Ed io dico no

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...ED IO DICO NO!!! – referendum del 2016 e negazione dei diritti sociali Lo ammetto: come tutti gli italiani ho sottovalutato la portata storica del referendum costituzionale per il quale il quattro dicembre 2016 saremo chiamati a dare il nostro giudizio. Mi rendo conto però che tale valutazione è in effetti stata voluta: infatti sui mass-media di tutto si parla attorno al tema, ma omettendo spesso i contenuti sottostanti. Ecco, per noi professionisti si impone invece l'obbligo morale di capire e, compresi i contenuti della scelta, esprimere un contributo al dibattito complessivo. Se il mio essere professionista riguarda poi il benessere delle persone e se questa riforma costituzionale lo inficia, è mio obbligo prendere una posizione politica, se non per rispetto delle persone che mi vengono affidate, per mio bisogno etico nel dare un senso al mio lavoro. In ciò invito caldamente tutti i colleghi assistenti sociali a fare la stessa cosa: il codice deontologico non è solo un “obbligo comportamentale”, esso parte dalla nostra etica che, seppur condivisa, è e resta un fattore personale. Quando infatti scelte politiche intervengono fortemente e strutturalmente sull'oggetto del nostro lavoro, noi siamo chiamati ad esprimere un nostro giudizio. Non si tratta di essere di destra o di sinistra, né di parteggiare per Renzi o per Berlusconi, si tratta invece di essere dei veri professionisti, di un professionismo apartitico ma


politico, fondato su fatti e conoscenze e non sulle chiacchiere da lavandaia (con tutto il rispetto per queste lavoratrici). Salto a piè pari tutte le questioni preminenti del referendum, dal nuovo Senato alle prerogative del Presidente della Repubblica, concentrando la mia critica professionale sul solo articolo 117. Esso mette in evidenza come la questione del diritto sociale (parlo quindi delle misure di sostegno al reddito, delle politiche di protezione dell'infanzia e della non autosufficienza, delle necessità a sviluppare iniziative di contrasto alla povertà) il nostro Stato lo faccia ricadere da sempre nel gioco federalista, un gioco che è in eterno divenire fin dal dopoguerra, un gioco di “assetti istituzionali” che fa scemare il diritto stesso verso la semplice competenza dell'Ente Locale. Insomma, se stare bene o male in Italia da sempre dipende dal conto in banca, esso va strutturalmente a dipendere dalla regione di residenza. E di quale diritto si tratta, se esso dipende da dove si vive? Non parliamo di Nazioni diverse, ma di cittadini uguali dello stesso Paese, il Legislatore dovrebbe comprendere la necessità di rafforzare questa uniformità su tematiche di diritto civile di base, ma pare non sentire: lo stesso mantenimento delle Regioni a Statuto Speciale ne è emblematico indicatore di un egoismo contro il quale il Governo è debole e non autorevole. La storia parte da lontano, ovvero dal 1948. Cercherò ora di farvi un veloce excursus per mettervi in evidenza come in oltre settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale non sia cambiato nulla verso la creazione di un serio Stato Sociale. Armatevi quindi di santa pazienza per seguire tutte le tappe di questo percorso: è uno sforzo che chiedo al lettore interessato a comprendere i motivi di questo “welfare che non c'è” e quelli del mio no al referendum. La Costituzione, nella sua prima stesura (Anno Domini 1948), pone i servizi sociali (chiamati allora “beneficenza pubblica”) all'art. 117, allorquando disciplina che “la Regione emana per le seguenti materie (segue una serie di materie tra cui al “beneficenza pubblica”, appunto) norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. E qui inizia (male, a mio avviso) la storia dei Servizi Sociali, battezzati già come competenza regionale quando questi Enti ancora non esistevano. Dobbiamo infatti aspettare quasi vent'anni - il


