anno 1 n.0
Astronave Torino numero speciale diretto da Enzo Biffi Gentili
autunno-inverno 2007
Presidente XXIII Congresso mondiale UIA Torino 2008
Direttore MIAAO
Afterville è il titolo di un insieme di manifestazioni ufficialmente collegate al prossimo Congresso mondiale degli architetti UIA Torino 2008, volte a segnalare interferenze concettuali e figurative tra pensiero progettuale e immaginario della fantascienza nel XX secolo. Un progetto ideato e curato da Undesign, Michele Bortolami e Tommaso Delmastro con Fabrizio Accatino e Massimo Teghille, promosso dall’Ordine degli Architetti di Torino, che diviene un marchio di riconoscimento sotto il quale si svolgeranno molti eventi e mostre, con diversi curatori e partecipanti, dall’ottobre 2007 sino a tutto il 2008. Come anteprima e vernissage di questo ciclo di eventi al MIAAO si tiene la mostra Astronave Torino. Turin Spaceship Company, progettata e diretta da Enzo Biffi Gentili, che segna la fase di decollo verso Afterville e descrive un particolare sviluppo del tema della città futura o post-città, attraverso la ricostruzione di momenti inediti o rimossi di sperimentazioni ‘spaziali’ nel significato più vasto del termine nei settori dell’architettura, della pittura, del design e dell’artigianato metropolitano, tutte collegate direttamente o indirettamente a una inusuale storia culturale di Torino, con cui si sono volute ricostruire e documentare per reperti e campioni alcune tappe del trip di una Turin City Ship tra gli anni ’60 del XX e gli inizi del XXI secolo. Esiste una soglia oltre la quale la fantascienza cessa di essere solo fiction e diventa anche progetto. Lo spirito del progetto di Afterville è di comunicare -transmitting future architecture- immagini della città di domani. In controtendenza rispetto alle generic city contemporanee, la fantascienza ha diffuso scenari metropolitani procedendo per aggiunte, per stratificazioni. Capitali moderniste slanciate verso l’alto, tessuti disomogenei pulsanti di luci e forme, grappoli di infrastrutture dalle geometrie sovrapposte e incombenti. Oppure la Città che sale, così come la immaginarono i futuristi agli inizi del secolo scorso. Territori urbani sognati, teorizzati, progettati, disegnati e modellati dal nulla: tante Afterville, città del dopo sorrette da forme e volumi inimmaginabili, eccessivi, spesso inquietanti. La configurazione della polis del futuro, in realtà, dice molto del presente: dietro lo sforzo immaginativo degli autori di science fiction si celano la tradizione letteraria, l’inconscio collettivo e l’ipotetica evoluzione delle funzioni sociali della contemporaneità. Formae urbis ed estetiche nuove sono divenute lo strumento per dare risposta ai bisogni, alle trasformazioni e alla continua rimodellazione dello spazio (pubblico, privato e sociale) degli anni in cui sono state immaginate. A sua volta la fantascienza di romanzi, fumetti e film si è trovata a incidere sulla progettualità contemporanea nella stessa misura in cui se n’è nutrita, influenzando architettura, urbanistica, pubblicità, moda, grafica e design. Un corto circuito di senso su cui si sono interrogati tanti storici dell’arte o architetti, spesso fino a farli considerare visionari o ‘futurologhi’. La scelta del MIAAO come piattaforma di lancio del programma culturale ufficiale del XXIII Congresso mondiale degli architetti è stata compiuta dall’Ordine degli Architetti di Torino e dalla sua Fondazione per sottolineare un rapporto privilegiato tra queste istituzioni culturali, fondato non solo sull’evidente contiguità disciplinare con l’unico Museo dedicato alle arti applicate contemporanee in Italia, ma anche su una prossima contiguità fisica, su di una scelta di coabitazione. Infatti la sede dell’Ordine e della sua Fondazione sarà trasferita nel complesso juvarriano di San Filippo Neri di Torino, sede del MIAAO, in vista di una sempre maggiore integrazione che trasformerà uno dei più grandi monumenti barocchi della città anche in un polo della cultura del progetto.
in memoria di mio padre, Luigi Biffi Gentili, cultore di fantascienza
Sindaco Città di Torino
Presidente Provincia di Torino
Presidente Regione Piemonte
L’architettura ha preso casa a Torino. E silenziosamente, progressivamente opera perché la città assuma le fattezze che la sua essenza profonda racconta ai più attenti. È un volto che cambia, che sente il passare del tempo ma non ne nasconde i segni, anzi fieramente li mostra e li trasforma in tracce irripetibili di ciò che è stato e che ha gettato seme. Credo che l’architettura sia, insieme ad altre grandi ‘arti del disegno’, uno straordinario strumento di cambiamento del volto e dell’anima dei luoghi in cui viviamo: nessuna città meglio di Torino, che negli ultimi anni ha dimostrato di sapersi rinnovare, elaborando il suo patrimonio produttivo e culturale, non in modo estemporaneo ma costruendo un progetto, poteva rappresentare idealmente lo spirito del ventunesimo secolo per quanto riguarda lo studio e la creazione degli spazi vitali -e quindi dei rapporti umani- collettivi. Infatti “l’architettura abbraccia l’intero ambiente della vita, e rappresenta l’insieme delle trasformazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane” scriveva William Morris, fondatore della Arts and Crafts ossia delle arti applicate, che fu insieme il critico di certi aspetti negativi di uno sviluppo industriale incontrollato nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, e l’antesignano dell' industrial design del ventesimo secolo, nuova disciplina nella quale soprattutto l’Italia si è distinta. È quindi con le sue parole che voglio esprimere l’augurio che le vostre iniziative abbiano risonanza e successo e contribuiscano a rendere qualitativamente migliori le trasformazioni che ci attendono.
Immaginare la città del futuro nostro e dei nostri figli e nipoti: un compito impegnativo, una sfida che architetti, urbanisti, artisti, artigiani e scienziati non possono non raccogliere. La mostra Astronave Torino è un passo importante di questa sfida. Ed é anche uno dei primi eventi che accompagnano il Congresso mondiale degli Architetti. Torino e il suo territorio da sempre sanno porsi all’avanguardia nella cultura, nella scienza, nella tecnologia. La nostra è la città dell’innovazione, con un occhio di riguardo però al passato… e che passato! Con il Congresso mondiale del 2008, ancora una volta spiccano la capacità innovativa e il desiderio di futuro di una città e di un territorio che, un anno e mezzo fa, hanno saputo dimostrare al mondo di saper stare sulla ribalta mondiale e di avere qualcosa da dire e da insegnare al resto d’Europa. Il nostro territorio ha saputo e sa coniugare innovazione e tradizione. Non a caso la Provincia di Torino sta per lanciare un concorso internazionale di idee per immaginare un futuro economicamente e culturalmente sostenibile per il suo monumento-simbolo di questo territorio, il Forte di Fenestrelle. L’obiettivo è di scongiurare il rischio che la più grande fortezza alpina d’Europa, capolavoro di architettura militare realizzato in oltre un secolo di progetti e lavori (dal 1727 al 1850), resti prigioniera del suo passato e di una decadenza inevitabile senza massicci interventi ed investimenti. Chi meglio degli architetti può pensare il futuro della fortezza, la sua funzione culturale, economica, sociale? Noi puntiamo molto sulla capacità degli architetti di accompagnare il nostro territorio nel XXI secolo.
La Regione Piemonte e il suo capoluogo sono da sempre all’avanguardia nei più svariati campi: protagonisti della storia nazionale, hanno visto nascere l’industria moderna, il cinema e la televisione, la moda, l’architettura e il design d’Italia. Nonostante i piemontesi non siano sempre riusciti a comunicare la propria unicità e i propri talenti, forse per colpa di un diffuso e malinteso sentimento di understatement che li ha portati a non vantarsi all’esterno, oggi la situazione è mutata. Nella fase positiva che stiamo vivendo per la ripresa dell’economia, la rinascita della cultura e la grande crescita del turismo, il Piemonte ha imparato a esprimere la propria vocazione al nuovo e ad affermare l’energia innovativa che rende questo territorio un luogo di sperimentazione culturale. Il Piemonte è nuovo soprattutto per la sua grande capacità di innovare e far evolvere idee. Sono, queste, caratteristiche fondamentali dell’architettura, la cui peculiarità è proprio quella di saper anticipare la modernità, segnandone il corso nell’evoluzione. Per questi motivi siamo onorati e fieri di ospitare a Torino il Congresso mondiale degli Architetti 2008 e gli eventi ad esso correlati, come Afterville e la mostra Astronave Torino. Si tratta di un avvenimento importante, sia perché accade per la prima volta in Italia dal 1948, quando fu fondata l’UIA, l’Union Internationale des Architectes, sia perché testimonia che abbiamo maturato nella comunità internazionale significativi crediti, che hanno consentito alla nostra Regione e all’Italia di divenire sede della massima manifestazione degli architetti di tutto il mondo.
patrimoni architettonici
02-03
architetture contemporanee
04-05
architetture grafiche
06-07
ricerche spaziali I
08-09
ricerche spaziali II
10-11
politecnici e multimediali I
12-13
politecnici e multimediali II
14-15
Esiste un’estetica dell’altrove che chi ha girovagato almeno un po’ lungo i sentieri della fantascienza riconosce al primo sguardo. Da oltre un secolo -dai primi sogni sfocati di H.G. Wells- la science fiction ha compiuto un percorso visionario che l’ha portata a tratteggiare in maniera sempre più definita pieghe e dettagli di società alternative. Una progettualità parallela (peraltro mai codificata fino in fondo) si è dispiegata in romanzi, film, storie a fumetti: una fanta-urbanistica, una fanta-architettura, un fanta-design hanno attribuito forme e colori alle visioni di generazioni di narratori. Come plastici animati dalla scintilla della vita, le tante Afterville (le città di domani) hanno via via abbandonato le dimensioni del bozzetto e del fondale per costituirsi come insiemi segue in ultima
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German Impàche, Astronave Torino, 1997, fotografia in bianco e nero, montaggio e sviluppo fotomeccanico, di Giorgio Stella
Su questo giornale di bordo, in occasione del decollo del programma culturale collegato al Congresso mondiale di Architettura di Torino del 2008, scriviamo una ‘relazione di minoranza’. Siamo infatti convinti, narrando del trip di un’ Astronave Torino verso Afterville, città futura, che tra le referenze passate da esibire a un pubblico internazionale occorra mostrarne alcune inconsuete e persino, per taluni, ‘impresentabili’. Vogliamo delineare un’immagine differente della cultura del progetto a Torino, ma evitando che il ‘revisionismo’ venga compromesso da sospetti di ‘reducismo’, da sessantenni o sessantottini. Per fortuna in questo tipo di battaglia culturale si provano nuove generazioni di saggisti e professionisti: ‘splendide quarantenni’ come Luisa Perlo (a suo tempo coautrice di una storia artistica ‘diversa’ della città non a caso intitolata EccentriCity, pubblicata nel 2003 dalla Fondazione per il Libro) ma anche, tra gli altri, i trentenni del gruppo Undesign e una ventenne giovanissima studiosa, Elisa Facchin. Con le citazioni di questi militanti si iniziano a illuminare i reticolati dei campi disciplinari: l’architettura e l’arte, certo, ma anche il visual design, ‘specialità’ della nuova creatività torinese, già sostenuta dall’Ordine degli Architetti di Torino, dalla Sua Fondazione e dalla locale Camera di Commercio con l’edizione di Turin Tour, insolita guida alla città che sarà tra breve ripubblicata. Dall’architettura dobbiamo necessariamente partire, accennando agli hommages che sono dedicati a Enzo Venturelli e Leonardo Mosso, due architetti e utopisti, per certi versi ‘fantascientifici’, il cui rilievo internazionale va qui definitivamente stabilito. Così va affermata la loro flagrante attualità poiché in entrambi, diversamente declinate, sono centrali alcune questioni oggi cruciali come un’interferenza più o meno equivoca tra scultura e architettura o l’estrema attenzione all’ambiente e a una nuova ecologia. Ma è anche di grande interesse la loro propensione al disegno di chiese ‘avanguardiste’, fondata su di un’altra autorità torinese, quella di Fillia, autore e firmatario con Marinetti nel 1932 del Manifesto dell’arte sacra futurista. L’evocazione dell’avanguardista subalpino Fillia provoca un’altra associazione, quella tra Fantascienza e Futurismo, già suggerita negli anni ’60 da Louis Pauwels nell’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Planète”: “Nella fantascienza di miglior tono c’è
un’arditezza di temi che è molto simile a quella del pensiero d’ avanguardia”. Luciano Lanna e Filippo Rossi commenteranno così lo statement di Pauwels: “Era un riconoscimento di ‘maggiore età’ per la science fiction, paragonata -nel contesto delle nuove società di massa- alle avanguardie storiche del Novecento: la fantascienza come nuovo futurismo” (Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze 2003). Ebbene, la pubblicazione della politicamente ambigua, se non per alcuni scorretta, rivista “Pianeta” appartiene proprio a una storia culturale rimossa di Torino. Qui la rivista viene riletta come impresa notevole anche per la grafica di Pierre Chapelot, ripresa da Undesign impaginando per omografie e analogie le immagini, in una forma di persuasivo ‘pensiero visivo’ .Ed è commemorato Piero Femore, intellettuale torinese da poco scomparso, promotore di “Pianeta” come di altre iniziative editoriali spregiudicate delle quali nei ‘coccodrilli’ pubblicati alla sua morte non è fatto cenno. Per altri motivi “Pianeta” era stata ricordata dal critico Janus nel catalogo di una mostra intitolata La città inquietante. Pittura fantastica e surreale a Torino, allestita alla Promotrice delle Belle Arti nel 1992. Legittimamente: senza dubbio “Planète” e Pauwels avevano come principale riferimento artistico il Surrealismo. Tuttavia un movimento ‘realista fantastico’ in pittura nacque nel 1963 grazie all’influenza determinante di un altro personaggio dimenticato come il belga Jean Triffez, la cui opera ‘astratta’ e simbolica era però distante da ogni epigonale ‘maniera’ surrealista e rappresentava una sofisticatissima indagine su nuovi spazi e luci, spirituali e siderali. Diversi lavori di Triffez sono stati acquisiti dal MIAAO e presso il Seminario Superiore di Arti Applicate di San Filippo Neri è in corso una ricerca su altri curiosi testi ‘spaziali’ e ‘cinetici’ francofoni di dichiarata ascendenza ‘surrealista’ come quelli, inediti in Italia, del parigino Groupe Space, attivo nella seconda metà degli anni ’70. Le ragioni delle azioni torinesi di raccolta e studio di questi documenti consistono anche in loro specifici aspetti sperimentali visuali e percettivi, strumentali e tecnici: l’aerografo da tutti usato con maestria, sino negli esiti estremi alla prefigurazione di immagini 3D in lavori border line tra pittura e computergrafica. Insomma questo numero 0 di Afterville celebra ibride figure, professionalmente segue in ultima
Vivevo vite fottute dalla storia James Ellroy, I miei luoghi oscuri, 1996
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Michel Guéranger/Groupe Space, Entrée intuitive dans un espace non formulé, 1975 serigrafia, cm 60x60, tiratura a 100 esemplari
patrimoni architettonici san filippo neri torino
Relatore Generale Congresso mondiale UIA Torino 2008
Presidente Consiglio Nazionale Architetti
Il XXIII Congresso mondiale degli Architetti di Torino, intitolato Transmitting Architecture, nasce all’insegna della contaminazione, del confronto e dell’apertura al mondo per discutere d’architettura con gli ‘altri’: economisti e artisti, storici e uomini politici, filosofi e poeti. All’insegna del motto “l’architettura è per tutti” così come è di tutti. Il Comitato Scientifico lavora da un anno a disegnare i temi congressuali e ha partorito e allevato i tre capitoli che compongono il Transmitting Architecture: la democrazia urbana, la cultura del progetto, la speranza per il futuro. Questi grandi temi esprimono i problemi della società contemporanea che esigono un’urgente risposta e, ‘in nuce’, le potenziali soluzioni che il nostro mestiere può offrire: dalla crisi sociale delle periferie, al valore di testimonianza civile dell’architettura a quale progetto e apporto gli architetti possano dare a un futuro ecologicamente sostenibile. Grandi temi, che nei pochi giorni di Congresso vogliamo porre alla pubblica discussione, attivando la ‘trasmissione’ biunivoca tra società e architettura, dando energia e canali di trasmissione perché chiunque voglia contribuisca al dibattito, indicando soluzioni a chi propone, decide, progetta e costruisce. La varietà dei mezzi di ‘trasmissione’ è e sarà grande, adeguata alla dimensione dell’evento e alla natura stessa del titolo che si è dato. I luoghi di dibattito saranno a Torino, dal 29 giugno al 3 luglio, ma prima saranno nelle sedi degli Ordini e delle Associazioni degli Architetti, nelle Università, presso le istituzioni culturali. Ma di come trasmettere l’architettura si parlerà sulle riviste internazionali e sui quotidiani, così come in ‘Good Morning Architecture’ la radio web d’architettura che abbiamo varato in vista del Congresso. L’architettura per immagini andrà in onda a Torino grazie a numerose mostre di cui Astronave Torino nell’ambito -della rassegna Afterville- rappresenta il momento di lancio delle iniziative culturali del Congresso, ma anche grazie a eventi specifici dedicati alla fotografia e al cinema. La relazione tra cittadini e architettura nella società contemporanea è forse il più importante tema che il Congresso pone all’attenzione della pubblica opinione: una relazione paradossalmen-te sempre più difficile, quanto più po-tente è diventato il ruolo dei mass media.Così, nelle economie avanzate occi-dentali, assistiamo al progressivo formarsi di fenomeni sociali di rifiuto delle trasformazioni urbane e ambientali, che esprimono il desiderio di influire sul futuro del proprio ambiente; la stessa logica di esclusione dei cittadini dalle decisioni si attua, uguale e differente, in quel terzo mondo dove i cittadini sono esclusi dal progetto o per autarchia o per assenza di canali di comunicazione. Porre questi problemi all’attenzione del mondo è non solo una responsabilità etica ma anche una necessità, perché la buona architettura non esiste senza il contributo di chi la abita: perché è, appunto ‘per tutti’.
