Madonna dell'arancio, un'analisi alla rovescia

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UgoCa r me ni



Madonna dell'arancio un'analisi alla rovescia

Ugo Carmeni


Un grazie all'amico Francesco Ragonese per il prezioso aiuto nella rilettura.

Copyright Š Ugo Carmeni 2010 Licenza: CC 2.5 Il presente testo può essere stampato, fotocopiato, distribuito, rappresentato e utilizzato a patto che sia sempre ben evidenziato il nome dell'autore e la paternità del testo, che ciò non sia fatto a fini di lucro e che non si modifichi il testo. Questa licenza deve essere sempre riprodotta ed ha valore legale.


“Non solo ogni volta che leggiamo una poesia, o eseguiamo e ascoltiamo una musica, ma ogni volta che vediamo o rivediamo un quadro o una statua, noi li traduciamo�. (S. Bettini, nota introduttiva in: Riegl, Industria Artistica Tardo- romana, Sansoni ed., Firenze 1953)


Lo studio prende in considerazione una delle opere più significative del nostro pittore la “Madonna dell’arancio” conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Interessante il metodo usato dall’autore per farci entrare nell’opera: attraverso la progettazione alla rovescia ci invita a scomporre il quadro per capirne la genesi e l’artefatto. Ogni parte viene analizzata e confrontata: si scoprono così tutti i particolari e anche i diversi piani di collocazione delle immagini che permettono una fruizione diversa ai vicini e ai lontani. Curiose le notizie sul mercato dell’arte al tempo del Cima con osservazioni precise e citazioni pertinenti. Mentre per il simbolismo insito nell’opera ci rimanda correttamente alle interpretazioni del Professor Augusto Gentili. Consideriamo questo studio una ricerca meditata curata con affettuosa diligenza, un elegante omaggio a Cima da Conegliano nel cinquecentocinquantesimo anniversario della sua nascita.

Associazione degli Amici del pittore G.B. Cima da Conegliano Conegliano, gennaio 2010


Ugo Carmeni propone un puntuale percorso di reverse engineering applicata alla “Madonna dell’arancio di Cima da Conegliano”. La precisione metodologica di questo saggio muove da alcuni autori classici, per esempio da Michael Baxandall e dalla sua idea di opera come rapporto sociale tra pittore e committente. La scelta della contestualizzazione storica dell’artefatto muove da una disquisizione sul suo valore materiale verso un interessante riconoscimento, all’interno della minuziosità paesaggistica del Cima, di alcuni caratteri tipici della civiltà veneta. Questa, soprattutto se paragonata alla fiorentina, dimostra certamente un maggior pragmatismo, una minore propensione alla contemplazione in favore del predominio dell’azione. Tratti culturali che vengono espressi, nella pittura veneta rinascimentale, attraverso l’abbandono della prospettiva geometrica e con l’adozione di quella aerea. Gli sfondi cessano di essere rigidamente architettonici e appaiono paesaggi in cui scorgiamo figure in movimento, soggetti di una vita attiva in cui si corrode il senso di stasi. Il lavoro di Carmeni presenta diversi aspetti di interesse, scegliendo di analizzare l’opera a partire da una pluralità di angolazioni. In particolare il saggio riesce, pur nella sua esaustività, a evitare la pedanteria. L’autore non cede mai alla tentazione di trattare la “Madonna dell’arancio” come un rebus, riuscendo, invece, ad illuminare con intelligenza la relazione dell’opera con il proprio tempo ed il proprio spazio. Saledocks.org Venezia, febbraio 2010


Fig. 1 – Madonna dell'arancio (1497), Venezia


Spesso stentiamo nel dare una risposta soddisfacente alla fondamentale domanda relativa al corretto modo di relazionarsi con l'opera d'arte. Cosa si prova, cosa si pensa o si “deve” pensare? Fino a che punto la contestualizzazione dell'opera ci aiuta nella sua comprensione o, meglio, ci conduce ad una sorta di appagamento grazie alla conoscenza dell'opera stessa? Questi a volte sono i dubbi del visitatore che, entrando in un museo, viene decontestualizzato dalla vita reale e sottoposto ad una sorta di percorso artistico-culturale. L'estraneità che esperisce, allora, non gli permette di relazionarsi del tutto spontaneamente e, di conseguenza, è indotto a cercare aiuto in una qualsiasi descrizione esplicativa. Michael Baxandall in un ciclo di conferenze tenute a Berkley nel 1982, affrontando la problematica della relazione tra l'artefatto artistico e la relativa esplicazione, sostiene che: “Non si danno spiegazioni dei quadri: si spiegano le osservazioni fatte su di essi. O meglio, spieghiamo i quadri solo nella misura in cui li abbiamo fatti oggetto di una descrizione o determinazione verbale. […] Il problema è capire di cosa si occupa la descrizione.1” Descrivere un quadro, in effetti, non ci permette di riprodurre il quadro stesso. Altrimenti ci limiteremmo alla descrizione oggettiva, fisica, con l'esclusivo uso di concetti relativi al tipo di supporto, alle quantità e percentuali di colori primari utilizzati e all'immagine riprodotta. Una sorta di scansione elettronica per intenderci. Qualità che comunque troveremmo in gran parte anche nelle riproduzioni tipografiche, senza doverci spingere 1 M. Baxandall, Forme dell'intenzione, Einaudi editore, Torino 2003, p. 10.

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alla spesso difficoltosa fruizione dell'originale. In realtà è evidente che quando ci sforziamo di descrivere un quadro, anche solamente a noi stessi, utilizziamo dei concetti indiretti; rappresentiamo cioè il nostro pensiero seguito all'esplorazione visiva (oggettiva) del dipinto. Infatti, la relazione tra fruitore e opera è un rapporto piuttosto intimo e soggettivo. Ciò perché l'esperienza estetica si caratterizza anche per un elemento di richiamo al nostro bagaglio culturale e alla nostra sensibilità. Non a caso Platone sosteneva che noi veniamo “chiamati” dal “bello”2. E noi, nella prospettiva filosofica leopardiana, riconosciamo come “bello” ciò che ci lega ad un ricordo, alla memoria, al nostro vissuto. Specificatamente alla questione critica: “Buona parte di ciò che noi chiamiamo “gusto” consiste nella corrispondenza fra l'analisi richiesta da un dipinto e la capacità di analisi del fruitore”3. Quindi capiamo ed apprezziamo le opere grazie alla capacità di integrare la quantità di informazioni e opinioni tratte dalla nostra esperienza. In altre parole, utilizzando un concetto ben formulato negli studi di Giovanni Jervis, l'artefatto non ci comunica qualcosa di per sé, ma ci trasmette quel senso di meraviglia e stupore nel momento in cui noi, la nostra mente, attraverso un meccanismo di riconoscimento ed interpretazione lo facciamo parlare4. Tale meccanismo o processo attraverso cui agisce la nostra mente viene definito nelle scienze cognitive reverse engineering (progettazione alla rovescia), complementare al foward engineering (progettazione in avanti), il meccanismo naturale che ha condotto l'artista alla realizzazione dell'artefatto5. La 2 Platone, Cratilo, Laterza editori, Bari 2008. 3 M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, Einaudi editore, Torino 2001, p. 46. 4 G. Jervis, Prime lezioni di psicologia, Laterza editori, Bari 2004. 5 “In che cosa consiste questo metodo? Un episodio recente può darcene un'idea. All'inizio del 2001, poco dopo che George W. Bush era diventato presidente degli Stati Uniti, un aereo spia americano si è scontrato in