1975 – perchè nascessero le Regioni, vent'anni che sono tra l'altro stati essenziali per la rinascita del nostro Paese, anni del boom economico, ma anche dell'emigrazione all'estero e dell'industrializzazione selvaggia, le cui conseguenze stiamo pagando ancora oggi. Puntata numero due: in ossequio a quanto sopra il nostro Stato emette il DPR 616 del 1977 per dare gambe a questa beneficenza pubblica. In tale Atto all'art. 17 si recita: “sono trasferite alle regioni le funzioni amministrative dello Stato e degli enti di cui all'art.1 nelle materie …..... (segue elenco, compresa la beneficenza pubblica).....come attinenti ai servizi sociali della popolazione di ciascuna regione”. Come è noto, tale Legge trasforma la beneficenza in servizi sociali, vincolando il Comune (all'art. 25) all'erogazione di questa. Partirono quindi in Italia le varie legislazioni regionali in materia, in verità “leggere”, in attesa di una Legge-quadro che, al pari della Riforma Sanitaria, sembrava imminente. Infatti furono diversi i tentativi legislativi in materia, tutti abortiti per fine legislatura (formalmente) o per palese disinteresse politico (nei fatti). Puntata numero tre: in questa vacatio legis nazionale e all'avvio delle legislazioni regionali, in attesa di una Legge-quadro che arriverà solo ventitre anni dopo (sic!), il servizio sociale si è nel frattempo sviluppato facendo da sponda al Servizio Sanitario. Ciò è una particolarità tutta italiana in cui la nostra professione è letteralmente sprofondata adattandosi e strutturandosi secondo logiche di aiuto “riparative”, tipiche degli Enti che curano le sole malattie. Il vero problema di quegli anni è stato appunto la difficoltà a dover/poter conciliare le competenze dello Stato (si pensi solo all'INPS, nato per le pensioni ai lavoratori, invece caricato degli oneri di assistenza agli invalidi) con quelle delle Regioni che, seppur partite in ritardo a legifarare, di fatto creavano differenze significative tra le aree geografiche del nostro Paese. A cercare di risolvere la questione ci ha provato l'allora “Decreto Bassanini” (dal famoso allora Ministro): è col Decreto Legislativo n. 112/1998 (in particolare agli artt. 128 – 134) che il Legislatore ritorna, dopo ventun anni, sulla questione della ripartizione tra Stato e Regioni. In questo articolato i Servizi sociali fanno un passo in avanti almeno sull'accezione letterale e con una definizione più al passo con i tempi: “ ...erogazione di servizi, gratuiti


ed a pagamento, o di prestazioni economiche …...”. Se poi la traduzione del Decreto Bassanini è avvenuta di fatto con la Riforma Costituzionale del 2001, come meglio spiegherò di seguito, per iniziare a definire i contenuti di questo Stato Sociale, dobbiamo aspettare l'Anno del Giubileo: è forse anche per lo (stanco, credo!) aiuto di Nostro Signore che il nostro Stato “partorisce” (finalmente!) la tanto attesa Riforma, la famosa Legge-quadro, la n. 328 del 2000. Certo che se fare un figlio a cinquant' anni qualche problemino ogni donna lo può avere, immaginatevi voi cosa ne esce fuori a cinquantadue anni dalla Costituzione dopo la lunga e di fatto “non volontà politica” a volere uno Stato Sociale degno di questo nome. Ed infatti già il nome dato al nascituro la dice lunga: la Legge n. 328/2000 è pubblicata in Gazzetta Ufficiale col nome di “Sistema integrato di interventi e servizi sociali”. In poche parole il (decantato, a parole) diritto sociale vede un'esplosione di responsabilità, un'altra volta c'è lo Stato, le Regioni, i Comuni e pure il Terzo settore (non più subalterno, ma partner, finanche nella programmazione). Tale Legge-quadro detta i principi generali, ma rimanda le potestà alle Regioni, facendo però scelte chiaramente liberiste. Basti solo pensare al famoso (e mai attuato) art. 12 sulla codifica dei profili sociali, basilare in ogni welfare per definire quali professioni considerare, ma non nel nostro, per cui in questo sistema si sono riciclati cani e porci, il tutto con la più ampia legittimazione politica, nazionale e regionale. Ma l'incubo non finisce certo qui, perchè questa madre cinquantenne, partorito questo figlio indefinito, decide di toglierlo di mezzo già al primo anno di vita. Ed infatti l'anno dopo, nel 2001, avviene la Riforma Costituzionale in chiave (così fu declamata allora) federale. La Legge Costituzionale n. 3/2001, passata per referendum, rimette mano al famoso art. 117 della Carta Fondamentale, nel nostro caso almeno eliminando l'odiosa ed arcaica beneficenza pubblica, ma pure dimenticandola di fatto. L'articolato novellato, infatti, se prevede un elenco di competenze esclusive dello Stato ed un altro elenco di competenze “concorrenti” (il che ha aperto non pochi contenziosi tra Stato e Regioni), ha rimandato all'automatismo delle competenze regionali le materie omesse: è proprio il caso dei servizi sociali!