“Voglio porre l’architettura -ha recentemente dichiarato il presidente francese Nicolas Sarkozy- al centro delle nostre scelte politiche. L’architettura ha un ruolo primario nel destino individuale e collettivo degli uomini”. Anche gli architetti italiani potranno partecipare di questo destino? Sicuramente è ciò che si augurano, dopo anni di grande impegno, i 103 Ordini provinciali distribuiti su tutto il territorio nazionale, che svolgono il loro ruolo di magistratura di terzo grado e promuovono la cultura del progetto. A fronte del crescente numero di iscritti, di una percentuale significativa di giovani under 40 e dell’urgenza di fornire strumenti per affrontare un mercato professionale sempre più esigente e impegnativo, gli Ordini hanno raddoppiato il loro impegno, in attesa che l’auspicata riforma delle professioni attribuisca loro un ruolo di erogatori di servizi (formazione post laurea, a g g i o r n a m e n t o p ro f e s s i o n a l e e informazione aggiornata e capillare) e di soggetti attivi nella concertazione di politiche territoriali e sociali. Gli Ordini vogliono essere protagonisti del dibattito culturale sull’architettura e sulla trasformazione urbana, innescando, attraverso la diffusione dei concorsi e azioni di sensibilizzazione sulla qualità dell’architettura, un processo di democrazia e di competitività virtuosa. Spetta agli architetti il compito di trasmettere messaggi di ‘democrazia urbana’ alle istituzioni e ai cittadini del mondo affinché l’architettura e la qualità dell’ambiente diventino un fondamentale diritto di tutti i cittadini, indispensabili allo sviluppo sostenibile. Il Congresso mondiale degli Architetti UIA (Unione Internazionale degli Architetti, che coordina le organizzazioni di 120 nazioni comprese quelle dei Paesi maggiori), che sarà ospitato a Torino a partire dal 29 giugno 2008, rappresenta un’occasione unica e irripetibile di comunicazione, di promozione della cultura architettonica e urbanistica, che dovrà essere valorizzata al massimo, per diffondere, compiutamente, tra le istituzioni del paese, tra i cittadini, e le imprese, lo straordinario messaggio di un’architettura per tutti. Questa la nuova missione degli architetti nel mondo.
Il progetto di trasferimento della sede dell’Ordine degli Architetti di Torino nel complesso monumentale di San Filippo Neri, accanto al MIAAO, per la creazione di un “museo vivente della cultura del progetto” rende necessario ‘contestualizzare’ l’intervento con un autorevole scritto del Soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte Francesco Pernice: “Una delle più conosciute chiese della città di Torino è la chiesa di S. Filippo Neri non solo per la sua pregevole struttura architettonica, ma anche per il significato che essa ha assunto nel tempo in tutta la comunità cittadina. La sua posizione centrale, posta tra le via Maria Vittoria e Accademia delle Scienze, la vicinanza con altri pregevoli monumenti della città, la sua intrinseca versatilità l’hanno resa ben presto fulcro della vita non solo religiosa, ma anche e soprattutto culturale di Torino. La chiesa riunisce nella sua lunga storia i due maggiori architetti operanti nella città nel 1600 e 1700: Guarino Guarini e Filippo Juvarra. La costruzione durò più di due secoli, il progetto iniziale fu elaborato dall’architetto luganese Antonio Bettini, per conto della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri e dati di archivio fanno risalire al 1675 la fase della prima pietra del complesso. Le vicende costruttive denotano complessità e attenzione da parte dei progettisti che parteciparono negli anni alla fabbrica di S. Filippo: Guarini, Garove, Juvarra. Ognuno diede il proprio contributo al progetto, modificato, ripensato e parzialmente realizzato, in un susseguirsi di disegni e tavole ancora oggi oggetto di studio per la raffinata rappresentazione architettonica, fino al completamento dei lavori affidati prima all’architetto Giuseppe Maria Talucchi e infine all’ing. Ernesto Camuso che nel 1891 corona definitivamente la facciata neoclassica. Tutto il complesso, proprio per la sua posizione strategica al centro della città di Torino a pochi passi dalla piazza Castello e dal palazzo Madama, ha suscitato sempre una grande ammirazione e fortuna critica tanto che Davide Bertolotti nel 1840 nel suo volume Descrizione di Torino la descrive come ‘La più vasta e più riguardevole chiesa di Torino (...) lodata dal celebre Scipione Maffei (...) La rifabbricarono assai più bella col disegno del Juvarra, ma il magnifico suo propileo non era che incominciato; ora esso vien condotto a buon termine, mercè di generose largizioni d’ignoti benefattori (...)’. L’impronta di Juvarra è sicuramente tra tutte la più incisiva e significativa e si traduce in un lungo itinerario concettuale durato circa 15 anni. L’impianto architettonico racchiude infatti la lunga ricerca progettuale dell’architetto messinese per chiese a navata unica senza transetto, esperienza che culminerà poi nello
sotto immagine guida di Transmitting Architecture tema del XXIII Congresso mondiale UIA Torino 2008
Tullio Rolandi, La sabbia portata dal vento aveva coperto vasche e spogliatoi delle antiche terme, 2007, immagine realizzata con programma di modellazione 3D Studio Max
autunno-inverno 2007
Padre Giuseppe Goi d.O, Studio Kha, Pavillon, 2005, voile dorato cangiante, produzione Peroni, Altar Maggiore di San Filippo Neri, foto Ernani Orcorte/MIAAO
splendore della cappella di S. Uberto della Venaria Reale. Esternamente il profilo movimentato dell’edificio non lascia trasparire l’interno, caratterizzato da un ampio ambiente dominato dalla volta a botte e arricchito da stucchi in monocromia che contribuisce alla percezione di un insieme unitario. La chiesa fu sottoposta a vincolo da parte della Soprintendenza già nel 1910; questo atto formale ha quindi duplice valenza sia per il riconoscimento di notevole pregio architettonico e artistico dell’edifico, attestato all’inizio del secolo, quando il concetto di tutela era appena agli albori; sia per l’attenzione che da sempre l’Ufficio ha posto nella salvaguardia di beni architettonici e complessi monumentali di eccezionale interesse. Continua l’impegno costante della Soprintendenza nel conciliare le scelte tecniche e il rispetto del bene durante i lavori e gli interventi di restauro dello stesso. La difficoltà spesso consiste proprio nell’individuare soluzioni che soddisfino i due aspetti del problema,
ma la fattiva e stretta collaborazione con le pubbliche amministrazioni, la Direzione Regionale per i Beni Culturali, gli enti locali, il mondo universitario, i privati investitori, e tutti i soggetti interessati -caratteristica che distingue la Soprintendenza piemontese a livello nazionale- permette di operare in modo soddisfacente nell’ottica di restituire alla collettività un bene di cui fruire. Riqualificare un sito, un monumento significa individuare e fissare il suo carattere intrinseco; significa restituire un’identità che duri nel tempo e nello spazio; significa identificare, in una fase statica, un percorso dinamico, un unicum che unisca il particolare con il contesto, il singolo con l’insieme, l’antico con il nuovo nei suoi molteplici aspetti. Seguendo questi princìpi, la proposta che tende a riqualificare un complesso monumentale si deve collocare in un più ampio programma di riqualificazione territoriale, che nel centro storico di Torino è già in atto e che ha portato agli interventi
sulle piazze Castello, San Giovanni e piazzetta Carignano, oltre che l’avvio dei cantieri di restauro di edifici monumentali quali ad esempio il Museo Egizio e la Galleria Sabauda, il teatro Carignano e il Museo del Risorgimento, fino ad arrivare al recupero dei grandi complessi monumentali, quali il palazzo Madama e il Palazzo Reale, la Biblioteca e l’Armeria Reale, tutti interessati da uno dei più vasti progetti degli ultimi tempi: la creazione di un unico compendio museale che si estende su parte della città stessa, divenendo così uno dei poli di attrazione turistica più estesi d’Italia. Un’operazione di riqualificazione complessa solleva ovviamente molteplici problemi. Ne consegue che è necessario avere una visione completa dell’insieme urbanistico, della tipologia di intervento da adottare e delle metodologie da applicare, affinché un bene possa essere trasformato o adeguato a esigenze di vita che l’avanzare incessante della tecnica e dello sviluppo impongono alla società contemporanea”.
Molti sogni architettonici sono letteratura, ma non soltanto: è il caso del racconto inedito Le città miraggio dell’ingegnere e antropologo Giovanni Bonotto, che apponiamo come una delle più lunghe epigrafi a questo numero 0 di Afterville. Perché crediamo che l’immaginazione serva molto anche alla progettazione, almeno nella Torino di Italo Calvino. R.B.
Non di rado alcuni viandanti si incamminano su piste che si snodano interminabili alla volta di città fantastiche che brillano in lontananza come miraggi. Le piste, che all’inizio corrono solitarie tra duna e duna, finiscono per poi confondersi con percorsi imprevisti che, invece di offrire alternative di avvicinamento più sicure, si chiudono su se stessi fino a formare un intrico senza uscite. Superati i primi momenti di incredulità e sbandamento, il viandante si rende conto che per uscire dalla pericolosa situazione non gli è più sufficiente l’aver appreso a riconoscere i vari tipi di sabbia dalla forma e dal differente colore dei granelli, né il saper distinguere l’orma di un passo pesante da uno leggero, o l’impronta di un cammello tra le mille altre di una carovana in movimento. Maggiori aiuti non gli vengono neppure dalla capacità di mettere in relazione un tipo di sabbia con un altro, un’orma con tutte le orme possibili, un granello con tutti i suoi vicini fino al limite delle relazioni individuabili, né tanto meno gli viene in soccorso la percezione dell’idea dell’infinito e quindi del deserto, che da queste molteplici conoscenze era riuscito ad apprendere con grande orgoglio appena uscito dall’adolescenza. Ci sono viandanti che vagano nell’intrico delle piste fino alla fine dei loro giorni, il più delle volte perché queste città fantastiche finiscono per diventare un’ossessione dalla quale non sono più capaci di liberarsi, nonostante gli ammonimenti di quelli che, avendo ormai visitato un gran numero di città, li esortano a non lasciarsi ingannare solamente da ciò che appare. Coloro che, in un modo o nell’altro, sono in grado di districarsi dal labirinto, difficilmente riescono a ricuperare i sogni e le speranze di un tempo, perché chi si smarrisce una volta nel deserto ha paura di perdersi di nuovo e, in ogni caso, non è più sorretto dalle sicurezze del passato. Molti hanno studiato e continuano a studiare il fenomeno delle città miraggio che si formano in lontananza al termine di piste che di fatto non arrivano mai a destinazione. Alcuni le ritengono in gran parte frutto di deformazioni oniriche, nel senso che le città potrebbero anche possedere gli elementi che propriamente le caratterizzano (cioè mura, porte, palazzi, monumenti, strade, piazze, torri, parchi e giardini), soltanto che agli elementi reali il viandante sovrappone, senza alterarne di fatto le forme e i volumi, elementi di natura differente o addirittura contraddittoria, sicché le città cercate appaiono sempre diverse da come il viandante immagina di trovarle, col risultato che egli finisce per smarrirsi sempre di più quanto più prossimo alla meta si sente. La teoria che ha il pregio di fornire una spiegazione più coerente dell’intrico, ammette che queste città esistono, ma hanno un modo molto particolare di essere o di apparire. Si tratterebbe di città dove nulla è determinato con precisione e rigore, nulla è mai esattamente al proprio posto o realizzato nelle dimensioni dovute, dalle mura, alle piazze, alle torri, alle facciate delle case, alle strade, ai monumenti, al giardini fino alle dune che le circondano in ampie volute. Queste città sarebbero alla ricerca perenne di se stesse, della propria conferma o della propria identità sfuggente, e per questo non cessano mai di specchiarsi dovunque sia possibile trovare uno spazio argenteo nel deserto, senza mai riuscire tuttavia a cogliere un’immagine di sé che le soddisfi. Essendo città che non solo non hanno una natura e una posizione chiaramente definite, ma neppure un vero nome, perché finalmente esse stesse dubitano di averne uno e se ce l’hanno lo mutano periodicamente, finiscono per confondere il viandante, lo sconcertano e gli fanno perdere l’orientamento, obbligandolo a muoversi in un dedalo crescente di piste che sempre più lo avvolgono e lo tengono prigioniero. L’ultima teoria infine rovescia radicalmente i termini del problema: sarebbero, secondo i suoi sostenitori, i fantasmi creati dai desideri dei viandanti che in ultima analisi disegnano i labirinti dentro i quali rischiano di smarrirsi per sempre. Questo dimostrerebbe anche perché più di un viandante si sia inspiegabilmente perduto senza essersi mai addentrato di un solo passo nel deserto.
