamico, è conseguente il bisogno di comunicare con gli altri come elemento fondante di ogni uomo. La comunicazione umana non è solo “produzione di parole”: in ciò il gentil sesso è sicuramente avvantaggiato rispetto a noi maschietti. Si può comunicare anche stando in silenzio, anche restando in attesa, anche solo guardandosi negli occhi o toccandosi con le mani: ben lo sanno gli innamorati, ma anche chi di comunicazione umana se ne intende. Noi comunichiamo noi stessi anche solo col nostro corpo, con le nostre posture, col nostro modo di vestire: spesso ci si piace o ci si disprezza a primo acchito senza neanche essersi scambiati una parola, basta quindi anche un solo sguardo per creare comunicazione. Storicamente gli uomini hanno imparato a comunicare tra loro tramite il solo canale orale, passando a quello scritto solo negli ultimi millenni, allorquando divenne necessario gestire la comunicazione necessaria all’esercizio del potere a chilometri di distanza tramite i messi. Grazie agli egizi ci siamo poi evoluti nella scrittura, papiri e piramidi lo dimostrano ancora oggi. E’ d’altra parte solo da meno di un secolo che, almeno in Europa, la gente ha imparato a leggere e scrivere, attività prima riservate ai soli ricchi o alla classe clericale; ciò ha permesso indubbiamente alle persone di ampliare il proprio lessico e di rapportarsi al mondo in maniera più attiva a tutela dei propri interessi. Ma il boom della comunicazione vero e proprio è avvenuto dal dopoguerra in poi, epoca in cui la carta stampata prima e la televisione poi hanno raggiunto ogni cittadino. Lo stesso aumento del tenore di vita ha permesso l’accesso di tutti alla comunicazione, acquistare un libro o possedere un televisore è oggi alla portata di ognuno, seppur con dei distinguo: ci sono infatti tante famiglie con tanti libri ed un televisore, abbondano però quelle con più televisori e pochi libri (spesso lasciati in balia della polvere). In questi ultimi trent’anni - lo dice l’ISTAT - in Italia è esplosa la comunicazione televisiva, ma è calata quella scritta. Vi ricordate quando, accendendo la televisione, c’era solo la RAI? Poi è subentrata RAI 1, RAI 2 e RAI 3, poi sono nate le televisioni private locali, poi si sono imposti i circuiti nazionali di Mediaset, seguiti di recente da LA7. Ma la vera mega-rivoluzione è degli ultimi anni, grazie al subentro del digitale terrestre e dei canali satellitari: accendendo oggi ogni televisore connesso ad una normalissima antenna si ricevono centinaia e centinaia di canali, tematici e generalisti, gratuiti e a pagamento, comunque sempre in onda per tutte le ventiquattro ore della giornata. Per non parlare di internet, mezzo comunicativo a forte potenzialità interattiva: la comunicazione non la si subisce ormai più, è possibile oggi, tramite mail, forum, chat e community di ogni tipo, comunicare con tutto il mondo. Se tutto ciò può facilitare tanti bisogni umani (in alcuni Paesi africani, per esempio, i contadini collegati ad internet riescono a conoscere i prezzi all’ingrosso, le previsioni del tempo ed il tipo di antiparassitari da utilizzare), sicuramente si possono anche nascondere rischi veri e propri. Se una volta il nostro pensionato si vedeva il telegiornale alle 20.00 (l’unico!) e poi si faceva la zuppa di latte prima di andare a letto, oggi lo stesso pensionato può letteralmente impazzire col telecomando in mano: l’offerta comunicativa ai tempi nostri è così vasta da richiedere un grande senso di discernimento ed una più forte consapevolezza circa i propri interessi.