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nostra mente cioè si trova di fronte ad un opera finita e l'unico metodo che possediamo per “farla parlare di sé” è percorrere una sorta di progettazione al contrario, scomponendola, partendo dal dato di fatto per arrivare alla comprensione della sua genesi e significato. Senza ovviamente la pretesa di scoprire verità definitive, procedendo in questo modo, ci auguriamo di escludere alcune falsità. Quando invece non riusciamo ad andare oltre allo “sforzo” interpretativo naturale e l'opera ci appare incomprensibile o addirittura assurda, la responsabilità è del fatto che non individuiamo corrispondenze in grado di catalizzare il percorso di reverse engineering e capaci di guidarci alla natura del pensiero alla base della realizzazione dell'artefatto artistico6. Permane quindi la necessità di un supporto conoscitivo esterno, al fine di aiutare la nostra mente nel riconoscimento della via da percorrere per riallacciare la corrispondenza con l'opera. Nella nostra analisi dunque, mirata alla comprensione della Madonna dell'arancio, procederemo con la “scomposizione” dell'opera stessa. Seguirà l'analisi dei singoli aspetti ed un'operazione di confronto con artefatti simili. Ciò in una mirata contestualizzazione storico-sociale e nel paragone con altre opere documentate. Fermo restando che per individuare il giusto percorso di analisi riteniamo di fondamentale importanza lo sforzo inesausto di porsi le domande capaci di orientare la ricerca. Incentriamo la ricerca su quello che possiamo definire l'aspetto cielo con un aereo cinese ed è stato costretto ad atterrare nel territorio di questo paese. I cinesi hanno rispedito indietro l'equipaggio e hanno cominciato a smontare minuziosamente il gioiello della tecnologia americana. Non disponendo del progetto segretissimo con cui era stato costruito, hanno cercato di inferirlo smontando via via la carrozzeria dell'aereo, le sue componenti funzionali e i meccanismi elettronici. […] I cinesi hanno ripercorso un cammino a ritroso, segnato dalle tracce dei costruttori statunitensi, per ritrovare le soluzioni tecnologiche note solo ai progettisti. […] Gli scienziati cognitivi applicano sistematicamente questo metodo per capire come funziona l'uomo, il suo corpo, la sua mente e i suoi artefatti.” P. Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, Laterza editori, Bari 2003, p. 18. 6 Per un approfondimento dell'argomento, rimandiamo a P. Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, op. cit.

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più sorprendente di quest'opera: il rapporto tra la scena sacra in primissimo piano ed il suo intorno, il suo confine, caratterizzato da una luminosa descrizione paesaggistica rupestre veneta. Sorprendente poiché, mentre tendiamo a riconoscere, o meglio ricondurre la rappresentazione di primo piano, statuaria, alla tipologia Sacra Conversazione o Madonna col Bambino e Santi, lo sfondo ci appare invece “slegato”. La scena sacra infatti non si svolge come in altre pale in un ambiente architettonicamente determinato, ma sembra possedere un carattere autonomo rispetto il campo. Bisogna evidenziare che il legame tra la rappresentazione, di qualunque natura essa sia (scultorea, in bassorilievo o dipinta) ed il suo intorno, il suo confine, rappresenta un momento delicato, di tensione costante, nella storia dell'arte in generale. Tale relazione tra la rappresentazione e l'elemento di “filtro” che la incornicia, e nello specifico della pittura, tra soggetto rappresentato e lo sfondo che lo stacca dall'ambiente espositivo viene risolto, o meglio sbilanciato, in una sorta di equilibrio sempre variabile, con gli estremi che vanno dall'adeguamento formale dell'avampiano rispetto il suo intorno o viceversa. Ciò viene espresso a seconda delle differenti epoche storiche e sociali, a seconda della genialità e della sensibilità compositiva dell'artista in questione. Esprime in modo chiaro il concetto Baltrusaitis nel descrivere la tensione che scaturisce dall'analisi di tale rapporto nell'epoca romanica: “I rapporti fra […] lo sfondo e la cornice non sono mai neutri, e assumono un'importanza fondamentale quando l'opera è destinata a decorare […] un complesso architettonico, dove la loro natura può oscillare, fra i due punti d'equilibrio, dalla sottomissione totale alla totale indipendenza”7. Questo è il substrato culturale alla base della pittura del 1400. Torniamo alla pala in questione. Questa scena sacra è riconoscibile anche da notevole distanza, ma lo sfondo, molto 7 J. Baltrusaitis, Formazioni, Deformazioni, Adelphi editore, Milano 2005, p. 21.

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ricco di particolari e dettagli, è visibile nella sua interezza solamente ad uno sguardo attento e ravvicinato. Un “tutto a fuoco” insomma di tipo fotografico ed irreale. Ogni dettaglio, indipendentemente dalla profondità di campo, è descritto in modo preciso e minuzioso. Ciò impedisce una fruizione completa ed esaustiva dell'opera da una singola posizione “a distanza ottimale”, tipico invece della produzione artistica nell'ambiente fiorentino dell'epoca8. “Quando lo spettatore si avvicina al quadro e scorge il paesaggio, perde l'idea di insieme; per determinare il rapporto fra le scenette sullo sfondo e le figure e strutture architettoniche principali, dovrà […] retrocedere di alcuni passi per abbracciare nella mente il primo piano, fresco nel ricordo delle raffigurazioni sullo sfondo”9. Questa caratteristica non era esclusivamente una prerogativa dei dipinti del Cima, ma, invece, perteneva a buona parte della produzione pittorica veneta del Quattrocento. Si pensi per esempio alla produzione del Mantegna e del Bellini. Sicuramente però con il pittore di Conegliano si manifesta in maniera estremizzata. In effetti le raffigurazioni, non sempre solo realistiche, di queste ambientazioni paesaggistiche 8 “[Parafrasando il Vasari] Quanto più grande la distanza tra l'opera e lo spettatore, tanto più schematica ed abbozzata deve essere l'opera per ottenere il massimo effetto ottico. […] Non c'è da dubitare che parecchi pittori fiorentini del Quattrocento si sono fatti guidare da considerazioni come quelle del Vasari […]. Le pale e gli affreschi di Masaccio, di Andrea del Castagno, di Domenico Veneziano sono delle costruzioni spaziali quasi completamente prive di particolari, che producono l'effetto massimo quando vengono guardate da una certa distanza. Anche nei casi in cui un paesaggio con numerose figure si spiega dietro la scena principale, come in alcune pale del Ghirlandaio, nessun elemento essenziale sfugge allo spettatore che si limiti ad uno sguardo lontano del quadro”. B. Aikema, Avampiano e sfondo nell'opera di Cima da Conegliano. La pala d'altare e lo spettatore tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, in VENEZIA CINQUECENTO n.8, Bulzioni editore, Roma 1994, p. 94. 9 B. Aikema, Avampiano e sfondo nell'opera di Cima da Conegliano. La pala d'altare e lo spettatore tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, op. cit., p.. 99.

