UNA BREVE INTERVISTA SULLA LIBERA PROFESSIONE
Gentile dott. Albano, nel suo testo “Servizio sociale e libera professione” parla di una necessaria rivoluzione identitaria che l’assistente sociale deve attuare, per ampliare il proprio ruolo come libero professionista. Come può essere attuata questa “rivoluzione” del ruolo, dell’identità stessa dell’assistente sociale? Le rivoluzioni sono per definizione una “rottura” tra un ordine ex ante ed una realtà ex post: se prima della rivoluzione francese c’era il re e dopo la repubblica, in mezzo non c’è non solo un “fatto”, ma pure un cambio culturale forte, radicale, irreversibile. Una professione come l’assistente sociale, che è nata ed ancor oggi si percepisce come “burocrate pubblico”, è al capolinea: davanti a sé c’è solo l’estinzione, proprio perché l’ordine ex ante (un servizio sociale pubblico) semplicemente non esiste più. Nelle rivoluzioni le cose avvengono forzatamente: allo stesso modo l’assistente sociale arriva alla libera professione non per scelta, ma perché il “vecchio ordine” non esiste più. Quest’ultimo è rappresentato da uno Stato che, ormai da decenni, non riesce più a mantenere quel che ha sempre garantito. Per capirci: se prima c’era il concorso pubblico ed oggi bisogna arrangiarsi in altro modo, ciò costringe l’assistente sociale a cambiare pelle. L’identità non è un aspetto astratto, stabilito ed eterno di una professione: essa si conforma alle nuove modalità che il mondo del lavoro offre. E’ un lavoro non facile, perché l’Università purtroppo non prepara a ciò, quindi i laureati arrivano all’esame di stato convinti dell’esistenza di un welfare che non esiste. Di qui la crisi: è necessaria una veloce rilettura della realtà ed un ancor più celere riposizionamento nel mercato del lavoro. Le modalità sono diverse, ma unica ed obbligata la strada: aprire gli occhi, flessibilizzarsi sulle competenze, leggere il mercato del lavoro.
2) Come afferma lei stesso, la libera professione bisogna volerla. Come possono gli assistenti sociali farsi strada nell’affollato mercato odierno, sapersi proporre in maniera adeguata per trovare uno spazio e occupare una posizione di rilievo anche rispetto agli altri operatori dell’ambito socio-sanitario?
Bisogna proporsi per competenza e non per titoli. Mi spiego meglio: occorre dichiarare cosa si sa fare, a cosa si è disposti a lavorare, al di là dell’etichetta. E’ un’operazione non facile perché ci sono alla base due handicap: la formazione universitaria generalista e la tradizione pubblica. Secondo queste due aree gli assistenti sono tutti “uguali” e devono saper fare “un po’ di tutto”. In un concorso pubblico mai vedrà un vaglio della professionalità in termini di specializzazione, ed infatti le Università questo fanno: sfornano operatori dall’identità debole, flessibile, adattattiva, perché il mercato (pubblico) proprio di tali soggetti ha bisogno. In termini sociologici siamo ancore nella semiprofessione più completa. Quindi, in un mercato non più “protetto”, come quello pubblico, ci si presenta per competenze. Se, per fare un esempio, io mi propongo ad una cooperativa di servizi domiciliari, non basterà più dire “sono assistente sociale, stop”, bensì dire cosa si sa fare: “so coordinare il personale, so progettare e verificare i PAI, so verificare l’efficacia ed il gradimento degli interventi”. Sono due cose ben diverse, non crede? Su ciò – visto che Lei citava l’universo degli operatori sociosanitari – le altre professioni vicine (penso agli educatori professionali, agli infermieri, agli psicologi) da tempo hanno fatto una scelta di specializzazione. Il risultato? Costoro hanno eroso le possibilità lavorative che prima erano degli assistenti sociali, ed ora non più. Cito solo il case-manager, per non parlare di altre e numerose possibilità d’impiego. Ergo: se alla libera professione si arriva con precise scelte di campi di lavoro, se la strada è quella della specializzazione, occorre fare una scelta di campo ben precisa. Ebbene si, bisogna volerla davvero, perché né la formazione universitaria, né la tradizione pubblica la favoriscono. E’ quindi un fatto personale, non di categoria. Ai miei corsi arriva non la massa dei colleghi, bensì quei (pochissimi) colleghi che “scelgono” di buttarsi nella mischia del mercato, spesso rifiutando la sicurezza del posto fisso.