Un fenomeno nuovo, mai esistito prima nella storia dell’uomo, è lo stress da comunicazione. Non sto parlando dell’esaurimento nervoso del marito alle prese con una moglie logorroica, ma del fatto di essere immersi, da mattina a sera, in una valanga comunicativa che ormai ci sovrasta. Se fino a qualche decennio fa si alternavano, durante la giornata, periodi di silenzio con periodi di comunicazione attiva, per esempio passando da una passeggiata all’aria aperta al telefilm western la sera, oggi siamo spinti a “stare a mollo” nella comunicazione senza alcuna pausa, passando dalla televisione al computer, dal cellulare al tablet, venendo raggiunti anche durante le nostre evacuazioni da cordless e suonerie varie. Il costume sociale che si sta affermando è quello del “dover stare sempre in comunicazione”: se in televisione i nostri eroi - dal maresciallo Rocca a Don Matteo - pure la notte rispondono al cellulare, è conseguente assistere al costume quotidiano di rispondere e comunicare anche se si sta facendo altro. Lo sanno bene pure i politici, che, per evitare i giornalisti, fanno finta di parlare al cellulare. Si tratta di un’abitudine alla “comunicazione compulsiva” che ci fa rivedere il detto di Cartesio: oggi si potrebbe affermare che il nuovo comandamento corrisponde sicuramente a qualcosa del tipo “comunico, ergo sum”. Capita sempre più spesso di non vedere persone care da anni, eppur di restare con loro in contatto tramite i sistemi di comunicazione: a mio parere un’illusione vera e propria, anche se questo stile risulta sempre più “normale”. Tra sms, skype e comunicazioni cellulari, tutte modalità gratuite o acquistate a tariffe bassissime, la gente ormai non si vede più, ma si tiene comunque in contatto; se una volta il “contatto” era rappresentato dalla visita a casa, dalla passeggiata assieme o dall’uscita finalizzata (visita al museo o pizzata), oggi tendenzialmente si surroga a questo tramite parole -scritte o orali - consumate a distanza. Lo ammetto: sono all’antica! Infatti mi meraviglio ancora quando vedo persone che parlano da sole, scoprendo solo dopo che sono al telefonino e non vittime di un delirante soliloquio. Mi meraviglio ancora del fatto quotidiano in base al quale viene ritenuto normale guidare l’auto parlando col telefonino, poliziotti e autisti di autobus compresi. Se parlo con qualcuno e costui mi interrompe per rispondere al cellulare (nel 99,9% per mere sciocchezze!) io mi sento sempre offeso, con l’aggravante della meraviglia del mio astante. Ancora non mi abituo, quando viaggio in treno, al fatto di non origliare tutte le telefonate di chi viaggia: aspettandomi comunicazioni importanti e necessarie tra manager iperimpegnati mi tocca ogni volta, invece, sorbirmi mere “chiacchiere da lavandaie”, per non dire altro. Lo capisco: non si tratta di un abuso del cellulare (secondo me), bensì di una maledetta “normalità” di stare in relazione ai tempi odierni. Ma si tratta di una normalità che mi fa paura non poco, perché non è che con queste diavolerie sono aumentate le opportunità comunicative, queste piuttosto mi sembrano diminuite. Restiamo sul treno: una volta si ingannava il tempo leggendo un libro o il giornale, passando prima poi al contatto orale almeno per ingannare il tempo: era tra l’altro una bella opportunità per accalappiare l’altro sesso. Oggi, mancando il “vuoto” da riempire con l’approccio orale, non ci si parla più. Se fate la prova sempre in treno - di intercettare uno sguardo, constaterete l’ormai non abitudine alla comunicazione, la vostra richiesta verrà probabilmente valutata come un inopportuno atto di intromissione nella sfera altrui, come se foste un maniaco sessuale. La vera comunicazione umana resta quella de visu, quella in cui i due persone si vedono, si toccano, si guardano, si interpretano, interagiscono. Ciò perché nell’utilizzare un solo canale (quello scritto delle mail o quello video delle webcam) eliminiamo tutti gli altri; anzi, proprio perché non percepiamo la paracomunicazione (il tono della voce, il viso, il silenzio, il modo di vestire, il contesto in cui ci si trova) cadiamo nella trappola di considerare il solo canale che usiamo come esaustivo della relazione, quando nei fatti non lo è per nulla. Basti pensare a quante amicizie si rompono perché, invece di incontrarsi e parlarsi, ci si scambia messaggi scritti che vengono puntualmente fraintesi. La comunicazione umana più vera è quella “di persona”,