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minuziosamente dipinte, possono essere a ragione considerate la più completa e precisa fonte di documentazione storica della conformazione urbana dell'antica Conegliano10. Analizziamo quindi gli aspetti necessari per comprendere come il Cima, attraverso il suo modo di dipingere, volesse guidare lo sguardo del fruitore all'interno della sua opera tra i due differenti piani. La pala è conosciuta come Madonna dell'arancio11 (fig. 1) e trova collocazione attualmente alle Gallerie dell'Accademia di Venezia. Il dipinto rientra nello schema tipologico della Sacra Conversazione e rappresenta la Madonna col Bambino in braccio, seduta in una roccia che le fa da trono, tra S. Girolamo a sinistra e S. Luigi di Francia a destra. Dietro la Vergine spicca l'albero di arancio che caratterizza l'opera. Il paesaggio rupestre, con la collina ed il borgo che ricorda il castello di S. Salvatore di Susegana12, si presenta disseminato di una flora varia e molto ricca e animato da un gran numero di personaggi e animali disegnati nel dettaglio. Non vi è riportata la datazione come accade in altre tavole; è comunque generalmente collocata dalla critica tra il 1496 e il 149813. La firma invece appare in un 10 “Gli sfondi di 24 opere ritraggono paesaggi e località riconoscibili del territorio coneglianese […]. Nella “Madonna col Bambino tra S. Michele Arcangelo e S. Andrea” della Galleria Nazionale di Parma la veduta è completa e quasi totalmente aderente alla realtà […]. I punti di vista preferiti del Cima […] per ritrarre Conegliano erano da Est sull'estrema propaggine occidentale della Monticella e da Sud-Ovest lungo il torrente Ruio.” M. Potocnik, Conegliano Città Murata, Edizioni Vianello, Treviso 2005, p. 38. 11 Come da catalogo Menegazzi, Cima da Conegliano, Canova Edizioni, Treviso 1981, p. 100. “Virgin and child with Sts Jerome and Louis of Toulouse” in Humfrey, Cima da Conegliano, Cambridge University Press, Cambridge 1983, p. 153. 12 “The hill-town to the left was identified by Federici as Conegliano, and by Zimmermann (1893, 57-8) as the Castello of S. Salvatore above Susegana; while resembling both in a general way, it is probably not a topographically accurate record of either.” Humfrey, Cima da Conegliano, op. cit., p. 153. 13 “The date of ca. 1496 assigned on stylistic grounds by Burckhardt (1905, 32), followed by Hadeln (1912), Moschini Marconi (1955, 112) and Coletti, seems acceptable.” Humfrey, Cima da Conegliano, op. cit., p. 153. Per un approfondimento sulle motivazioni rimandiamo al catalogo

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cartiglio sulla roccia ai piedi della Vergine: “IOA. BAPT. CONEGL.”. Il dipinto, ad olio su tavola, è verticale e può essere inscritto in un rettangolo di 212 x 139 cm. Le dimensioni sono effettivamente ridotte rispetto alla media, se consideriamo a titolo di confronto, per esempio, altre due pale d'altare del Cima (fig. 11): il Battesimo di Cristo di S. Giovanni in Bragora, che misura 350x210 cm o il S. Giovanni Battista tra S. Pietro, S. Marco, S. Girolamo e S. Paolo della Madonna dell'Orto di dimensione 305x205 cm. Risulta evidente che le dimensioni dell'opera non limitano l'elevato numero di particolari, anche molto piccoli. In altre parole una delle pale d'altare più piccole del Cima si presenta tra le più ricche di dettagli. Dettagli che perlopiù, se immaginiamo l'opera nel suo contesto originario e non museale, al di sopra di un altare, ci risultano di difficile se non impossibile lettura, per la distanza imposta al fruitore. Approfondiamo quindi l'analisi di tale collocazione. Nonostante non ci sia pervenuto nessun documento circa la commissione, sappiamo che la Madonna dell'arancio svolgeva la propria funzione celebrativa all'interno della chiesa di S. Chiara a Murano14. L'edificio venne sconsacrato nel XIX secolo ed è attualmente utilizzato come magazzino di una vetreria (fig. 3). Nel suo complesso appare comunque corrispondere a quello raffigurato nella veduta del De' Barbari del 1500 (fig. 2). La pianta misura 12,25 x 23 metri e si presenta ad aula e senza abside15. citato di Humfrey e a quello di Menegazzi. 14 “Il complesso di S. Chiara era considerato esistente nell'isola fin da ignoto ed antico tempo. In un primo momento fu eretto dagli agostiniani ed intitolato a San Nicolò della Torre […]. Verso la seconda metà del XIV secolo passò alle monache benedettine e, circa un secolo dopo, a quella di Santa Chiara, da cui la nuova e definitiva denominazione. Si è a conoscenza di un radicale restauro della chiesa nel 1519 e della soppressione avvenuta ai primi del XIX secolo. In conseguenza di ciò l'edificio fu volto ad uso di vetreria, ma della chiesa rimase salva la facciata e la struttura esterna nelle sue linee essenziali.” M. Vecchi, Chiese e monasteri medioevali scomparsi della laguna superiore di Venezia, L'Erma di Bretschneider editore, Roma 1983, p. 41. 15 S. Ramelli, Murano Medievale, Il Poligrafo Casa Editrice, Padova 2000, p. 83.