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patrimoni architettonici san filippo neri torino, acquario roma
Presidene Ordine Architetti PPC di Roma Il progetto museologico, museografico e architettonico del MIAAO, ovvero Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi di Torino, parzialmente realizzato con il contributo della Regione Piemonte e del Comune di Torino, va illustrato, in sintesi, all’interno di specifiche, dichiarate, coordinate culturali: Il contesto architettonico Il MIAAO è sito negli ex chiostri del complesso monumentale juvarriano di San Filippo Neri a Torino, al quale lavorarono nel tempo, oltre a Filippo Juvarra, illustri architetti come Guarini e Talucchi, e che conserva molti storici capolavori d’arte decorativa come un celeberrimo paliotto di Pietro Piffetti, “ebanista di Sua Maestà” nel Settecento, e alcuni masterpieces contemporanei d’arte applicata, collocati anche in spazi sacri, come la Chiesa Maggiore, il Battistero e il Sepolcreto. Le referenze espositive temporanee Nel passato prossimo, tra la fine del XX secolo e gli inizi del nostro, tre eventi espositivi temporanei dedicati alle arti applicate, tutti curati da Enzo Biffi Gentili e allestiti da Toni Cordero (e dopo la sua scomparsa sovente dai suoi ex collaboratori dello Studio Kha), sono stati fondamentali per l’elaborazione del progetto MIAAO: Dioce, una serie di mostre d’arte sacra e applicata ordinate nel 1992-1995 in San Filippo Neri a Torino; Mater Materia, la prima nuova proposta europea di mostra internazionale di arti applicate, allestita nel 1999 a Matera; Artigiano metropolitano, le manifestazioni organizzate con il World Crafts Council Europe per celebrare il Centenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, allestite e a Torino nel 2002-2003, la cui direzione artistica è stata in parte svolta nel Seminario Superiore di Arti Applicate della Congregazione dell’Oratorio di Torino in San Filippo Neri, istituito nel 2000. I modelli espositivi permanenti Nel passato remoto, per quanto riguarda le esposizioni permanenti, va ricordato che Torino fu la prima città in Italia a istituire, nel 1862, un Regio Museo Industriale, le cui attività spaziarono dallo studio dell’ornamentazione a quello dei materiali artistici e industriali: un nuovo modello museale insieme espositivo, didattico, produttivo. Il MIAAO rappresenta il primo tentativo di rinnovamento -sotto la sola specie delle arti applicate contemporanee- di questa grande tradizione estinta nel nostro Paese, mentre in altre nazioni europee rialimenta ancora grandi musei come il Victoria and Albert a Londra o il Musée des Arts Décoratifs a Parigi. Attualmente il MIAAO, per le sue dimensioni, andrebbe definito, più che come un museo, come una Kunsthandwerk Halle articolata in due gallerie, la Soprana, destinata a esporre a rotazione gli artefatti della collezione permanente di proprietà della Regione Piemonte o conferiti in comodato dal Seminario di Arti Applicate e da privati collezionisti; la Sottana, destinata a ospitare le mostre temporanee e servizi aggiuntivi, come un Refettorio. In altri spazi del complesso è anche stato predisposto il progetto di realizzazione di una Foresteria, da intendersi come una sezione di museo ‘abitabile’. Dichiarazione di intenti: rammentare, ‘rammendare’ Di fronte a una molteplicità di referenze e stratificazioni storiche, architettoniche, artistiche e di interferenze disciplinari, tipiche delle arti applicate, si è deciso di riferire di questa complessità adottando un linguaggio progettuale che tentasse la ricomposizione, attraverso una costante pratica del ‘rammentare’ e una, tecnica, del ‘rammendare’, diverse espressioni culturali e materiali. I materiali I musei artistico-industriali furono anche musei ‘merceologici’. Per questo il MIAAO è stato tra l’altro ideato come un museocampionario di materiali piemontesi, storici e contemporanei, da costruzione. I pavimenti e i rivestimenti Per quanto riguarda i materiali tradizionali
La scala di collegamento tra le gallerie Soprana e Sottana del MIAAO, in primo piano opera di Charlie/MWC
sono state riutilizzate, nella zona servizi della Galleria Soprana, alcune lastre di quarzite di Barge residuate dal cantiere settecentesco di San Filippo, integrate da altre di recente estrazione, provenienti dalle stesse cave. Così è stato posato un nuovo pavimento in cotto -quello origi-nario era stato distrutto- ricorrendo per la fornitura alla Fornace di Sezzadio che ancora adotta antiche tecniche di foggia-tura e cottura delle piastrelle. Ma l’ele-mento di assoluta novità riguarda l’uso di un materiale assolutamente ‘primordiale’ come la terra cruda, posato sulle fasce laterali della galleria che ricoprono le condutture degli impianti. Una scelta ‘estetica’ ma storicamente motivata: da un lato, come segno di ‘riemersione’ del settecentesco riempimento della volta sottostante; dall’altro, come testimonianza su quella cultura materiale della terra cruda, rarissima in Italia, che ha di nuovo lasciato proprio in Piemonte, nell’alessandrino, rilevanti tracce. Nella Galleria Sottana si è invece risollevato il pavimento lapideo originario per posare un impianto di riscaldamento radiante e poi si sono riposizionate, dopo averle ‘rettificate’, le lastre di pietra. Per quanto riguarda i materiali contemporanei, nei bagni realizzati nel complesso si mostra anche un campionario della attuale produzione ceramica piemontese, con i klinker della Laria e della Sire, attive nel cuneese, e le monocotture di Vogue e Gabbianelli, attive nel biellese. Altre ‘ritirate’ sono state trattate con laminati ABET oppure con rivestimenti in lamiera metallica. In un intento non solo catalogatorio ma ‘artisticamente applicato’, con la creazione di curiosi effetti decorativi e valori tattili e per il dovuto rispetto verso i diversi ‘generi’: maschile, femminile, disabile, ‘macho’ ma anche oltre, verso il transgender… Le decorazioni e i colori Anche il trattamento di finitura delle murature è basato sul rapporto tradizioneinnovazione: sulle cornici e sulle due uniche lesene della Galleria Soprana è stato riscoperto il marmorino originario, in una scelta insieme ‘restaurativa’ e compositiva; i muri sono stati decorati con tinte a calce traspirante colorata, con ossidi, in rosa. Questo apparente azzardo discende dal colore dominante della grafica della Congregazione dell’Oratorio di Torino progettata dallo studio Bellissimo, e dalle ormai trentennali prove sul ‘colore della pelle’ del color-light designer e artista Jorrit Tornquist. Nella Sottana si è invece adottata un’inedita tinta traspirante iridescente.
La Galleria Soprana del MIAAO in primo piano opere di Philippe Hérault e Jorrit Tornquist
Le luci La questione della luce, considerata un ‘materiale da costruzione’, è stata di nuovo affrontata ricercando, nella Galleria Soprana, un feed-back tra l’illuminazione naturale proveniente dalle finestre (‘corretta’ dall’applicazione di pellicole anti UV sui vetri e di tende dorate) e quella artificiale, tecnologicamente sofisticata, dei LED. Nella Sottana invece, le fluorescenze provenienti da tubi nascosti dai serramenti delle finestre sono ‘riscaldate’ da pellicole ‘effetto carta giapponese’… I legni Nella Galleria Soprana, i listelli di demarcazione tra il crudo e il cotto e le botole di ispezione degli impianti sono state realizzate posando più di venti diversi legni, in una variegata antologia, internazionale, di essenze. Nella Sottana invece quello che i cinesi considerano ‘il quinto elemento’ è magnificato da custodie appositamente realizzate dalla celebre ebanisteria dell’Atelier Rivadossi e da un desk ‘brutalista’ creato dal falegname austriaco Anton Farthofer, segnalato dal World Crafts Council Europe nel 1998 come miglior giovane artiere europeo. I ferri La nuova scala di collegamento tra le gallerie Sottana e Soprana è stata realizzata interamente in ferro e acciaio, con putrelle e catene, dalla Nuova Dalmi, Piemonte Eccellenza Artigiana, in un omaggio anche figurativo alla ‘tradizione del nuovo’ torinese e piemontese: il ‘sublime’ della metallurgia, la ‘bellezza’ dell’officina. Le arti e i mestieri Molti tra i collaboratori alla realizzazione del progetto della prima galleria del MIAAO sono quindi Artigiani dell’Eccellenza, ufficialmente riconosciuti come tali dalla Regione Piemonte, ma tutti, oggettivamente, sono ‘operai aristocratici’. Le arti applicate Questo progetto di restauro inteso come forma d’arte applicata si relaziona anche, necessariamente, a uno specifico patrimonio iconografico. Nuovamente connettendo fonti lontane nel tempo: sono impressi nella terra cruda i marchi della stella juvarriana ricorrente in diversi luoghi del monumento filippino, e quello del MIAAO disegnato da Bellissimo. Non solo le arti del disegno forniscono suggestioni progettuali: nel vano scala si leggono citazioni delle installazioni della Mutoid Waste Company, che a Torino realizzò per Artigiano metropolitano un Tempio metalmeccanico.. Anche il cinema suggerisce soluzioni scenografiche: scale e catene, ascensore, e la ventola di aerazione in galleria, rivelano la predilezione di alcuni tra i progettisti per film ‘neri’ come Angel
Heart o per quelli ‘penitenziari’. L’affresco digitale all’ingresso di Luca Merendi è invece un esempio di supergrafica ‘rock’. Nella Galleria Sottana il lampadario Angelica dei designer torinesi Nucleo cita volute barocche con tubi al neon… Insomma nel MIAAO si parla il ‘volgare illustre’, la ‘lingua nuova’ delle arti applicate secondo una tesi del World Crafts Council. Le soluzioni compositive Il progetto ha evitato interventi edilizi ‘invasivi’, tranne nel caso dell’erezione di nuovi muri e dell’addizione di alcune porte e finestre, rese necessarie da disposizioni di sicurezza. Ma è ancora Juvarra a fornire un ‘modello’ per gli oculi aperti nei muri di testa della galleria: questa soluzione ha tra l’altro, per la prima volta nella storia di San Filippo, creato un ‘cannocchiale’ interno al corpo di fabbrica. La ricorrenza e la simmetrizzazione -altra ossessione juvarriana- di questo modulo circolare, allude anche alla principale tra le mostre di Dioce, intitolata Concentrazione, dedicata nel 1992 al simbolismo del cerchio, e rimanda alla forma dei quadranti di alcuni grandi orologi, storici e contemporanei, installati nelle gallerie di San Filippo. Le collezioni Il primo ‘fondo di dotazione’ collezionistico del MIAAO è stato assicurato dall’acquisto, tra il 2002 e il 2003, da parte della Direzione ai Beni Culturali della Regione Piemonte di cinquanta artefatti, quasi tutti esposti nella mostra Masterpieces alle-stita a Palazzo Bricherasio nell’occasione di Artigiano metropolitano. Si tratta quindi di ‘capi d’opera’ europei ‘certificati’ dal World Crafts Council. Inoltre altre centinaia di lavori sono stati affidati al MIAAO dal Seminario Superiore di Arti A p p l i c a t e d e l l a C o n g re g a z i o n e dell’Oratorio di Torino e da privati collezionisti. Infine alcune opere sono state direttamente commissionate ad artisti e artigiani, e altre accettate in donazione. Tra tutti questi ‘campioni’ dell’attuale ricerca nel settore delle arti applicate contemporanee vanno almeno citati tre capolavori assoluti: l’arazzopolittico Creation di Alice Kettle, conservato nella Galleria Soprana; la ‘macchina del tempo’ basata sull’orologio settecentesco del campanile di San Filippo Neri, rimessa in moto da Alberto Gorla -il restauratore dell’orologio dei Mori di Venezia- e ‘carrozzata’ da Studio Kha e Bellissimo, installata nella Galleria Sottana; il ‘trionfo della morte’ in terraglia intitolato Ossobello di Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni, custodito nel Sepolcreto.