semplicemente perché è completa: si comunica infatti non solo con le parole, anche con la testa e con tutti e cinque i sensi. L’essere umano è (grazie a Dio!) fatto così. Ma c’è un fenomeno centrale in tutto questo discorso, che è il costume della “contemporaneità della comunicazione”. Se logica vuole che passiamo da una comunicazione ad un’altra, da un discorso ad un altro, da un libro ad un altro, si afferma sempre più invece una strana tendenza a tenere più comunicazioni contemporaneamente. Lo vediamo dai dibattiti televisivi in Italia: se oltralpe il conduttore gestisce i tempi in maniera tale che tutti parlino a turno, nel Belpaese è diventato (maledettamente) normale parlare in contemporanea, è diventata una costante l’interruzione del parlato altrui, è ormai regola “parlare senza ascoltarsi”. Lo si vede anche per strada, alle strisce pedonali come in fila alla posta, alla fermata dell’autobus come nei colloqui con i professori a scuola: io “emetto comunicazione”, quella “emessa dagli altri” io neanche la percepisco. Al di là di questa (stramaledetta) abitudine al non rispetto degli altri (una volta si chiamava “maleducazione”), si tratta di una vera e propria “disconnessione comunicativa” dovuta alla prassi quotidiana di vivere “stando con la testa altrove”. Se tu mi parli ed io rispondo al cellulare, vuol dire che il mio pensiero non è su di te, ma in un altro luogo. Se a casa mio figlio mi parla mentre io sono su un forum in internet, io mio figlio neanche lo percepisco come presente. Se sono a letto con mia moglie e nel frattempo sono in chat con la mia amante virtuale, è normale non fare sesso con la coniuge. Tutto ciò si sta traducendo in una pericolosa abitudine a scindere nella nostra mente le comunicazioni tra il reale ed il virtuale, tra l’adesso ed il domani, tra ciò che è vero e ciò che è invece simulato. Il risultato è uno stimolo alla scissione come “normalità”: siamo lì, ma il nostro pensiero è altrove. Siamo quindi spinti ad essere contemporaneamente presenti in più contesti in contemporanea, grazie anche al fatto che la comunicazione asincrona (mail, forum e netcommunity) ci permette di sfalsare i tempi per “stare in comunicazione contemporanea” su più canali. Siccome però noi siamo “una persona”, ne consegue che, per recuperare tutte le comunicazioni offline, dobbiamo poi stare ore su tablet, computer o cellulari solo per ricostruire tutto quanto semplicemente “arrivato”. Insomma, lo sviluppo della comunicazione mediata dall’elettronica negli ultimi anni non fa altro che costringerci a stare “con un piede in due scarpe”: materialmente impossibile. Eppure si insiste in quella direzione, pur consapevoli anche del forte rischio di alienazione sociale che caratterizza questo modo - ormai diffuso - di “stare in relazione”. Ecco la frase-chiave: “stare in relazione”. Si tratta di un basilare bisogno umano che lo stesso Ma slow - nella sua ormai famosa “piramide dei bisogni - pone subito dopo il mangiare ed il bere come “necessario” all’uomo. L’uomo è relazione, chi non riesce a starci (perché preso da fobie sociali) o chi purtroppo da bambino non ne ha avuto possibilità (come coloro che sono cresciuti in collegi) è molto probabile che si ammali psichicamente. Se quindi è normale cercare di stare con gli altri, è naturale conseguenza assumersi anche il rischio tipico di chi deve interagire con i pari. I mezzi elettronici di oggi, se da una parte aiutano ad abbattere questi rischi, dall’altra falsano l’interazione stessa: ne sono un esempio le chat o i forum, in cui, se tutti sono titolati a comunicare, tutti possono anche scegliere di “simulare” la comunicazione. Per capirci, se io di persona sono Ugo Albano, ho i capelli corti e sono un maschio, su internet posso pure diventare - se voglio - Pamela, con le tette e la minigonna rossa. Ora fin quando si gioca a “far finta di essere”, può pure andar bene, il problema si pone se, nel tempo, si finisce col fare confusione tra la propria identità e quella virtuale. E’ un gioco pericoloso, specialmente per i giovani, per loro natura ad identità in divenire. Se infatti un adolescente, per fare un esempio, è in fase di definizione rispetto alla propria identità di genere ed il mezzo elettronico gli permette di simulare un’identità di genere “diversa”, è molto facile che questo gioco provochi danni a se stesso, ancor più se gli altri “partner informatici” hanno ben altri scopi. Basta farsi un giro di notte nelle diverse chat pubbliche,


in cui trovare “seduttori informatici” molto esperti di “sesso scritto”: il problema è il passaggio dal gioco al reale, con l’aggravante di consumare un rapporto non a letto, ma nella propria testa tramite il video. Si tratta di una vera e propria scissione mentale, pericolosissima perché spinge col tempo ad una vera e propria sostituzione, ovvero a “dare valore” più alla storia virtuale che a quella reale. Per non parlare poi del rischio vero e proprio di passaggio al “reale” con veri e propri “sconosciuti”: dalla chat alla mail, passando per il cellulare per poi finire all’incontro vero e proprio, il meccanismo è quello. Attenzione quindi alla scissione comunicativa, che produce una realtà inesistente, virtuale appunto, aliena dalla vera e propria conoscenza dell’altro. La trappola è in cui si cade