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Fig. 2 – La chiesa di S. Chiara dalla veduta del De' Barbari

Fig. 3 – La ex chiesa di S. Chiara nel contesto attuale

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La pala fu commissionata in seguito alla ristrutturazione del 1440, quando all'ordine delle monache benedettine seguì quello delle francescane. Inoltre, come documentato16, sappiamo che differentemente alle grandi pale del Cima a cui l'abbiamo precedentemente confrontata, la Madonna dell'arancio non si trovava sull'altare maggiore, ma a sinistra di questo, in un altare laterale, quindi secondario. Il dipinto non era posto molto in alto e di conseguenza permetteva anche una fruizione visiva ravvicinata. L'opera in tale contesto consentiva, effettivamente, più piani di lettura da parte del fruitore. Dalla distanza si scorgeva la scena sacra nella sua monumentalità, caratteristica propria della pala d'altare, la cui funzione appunto era di raccontare con chiarezza il contenuto delle scritture, di suscitare i sentimenti appropriati del soggetto narrato e di imprimersi indelebilmente nella memoria attraverso la rappresentazione chiara dell'immagine religiosa. Inoltre la visione più accorta, ravvicinata, era destinata ad un pubblico mirato che “sceglieva” di avvicinarsi perché interessato. Tale fruizione permetteva di cogliere ogni particolare del dipinto. Per il pittore era di fondamentale importanza la reazione all'opera da parte del fruitore erudito che si identificava, spesso, con la ricca classe committente, coi “mecenati”. Si trattava appunto di una minoranza della popolazione tra mercanti, principi, cortigiani ed i superiori degli ordini religiosi17. Gente di affari che frequentava la chiesa ed acquisiva, in tal modo, la base culturale necessaria per comprendere i dipinti anche nei suoi richiami più eruditi. Il 16 La pala è ricordata lì dal Ridolfi (1648): “In Santa Chiara dell'isola detta (Murano) dipinse la medesima (Vergine) in un Paese, oue imitò con molta diligenza ogni minuta herbetta, & i Santi Girolamo e Luigi”; dal Boschini (1664): “Alla sinistra dell'Altar maggiore, la Tauola contiene Maria, col Bambino, San Girolamo, e San Bonauentura, in bellissimo Paese: opera delle rare di Battista Cima da Conegliano”; da Zanetti (1733); da Federici (1803); e infine dal Moschini (1808), prima che venisse mandata a Vienna nel 1816 e riportata a Venezia nel 1919. P. Humfrey, Cima da Conegliano, op. cit., p. 153. 17 “I contadini e i cittadini poveri avevano un ruolo irrilevante nella cultura del Rinascimento […] il chè può essere deplorevole, ma è un fatto che va accettato”. M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, op. cit., p. 50.

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pittore era ovviamente sensibile a tali capacità visive del suo pubblico; d'altronde egli stesso era partecipe delle stessa società e ne condivideva valori e principi. Va inoltre ricordato che il mercato dell'arte era regolato in modo molto differente rispetto a quanto avvenne dall'Ottocento in poi. L'opera d'arte non era eseguita per poi essere esposta e venduta. La produzione di opere già pronte era limitata a temi ordinari, come le Madonne col Bambino, invece le pale d'altare o i cicli di affreschi erano sottoposti a precise regole di commissione. Alla base dell'opera figurava un accordo commerciale che regolava, dal punto di vista economico, il rapporto tra artista e committente. Nel Quattrocento non si può parlare di una vera distinzione tra l'uso “pubblico” o “privato” di un dipinto. Molte volte erano proprio le commesse private ad essere destinate ad un luogo pubblico. Si pensi per esempio, oltre alle pale d'altare, ai cicli di affreschi nelle cappelle funerarie o alle decorazioni celebrative. Investire il denaro nell'arte, per la decorazione di chiese o di opere atte ad abbellire il suolo pubblico, rappresentava una fonte di lustro per i ricchi. Il merito di “spender bene” era visto come un atto di prestigio e pagamento di tributo verso la chiesa e la città. Insomma, investire su di una rappresentazione sacra, oltre ad essere più economico che l'acquisto di beni di tipo architettonico quali pavimentazioni, rivestimenti in genere o campane, risultava una sorta di atto di “redenzione”. In questo modo veniva appagata la propria coscienza civica, e ne risultava una buona pubblicità ed un duraturo ricordo di sé. Si consideri che alla classe dei mecenati, pensiamo per esempio a Rucellai nell'ambiente fiorentino, appartenevano anche mercanti arricchiti attraverso gli interessi derivati dal prestito di denaro che, all'epoca, sfioravano tassi di usura. Interessante osservare come, in che modo e fino a quanto la committenza influisse nella determinazione delle scelte stilistiche e compositive del pittore. “Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Da un lato abbiamo un pittore che faceva il quadro, […] dall'altro qualcuno che lo commissionava, forniva il denaro per la sua realizzazione. 16


Fig. 4 – Il contratto per il Polittico di Capodistria (1513), scritto dal Cima

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[…] Nel XV secolo la pittura era ancora troppo importante per essere lasciata ai pittori. […] I dipinti erano progettati ad uso del cliente.18” Il rapporto tra pittore e committente, per la realizzazione di un dipinto, era determinato da accordi scritti (fig. 4) e, a volte, da precisi contratti notarili. Non esisteva una formulazione standardizzata, ma veniva comunque definita la somma del compenso che variava in funzione delle caratteristiche del dipinto richiesto, dei tempi e delle modalità di esecuzione. Infatti Michael Baxandall considera i dipinti del 1400 dei fossili della vita economica19. La nostra analisi considera allora l'opera come un artefatto storico e, in quanto tale, come prodotto e soluzione di un accordo. La quantità e la qualità dei colori da utilizzare erano i fattori determinati, su cui si insisteva in questi documenti per stabilire il compenso del pittore. Il mecenate metteva in mostra la propria ricchezza investendo sulla preziosità dei componenti: sull'oro, per lo sfondo o per particolari decorazioni dei dipinti, sull'argento e sul costoso azzurro ultramarino. Colore quest'ultimo ottenuto dalla polverizzazione dei preziosi lapislazzuli importati dall'Oriente. Si consideri che proprio Venezia, nel ruolo ponte tra il mondo occidentale e orientale, era centro del commercio dei colori tra il XV ed il XVI secolo. Ci fornisce una buona testimonianza di ciò proprio il Cima, nella Incredulità di S. Tommaso della National Gallery di Londra (fig. 5). Non vogliamo soffermarci sulle tristi disavventure della pala nel corso di una marea eccezionale che la travolse durante una fase di restauro nel 182020, ma sui risultati di un'importante analisi colorimetrica, effettuata dal laboratorio scientifico del museo londinese negli anni '90. Essi dimostrano, come esposto da Jill Dunkerton, che quest'opera possiede la gamma più estesa 18 M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, op. cit., pp. 3-4. 19 M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, op. cit., p. 4. 20 Sull'argomento rimandiamo a L Menegazzi, Cima da Conegliano, op. cit., p. 100.