3) Nell’introduzione del suo testo, muove una critica all’università e ai “contenuti professionali talvolta sorpassati dai tempi”, sottolineando per la formazione universitaria un aggiornamento funzionale ad un assistente sociale capace di affermarsi maggiormente nel campo libero professionale. Come dovrebbe essere ripensata la formazione accademica per gli assistenti sociali? Quali contenuti dovrebbero prendere il sopravvento nei corsi di laurea e laurea specialistica?
Non lo dico io, ma è fatto risaputo: l’università italiana è scollegata dal mondo reale. Nel caso del servizio sociale ancor di più: se chi insegna servizio sociale non è assistente sociale, i danni sono evidenti. Mi spiego: se un professore di medicina qualche operazione chirurgica qualche volta se la fa, se un professore di ingegneria qualche progetto lo realizza, ecco che nel servizio sociale chi insegna spesso non ha mai messo piede in un servizio. Questo è estremamente grave, perché il risultato alla fine è –quando va bene!- un semplice travaso nozionistico derivante da teorie astratte e mai verificate. Tornando al tema: se il futuro dei servizi è il libero mercato, l’università dovrebbe fornire le basi per un approccio di questo tipo: la gestione d’impresa, la legislazione europea, la progettazione di servizi. Invece è triste notare non solo uno svilimento dei contenuti del percorso triennale, ma pure un impoverimento dei contenuti di management, che invece chiaramente dovrebbero connotare il percorso magistrale. La soluzione? Aprire le opportunità di insegnamento. Fin quando i professori saranno assunti a tempo indeterminato e se, per motivi di pagnotta, dovranno ripetere ad libidum le stesse lezioni su materie loro mai veramente appartenute, avremo sempre assistenti sociali fuori mercato.
4) Da semiprofessione a professione: questo il percorso evolutivo e di rivoluzione identitaria, parallelo al passaggio da un welfare “pubblico” alla situazione attuale, con prevalenza del settore privato. Gli assistenti sociali come possono affrancarsi dal ruolo ormai sorpassato di esecutori di politiche pubbliche per divenire professionisti indipendenti, attivi e capaci di vendersi nel settore privato in forma autonoma?
Su questo passaggio baso le mie formazioni che offro per la libera professione: non possiamo mai reggere il mercato in termini semiprofessionali, ergo l’agire secondo i canoni della professione è d’obbligo. Questo passaggio, come detto, è identitario, personale e “a recupero” dei buchi formativi. Si parte sempre da sè: ci sono cioè caratteristiche personali che predispongono alla semiprofessione o alla professione. Provenire da una famiglia di imprenditori o di dipendenti, oppure vivere il rischio come una minaccia o una sfida, ecco, questi sono vissuti che hanno risvolti personali ben differenti. C’è chi cerca la “sicurezza del posto fisso” (e lì fa le ragnatele per tutta la vita) e chi la rifugge: sono diversità personali che bisogna
riconoscersi. Superato questo gap, occorre comprendere su cosa c’è passione: specializzarsi in un campo che si sente “proprio” è la chiave di svolta di ogni percorso libero professionale. Si tratta altresì di fare sintesi tra le attività svolte in passato (volontariato compreso) e le aperture di mercato per capire che scelte fare: se io ho la passione per il lavoro coi minori e nel mio tempo libero l’ho sempre fatto (all’oratorio, ai centri estivi, agli scout), è il caso che mi specializzi in quel settore, capitalizzando esperienze e rafforzando queste con dei master. Ecco, il frutto di tutto ciò sono le “competenze specifiche”, che poi vanno non solo condivise con la comunità professionale, ma pure comunicate: il lavoro di ricerca e la pubblicistica connessa altro non sono che gli elementi tipici di una professione. Per concludere: si parte da se stessi, da un “sogno nel cassetto”, e si fanno precise scelte di investimento, sia con lavori pratici, sia con studi teorici. Logicamente dipende da dove si vive, dalla bontà dell’idea, dal gioco di rapporti con la concorrenza ed anche dal prezzo che si richiede all’utenza. Non esiste una ricetta valida per tutti, ma esiste un metodo: il business-plan.
Dott.ssa Alice Mignani Dottore con lode in Scienze della Comunicazione Laureanda in Scienze del Servizio Sociale