Ergo: essendo la materia Servizi Sociali dal 2001 di competenza esclusiva delle Regioni, anche i pochi vincoli della Legge-quadro non sono stati vincolanti. L'esempio emblematico è la regione in cui vivo, l'Emilia-Romagna, la quale, se a parole si è ispirata ai principi della L.328/2000, di fatto non vi si è attenuta per nulla (men che meno a codificare i profili sociali), anzi legiferando per delibera di Giunta e non per Legge Regionale, tutto ciò con chiarissimi significati politici a governo del consenso che qui ometto. Scusate, ma di cosa stiamo parlando, in fin dei conti? Stiamo ragionando di un famoso diritto civile costituzionale, che è quello contenuto all'art. 3 della Carta Costituzionale, il quale ancora oggi recita al comma 2 : “.....è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Stiamo parlando della protezione dei bambini e degli anziani, stiamo parlando del diritto alla casa e all'incolumità, stiamo parlando di lotta alla povertà e tutela delle fasce deboli della popolazione. Ricordando che il comma 1 dello stesso articolo recita che “....tutti i cittadini hanno pari dignita sociale e sono eguali davanti alla legge...”, ne consegue che tale dignità è violata per il solo fatto che il diritto (sociale, in questo caso) viene di fatto diversamente coniugato a seconda della regione in cui si vive. E' il succo di vari studi di comparazione di questi anni tra i diversi Ordinamenti regionali dei venti welfare del nostro Paese: sistemi diversissimi tra di loro, realizzati diversamente ed ancor più diversamente efficaci verso il cittadino. Oggi come oggi essere un malato di SLA in Trentino o in Calabria, essere un indigente a Cagliari o a Roma, essere il figlio di un operaio a Napoli o a Trieste, tutto ciò significa avere trattamenti ed aiuti ben diversi, perchè diversissimi tra loro sono questi sistemi di welfare. Ed eccoci alla Riforma Costituzionale proposta dal Governo Renzi sulla quale voteremo il prossimo quattro dicembre. Per quanto riguarda l'art. 117, almeno per ciò che concerne per i Servizi Sociali la mera competenza, ritroviamo confermato l'ennesimo indirizzo devolutivo, in base al quale “ogni Regione si fa il welfare che vuole”. Nel novellando art. 117 c'è scritto chiaramente che....”spetta alle


Regioni la potestà legislativa in materia di …...programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali....”, mentre spetta allo Stato ”...la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Il mio sospetto, dato il pregresso dell'illuminante pensiero politico italico dal 1948 ad oggi e ferma restando la cronica assenza di risorse (con un debito pubblico dello Stato di oltre duemila miliardi di euro c'è poco da scherzare), è che non si voglia di fatto realizzare il diritto sociale. Se così fosse è lo Stato che deve farsi garante del diritto - dal Brennero a Lampedusa, per capirci! - del diritto sociale, specialmente dopo aver sperimentato che il federalismo sul welfare ha ancorpiù spaccato l'Italia tra italiani ricchi ed italiani poveri. Inoltre, essendo le politiche sociali un importante strumento di controllo sulla popolazione per orientarne e gestirne il consenso, credo che gli Enti Locali non vogliano rinunciarvi. Far sopravvivere un cittadino o costringerlo ad emigrare è un vecchio metodo che i nostri amministratori locali ben conoscono. Il vero problema retrostante la Riforma Costituzionale del Governo Renzi è la cecità di analisi sul nostro Paese, che non è federale per cultura, ma che invece richiede un grande sforzo di omogeneizzazione e coesione interna. La dice lunga anche il progetto di Riforma del Senato, il quale, invece di venir eliminato (e lì che sarebbe stata una bella rottamazione!), diventa una Camera degli Enti Locali, gli stessi chiamati a realizzare il diritto sociale ed invece fortemente interessati a perseguire gli interessi particolari delle loro popolazioni. E' per questo che dico un chiaro e forte NO a questa Riforma pasticciata. Dico NO a questo referendum in quanto assistente sociale in quotidiano contatto con i nostri concittadini: se passerà il referendum affosseremo per sempre non solo il diritto sociale, ma pure l'eguaglianza territoriale tra i cittadini, a me (ancora) tanto cara! Invito i colleghi a fare altrettanto!

Ugo Albano


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