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Fig. 5 – Incredulità di San Tommaso (1504), Londra

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di pigmenti mai rivelata tra i dipinti della galleria londinese21. Non a caso il Cima ricevette per la realizzazione di tale opera centotrentadue ducati: il suo più elevato compenso documentato22. Circa la Madonna dell'arancio purtroppo, come già affermato, non ci è pervenuta nessuna documentazione sui rapporti contrattuali. Non sappiamo, quindi, in che misura ed in quali elementi la composizione pittorica fu determinata dalle richieste della committenza. Tuttavia è noto che nel corso del 1400, vi fu un cambiamento di sensibilità nel giudicare e valutare il valore dei dipinti. Per capirne le cause rimandiamo all'attenta analisi di Michael Baxandall. Mentre i colori preziosi perdono il ruolo di primo piano, nella valutazione economica, assumono maggior rilievo la qualità e l'abilità pittorica. Nei contratti di fine secolo il compenso variava sensibilmente se, ad esempio, il dipinto veniva compiuto dalla mano del pittore o dalla sua bottega. Il cliente del 1490 intendeva quindi investire sul talento più che sull'oro. Iniziava a venire riconosciuto e ripagato il tempo che il maestro dedicava alla realizzazione complessiva dell'opera rispetto a quello degli assistenti. Alla luce di tali considerazioni, confrontiamo la nostra Madonna dell'arancio con altri due dipinti del Cima degli stessi anni: la Madonna col Bambino tra i Santi Giovanni e Lucia del Staatliche Museum di Berlino (fig. 7) e la Pausa nella fuga in Egitto sempre con i Santi Giovanni e Lucia della fondazione 21 “I pigmenti identificati sono: biacca; due pigmenti neri, nero di osso e un nero vegetale; i blu, azzurrite e oltremare, di più di una tinta; i verdi, malachite, verderame e resinato di rame; tre pigmenti rossi, vermiglione o cinabro, una lacca rossa e ematite; e, fra i pigmenti giallo e arancio, giallo di piombo e stagno, orpimento, realgar, una lacca gialla e un colore bruno-arancio trasparente, identificato come un catrame vegetale. Ocre e terre d'ombra sono anche presenti, ma come componenti minori nelle miscele brune.” J. Dunkerton, Il colore nell'Incredulità di San Tommaso di Cima da Conegliano, in VENEZIA CINQUECENTO n.7, Bulzani editore, Roma 1994, pag 146. 22 In realtà Cima ricevette solo la metà del compenso entro la data stabilita. Così, dopo aver minacciato di non portare a termine il lavoro, dovette adire le vie legali contro la confraternita dei Francescani di Portogruaro che commissionarono la pala. P. Humfrey, Cima da Conegliano, op. cit., pag 153.

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Gulbenkian di Lisbona (fig. 8).Limitiamoci a considerare la figura chiave di questi tre dipinti, la Vergine. Le caratteristiche somatiche, la posa ed il drappeggio delle sue vesti sono veramente simili. Tanto da supporre, nonostante la differente scala dimensionale, il ricorso di un disegno memorativo comune23. Infatti, se portiamo le tre figure alla stessa grandezza e le sovrapponiamo in trasparenza (fig. 12), vedremo coincidere esattamente tutti i tratti salienti, in particolare quelli del volto. Ciò che rende effettivamente evidente la diversità della Madonna, nei tre dipinti, non è da ricercarsi nella forma o proporzione, praticamente identiche, ma nell'abilità pittorica della stesura del colore, nella morbidezza delle pennellate, nella maestria appunto. La Madonna dell'arancio, considerato uno dei dipinti migliori del Cima per la qualità pittorica, probabilmente fu opera del solo maestro. La bottega, invece, produceva opere minori sotto la sola supervisione compositiva del Cima (per esempio nella Madonna di Berlino). I clienti potevano esprimere richieste specifiche anche relativamente allo sfondo. Nel 1490 vi sono contratti in cui si richiede al pittore l'uso di specifiche ambientazioni paesaggistiche rispetto all'uniforme sfondo in oro. A tale riguardo, l'impiego di soluzioni pittoriche di questo tipo è talmente radicata nella pittura veneta ed in particolare in quella del Cima, che non ci è possibile definire quando questo derivasse da una precisa richiesta contrattuale. Ricordiamo comunque che tra la nobiltà veneziana, coincidente in larga parte con la classe committente, si inizia proprio in quel secolo ad apprezzare l'ambiente collinare del coneglianese. Che il Cima 23 Si tratta di modelli che il pittore produceva per il successivo utilizzo in pittura. Il ricorrere a tali disegni “memorativi” era piuttosto comune nelle botteghe tra il XV ed il XVI secolo. Essi fungevano da modello-guida del pittore per velocizzare la produzione della bottega o per riprodurre note di paesaggio e volti preventivamente schizzati e ricordati. Ci sono pervenuti solo pochi esempi, tra cui ricordiamo una testa di San Girolamo alla National Gallery di Londra, probabilmente utilizzato da cartone per il San Girolamo (fig. 6) della Madonna dell'arancio. Il ricorso a tali modelli, comunqe, doveva essere frequente nella bottega del Cima, considerando un gran numero di motivi analoghi e figure in atteggiamento simile. Sull'argomento rimandiamo a P. Humfrey, Cima da Conegliano, op. cit., pp. 65-67.

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Fig. 6 – Disegno preparatorio per San Girolamo (1497), Londra

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Fig. 7 - Madonna col Bambino tra i Santi Giovanni e Lucia (1497), Berlino

Fig. 8 - Pausa nella fuga in Egitto, con i Santi Giovanni e Lucia (1496), Lisbona