è rappresentata dal meccanismo comunicativo che “stimola” emozioni, ma non li connette ad un contesto relazionale de visu. Io posso pure far emozionare qualcuno senza farmi vedere (con una mail, con un sms, pure con quest’articolo scritto lì e piazzato in una memoria del web), posso quindi indurlo ad azioni che, normalmente, non farebbe mai se mi conoscesse. Il gioco di cui si avvale è quindi quello di provocare una scissione dell’emozione da tutto il complesso della comunicazione, per cui se la attivo, ottengo di sicuro un effetto, pur non mettendomi in gioco. Bel lo sanno i capi moderni: invece di convocare riunioni, in cui sorbirsi reclami, contestazioni o semplici rilievi da parte dei collaboratori, questi mandano le mail. Togliendo quindi tutti i canali di ritorno (i cosiddetti feedback, tipici della comunicazione umana) la mail diventa un ordine, il capo, così facendo, “se ne frega” delle reazioni dei collaboratori. La comunicazione (solo) scritta non a caso è quella militare: dal dispaccio all’ordine, l’importante è imporre una volontà, non recepire il feed-back. Se le emozioni esplodono pur in comunicazioni “a canali limitati”, è il caso di prenderne atto e di proteggersi da questi rischi. Se è giusto mandarsi a quel paese in un litigio tra marito e moglie, lo stesso litigio diventa disumano se giocato a distanza, per esempio tramite telefono senza vedersi. E’ come lasciarsi in coppia: incontrarsi, chiarirsi e salutarsi è ben altra cosa rispetto a qualche “frase cattiva” inviata con gli sms. Ricordiamo quindi che, quando non si è in presenza, le nostre emozioni prendono sempre la strada della testa e si vivono, purtroppo, come se queste fossero vere. Una delle categorie emergenti tra le cause di divorzio in questi tempi non è più il tradimento “carnale”, bensì quello “virtuale”; se una volta con l’amante ci si incontrava nel letto d’albergo, ora la si incontra solo in chat, la relazione quasi sempre si consuma nella nostra testa. Con l’odiosa conseguenza di innamorarsi dell’altro senza averlo mai visto, fino al punto di lasciare il partner in carne ed ossa che fino ad oggi ci è stato vicino. Un’altra fregatura di questa comunicazione scissa è rappresentata dal rischio ossessione: siccome non ci si vede (e forse mai ci si vedrà) è molto probabile che uno dei due si accanisca fino allo stalking, col solo tentativo (da parte della sua testolina malata) di tener legato l’altro. Tra l’altro lo stesso telefono cellulare, complici i piani tariffari economici e pure le opzioni “you and me”, è un ottimo strumento di controllo del partner: ben lo sanno coloro che sospettano di essere cornuti, ma pure i genitori ossessionati di controllare i propri figli. Se questi mezzi comunicativi permettono di raggiungere l’altro “ovunque e comunque”, si pongonodi sicuro come ottimi strumenti nelle mani di soggetti a chiara patologia onnipotente ed ossessiva. Attenzione al fenomeno “fishing”. La rete non è solo un insieme di “punti”, spesso è invece un vero e proprio oceano in cui pescatori cercano di pescare il pesce. Il fishing più famoso è quello dei truffatori che, dall’estero con le e-mail, sfruttando la buona fede, cercano di impossessarsi dei nostri codici bancari per svuotarci il conto corrente. Allo stesso modo su internet soggetti interessati a loro tornaconti (economici o sessuali) simulano identità per carpire la nostra buona fede e stabilire un rapporto di fiducia, curando il quale nel tempo, arriveranno alle nostre persone. Lo sanno bene i pedofili, i quali, simulando di essere adolescenti anche loro, curano relazioni alla pari sul lungo


periodo col solo scopo di giungere all’incontro vero e proprio col ragazzino. Tutti questi pescatori sono assai bravi a gestire la “scissione mentale” di cui parlavamo prima, anzi di usarla deliberatamente per scopi tutt’altro che leciti. Per concludere, caro lettore, dobbiamo per forza demonizzare la comunicazione elettronica di cui abbiamo parlato finora? E’ possibile scindere il buono dal cattivo? La risposta sta in noi stessi, ovvero nel modo con cui usiamo questi strumenti di comunicazione. Ricordiamo che tali sistemi non sono un fine, ma solo e soltanto un mezzo. Ricordiamo inoltre che dall’altra parte c’è sempre una persona, ricordiamo, oltre alla famosa netiquette, le più elementari norme di buona educazione: grazie, prego, per favore,… non dimenticando mai che non rispondere è sempre da cafoni. Riconosciamo tutti i rischi connessi a questo tipo di comunicazione, dalla dipendenza all’isolamento, dalla simulazione fino all’evocazione delle emozioni. Non dimentichiamo mai “il senso e la misura”, stiamo quindi nel sicuro recinto dell’uso senza cadere nell’abuso. E’ come con l’alcool o la televisione: un pò fa bene, troppo fa male e ci roviniamo per sempre con le nostre mani. Ugo Albano


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