Il Sepolcreto di San Filippo Neri sullo sfondo opere di Bertozzi e Casoni e di Catherine David in collezione MIAAO
Ha affermato pochi giorni fa il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, in occasione dell’inaugurazione della Cité de l’Architecture a Parigi: “L’architettura è anche politica, e anzi si colloca al crocevia delle politiche culturali, economiche, urbanistiche, abitative, ambientali”. Questa riflessione sintetizza in modo quanto mai efficace gli obiettivi di un progetto che ci ha portato, nel 2002, all’inaugurazione a Roma della Casa dell’Architettura: creare un luogo di incontro e di confronto sull’architettura considerata in tutti i suoi aspetti, culturali, economici, urbanistici, sociali, ambientali; creare un’opportunità concreta e visibile per far si che la comunità degli architetti potesse farsi promotrice di nuove politiche culturali. Quando, il 13 novembre del 2003, con il sindaco di Roma Valter Veltroni, il regista Wim Wenders e l’architetto Massimiliano Fuksas, abbiamo formalmente inaugurato gli spazi del complesso monumentale dell’Acquario Romano, la sfida era questa. Non una nuova sede dell’Ordine degli Architetti di Roma, non un luogo di incontro per e di soli architetti, ma un luogo della cultura, del dialogo, della comunicazione, in cui restituire all’Architettura -per dirla ancora con Sarkozy- il suo “ruolo primario nel destino individuale e collettivo degli uomini”. “Questo potrà diventare affermava Veltroni il giorno dell’inaugurazione
non comunicanti tra di loro. È un punto di riferimento per gli Amministratori pubblici che sanno di poter disporre di uno spazio in cui conoscere e mettere in discussione programmi, piani e progetti per lo sviluppo urbano e territoriale. È un punto di riferimento per il mondo degli architetti cui la Casa dell’Architettura offre continuamente occasioni di confronto e di riflessione sul progetto, sulle esperienze internazionali delle contemporaneità, di promozione del proprio lavoro, di dibattito sulle politiche per l’Architettura, di ricerca e di aggiornamento professionale. È un punto di riferimento per i giovani architetti che nella Casa dell’Architettura trovano occasioni formative, strumenti per inserirsi nel mondo del lavoro, per cogliere opportunità professionali all’estero, per far conoscere il proprio lavoro. È il luogo destinato a far nascere nei cittadini la consapevolezza che l’architettura e la qualità degli spazi urbani, in cui oggi la maggior parte degli esseri umani vive, rappresenta non un bene superfluo o un lusso per pochi privilegiati ma uno dei diritti fondamentali di una società che si ritiene civile. Ma soprattutto la Casa dell’Architettura di Roma è diventato in questi anni un laboratorio permanente per sperimentate una nuova visione sul ruolo e sui compiti di un Ordine professionale, non più organismo pseudonotarile o corporazione con accenti
Il Circolo dei Lettori nella storica sede del Circolo degli Artisti a Palazzo Graneri della Roccia che ospiterà l'organizzazione del XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA Torino 2008 foto Maurizio Elia
uno dei luoghi dell’attività permanente della cultura a Roma, uno dei simboli di un’idea di cultura fatta di grandi manifestazioni, certo, ma al tempo stesso di tanti luoghi capaci di moltiplicare le occasioni di incontro, di formazione e di conoscenza per i cittadini, per i giovani, per gli studenti di architettura come per gli appassionati di cinema o di musica. Questa è l’idea che anima la Casa dell’Architettura. In questi cinque anni di attività possiamo dire di aver vinto la scommessa. La Casa dell’Architettura di Roma è diventata, per la città, molte cose insieme. È un punto di riferimento per la comunità che trova all’Acquario romano un luogo per leggere e capire l’ambiente in cui viviamo e il suo incessante mutare attraverso il tempo; per conoscere le diverse declinazioni, anche internazionali, della cultura architettonica contemporanea; per essere informata sui processi di trasformazione in atto nella città e confrontarsi con i protagonisti di tali trasformazioni -progettisti, amministratori pubblici ecc.- misurandosi concretamente con percorsi di partecipazione per la gestione dei propri spazi di vita. Ma per i cittadini la casa dell’architettura è stato anche un luogo in cui ascoltare concerti, vedere film di qualità, assistere a spettacoli teatrali, fruire di mostre d’arte, ecc. È un luogo della contaminazione tra le culture, un portale che consenta di riscoprire le radici comuni dei vari saperi specialistici che oggi animano il nostro mondo e sembrano percorrere strade parallele e
vagamente sindacali, ma strumento per offrire servizi, promuovere la cultura architettonica, garantire ai cittadini la qualità delle trasformazioni del territorio, stimolare la politica a porre l’architettura al centro delle proprie scelte. È stato, è e sarà un progetto ambizioso: abbiamo organizzato tantissime mostre e convegni sulle ricerche progettuali e culturali di oggi e di ieri, offrendo a tutti strumenti nuovi per leggere i linguaggi architettonici -e non solo- della modernità e della memoria. Abbiamo promosso momenti di cultura musicale e cinematografica ma anche confronti, spesso aspri, sulle politiche economiche, ambientali e sociali del nostro Paese. A questa attività abbiamo affiancato centri di raccolta e razionalizzazione della memoria della nostra professione (video, foto, filmati, archivi progettuali e cartacei, ecc.) ma anche di produzione radio e video per riflettere insieme all’intera società italiana sui valori di cui la nostra disciplina è portatrice. Oggi stiamo sperimentando le possibilità che le New Information Tecnology ci possono dare come valore aggiunto per accrescere le potenzialità e la qualità del nostri sistema culturale. Il passo successivo della nostra sfida è, oggi, quello di promuovere la diffusione, in tante altre città italiane, di nuove ‘Case dell’Architettura’ creando una rete nazionale e internazionale in grado di restituire alla cultura un ruolo determinate nella costruzione della civiltà contemporanea.
architetture contemporanee enzo venturelli
destra Enzo Venturelli, Studio per futuri edifici staccati dal suolo urbano, 1957, carboncino su carta, cm 69x99, Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
Alle poche opere portate a compimento nella carriera di Venturelli corrisponde un ingente patrimonio di progetti, disegni, modelli, dipinti, lettere e documenti conservati dall’Archivio di Stato di Torino: il suo più importante lascito a una città che non lo amò, e che a lungo non gli ha riservato adeguata attenzione critica. Già nel 1989 Venturelli esprime il desiderio
Enzo Venturelli, Teatro Tartaruga (teatro staccato da terra), anni ’50, chine colorate su carta, cm 65,4x97,3 Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1, foto Studioelletorino
verbo “atomico” di Baj e Dangelo: edifici sopraelevati, traffico veicolare sotto la linea di terra, elicotteri in volo. Una città che sembra uscita da un film di sciencefiction di là da venire. La mostra parigina all’Office National Italien du Tourisme, nel 1958, segna l’inizio di un successo che solo la ritrosia e la scelta di restare a Torino mancheranno di alimentare. Venturelli incontra il favore di Michel Ragon, scrittore, critico d’arte e d’architettura, autorevole studioso di utopie urbane, e della stampa più accreditata. Su “Le Monde” André Chastel parla di “un’architettura che risponde ai bisogni del secolo.Questa aspirazione non è nuova”, scrive, “le soluzioni di Venturelli talvolta lo sono”. Nell’occasione viene presentato il Manifesto dell’architettura
nucleare e gran parte dei progetti -di abitazioni, edifici pubblici, ville, chieseche saranno alla base dell’ampio disegno di urbanistica spaziale documentato dall’omonimo volume del 1960. Progetti eseguiti fin dai primi anni ’50, quando firma, nell’anno del Manifesto del movimento spaziale per la televisione, il 1952, una Stazione radio-televisiva fatta di capsule sferiche simili a bulbi oculari e l’antropomorfa Villa nell’abetaia, del 1953, i cui ambienti ovoidali richiamano gli spazi uterini della Endless House di Frederick Kiesler. Costruzioni con strutture a ponte -un teatro, un padiglione espositivo, una Chiesa spaziale- passerelle sospese, e poi torri a dischi sovrapposti e nuclei abitativi fondati su modelli cellulari che sembrano prefigurare visioni metaboliste
come la Spiral Housing di Kiyonori Kikutake o la Nakagin Tower di Kisho Kurokawa, piani sfalsati per “aggregazioni tridimensionali dove la differenza d’uso dei piani permette una maggiore fruibilità degli spazi” che ritroveremo nell’utopia sociale dell’Habitat di Moshe Safdie. Anche se la loro radice è da ricercare nelle prefigurazioni urbane di Antonio Sant’Elia e Virgilio Marchi, innestate su una visione apocalittica della città: ammorbata dal traffico, dall’inquinamento, dalla mancanza di spazi idonei alla vita individuale e collettiva, dalla solitudine e dalla nevrosi dei suoi abitanti, all’accezione “romantica della ville tentaculaire”, cara ai futuristi e buona a suo dire per gli “ideali del borghese cittadino”, Venturelli contrappone una città a misura d’uomo,
con “modelli urbani e abitativi in cui separazione fra traffico veicolare e pedonale, il rigoroso rispetto dei principi di soleggiamento, l’aria, la luce diventano il tema dominante nella redazione di immaginari piani urbanistici” come scrivono Magnaghi, Monge e Re. Venata da una forte tensione utopica, e dalla fede nella tecnologia propria del periodo, la città di Venturelli si collega, in chiave anticipatoria, al filone dell’urbanisme spatial, secondo la definizione utilizzata negli anni ’60 da Michel Ragon. Un filone che annovera figure come l’altro torinese eretico, Paolo Soleri, impegnato a coltivare la sua immaginazione megastrutturale nel deserto dell’Arizona e il franco-ungherese Yona Friedman, che darà dell’urbanisme spatial una definizione legata al concetto di architettura mobile. Marco Parenti, da anni esegeta dell’opera di Venturelli, ritiene che la locuzione urbanistica spaziale “fosse da tempo nell’aria e che Enzo Venturelli possa essere considerato l’antesignano ideatore di questa terminologia”. Ragon e Friedman sono i fondatori, nel 1965, con Paul Maymont, Walter Jonas, Nicolas Schöffer e altri, del GIAP, Groupe International d’Architecture Prospective, che annovera tra i suoi membri Jacques Polieri. Scenografo e teorico della scenografia, fondatore con Le Corbusier dei Festivals de l’art d’avantgarde, Polieri firma con Venturelli il progetto di un Teatro di movimento totale, esposto a Parigi nel 1963, concepito come una forma circolare dinamica. Troppo “anzitempo”, come lui stesso ebbe a dire, poche furono le architetture di Venturelli a vedere la luce. Gli edifici di civile abitazione e le ville in Piemonte e Liguria, stabilimenti e ambientazioni non restituiscono lo slancio creativo dei progetti “non realizzabili”. Fa eccezione l’originale acquario-rettilario dello Zoo di Parco Michelotti; ideato nel 1958 e realizzato nel 1960, è considerato dagli specialisti il lavoro principale di Venturelli, ma in seguito al quale la sua speranza progettuale si affievolisce. Negli anni ’70, anche per ragioni di salute, si dedica alla pittura: lontano da vincoli progettuali, libera visioni di fantascienza pura. Nel 1975 Raffaele De Grada scrive che mutanti, cavalieri dello spazio, robot nani, colonnelli galattici “sembrano esseri immaginati per vivere nella ‘città futura’”, quella che lui aveva sognato.
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“L’era moderna, iniziatasi dalla rivoluzione francese, si esaurisce alle soglie dell’attuale formidabile periodo delle scoperte nucleari. La nostra vita, le nostre forme sociali, cambieranno ancora, useremo altre forme di energia, ed anche l’arte userà un altro linguaggio, così l’architettura”. Sono parole di Enzo Venturelli, scritte nel 1958 al culmine di un’attività totalmente proiettata nel futuro, della città e delle sue funzioni. Il linguaggio di Venturelli è già altro nel panorama torinese di allora. Nato a Torino nel 1910 e precoce apprendista nello studio dell’ingegnere Arrigo Tedesco-Rocca, dal 1936 Venturelli collabora con vari professionisti tra i quali gli architetti Melis e Demunari, fino alla laurea del 1939. L’influenza del razionalismo ne informa le prime opere, come il cinema-teatro Principe, del 1945, nella cui limpida composizione echeggiano geometrie neoplastiche e concrete, e la sala da ballo Eden, del 1947-1948, bizzarra commistione di eleganza ed estro eccentrico. Se all’inizio il suo lavoro passa piuttosto inosservato, segna un’inversione di rotta, anche linguistica, la casa-studio per lo scultore Umberto Mastroianni, del 1953-1954. Sulla collina di Cavoretto, è un complesso plastico-dinamico di ascendenza futurista in cui Venturelli esplicita la propria “visione artistico-idealistica dell’architettura” con cui reagisce al dettato modernista e alle “abusate forme scatolate lineari e piatte” dell’edilizia dilagante nel periodo postbellico. È un’architettura esplosa, di impronta organica, caratterizzata da volumi aggettanti che nelle intenzioni corrispondono a una distribuzione interna più idonea alle esigenze d’uso, intenzioni che tuttavia si scontrano con le richieste del committente e l’insufficienza di mezzi. Se in Italia subisce l’influente stroncatura di Bruno Zevi, che quarant’anni dopo rivedrà il suo giudizio, definendolo “opera stravagante, nel senso positivo del termine, di rottura linguistica che cresce con il tempo”, l’edificio suscita l’interesse degli ambienti internazionali. Ma non è che la punta di un iceberg. In quegli anni Venturelli lavora a forme dell’abitare “in grado di soddisfare le esigenze fisiche e psicologiche della vita moderna”, mettendo a punto una concezione di architettura per l’era nucleare che mostra sorprendenti analogie, sebbene non formali, con la “città nucleare” del Joe Colombo folgorato dal
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di donare questo materiale all’Archivio di Stato, “con sensibilità e lungimiranza, rare per i tempi in cui agli archivi si preferivano altri luoghi di conservazione per le proprie carte”, come scrive l’allora Direttore Isabella Ricci Massabò nel 1999 nel volume Enzo Venturelli architetto a cura di Marco Parenti e Angelo Mistrangelo, edito dalle Edizioni dell’Orso. “La decisione, vista a posteriori”, continua, “era in piena sintonia con il carattere di modernità che ha improntato la sua produzione”. La realizzazione del desiderio di Venturelli si compie, a seguito della sua scomparsa nel 1996, grazie all’impegno della moglie, Piera Portino, e di Nazario Droghetti, responsabile del primo riordino dei materiali. Tutta la sua storia di architetto e di artista è oggi accessibile al pubblico presso la sala di studio dell’Archivio di Stato, insieme ai volumi della biblioteca personale dell’architetto, che testimonia, nelle dediche degli autori, della sua vasta rete di relazioni nel mondo dell’architettura e della cultura a livello internazionale. L.P. Tutte le immagini qui riprodotte sono pubblicate su autorizzazione dell’Archivio di Stato di Torino.