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abbia fatto di questo tipo di ambientazioni la propria bandiera, la caratteristica delle sue pitture, tanto da essere definito il Conegliano, fu indubbiamente una felice pubblicità per la propria bottega. Circa la composizione formale del disegno, abbiamo già visto come, da una distanza che permetta una fruizione visiva generale e complessiva dell'opera, la scena sacra appaia indipendente e “slegata” dallo sfondo. Tale composizione inoltre è visibilmente simmetrica. Al centro, in posizione di rilievo, vi è la Vergine col Bambino a cui corrisponde, alle spalle, l'albero di arancio il cui tronco funge da asse di simmetria della tavola. Ai lati i due Santi, in piedi, raggiungono quasi in altezza la Madonna seduta sul trono sopraelevato. Dietro di essi, verso il bordo, altri due alberi in posizione pressoché simmetrica e più piccoli dell'arancio centrale, sottolineano la caratteristica subordinazione scenica dei lati rispetto al soggetto centrale. Nello sfondo il paesaggio rurale con la collina ed il castrum Collalto, a sinistra, spezza la simmetria indotta dalla Sacra Conversazione. Tale composizione ci rimanda alla struttura tipologica del trittico pre-rinascimentale. Qui, l'ambientazione paesaggistica si sostituisce al più tradizionale sfondo architettonico che sottolineava, nella prime pale dipinte, tale schema. Se dividiamo però la nostra pala in tre parti, tracciando delle linee ortogonali a delimitare gli ingombri dei principali elementi che compongono il disegno, ecco emergere la struttura dello schema tripartito (fig. 13). La dimostrazione appare ancor più efficace eseguendo la stessa operazione con la rigorosa pala di Vicenza (fig. 9) ed altre opere in cui compare un'architettura a riempire il campo, attraverso il confronto con lo schema derivato dalla Madonna dell'Arancio. Ne risulta che la grammatica compositiva utilizzata dal Cima sia sempre la medesima; ma all'utilizzo nei lavoro giovanili, che chiaramente determinava ogni macroelemento del disegno, si sostituisce, con la maturità, un metodo interpretativo più strutturale. L'architettura, cioè, che definiva visibilmente la tripartizione della pala e la posizione dei Santi, si apre a sfondi più ampi e paesaggistici. In alcune tavole essa apparirà addirittura autonoma dallo svolgersi della scena, riprendendo il tema classico delle rovine, ma rientrando comunque nel generale 24


Fig. 9 – Sacra Conversazione (1489), Vicenza

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layout compositivo (Sacra Conversazione di Parma). Nel significato, alla definizione architettonica e prospettica che definisce e rafforza il contesto contemplativo in uno spazio metafisico, si sostituisce una veduta paesaggistica. Questa permette al Cima, come approfondiremo nel prossimo paragrafo, di imprimere al disegno una forte suggestione narrativa, allontanando lo sguardo dal primo piano verso lo sfondo. Adolfo Venturi, scrivendo della pala in analisi, nota difficoltà a rendere l'ambiente architettonico e sostiene che il Cima è noncurante di effetti prospettici, non sa ancora architettare lo spazio24. In realtà si percepisce piuttosto una volontà, da parte del pittore, di organizzare lo spazio in modo differente, superando la costrizione architettonica dell'intorno e conferendo un timbro più temporalizzato che contemplativo alla composizione artistica. A supporto di quanto detto citiamo uno scritto di Sergio Bettini tratto da una riflessione sulla civiltà veneta ed i suoi riflessi nel mondo della pittura. “La civiltà veneta, nel suo insieme, non rende certo un timbro platonico; piuttosto aristotelico. Non fu una civiltà idealistica, ma pratica; non dell'essere, ma dell'esserci. […] rispetto alla fiorentina, analoga a quella romana rispetto alla greca. Una tale civiltà è connessa con una visione del mondo, nel quale l'azione – e dunque la temporalità – prevale sulla contemplazione, che astrae dal tempo in atto. […] E fu questo tempo, appunto, il significante, che qualificò il significato, cioè lo spazio, nel segno dei linguaggi artistici veneti. Fu per esso, che a Venezia si superò la sempre intemporale astrazione della prospettiva geometrica; la quale venne subito travolta, corrosa, annullata dalla prospettiva aerea […]. Lo spazio è allora inteso come natura, e il tempo come esperienza della natura […].25” L'apertura alla dimensione paesaggistica, dunque, è legata ad una concezione di carattere non contemplativo, in cui la dimensione temporale rimanda a quella che abbiamo definito 24 L. Menegazzi, Cima da Conegliano, op. cit., p. 100. 25 S. Bettini, Tempo e Forma, Quodlibet edizioni, Macerata 1996, pp. 115116.

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lettura in chiave narrativa, che volge da collante tra la Sacra Conversazione dell'avampiano e lo sfondo. Tra San Girolamo e la Vergine, sul fondo vicino ad un albero, appare un vecchio uomo con la barba bianca che, accanto ad un asino intento a brucare l'erba, ci suggerisce la figura di San Giuseppe. Questa osservazione, possibile solamente da una fruizione ravvicinata dell'opera, riformula il soggetto dipinto da Madonna tra i Santi Girolamo e Luigi, in Riposo nella fuga in Egitto. Come osserva Bernard Aikema il modello utilizzato, con la Madonna ed il Bambino isolati dal contesto della fuga, ha origini fiamminghe26. Vediamo come il Cima ha scelto tale soluzione compositiva senza farla semplicemente derivare da un'influenza del modello nordico27 (fig.10). Riprendiamo la pala della fondazione Gulbenkian di Lisbona, degli stessi anni della Madonna dell'Arancio. Si tratta di una tavola orizzontale, di modeste dimensioni (misura 53,9 x 71,6 cm), e rappresenta chiaramente un Riposo nella fuga in Egitto. Vi sono raffigurati la Madonna col Bambino tra San Giovanni Battista, a sinistra, e i Santi Giuseppe e Lucia, a destra28. Se la confrontiamo con la nostra in esame si evince l'equilibrata sensibilità con cui il Cima organizza lo spazio scenico. Infatti, se sormontiamo le due tavole portando le figure nella stessa dimensione e sovrapponendo la figura della Madonna che occupa il centro della composizione, noteremo che la linea di base delle due tavole coinciderà; ma mentre la Madonna dell'arancio si sviluppa in altezza, la pala di Lisbona si estende lungo l'asse orizzontale (fig. 14). Appare evidente, quindi, come 26 “[...] come dimostrano vari esempi di pittori come Gerard David, Joachim Patinir e Joos van Cleve.” B. Aikema, Avampiano e sfondo nell'opera di Cima da Conegliano. La pala d'altare e lo spettatore tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, op. cit., p. 105. 27 “[...] si tratta di un procedimento ingannevole. Dire che X ha influenzato Y significa ignorare, in una certa misura, il problema causale, per giunta senza che ciò risulti evidente. Dopotutto, se X incarna l'azione di influenzare gli altri, non c'è da stupirsi che Y abbia subito l'azione, né ci interessa come mai: sarebbe così e basta. Mentre se è Y che fa ricorso o si avvicina o fa riferimento a X, possiamo individuare delle cause.” M. Baxandall, Forme dell'intenzione, op. cit., p. 88. 28 P. Humfrey, Cima da Conegliano, op. cit., p.108.

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Fig. 10 – Gerard David, Riposo nella fuga in Egitto (XVI sec.), Anversa

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una quarta figura inserita nella Sacra Conversazione di Venezia, avrebbe alterato la composizione dello spazio ed il delicato rapporto tra avampiano e sfondo. Da qui la risoluzione del problema, da parte del Cima, inserendo S. Giuseppe sullo sfondo e in tal modo conferendo, come abbiamo visto, una duplice lettura del dipinto: dalla distanza una contemplativa Sacra Conversazione e da più vicino una temporalizzata Riposo nella fuga in Egitto. Per la descrizione, dunque, degli elementi simbolici (fig. 15) che circondano la Scena Sacra, rimandiamo alla lettura di Augusto Gentili. “La Fuga in Egitto è un episodio cristologico: sottrae Cristo alla passione prematura e improduttiva dei suoi innocenti coetanei. Ma è anche un episodio mariologico: in cui Maria […] svolge un ruolo importante per il rispetto dei tempi opportuni di redenzione. […] Dunque, [...] nella Madonna dell'arancio, Maria è l'albero […] e Cristo il virgulto. […] L'arancio, preminentemente inteso quale albero della castità / della sposa / di Maria, ha un significato accessorio quale albero della Vita / della Redenzione / del Paradiso. […] Quanto alle pianticelle disseminate sul terreno i primo piano e sulla rocciosa sede della Vergine, si possono identificare – a parte l'evidentissima edera, attributi di Maria come di Cristo, simbolo della croce e della vita eterna – con qualche difficoltà e qualche approssimazione […]. La costellazione simbolica delineata dagli elementi botanici è ulteriormente arricchita dalle presenze animali. In un angolo lontano a destra, […] un cane seduto e attento vigila sul sacro “incontro” come è sua naturale e codificata prerogativa. Dall'altra parte, sul sentiero dietro S. Girolamo [oltre al leone che lo accompagna], sta un cervo, simbolo diffusissimo dell'anima fedele che anela a Cristo, e lì accanto sull'erba un bianco coniglio, simbolo di vigilanza e di solitudine contemplativa. […] Infine le pernici che contrariamente a quel che si potrebbe pensare vantano uno statuto simbolico di notevole ampiezza e varietà […]”29. 29 A. Gentili, Smontando e rimontando le costruzioni simboliche delle pale

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Torniamo ora sul significato dell'ambientazione della scena, rievocante il collinare territorio coneglianese, e su cosa essa rappresentasse per il pubblico di fine Quattrocento. Nel XV secolo, nella preghiera e nell'esercizio spirituale, le persone erano abituate a concepire visivamente per immaginare le scene sacre e gli episodi topici della vita di Cristo e di Maria. Il pittore, da parte sua, aveva il compito professionale di confrontarsi con tale consuetudine e rendere esteriori tali visualizzazioni. Dunque nella mente del pubblico non si potevano imprimere rappresentazioni “imposte” dal pittore. Luoghi e personaggi di una storia, perché venissero riconosciuti e fissati nella mente, dovevano richiamare le consuetudini visive della gente e quindi del tempo e dell'ambiente vissuto. A differenza nostra il fruitore dei tempi del Cima rapportava in modo diretto la scena immaginata a quella della rappresentazione pittorica; ne risultava così favorita la concentrazione meditativa. Nel 1454 un autore ritenuto vicino all'ordine francescano scrive Il Zardino de Oration30, un testo destinato ai laici ed in particolare alle giovani fanciulle, che forniva consigli, spiegando l'importanza delle raffigurazioni interiori ed il loro ruolo nell'atto della preghiera e della meditazione. “La quale historia [della Passione] aciò che tu meglio la possi imprimere nella mente, e più facilmente ogni acto de essa ti si reducha alla memoria ti sarà utile e bisogno che ti fermi ne la mente lochi e persone. Come una citade, la quale sia la citade de Hierusalem, pigliando una citade de la quale ti sia bene praticha. Nella quale citade tu trovi li lochi principali neli quali furono exercitati tutti li acti dela passione […]. Anchora e dibisogno che ti formi nela mente alcune persone, le quale tu habbi pratiche e note, le quale tute representino quelle persone che principalmente intervenero de essa passione: come è la persona de Misser Iesu, della nostra Madonna, Sancto d'altare, in VENEZIA CINQUECENTO n.8, Bulzani editore, Roma 1994, p. 78. 30 Viene poi pubblicato proprio a Venezia nel 1494 dallo stampatore Bernardino de' Benali di Bergamo.

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Pietro, Sancto Ioanne Evangelista, […], li quali tutti formarai nela mente. Così adunque havendo formate tute queste cose nela mente, sì che quivi sia posta tuta la fantasia, e entrerai nel cubicolo tuo sola e solitaria discaciando ogni altro pensiero exteriore.31” La meditazione era favorita dall'immaginazione delle scene sacre, attraverso la sovrapposizione dei volti noti sui personaggi della passione di Cristo, anche attraverso la loro ambientazione in luoghi realistici e familiari. Possiamo così interpretare il richiamo paesaggistico collinare del territorio coneglianese, nello sfondo della pala della Madonna dell'arancio, come una chiara e ben nota localizzazione per la Madonna col Bambino e i Santi. Per quanto invece riguarda la rocca e i personaggi in turbante (fig. 15) riportiamo una riflessione di Augusto Gentili. “[...] rimandando alla passione di Cristo, non possono prescindere dal riferimento immediato all'insidia mortale dell'antico infedele, l'ebreo; ma neppure, nel contesto storico veneziano di fine Quattrocento/primo Cinquecento, dal riferimento d'attualità alle insidie altrettanto mortali dell'infedele contemporaneo, il turco, nei confronti dei cristiani - col supporto della consolidata sovrapposizione iconografica dell'ebreo e del turco entro i termini di un generico abbigliamento all'orientale, caratterizzato, senza troppe sottigliezze filologiche, dalla tunica e dal turbante.32” Non ci sono dubbi che la costruzione dello sfondo, al contrario della scena sacra, di carattere contemplativo dell'avampiano, sia caratterizzata dalla rappresentazione della vita attiva resa forte dalla dimensione umanamente temporale. L'uomo a cavallo, analogamente alle due persone che sembrano conversare dirigendosi verso il borgo, lo conferma. L'analisi del periodo storico e soprattutto del cambiamento, che 31 Estratto del Zardino de Oration, da M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, op. cit., pp. 56-57. 32 A. Gentili, Smontando e rimontando le costruzioni simboliche delle pale d'altare, op. cit., p. 80.