Le nuove forme architettoniche... devono già essere considerate del periodo nucleare che ormai ha iniziato a pulsare
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Enzo Venturelli Manifeste sur l'architecture Paris 1958 Veduta della mostra Sculpture Architecturale, Parigi 1963, in primo piano plastico e progetti della Chiesa spaziale di Enzo Venturelli, foto Augustin Dumage Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli
“Il y a autre chose que le cube et le parallélepipède-rectangle!”, lo dimostrano i progetti e le opere dei trentaquattro architetti e scultori di dodici paesi, tra i quali Enzo Venturelli, presenti nella mostra Sculptures Architecturales et Architectures Sculpture alla Galerie AndersonMayer nell’ambito della Biennale di Parigi del 1963. Curata da Michel Ragon e M. Tony Piteris, la mostra si prefigge l’obiettivo di riunire le più originali declinazioni del rapporto tra linguaggio plastico e architettura di quegli anni, alla base di una nuova tendenza architettonica “organique, vivante”. “Une architecture qui suive un chemin parallèle à l’évolution de la sculpture”, individuando il suo capolavoro nella cappella di Notre-Damesur-Haut, realizzata a Ronchamp da le Corbusier nel decennio precedente,
per Ragon “ne remplacera donc pas forcément l’architecture mathématique. Mais elle pourra lui apporter un élément concurrentiel toujour profitable au développement de courants nouevaux”. Nel catalogo della mostra, pubblicato per la tappa seguente al Théâtre-Maison de la Culture di Caen, Oscar Niemeyer, reduce dalla recente impresa di Brasilia, parla di un’architettura contraddistinta da una “liberté plastique presque illimitée, qui, au lieu de se plier servillement à des raisons tecniques ou fonctionelles déterminées, constitue, en premier lieu, une invitation à l’imagination, et qui crée une atmosphere d’extase, de rêve et de poesie”. Nelle pagine del catalogo si apprende anche come per la Chiesa spaziale, ardita struttura “a ponte” concepita per essere realizzata in cemento armato, Venturelli prevedesse un rivoluzionario rivestimento in materiale plastico bianco. Oltre a Niemeyer, un capostipite della tendenza in cui Venturelli è annoverato a buon diritto tra gli iniziatori, figurano nella mostra, che concluderà il suo tour al Rotterdamsche Kunstring di Rotterdam, due tra i più illustri fautori della “sintesi delle arti” postbellica. Fondatori nel 1951 del Groupe Espace -cui aderiranno anche i membri del MAC italiano- André Bloc, campione della scultura architettonica, e Nicolas Schöffer, padre dell’arte cibernetica, affiancano alcuni futuri membri del GIAP: lo stesso Schöffer, Paul Maymont, Ionel Schein, Pascal Haussermann e Jacques Polieri, sulle cui concezioni scenografiche si fonda
il progetto di Teatro di movimento totale di Venturelli presentato nell’occasione. Molto di più che una buona compagnia, l’autorevole compagine articola una geografia dei rapporti fra l’opera di Venturelli e la cultura artistica e architettonica transalpina -in particolare con il milieu dell’architecture visionnaire di cui parlerà Ragon- ancora tutta da esplorare. L.P. Enzo Venturelli, Studio per progetto di Teatro di movimento totale – veduta prospettica, anni ’50-’60 concezione scenografica di Jacques Polieri chine colorate su carta, cm 42,3x35,4 (particolare), Archivio di Stato di Torino Fondo Venturelli, cart. 5, foto Studioelletorino
Copertina del volume Urbanistica spaziale di Enzo Venturelli, Fratelli Pozzo Editori, Torino 1960, Archivio SSAA, Torino
Le nuove concezioni urbanistiche di Venturelli partivano dal“presupposto di cercare, e trovare, delle soluzioni che investivano problemi di architettura, di spazio, aria, luce e viabilità nei centri urbani; ricerche tese al fine di ovviare ai molti inconvenienti dell’attuale vita sociale residenziale collettiva urbana”, come scrive nell’introduzione al volume Urbanistica spaziale, pubblicato dalle edizioni Fratelli Pozzo nel 1960. Nel 1958, la mostra presentata a Parigi fu ospitata, con eco minore, a Torino al Salone de “La Stampa” e a Milano alla Galleria d’Arte e Selezione: “Le mie proposte, con i progetti che esponevo”, ricorda Venturelli, “apparvero allora, in un primo tempo audaci e sconcertanti (…). Si dovette constatare poi che queste soluzioni riguardanti tanto i problemi di architettura quanto di innovazioni edilizie, e quelle atte a svincolare il traffico e la viabilità dalle esistenti costrizioni, costituivano uno spiraglio aperto nel blocco chiuso del formalismo attuale, e indicavano possibili soluzioni atte a risolvere le difficoltà del traffico delle città e le incertezze dell’edilizia urbana”. Il volume è la risposta alle perplessità del pubblico e degli specialisti che giunge a epilogo dell’alacre lavoro del decennio precedente. “Noi dobbiamo convincerci”, vi si legge, “dell’importanza della città come fattore di condizionamento della vita sociale. Le inumane condizioni di esistenza in agglomerati urbani privi di sole e di luce, d’aria e di zone verdi, provocano una rottura nell’accordo fra l’uomo e l’ambiente, e perciò generano un tragico isolamento dell’individuo. Le nostre metropoli viste dall’alto, si presentano come una ulcerazione del suolo terrestre: ulcere create dal microbo umano, si cui la terra è ormai passivamente portatrice”. In alternativa Venturelli propone un nuovo piano regolatore, che comporta la sostituzione dell’uso del diritto di proprietà con il diritto di costruzione, per rendere più agile l’organizzazione urbana, e nuove disposizioni per gli isolati. Immagina soluzioni di doppia viabilità, citando Leonardo e Le Corbusier, mediante la sopraelevazione del piano stradale ed edifici staccati dal suolo. Già presago dei nefasti effetti delle polveri sottili prevede la creazione di sottovie e svuotamento dei primi piani nei centri storici e finanche un sistema, regolarmente brevettato, per l’eliminazione delle polveri e dei fumi dall’atmosfera. La Città futura, per Enzo Venturelli, dovrà essere “oltre che sana e luminosa, alberata ‘non solo orizzontalmente, ma anche verticalmente’, igienicamente efficiente per la vita umana. Dovrà dare al pedone la possibilità di muoversi agevolmente e tranquillamente senza apprensioni e tensioni nervose dovute al traffico dei veicoli, e, fattore importante, evitargli il pericolo della respirazione diretta delle polveri e gas di scarico prodotte dal traffico”. Il progetto per il nuovo piano regolatore, accanto agli altri progetti già esposti a Parigi, viene presentato per la prima volta, nel maggio del 1959, a Biella, su invito del Circolo degli Artisti nella sede dell’Automobile Club. L.P.
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architetture contemporanee leonardo mosso, laura castagno
Messo a punto da Leonardo Mosso e Laura Castagno tra il 1967 e il 1970, il Modello di progettazione automatica globale per l’autoprogrammazione della comunità ha lo scopo di rendere possibile “un’autogestione della forma, archi-tettonica, urbana e territoriale, all’interno ed in armonia con una progettazione collettiva”. In una prospettiva di “autoprogrammazione strutturale alternativa a quella autoritaria”, solo l’uso democratico dello “strumento calcolatore” per Mosso e Castagno consente di “dominare l’enorme complessità delle esigenze individuali e comuni, tenerne memoria e confrontarle nella compatibilità reciproca”. Sviluppato per mezzo del calcolatore Univac 1108 del Politecnico di Milano, con la collaborazione tecnica di Piero Sergio Rossato e di Arcangelo Compostella, il modello è concepito “sia per raffigurare e sostenere un’autogestione della forma ambientale, sia per simulare un’aggregazione automatica di elementi modulari in forme complesse”. Nel primo caso permette di generare “con legge di casualità indirizzata, forme
architettoniche, urbane, ambientali e territoriali”, mentre nel secondo interviene all’inizio “del processo di costruzione collettiva”, rendendo compatibili gli interventi individuali con “le leggi comunitarie e di sviluppo”. Con l’obiettivo di generare un numero predeterminato di configurazioni, sulla base di vincoli e di uno spazio dati, di elementi architettonici e urbanistici modulari aggregati sistematicamente dal computer secondo una logica casuale, la sperimentazione di Mosso e Castagno si inserisce nell’ambito di una serie di ricerche finalizzate alla costruzione di un “sistema integrato di modelli logico-
matematici”, in grado di verificare le ripercussioni delle iniziative individuali sul territorio, a livello urbanistico e architettonico, di simulare gli effetti possibili delle modificazioni territoriali e di progettare “automaticamente” le strutture nel rispetto di tutti i vincoli “purché quantizzabili”. Il modello, illustrato dalle configurazioni ottenute con procedimenti di allocazione sequenziale e random, viene presentato nel 1971 e pubblicato negli atti della Conferencia Internacional sobre Sistemas, Redes Y Computadores di Città del Messico, come unico esempio di cibernetica applicata alla progettazione architettonica e urbanistica. L.P.
Enzo Venturelli, Chiesa con seminario, anni ’50, china su carta, cm 63x88 Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
dipingere o costruire un Inferno tale da terrorizzare le generazioni che hanno subito eroicamente gli infer nali bombardamenti del Carso e sono allenati ad una vita meccanizzata più pericolosa delle fiammelle da gas povero dell’Inferno tradizionale. 2) Soltanto gli aeropittori futuristi, maestri delle prospettive aeree e abituati a dipingere in volo dall’alto, possono esprimere plasticamente il fascino abissale e le trasparenze beate dell’infinito. Ciò invece non è consentito ai pittori tradizionali, tutti più o meno legati dall’ossessionante realismo, tutti ineluttabilmente terrestri e quindi incapaci d’innalzarsi fino ad un’astrazione mistica. 3) Soltanto gli aeropittori futuristi possono far cantare sulla tela la multiforme e veloce vita aerea degli Angeli e l’apparizione dei Santi. 4) Soltanto gli artisti futuristi ansiosi
di originalità ad ogni costo e sistematici odiatori del già visto, possono dare al quadro, all’affresco e al complesso plastico la potenza di sorpresa magica necessaria per esprimere miracoli. 5) Soltanto gli artisti futuristi, che da vent’anni impongono nell’arte l’arduo problema della simultaneità possono esprimere chiaramente, con adeguate compenetrazioni di tempo-spazio, i dogmi simultanei del culto cattolico, come la Santa Trinità, l’Immacolata Concezione e il Calvario di Dio. 6) Soltanto gli artisti futuristi elettrizzati di ottimismo colore e fantasia (…) possono oggi precisare in un’opera d’Arte Sacra la beatitudine del Paradiso (…)”. F.T. Marinetti-Fillia, Manifesto dell’arte sacra futurista, Torino, gugno 1931, in Aeropittura Arte sacra futuriste, Casa dell’Arte, La Spezia, 26 novembre-dicembre 1932.
Enzo Venturelli, Chiesa dei Vescovi, anni ’50, china su carta, cm 63x87, Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1 sotto Enzo Venturelli, Casa rotonda sulla cascata, 1957, carboncino su carta, cm 50x75 Archivio di Stato di Torino, Fondo Venturelli, cart. 1
La casa sul ruscello Tra i disegni, bellissimi, di Venturelli, di cui diamo una testimonianza in queste pagine, c’è quello di una Casa rotonda sulla cascata che aggiorna il tema wrightiano di Fallingwater. La relazione uomo-natura celebrata negli anni ’30 da Frank Lloyd Wright, in quello che i membri dell’American Institute of Architecture definirono nel 1991 “the best all-time work of American Architecture”, è riscritta da Venturelli alla luce delle nuove esigenze dell’era nucleare. Parte di una serie di disegni e progetti di ville immerse nel verde, è uno dei suoi testi più marcatamente ‘astronavali’. Sospesa su un ruscello, la casa sembra pronta a decollare per proiettarsi nell’iperspazio sfidando le leggi della fisica… L.P.
Un’architettura “logica e programmata”, un’architettura come “organismo”, ove “l’opera del progettista tenda più che altro a produrre sistemi impersonali e genetici della massima creatività individuale” è quella teorizzata da Leonardo Mosso nel suo Manifesto dell’architettura diretta del 1969. “Si tratta”, scrive Marco Rosci, “di una concezione ‘utopica’ molto particolare nella sua coerenza con i più avanzati e aggiornati livelli di programmazione scientifica, di organizzazione sistemica e aggregazione modulare, applic ati all’ipotesi di una società integralmente democratica”. La teoria, e la prassi, di una “autoprogrammazione strutturale non autoritaria” per Mosso, originario del biellese, nato a Torino nel 1926, prende forma negli anni ’50, anni di formazione e di impegno nella vita culturale torinese (nel 1953, a soli due anni dalla laurea in architettura, è tra gli emeriti fondatori dell’Associazione Museo del Cinema), gli anni della collaborazione con il padre Nicola, già futurista, con cui firma la Chiesa del Redentore, basata su modelli matematici, uno dei più rilevanti esempi di architettura sacra del dopoguerra italiano, e dell’esperienza ‘organica’ come allievo di Alvar Aalto, cui seguirà una lunga partnership progettuale. Le linee guida che caratterizzano le sue ricerche, “per una architettura che fosse contemporaneamente arte”, fanno riferimento ai concetti di struttura (nel senso datogli da Piaget, di struttura come sistema di trasformazioni), modularità, reversibilità, temporaneità e flessibilità. Concetti che si ritrovano in oltre cinquant’anni di progetti, mostre, installazioni, interventi urbani sulla scena internazionale -i più importanti realizzati nel Nord Europa, anche in virtù dell’attività didattica svolta nelle università di Karlsruhe e Berlino, dove ha a lungo insegnato (oltre che nei politecnici di Torino, Milano e Grenoble)fino alle recenti, benché ormai più che decennali, sperimentazioni con la luce. “Sistemi aperti di possibilità autogeneranti”, come la Cappella della messa dell’artista di via Barbaroux, purtroppo perduta, la sua prima opera programmata. Realizzata tra il 1961 e il 1963 con l’uso di travi a sezione quadrata e con il sistema strutturale “a giunto mobile” di sua invenzione, si presta a infinite variazioni formali. Scultura abitabile
e architettura al tempo stesso, la Cappella è per Mosso “il fondamento della ricerca successiva”. Nella seconda metà degli anni ’60, la pratica di “progettazione strutturale semiotica” avviata con la questo progetto si estende alla scala urbana e territoriale, caricandosi di motivazioni sociali e politiche. Sviluppato in team con la moglie Laura Castagno, anche lei architetto-artista e studiosa -con cui Mosso fonderà l’Istituto-Museo intitolato ad Alvar Aalto, straordinario archivio sulle arti e l’architettura del Novecento-, il Progetto di città-territorio programmato e autogestibile, del 196869, rientra nell’ambito di una più ampia ricerca, legata a principi cibernetici, che si avvale delle potenzialità del calcolatore elettronico. La “programmazione” è finalizzata al “trasferimento diretto delle relazioni supercomplesse dell’ecosistema universale in autogestione delle forme”. In questa logica la “formazione degli organismi architettonici ed urbanistici” diviene un processo strutturale dinamico “ove sia possibile l’analisi ed il controllo ai vari livelli”, secondo quanto dichiara Mosso nel 1973, “dal personale al collettivo-assemblare, delle fasi di varianza e di costanza per la programmazione sistematica e continuamente verificabile degli spazi interni ed esterni, nelle loro infinite alternative compatibili”. Il modello operativo della “città programmata” è costituito da diecimila elementi in legno e Plexiglas retroilluminati. Le tavole esemplificative di programmazione sistematica sono raccolte in una cartella di serigrafie che ripercorre le fasi dell’Architettura programmata, edita nel 1969 dallo Studio di Informazione Estetica e Vanni Scheiwiller. Le innumerevoli possibili configurazioni delle unità abitative, “corrispondenti ad infinite variazioni esigenziali e infinite volontà personali e collettive”, visualizzano il principio di autogestione e di trasformabilità secondo un modello “di proliferazione cellulare” che Mosso riprenderà nel progetto de La comune della cultura, presentato al concorso per il Beaubourg nel 1971. Una struttura modulare modificabile virtualmente all’infinito, “strumento e sistema cibernetico di progettazione, costruzione e gestione collettiva, offerto alle comunità progettanti per la costruzione della propria forma urbana (…) e della propria cultura”.
Laura Castagno, Leonardo Mosso, Città-territorio programmata e autogestibile 1968-69, modello operativo mobile in legno, Plexiglas, neon, cm 100x100x100
Alberto Rizzi, Palazzo Boglietti Art Congress Center Biella Courtesy Famiglia Boglietti
Sede di una prima visione del sogno urbanistico di Venturelli, terra d’origine di Nicola e Leonardo Mosso, non a caso Biella è uno dei pochi luoghi dove il trip ‘spaziale’ di un architetto si sia realizzato. Con le sue calotte discoidali a effetto flyingsaucer poggiate su un basamento rivestito di pietra, Palazzo Boglietti sembra un’astronave aliena atterrata su un picco roccioso. Nato dall’incontro tra Giovanni Boglietti e l’architetto Alberto Rizzi negli anni ’90, è “la materializzazione di un sogno e d i u n p ro g e t t o d i v i t a ” dell’imprenditore e fondatore dell’associazione Obiettivo Domani che gestisce la struttura, interamente privata. Progettato all’insegna della mimesi della natura, nelle forme e nei materiali -acqua, pietra, luce e metalliquesto “vortice pietrificato” è un eccentrico spazio per la cultura offerto alla città. Inaugurato nel gennaio 2006 con l’itinerario Arte e Architettura a cura di Angelo Mistrangelo, ospita un centro per mostre e congressi, un ristorante, una caffetteria, un Internet Cafè, spazi di lettura e postazioni telematiche e anche una piazza coperta, tutto all’insegna della più alta tecnologia. L.P.
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Tra le varie affinità con il Futurismo, nell’opera di Enzo Venturelli vi è il frequente richiamo alla spiritualità che informa i progetti di chiese, mai realizzate, e i monumenti funerari. Nell’audacia dei progetti egli sembra cogliere l’eredità futurista anche nell’esortazione al rinnovamento dell’architettura e dell’arte sacra. Maturato all’ombra della Mole per impulso di Fillia, il tema della ‘spiritualità futurista’ è l’espressione della “proiezione verso l’infinito, tesa a una dimensione ‘cosmica’”, come l’ha definita Crispolti, che caratterizza il Movimento dalla seconda metà degli anni ’20. Quell’eredità, e il suo specifico genius loci, di cui Leonardo Mosso e Laura Castagno sono custodi e studiosi presso l’Istituto Alvar Aalto di Pino Torinese, che oltre all’ingente lascito di Nicola Mosso conserva numerose testimonianze del lavoro di altri esponenti del gruppo futurista torinese: Diulgheroff, Oriani, Mino Rosso, Ugo Pozzo, e naturalmente il mentore Fillia. Già fautore di un “arte sacra meccanica” e di una “pittura spirituale” con Tullio Alpinolo Bracci, Fillia firma nel 1931, con Marinetti, il Manifesto dell’arte sacra futurista, che pone fine a una “tradizionale professione di laicismo” del movimento: “Premesso che non fu indispensabile praticare la religione cattolica per creare capolavori d’Arte Sacra, premesso d’altra parte che un’arte senza evoluzione è destinata a morire, il Futurismo, distributore di energie, pone all’Arte Sacra il seguente dilemma: o rinunciare a qualsiasi azione esaltatrice sui fedeli o rinnovarsi completamente mediante sintesi, trasfigurazione, dinamismo di tempo-spazio compenetrati, simultaneità di stati d’animo, splendore geometrico dell’estetica della macchina. L’uso della luce elettrica per decorare le chiese col suo fulgore biancoazzurro superiore in purezza celestiale a quello rosso-giallo carnale lussurioso delle candele, le meravigliose pitture sacre di Gerardo Dottori, primo futurista che rinnovò con originale intensità l’Arte Sacra, gli affreschi futuristi di Gino Severini nelle chiese svizzere, le molte cattedrali futuriste con un dinamismo di forme in cemento armato, cristallo ed acciaio realizzate in Germania e Svizzera, sono i segni di questo indispensabile rinnovamento dell’Arte Sacra. 1) Soltanto gli artisti futuristi, perché ricchi di una immaginazione illimitata, possono
Laura Castagno Leonardo Mosso Modello di progettazione automatica globale per l’autoprogrammazione della comunità 1967-1970 configurazione 001 ottenuta con procedimento di allocazione sequenziale sezione orizzontale foto Leonardo Mosso
Oltre la violenza degli architetti per una architettura diretta oltre la violenza del potere per una democrazia diretta
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Leonardo Mosso Manifesto dell’architettura diretta Torino 1969
architetture grafiche planète e pianeta
Pierre Chapelot, copertina di “Pianeta”, n. 10, dicembre-febbraio 1966
lato della strada, fino a poco tempo prima c’era la sede delle Edizioni dell’Albero -covo e ritrovo di intellettuali scomodi come Piero Femore, Vittorio Viarengo, Alfredo Cattabiani, e un giovanissimo Enzo Biffi Gentili- poi trasferita in centro, in via Gobetti. E furono Femore e Viarengo a prendere contatto coi francesi per realizzare l’edizione italiana di “Planète” (sulle loro avventure editoriali vedi l’intervista a Vittorio Viarengo nella pagina seguente). In poche decine di metri ronzava insomma una strana ‘centrale di energia’ (parafrasando John Bunchan, uno dei maestri che hanno ispirato il Realismo fantastico), una ‘alleanza di intelligenze’ che contestava le “convergenze parallele” dominanti nella cultura torinese. “Pianeta” è il simbolo di quella controcultura, il prodotto di un’orgia di libertà, è una rivoluzionaria, oserei dire, ‘casa di tolleranza intellettuale’, in cui si supera la tendenza postbellica a ordinare bipolarmente il mondo (destra e sinistra, arte e tecnica, razionalità e fede). Tale peculiarità redazionale ha contribuito a rendere unica la rivista, ma non bisogna dimenticare -come afferma Gabriel Veraldi-
che “il suo carattere innovativo si palesa principalmente nella concezione artistica e grafica. I quattro elementi caratteristici, formato -quadrato 20x20, n.d.r.- tipografia, illustrazione, redazione, non solo sono stati definiti con attenzione, ma sono stati integrati in un tutto coerente” che ha reso la rivista un superbo oggetto da collezione (G. Veraldi, Pauwels ou le malentendu, Grasset, Parigi 1989). In linea col postulato pauwelsiano secondo cui “per essere del presente bisogna essere contemporanei del futuro”, il disegno grafico di “Pianeta”, almeno quando ancora obbediente al ductus francese, precorre i tempi e segna uno scarto evidente rispetto alle pubblicazioni che le sono contemporanee. Allo “stile farmaceutico”, come scrisse Magdalo Mussio, del pur eccellente Giulio Confalonieri dell’avanguardista “Marcatrè” o a quello surrealista e raffinatamente démodé de “Il Delatore” di Bernardino Zapponi, si contrappone prepotentemente lo stile ‘analogico’ di Pierre Chapelot, direttore artistico di “Planète” e delle sue dirette filiazioni, l’erotico “Plexus” e il femminile “Pénéla”. Chapelot
White mentre cammina nello spazio, Un oceanonauta riguarda la grande casa di “Precontinente 2”, omografia cosmonautica, da “Pianeta”, n. 20, gennaio-febbraio 1968
Mi sono arruolato come membro volontario in questa Turin Spaceship Company, e quindi seguo il programma di navigazione indicato. Una rotta intellettuale che ha tra le sue stelle di riferimento Louis Pauwels, il direttore di “Planète” -la celeberrima rivista francese degli anni ’60 la cui edizione italiana venne prodotta a Torino dalle Edizioni dell’Albero e dalla Tipografia Toso- che considerava la fantascienza come una sorta di ‘nuovo futurismo’. Ed è per me -umile studioso, ma tra i primi in Spagna, del Futurismo italiano- immediata la connessione con l’opera di un eclettico ‘secondo futurista’
piemontese, un pittore, artista applicato e poligrafo attivo a Torino, Luigi Colombo detto Fillia (Revello, Cuneo 1904 -Torino 1936). Fillia è personaggio emblematico nel contesto di questo numero di Afterville, pubblicazione collegata al prossimo Congresso Mondiale di Architettura di Torino del 2008 il cui tema generale è Transmitting Architecture. Da un lato, evidentemente, per la sua straordinaria attitudine alla ‘trasmissione’ dell’architettura contemporanea di ‘avanguardia’, testimoniata dai suoi due regesti La nuova architettura del 1931 e Gli ambienti della nuova architettura del 1935, editi dalla Unione Tipografico Editrice di Torino (la stessa UTET ripubblicherà il secondo nel 1985, introdotto da un interessante saggio di Roberto Gabetti intitolato Architetturaambienti: progetto del Secondo Futurismo). Ma d’altro lato, per quanto riguarda il tema specifico di questo numero di Afterville, cioè l’Astronave Torino, è ancora più importante rilevare un aspetto molto meno noto dell’attività di Fillia: egli fu anche scrittore ‘di fantascienza’, e in questa veste studiato
da Barbara Zandrino, ora cattedratica di Letteratura Italiana all’Università di Torino, in un suo fondamentale saggio (B. Zandrino, L’universo meccanico di Fillia, in Le forme del disordine, Sugarco Edizioni, Milano 1981). A questo testo di riferimento ricorro per illustrare brevemente le facoltà anticipatorie e alcune tesi perturbanti del futurista subalpino. Vediamo innanzitutto, con le parole della Zandrino, come Fillia provoca quel folgorante cortocircuito tra antiche civiltà teocratiche e un mondo nuovo scientifico e tecnologico che sarà poi una delle ‘provocazioni’ di “Planète”: “Il raggiungimento di un nuovo livello del sentire è spiegato attraverso l’analisi delle principali tappe dell’evoluzione umana nel corso della storia, con la certezza che ‘nel futuro, giudicando il valore storico del mondo’ si avranno ‘due sole, grandissime divisioni’: le antiche civiltà… che possedevano ‘superiorità architettonica, mancanza dell’individualità astratta, sanità morale’ e la ‘civiltà meccanica’.” E tutto quello che c’è in mezzo, dalla Grecia a Roma sino al Novecento, è invece caratterizzato da “decadenze storiche
inventa per “Pianeta” un linguaggio grafico terribilmente impressivo. Da un lato una composizione asciutta e mirata al massimo grado di leggibilità (non dimentichiamo gli intenti divulgativi di massa), con fotografie a tutta pagina in copertina e una rigida disposizione su due colonne dei testi interni. Dall’altro un copioso uso di immagini -specie fotografiche- certo esteticamente catturanti, certo pertinenti, ma anche perturbanti. Chapelot è fondatore e maestro di un ‘discorso per immagini’: non più solo funzionali, documentarie, ma anche espressivamente autonome; non solo complementari ma talvolta sostitutive rispetto ai testi, in particolare quando, giustapposte a coppie, si riverberano tra loro. La ‘rivoluzione’ grafica scoppia proprio nelle doppie pagine: soggetti e oggetti eterogenei connessi da simmetrie di riflessione o rotazione, accordi cromatici tonali o timbrici, omografie. Con lo scopo di straniare il lettore e con l’intento di stimolarlo ad abbandonare il pensiero razionale per quello ‘analogico’, provocando delle ‘rotture di livello’. Lo stesso Pauwels affermava che “le sole immagini capaci di trasmettere un’idea superiore sono quelle che creano nella coscienza uno stato di sorpresa, di disorientamento”. E le giustapposizioni omografiche di “Pianeta” sprigionano indubbiamente un’aura ovvero, citando un grande torinese diverso, Elémire Zolla, sono capaci di aprire “vortici dove roteano svasati in una coincidenza, in una simultaneità inspiegabile, elementi che dovrebbero esser separati dal tempo e dallo spazio” (E. Zolla, Aure. I luoghi e i riti, Marsilio, Venezia 1981). Fra le omografie quelle cosmonautiche sono tra le più significative. Citiamo due casi esemplari comparsi l’uno sul n. 4, l’altro sul n. 20. Il primo vede l’accostamento di elementi fra loro lontani nel tempo; la pagina di sinistra presenta iconografie di cavalieri medioevali, quella di destra fotografie di astronauti visti come i cavalieri del nuovo millennio. Le immagini accostano soggetti ritratti in momenti sorprendentemente analoghi (la vestizione o la percezione dell’assenza di gravità) e il risultato è un ‘reportage atipico’, che dalle omografie trae un plus-valore concettuale e induce a riflettere sul tema della circolarità del tempo, su “tempi nuovi che pure sono ritrovati”. Il secondo vede l’accostamento di elementi iconografici separati nello spazio: la pagina di sinistra presenta la fotografia di un astronauta, quella di destra quella di un subacqueo. Entrambi liberi da gravità, alla scoperta degli ‘universi invisibili’. La veste grafica di “Pianeta” contribuirà molto al fascino che la rivista da subito eserciterà sul pubblico e sugli artisti, a partire da quel Jean Triffez che con Louis Pauwels ha promosso la prima collettiva di pittura dedicata al Realismo fantastico, e che oggi proprio al MIAAO viene riscoperto. Come a voler restare in tema con gli argomenti trattati, agli inizi degli anni Settanta l’edizione torinese della rivista “Pianeta”-poi editorialmente gestita in toto dai Toso (Roberto ne diverrà il redattore capo) e graficamente un po’ ‘tradita’ dall’ingresso di Rinaldo Del Sordo- è da considerarsi dispersa nello spazio culturale italiano. Un caso editoriale sorprendente, sorprendentemente svanito. In Francia non era andata molto meglio. Nell’ultimo editoriale su “Planète”, Louis Pauwels affermava che la rivista aveva “compiuto la sua missione” e raggiunto i suoi “sediziosi propositi”, quando cioè aveva aperto una inarrestabile crepa nella cultura del tempo. Solo nel 1996 si sentirà il bisogno di commemorare “Planète” con un’antologia di testi e immagini a cura di Gabriel Veraldi, introdotta da Louis Pauwels e Jacques Mousseau (Planète, Éditions du Rocher, Parigi 1996). Qui noi, dieci anni dopo, riapriamo quella fessura, quella ferita che troppo in fretta si era sanata sul ‘corpo culturale’ francese, e torinese. Con la speranza che riprenda a sanguinare. -debolezze costruttive- sterilità dei sensi” e “inutili masturbazioni cerebrali”. Mentre l’uomo futurista e futuro diviene una “meraviglia elettrica” e viene “trasformato nelle sue percezioni e nel suo essere dalle grandi scoperte scientifiche e in primo luogo dalla relatività di spazio e tempo, dalla nuova strumentazione tecnologica dell’industria, delle comunicazioni e delle informazioni”. Questa trasformazione viene descritta nei suoi esiti estremi da Fillia nel capitolo La vita di domani del suo libro La morte della donna. Romanzo a novelle collegate, pubblicato dalle Edizioni Sindacati Artistici a Torino nel 1925, dove, scrive il nostro, in una Centrale Meccanica “maschi e femmine non si distinguevano che per il contrassegno in metallo con il proprio numero” e “questa rassomiglianza estetica meccanizzava l’umanità”. L’indifferenziazione sessuale non impedisce i rapporti, ridotti tuttavia anch’essi ad atto biomeccanico, o il matrimonio, che diviene atto solo burocratico, senza “nessuna emozione, nessuna sfumatura di sentimento”. Questa indagine su nuove frontiere ‘di
“Se un astronauta dovesse camminare sulla Luna senza protezione, i gas che si trovano all’interno del suo corpo si libererebbero e i liquidi contenuti nel suo organismo si metterebbero a bollire, volatilizzandosi rapidamente a causa del calore interno e della mancanza di pressione esterna. Inoltre, l’astronauta passerebbe attraverso diversi stadi di anossiemia -dalla perdita del senso di orientamento sino al soffocamento per mancanza di ossigeno. Infatti, l’ossigeno presente nel suo sangue e nei suoi tessuti polmonari fuggirebbe verso l’esterno. A temperature varianti da +120° gradi centigradi a -120°, degli stivali e una tenuta di volo normali non costituirebbero la minima protezione: l’astronauta ‘cuocerebbe’ durante il giorno e si trasformerebbe in un ghiacciolo durante la notte. Inoltre, i raggi ultravioletti e infrarossi del sole, intensamente attivi a elevatissima altitudine, lo renderebbero probabilmente cieco”: Terrificante, quasi horror questa rappresentazione del redattore di “Science and Technology” Matthew I. Radnofsky tradotta sull’edizione torinese di “Pianeta”, (Come vestire un cosmonauta?, in “Pianeta” n. 17, luglio-agosto 1967). Nel proseguimento dell’articolo, l’autore spiega le soluzioni nel frattempo trovate, prospettando anche i nuovi progetti di tute aerospaziali studiati negli Stati Uniti per i progetti Mercury, Gemini, Apollo: rigide, flessibili, articolate, sospendendo infine il giudizio sulla migliore soluzione. Interrogandosi così, in conclusione: “L’astronauta del 2000 sarà mezzo uomo e mezzo bidone?”. Chi l’avrebbe mai detto, che una risposta a quella bella domanda sarebbe venuta da Biella, da una postazione occupata da un po’ ‘scorretto’ Pier Paolo Benedetto: “Evvai, magnifico Flash Gordon, porta ancora una volta i miei sogni sul pianeta Mongo. Ci aspetta il perfido Ming. Scattano i tuoi pettorali sotto la tuta che li fascia con eleganza. C’è la bella Aura prigioniera da liberare. Crash, bang. È fatta. Chi poteva dubitare. Rientro soft sul razzo di Zarkov, domani si riparte magari con a bordo il giovane Nembo Kid classe 1954, vent’anni meno di te. Tuta blu a cintura rossa. Andiamo c’è anche Barbarella (anno 1967) alias Jane Fonda, prorompente di tetta e di chiappa con l’abito spaziale di Paco Rabanne, plastica trasparente (ma non troppo, Roger Vadim vorrebbe di più ma la censura non scherza). Oggi festeggiamo Yanga in quel di Crevacuore piccolo centro biellese la nuova tuta studiata apposta per i fratelli della Nasa. Sottile come l’ala
Tuta Yanga, Courtesy Zaira Beretta, Galleria Zaion, Biella
di una farfalla trattiene il sangue al posto giusto; evita che vada tutto al cervello e lo faccia scoppiare. Mica sapevamo noi usciti dalla matita di Alex Raymond che il sangue se ne va per conto suo quando la gravità è al punto zero. A noi la tuta serviva per mostrare quel che bastava ad innescare torbide fantasie, laggiù tra ragazzi senza tv. Nostalgia di pacchi esibiti e di zinne mal trattenute, magnifiche curve callipigie di seleniche creature vogliose e perfide armate di pistole lancia raggi. Poi sempre anni Sessanta, i nostri, Mister-X, Satanik (con la bionda inguantata di rosso), Superman e Thor l’uomo venuto dal domani, l’Uomo Ragno roba di ieri ma ancora buona. E sempre il corteo di bellissime inguainate. Yanga produce a Crevacuore maglieria supertecnologica, in sintonia stretta con il progetto TessileSalute del Cnr di Biella: dalla tuta per astronauta al gambaletto salva trombo per passeggero turista in charter di classe proletaria. Stare rigidi in breve spazio nuoce a tutti e nessuno lo sa. La pregiata ditta Beretta Pietro Giacomo & Salvemini Carlo salva il trombo evitando che subdolo raggiunga il cuore: Crevacuore (Crepacuore?) Salvacuore; scienza e fantascienza hanno stretto un patto portandoci via il mistero, il sogno di viaggi interplanetari. Yanga nome che sa di stelle, un poco ci consola”.