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Venezia stava vivendo in quel momento, ci offre lo spunto per una diversa valutazione circa il significato delle sembianze orientali di quelle figure. Alla fine del 1400 la Repubblica di Venezia era la prima potenza militare ed economica d'Europa e possedeva il controllo navale e commerciale del Mediterraneo. Era infatti riconosciuta come punto nevralgico degli affari tra il mondo occidentale ed orientale. In tal modo rappresentava un mercato di spezie e tessuti provenienti dall'Oriente, in cui uomini d'affari da tutto il mondo convivevano e commerciavano organizzati nei cosiddetti fonteghi33. Era del tutto normale, ancora alla fine del secolo, vedere mercanti turchi in turbante aggirarsi per la città. La vocazione crociata che si levava dall'Europa contro gli ottomani “infedeli”, non è mai appartenuta veramente a Venezia34. La Repubblica adottava un'originale politica diplomatica internazionale atta a equilibrare oppure a fomentare le tensioni tra gli altri stati, in modo da poter sviluppare incontrastata la propria potenza economica e commerciale. Ricordiamo che nel 1470 Maometto II attaccò e conquistò Negroponte, la principale base veneziana dell'Egeo settentrionale, e che ciò determinò l'inizio della perdita del controllo navale sull'Oriente. Tuttavia questo controllo non fu difeso dalla Serenissima (tra il 1499 ed il 1503) con eccessiva convinzione. Infatti gli statisti veneziani del 1500 pensavano maggiormente all'espansione territoriale nell'entroterra padano che al dominio del mare. Tale cambiamento di rotta dunque, dovuto più a scelte politiche che a sconfitte belliche, non ebbe una immediata ripercussione sul ruolo economico della città lagunare. Il riflesso negli affari commerciali arrivò con qualche 33 Ricordiamo come esempio, quello dei tedeschi, ora sede delle Poste, e quello dei turchi, ora sede del Museo di Storia Naturale. Entrambi nella zona del mercato di Rialto. Tutti i fonteghi vennero soppressi con la caduta della Repubblica nel 1797. 34 A Venezia, più delle conquiste in Palestina, premeva il suo ruolo tradizionale di possessiva protettrice dell'Impero Bizantino. L'elasticità veneziana nell'adeguarsi alle circostanze non diede mai prova migliore di sé che nella VI Crociata, quando mise a disposizione il proprio arsenale per la costruzione della flotta e dirottò l'esercito crociato alla conquista di Costantinopoli anziché della Terra Santa. Lane, Storia di Venezia, Einaudi editore, Torino 1991.

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anno di ritardo e questo, infine, potrebbe spiegare anche la sparizione dallo sfondo delle pale, da lì in poi, di personaggi in turbante. Gli stessi che animavano i paesaggi nelle opere del Cima fino a quel momento. Dunque probabilmente i turchi non venivano rappresentati fuori dai borghi come “minaccia infedele”, ma come ulteriore citazione della vivace vita commerciale veneziana. E veniva così posto in evidenza il già netto contrasto tra la “scena sacra” e “l'ambientazione umanizzata” che le fa da cornice. Vogliamo ripercorrere, in conclusione, i tratti salienti della nostra analisi. Il rapporto tra l'avampiano e lo sfondo è stato l'elemento iniziale al centro della nostra attenzione nell'osservazione della Madonna dell'arancio. Lo stimolo conoscitivo che ne è scaturito, in direzione di una corrispondenza tra opera e fruitore, è stato elemento catalizzatore in un percorso di progettazione alla rovescia. Lo studio e la scomposizione di alcuni elementi ci hanno aiutato a comprendere le relazioni compositive e culturali che hanno generato l'opera stessa. Abbiamo dunque lavorato nello sforzo di apportare elementi utili ad una maggiore comprensione della ricchezza semantica dell'opera scelta. Ciò evidentemente senza nessuna pretesa di esaustività. Altri campi di indagine potrebbero essere esplorati attraverso i numerosi aspetti che ci colpiscono nella fruizione visiva della pala. Per esempio lo studio dell'espressione fisica degli stati d'animo dei Santi rappresentati e il particolare incrocio di sguardi; l'estrema insistenza sui particolari, che mette in evidenza quanto il Rinascimento veneziano fosse distante da quello fiorentino; oppure l'utilizzo del colore e delle ombre, considerando la forte componente temporalizzata derivante dal substrato averroistico della cultura veneta. Nel rispetto del fondamentale presupposto che Bettini chiamava “principio di individualità”: ogni opera d'arte è individuale, unica e incomparabile. Ogni opera d'arte, secondo noi, deve essere intesa come soluzione di uno specifico problema e di un preciso accordo. A partire da queste premesse ci auguriamo di aver individuato una via di corretta relazione con l'artefatto. Si è sempre tenuto presente che l'arte cristiana possiede un corso 33


evolutivo lungo ed elaborato, in cui si sono sviluppati, attraverso le varie epoche, un'infinità di significati simbolici di cui la società del 1400 è intrisa. Per questo motivo siamo consapevoli che ogni elemento del regno animale e vegetale potrebbe esser letto in chiave figurativa. Ma ciò che, secondo noi, distingue un rebus da un dipinto è che il linguaggio del pittore è fatto di relazioni e non di simboli. Quindi, per una corretta lettura dell'opera d'arte, non bisogna cadere nell'abitudine di cercare significati, ma assumere un atteggiamento critico di ricerca molto simile a quello a cui ci ha abituato Agatha Christie con Hercule Poirot. Il procedimento di progettazione alla rovescia.

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TAVOLE DI ANALISI


Fig. 11 – Confronto dimensionale tra diverse pale d'altare: Madonna dell'arancio 212x139 cm, S. Giovanni Battista, 305x205 cm, Battesimo di Cristo 350x210 cm


Fig. 12 – Sovrapposizione della Madonna dell'arancio, con la pala di Berlino e quella di Lisbona


Fig. 13 – Analisi dello schema a trittico (1)


Fig. 13 – Analisi dello schema a trittico (2)


Fig. 13 – Analisi dello schema a trittico (3)


Fig. 14 – La composizione dello spazio


Fig. 15 – Particolari nello sfondo della Madonna dell'arancio



BIBLIOGRAFIA

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P. HUMFREY, CIMA DA CONEGLIANO, University Press, Cambridge 1983.

Cambridge

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Ugo Carmeni nasce a Conegliano nel 1976 e studia architettura presso l'UniversitĂ IUAV di Venezia, cittĂ in cui vive da molti anni. Attualmente approfondisce la ricerca sulla natura della percezione visiva e sui metodi di rappresentazione dello spazio e del movimento. Percorso che lo porta allo studio del fotodinamismo futurista dei fratelli Bragaglia e, con l'egittologo Edoardo Guzzon del Museo Egizio di Torino, sulla concezione della rappresentazione del territorio nell'antico Egitto. Nella medesima direzione di analisi si interessa dei rapporti tra il rinascimento veneto e quello fiorentino. L'Opera di Giovan Battista Cima, oltre che rappresentare un punto cardine del percorso della pittura veneta di quel periodo, rappresenta fin dai tempi del liceo una propria passione personale. Da alcuni anni utilizza la fotografia come un mezzo di espressione della propria ricerca ed alcuni dei suoi lavori fanno parte della collezione S.a.L.E. Docks di Punta della Dogana a Venezia.



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