Come vestire un cosmonauta?, da “Pianeta”, n. 17, luglio-agosto 1967
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“C’è un altro mondo nel nostro mondo”, diceva Louis Pauwels, fondatore e direttore di “Planète”. Un’altra dimensione che può essere percepita da chi si libera “dal velo del sonno intellettuale, delle abitudini, dei pregiudizi, dei conformismi”. E c’era un’altra Torino nella nostra Torino. Una città di “culture sommerse”, di alcuni uomini provati, le cui cicatrici però ancora pulsano, di altri invece spariti, o spirati. Profittando dell’atterraggio dell’Astronave Torino al MIAAO vogliamo far riemergere un frammento ‘in tema’ di quella città e di quelle culture. Vogliamo riconsegnare a ‘l’universo visibile’ quella che fu una pietra miliare anche nella storia della grafica editoriale europea e italiana: “Pianeta. la prima rivista da biblioteca”, emblema di un ‘pensiero laterale’ sviluppatosi negli anni ’60 e ’70 a partire appunto dal Realismo fantastico francese e di cui oggi non resta quasi traccia critica. Ingiustamente. Perché “Pianeta” ha segnato un’epoca. Ma per meglio comprendere, si proceda con ordine. Francia, 1960. Dopo cinque anni di ricerche il giornalista e scrittore Louis Pauwels e il chimico Jacques Bergier pubblicano da Gallimard Le matin de magiciens. Introduction au réalisme fantastique. È un successo planetario: innumerevoli saranno le edizioni successive, in moltissime lingue: un Codice da Vinci, ma non cialtronesco. E non è un romanzo; non è un trattato sulla fantascienza; non è un’antologia di fatti insoliti; non è un saggio scientifico o filosofico: è tutte queste cose insieme. Tratta di “universi paralleli”, di “mutamento della specie”, di “origine extraumana del sapere”, è insomma il “manuale del pensiero differente” -come lo ha definito Grégory Gutierez in una tesi di laurea fondamentale scaricabile dal web (G. Gutierez, Le discours du réalisme fantastique: la revue Planète, Mémoire LF499, Année universitaire 1997-1998 Université Sorbonne, Paris IV, UFR de Langue Française Maîtrise de Lettres Modernes Spécialisées). Il mattino dei maghi coniuga vecchi miti e futuri possibili un punto di vista nuovo, “cercato nella direzione dell’ultracoscienza e della veglia superiore”, da cui guardare alla realtà che muta al ritmo delle conquiste scientifiche, in primis quelle spaziali. “Planète”, fondata da Pauwels nel 1961, è l’organo di diffusione di massa del Realismo fantastico. Il suo successo (100.000 copie vendute ogni numero) determina l’istituzione di numerose redazioni straniere che, accanto a traduzioni di saggi già comparsi in edizione francese, propongono contributi gemmati dal contesto intellettuale locale. Italia, Torino, 1965. Borgata Parella, via Carlo Capelli. Al numero civico 93, nella tipografia Toso si stampa l’edizione italiana di “Planète”, “Pianeta”, direttore Giuseppe Selvaggi. A qualche metro di distanza, dall’altro
autunno-inverno 2007
Può darsi che portiamo in noi l'uomo che viene dopo l'uomo Louis Pauwels Qu'est-ce que Planete?,1964 genere’ prefigura un altro degli interessi del gruppo di “Planète”: come saggista Pauwels teorizzerà una “fine della monogamia”, come editore darà vita a “Plexus. La revue qui décomplexe”, anch’essa poi tradotta e pubblicata a Torino dalle Edizioni Dellavalle, eredi erotiche delle Edizioni Dell’Albero. Concludo questa breve nota accennando a un terzo scabroso argomento, quello politico. Mi soccorre di nuovo la Zandrino, quando denuncia come “l’adesione totale alla civiltà tecnologica” di Fillia, e il futuro “paradiso artificiale” popolato da “calvi ermafroditi, veri e propri mutanti”, rivelino “la tendenza a un’organizzazione totalitaria della società”. Si riapre così la vessata questione della ‘cultura di destra’: il ‘terzo futurismo’ di “Planète” soffre ancora in Francia di una certa damnatio memoriae sia per alcune sue costitutive intrinseche ambiguità sia per le successive vicende giornalistiche del Pauwels polemista e direttore del “Figaro Magazine”. Questione particolarmente imbarazzante qui a Torino, ma da riaprire senza complessi: in fondo stiamo discutendo di fantascienza, non di resistenza.
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Copertina del libro di Fillia La morte della donna Edizioni Sindacati Artistici, Torino 1925
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architetture grafiche dell’albero e dellavalle
La pubblicazione in versione italiana della rivista “Planète” appartiene a un capitolo della storia editoriale torinese quasi completamente cancellato. Per restaurarlo Elisa Facchin ha intervistato chi lo scrisse: Vittorio Viarengo, socio fondatore con lo scomparso Piero Femore delle Edizioni Dell’Albero e Dellavalle, che ci guida in questo viaggio nel tempo, ricostruito in otto tappe: Il principio fu Gentile È il 1961. Torino, Palazzo Campana, Facoltà di Lettere. Il ventiseienne astigiano Piero Femore presiede una riunione di giovani universitari. Fra il pubblico il ventiquattrenne torinese Vittorio Viarengo -iscritto senza profitto al Politecnico- che sin dal primo istante cade vittima del fascino di quell’‘incantatore di serpenti’. La sera di quello stesso giorno i due passeggiano e chiacchierano a lungo. Galeotto fu Gentile, primo tema di conversazione, nonché soggetto della tesi di Laurea in Filosofia -a Magisterodi Femore. Ideologicamente si scoprono compatibili: Femore un po’ fascista e agnostico, Viarengo anch’egli di destra -per vissuto familiare- ma integralista cattolico, allevato dai Gesuiti e appartenente alla Congregazione Mariana. In varia compagnia, tra politica e sociologia Dopo l’incontro di quella notte, quasi a suggellare la neonata affinità intellettuale, Femore e Viarengo fondano un gruppo denominato Studi e ricerche politiche e sociologiche, a cui parteciperanno, fra gli altri, l’evoliano Ennio Inaurato futuro architetto, il guénoniano piacentino Giovanni Cantoni, Gianni Baget Bozzo e Don Cuniberto, segretario del Cardinal Pellegrino. Sono quelli gli anni in cui il gruppo frequenta con assiduità, reverenza e confidenza il filosofo Augusto Del Noce. Edizioni Dell’Albero (1963-1968) “Un lustro che vale trent’anni”. Così Viarengo descrive il travagliato, intenso periodo di attività delle Edizioni Dell’Albero, esito professionale del citato gruppo di Studi e ricerche politiche e sociologiche. All’ombra Dell’Albero collaborano personaggi come Alfredo Cattabiani, poi anima delle Edizioni Rusconi e Piero Capello, giornalista de “Il Borghese”. Dal punto di vista della linea editoriale, le Edizioni Dell’Albero -pur sganciate dalla cultura torinese ufficiale ma anche da
qualsiasi preciso ancoraggio politico o partitico- si pongono come obiettivo lo ‘sdoganamento’ di certa alta cultura di destra, allora, nella città dell’Einaudi, considerata improponibile. Dice Viarengo: “La Dell’Albero era una casa dove vigeva la regola non scritta dell’apertura nei confronti di tutto. Il modello a cui ci ispiravamo era la casa editrice francese La Table Ronde”. Una ‘casa di tolleranza intellettuale’ che tra i primi volumi pubblica La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle e La grande paura dei benpensanti di Georges Bernanos. Testi il cui valore viene riconosciuto persino da qualche intelligente critico di parte avversa. Se ottenere i diritti per la pubblicazione dei testi è semplice e poco costoso per l’assenza di concorrenza, le difficoltà riguardano soprattutto la distribuzione (le uniche che accettano l’incarico sono le Messaggerie Cattoliche), e la creazione di un pubblico. Il ‘giroromano’ Alla ricerca di nuovi finanziamenti, Femore e Viarengo si spingono fino a Roma. Qui conoscono Fausto Gianfranceschi, direttore della terza pagina de “Il tempo” -per la Dell’Albero Gianfranceschi tradurrà il Diario di un genio di Salvador Dalíprimo di una serie di importanti collaboratori che i nostri subalpini etichetteranno tutti insieme col goliardico appellativo di ‘giroromano’. Si tratta di Luce D’Eramo, Antonio Altomonte, Franco Simongini, Giuseppe Selvaggi (giornalista de “Il messaggero” che per la Dell’Albero pubblicherà Cento pittori e una modella). Quest’ultimo inoltre sarà prima redattore responsabile (dal numero 7) poi direttore responsabile (dal numero 29) dell’edizione italo-torinese di “Planète”. La scoperta di “Pianeta” (1965-1966) I primi sei numeri ‘italiani’ di “Pianeta” erano stati editi dalla LEUP di Firenze. Femore e Viarengo, interessati al Realismo fantastico di Pauwels e Bergier e a conoscenza di un non felicissimo esito economico di quell’impresa, si prefiggono l’obbiettivo di subentrare ai fiorentini. Complice Daniel Filipacchi a Parigi, la Dell’Albero ottiene i diritti dell’edizione italiana di “Planète”. Il numero 7 dell’aprilemaggio 1965 viene pertanto stampato a Torino dalle Edizioni Pianeta, compagnia fondata ad hoc dalla Dell’Albero. I due numeri successivi sono editi da una Compagnia Editoriale, creata al cinquanta
André Béguin, illustrazione per Isaac Asimov, Seconde Fondation, Denoël, Paris 1966 Archivio SSAA, Torino
per cento con i tipografi Toso. A partire dal numero 10, considerati i persistenti problemi finanziari delle Edizioni Dell’Albero e nonostante “Pianeta” vendesse in Italia circa 10.000 copie, le quote della Compagnia Editoriale vengono cedute interamente ai Toso che proseguiranno nell’impresa sino al 1975, a riprova di un successo insolito per una rivista di cultura. Svoltare a sinistra Dice Viarengo: “Noi avevamo intrapreso
l’avventura delle Edizioni Dell’Albero consapevoli della mancanza di una vera, coerente, concreta cultura di destra. E ritenevamo utile cominciare a imparare dalla sinistra a far cultura. Ci siamo quindi dati allo studio del Gramsci de Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura. La lettura di Gramsci ha portato me e Piero a transitare su altre posizioni”. Istigatore di questo ‘deviazionismo’ politico-ideologico è stato anche Francesco Bernardelli, critico teatrale de
“La Stampa”, che intorno al 1966 ha messo in contatto Femore e Viarengo con Franco Antonicelli e quindi col giro Einaudi. Da lì sono cominciate durature frequentazioni con Giorgio Bocca, Angelo Del Boca, Mario Giovana (che con Dell’Albero pubblica Le nuove camicie nere). “Lui” e “Io” (1967-1968) A causa di alcune iniziative non premiate e di un comprensibile disorientamento dei lettori, nel 1967 la Dell’Albero versa ormai in una situazione finanziaria pressoché disastrosa. Dopo un incontro a Parigi con l’amico Filipacchi si decide di tentare la pubblicazione di una versione italiana di “Lui. Le magazine pour l’homme moderne”. Viene fondata ad hoc una nuova società con Guido Accornero, commercialista delle Edizioni Dell’Albero, la Compagnia Gestione Stampa. Di “Lui” escono 8 numeri, ma, probabilmente perché troppo elegante e castigata per i gusti de ‘l’uomo moderno italiano’, ben presto fallisce. A “Lui” segue “Io”, più disinvolta e ‘slacciata’, che riscuote un successo strepitoso: oltre 100.000 copie esaurite in due giorni. Col ricavato dei primi due numeri si pagano le cambiali e si chiudono dignitosamente le Edizioni Dell’Albero. Dell’Albero e Dellavalle (1969- 1972) Nel 1969 i nostri fondano le Edizioni Dellavalle, assorbendo le galline dalle uova d’oro di “Io”. La nuova casa editrice non vuole più sdoganare culture eretiche, ma raffinatamente erotiche, con rischi d’altra natura. Difatti la loro traduzione dell’Emmanuelle di Emmanuelle Arsan viene immediatamente sequestrata e inizia una lunga serie di denunce, alcune assurde: affrontano persino un processo anche per l’edizione italiana de La religieuse di Diderot. Ed è importante qui notare che il vecchio amore per “Planète” non è estinto, ma anzi si ravviva, in una direzione orientata “più in basso”, con l’edizione di una sua filiazione di più facili costumi, “Plexus”. Altri sequestri. E così nel 1972 la Dellavalle fallisce anche per errori, ad altri dovuti, nei rilevamenti e nelle proiezioni delle vendite. Finita l’epoca dell’editoria, i due, provati, dopo qualche tempo prenderanno due direzioni: Femore la libreria, divenendo l’instancabile animatore della Campus; Viarengo la tipografia, diventando abile dirigente commerciale della Canale.
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Per tutta la mia vita sono stato uno straccione erudito
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Jacques Bergier Mémoires crépuscolaires
Sul primo numero dell’ edizione ‘torinese’ di “Pianeta” (n. 7, aprile-maggio1965) compariva la trascrizione di un dibattito sul tema Mondo futuro. Esercitatevi alla fanta-politica. Tra gli invitati, tutti ‘spaziali’ -da Asimov a Clarke, da Bradbury a Sturgeon- spiccava il ‘provocatore’ John W, Campbell, l’editore della celebre rivista di fantascienza “Analog”, del quale qui pubblichiamo l’intervento a controprova di una entrée scandalosa sulla scena culturale subalpina: “La nostra malattia: l’iperdemocrazia Gli Stati Uniti soffrono attualmente di una grave malattia: l’iperdemocrazia. La democrazia è necessaria, ed anche l’acqua. Ingerendo una quantità eccessiva d’acqua, però, ci si può ammalare. Hanno insegnato agli americani che tutti gli uomini sono eguali. Ma è uno sbaglio: gli Indiani peruviani possono giocare al calcio a 4000 di altitudine, ma Americani o Europei no. Hanno fatto pedalare un ingegnere americano su una bicicletta fissa a 14000 piedi di altitudine: ha resistito 8 minuti e poi è crollato, mentre gli Indiani peruviani hanno resistito in media 90 minuti. Non si può fare niente contro questa superiorità genetica. Ed è appunto quest’attitudine iperdemocratica che, negando l’esistenza fra noi di esseri che ci sono generalmente superiori, induce l’opinione pubblica e quella scientifica -che ne è un riflesso, essendo gli scienziati uomini anch’essi- ad essere così fortemente avverse alla parapsicologia. La costituzione degli Stati Uniti non dà a nessuno il potere di diventare un
sotto Jacques Bergier ritratto sulla copertina di un suo libro sullo sfondo di un’opera di Triffez
sopra Manoscritto del XIII secolo, Durante l'allenamento Nicolaiev scopre la gravità omografia cosmonautica da “Pianeta”, n. 4, ottobre-novembre 1964
telepatico. Nessuna legislazione potrà mai togliere ai telepatici la loro capacità per distribuirla agli altri cittadini della libera America. Nessuna legge antitrust potrà mai obbligare persone in possesso di facoltà straordinarie, e non importa se siano radicate sul terreno parapsicologico oppure su quello della genialità, a dividerle con la totalità dl popolo americano. Certo, una iperdemocrazia americana cerca di punire il genio, togliendogli la maggior parte dei suoi guadagni con le tasse. Chi, per caso, trova un pozzo di petrolio del valore di dieci milioni di dollari ha avuto solo fortuna e la fortuna non è contraria alle leggi della iperdemocrazia. Pagherà solo il 25% di tasse su questi dieci milioni di dollari. Ma chi guadagna dieci milioni di dollari con una sua invenzione è un nemico del popolo, un antisociale. L’iperdemocrazia gli fa pagare il 90% di tasse su questi dieci milioni di dollari. Il popolo americano non vuole dei capi che gli facciano vedere quello di cui abbisogna: questo lo disturba. Vuole,
invece, servi, che gli diano quel che vuole; e quel che vuole è poter dire: ‘Il mio piccolo Johnny vale quanto qualunque altro in questo paese’. Anche se il piccolo Johnny è un idiota. E tutta un’educazione, tutta quanta una società hanno le loro basi su questo. Ci dicono di essere socievoli, ci dicono che bisogna farsi degli amici ed influenzare la gente, che bisogna vivere con i nostri contemporanei. Ma, io: John Campbell, non ci tengo a vivere con degli imbecilli. E non tengo neppure ad infliggere la mia presenza a dei geni. Essere un individuo diverso dagli altri è l’unico vero diritto. Franklin Roosevelt è un individuo che ci diede la bomba atomica, in virtù di una decisione presa da un individuo. Dopo di che, solo la paura dei Russi ci obbligò bene o male, direi piuttosto male che bene, a fabbricare la bomba H e, in seguito, ad andare nello spazio. Per me l’iperdemocrazia americana è una tirannide, e la tirannide si combatte. La politica è basata essenzialmente su
questa proposizione: Voi avete altrettanto diritto alla vostra opinione che io ad avere la mia. È idiota. È falso. Conta unicamente l’opinione dell’universo e non abbiamo diritto ad aver torto in questo mondo. Le società sono costruite all’inizio da uomini fuori della normalità, eccezionalmente brillanti. Così è accaduto negli Stati Uniti con Washington, Jefferson, Franklin, Hamilton. Poi la grande massa si immischia e la società finisce rapidamente con l’immobilizzarsi. Si cerca allora un capro espiatorio: i cristiani a Roma, gli ebrei sotto Hitler, i comunisti negli Stati Unti. La situazione continua ad aggravarsi, si cerca un Capo. Questo Capo rappresenta i desideri incoscienti del popolino. Si cerca un essere che faccia quel che gli idioti farebbero se fossero al comando, e cioè sciocchezze madornali. Il vero problema della politica è di poter permettere che uomini eccezionalmente intelligenti prendano il timone della società. Questo problema non è ancora stato risolto”.
Michel Plaisir, illustrazione di una “novella erobotica” di Belen in “Plexus”, edizione italiana n. 2, aprile 1969
Nel mese fatale del maggio 1968 un giovane torinese che diverrà poi famoso come giornalista sportivo, Gian Paolo Ormezzano, scriveva sul numero 14 di “Plexus” , erotica rivista francese gemmata da “Planète”, anch’essa diretta da Louis Pauwels e impaginata da Pierre Chapelot, un articolo intitolato L’Italie a le mal du sexe. Si trattava di un attento sguardo s u l l ’ i m p ro v v i s a p o d e ro s a eruzione editoriale, all’epoca, di riviste e rivistine arrazzanti, da “Men” a “Playmen”; da “Supersex”, fotoromanzo fantaerotico a “Sexybell la regina del fantasesso”; da “King” a “Kent” a “Io”… Quest’ultima testata si distingueva, secondo Ormezzano, per una sua curiosa caratteristica: “Io, mensuel, 500 lires, tirage: 130.000 exemplaires, est fait par un groupe de jeunes intellectuels, dans le bout avoué et peut-être très louable de gagner de l’argent, afin d’éditer des livres difficiles” . Possiamo adesso andare più a fondo : “Io” era pubblicata a Torino da Dellavalle Editore, impresa immediatamente successiva alle Edizioni dell’Albero e sempre condotta da Piero Femore e Vittorio Viarengo (si leggano al proposito su queste stesse pagine le importanti rivelazioni storiche di Elisa Facchin). Nella redazione di “Io” insomma di respirava un’ air de Paris mentre altrove regnava l’afrore, perché in Italia “le public affamé reclamait sa pâture” scriveva sempre Ormezzano, corroborando il suo discorso con gustosi aneddoti come il seguente: “Des militaires cantonnés en Calabre ont écrit à certaines de ces publications en leur suggérant de devenir quotidiennes…”. Questa atavica fame del popolo italiano commosse persino censura e magistratura: paradossalmente, segnalava Ormezzano, più tolleranti verso rivistine da leggersi con una mano sola che verso quelle più sofisticate: “Si on tolère les revues érotiques italiennes, en revanche Plexus, Lui et Playboy ne sont pas en vente libre (…). L’Italie protège son patrimoine érotique” proprio perché, come diceva Onan, “on n’est jamais si bien servi que par soi-même”. Ebbene, i torinesi Femore e Viarengo, non contenti di aver già edito, prima di “Io”, “Lui”, pubblicheranno anche nel 1969 la versione italiana di “Plexus”. Con un direttore eccentrico come l’artista Valerio Miroglio e una redazione, e collaborazioni, d’eccezione: Gian Renzo Morteo, Fernanda Pivano, Adriano Spatola, e poi Nico Orengo, Paolo Fossati… tutti più o meno eroticamente arruolati. Evidentemente, già il primo numero, nonostante i nostri avessero apposto una fascetta con su scritto “non sequestrare, grazie”, fu immediatamente sequestrato, mentre furono ignorate, lamentava sul secondo numero Miroglio, le “centinaia di migliaia di pubblicazioni masosado-inverto-pornografiche”, e tutto ciò perché “Plexus rompe le scatole ai pianificatori dell’incretinimento sociale”. Prima tribunali e cancellerie accompagneranno Dellavalle alla morte, poi la città contribuirà alla sua cancellazione: a Torino la locuzione mal du sexe va intesa in tutt’ altra accezione…
ricerche spaziali I jean triffez
Jean Triffez, Vie souterraine, 1971, tecnica mista e aerografo su tela, cm 100x80, Archivio SSAA, Torino, foto Ernani Orcorte/MIAAO
ma anche su di un patrimonio di conoscenze più complesse e inquiete. Sin dai suoi studi superiori e universitari, conclusi da una maîtrise in in lettere e filosofia, presso l’Institut Saint-Louis di Bruxelles,
Jean Triffez, L'espoir fou, 1970, olio su tela, cm 100x70, Archivio SSAA, Torino foto Studioelletorino
scuola diocesana secolare frequentata all’epoca anche dai pressoché coetanei Jacques Brel, futuro cantante, e da Pierre Culliford, poi autore, con lo pseudonimo di Peyo, degli Schtroumps ovvero dei Puffi, è affascinato insieme dal magistero dei Gesuiti e da un misticismo ed esoterismo cattolico ‘di frontiera’. Anche quando quella frontiera sarà varcata per esplorare i territori del pensiero ‘magico’, la sua prima formazione resta fondamentale per intenderne l’opera. Tra le sue fonti spirituali egli infatti nel tempo iscrive Georges Ivanovic Gurdjieff, prova di interessi condivisi con Pauwels, che non solo dedicò un capitolo de Il Mattino dei Maghi a questa enigmatica figura ma, precedentemente, un libro intiero (L. Pauwels, Monsieur Gurdjieff, Editions du Seuil, Paris 1954) e il ‘gurdjieffiano’ René Daumal, il cui Monte Analogo è tra i livres de chevet di Triffez. Ma diviene cultore anche dell’inquietante Eliphas Levi, l’ex abate cattolico francese Alphonse-Louis Constant, “la cui opera non riuscì mai a scrollarsi di dosso i condizionamenti di quella Chiesa dalla quale, se decise si allontanarsi per inaccettabili divergenze teologiche e di pensiero, continuava ad essere epistemologicamente non del tutto indipendente…” (A. Bruno, Un mago da riscoprire: Eliphas Levi, in “Edicolaweb”). Altre auctoritates sono dichiarate sin dal titolo di alcuni suoi quadri del 1962, come l’Hommage à Teilhard de Chardin, di nuovo un gesuita -e nume tutelare della filosofia ‘evoluzionista’ di “Planète”- e l’Hommage à Jorge Luis Borges, collaboratore illustre della rivista. Questo omaggio, letterario, introduce la questione, oltre quella della spiritualità, di una ‘letterarietà’ dell’opera di Triffez, di nuovo evidenziabile da quasi tutti i titoli, estremamente suggestivi e sovente redatti con l’apporto della moglie Hélène, dei suoi lavori dagli anni ’60 agli ’80 all’inizio dei quali morì e dei quali forniamo solo qualche esempio tra gli innumerevoli: Voyage au bout de la Nuit del 1962, Grande masque du Néant del 1969, À la recherche du Graal un soir de Carnaval del 1977, La lumière astrale est la réalisation de la lumière de Dieu del 1982, sintomi questi ultimi due di un ritorno “il tempo non essendo rettilineo” scriveva Triffez- alla speranza religiosa… Tuttavia, nonostante tutta questa ‘letterarietà’ e le molteplici interferenze nelle ascendenze culturali quello che avrebbe presto
allontanato il pittore belga dagli ambienti di “Planète” -al di là di pur non indifferenti dissidi politici e di piuttosto irrilevanti questioni riguardanti l’uso non autorizzato di alcune sue immagini- era l’intrinseca natura della sua pittura, sostanzialmente ‘astratta’ sin dall’inizio degli anni ’60, al di là di una fase di ‘rappresentazioni’ cosmiche connesse alle scoperte spaziali. Difatti, Triffez non avrebbe potuto -e non avrebbe voluto- essere inserito in quel volume, progettato nel 1972 dalla rivista olandese “Bres” e pubblicato nel 1973 dalle Éditions Opta di Parigi a cura di Jean-Claude Guilbert, intitolato Le réalisme fantastique. 40 peintres européens de l’imaginaire e dedicato ai ‘quattro moschettieri’ di “Planète” Louis Pauwels, Jacques Bergier, François Richaudeau e Pierre Chapelot. E non tanto per il carattere ‘figurativo’ delle immagini degli artisti lì collazionati -alcuni grandi maestri, molti petit-maîtres, troppi artisti imbarazzanti e qualche pittoraccioquanto per una tesi teorica di fondo esposta nella prefazione. Per Guilbert infatti la caratteristica essenziale della pittura fantastica, “à l’opposé de la peinture plastique, de la peinture-peinture, est de se référer beaucoup plus à la dimension temporelle qu’à l’espace”. Mentre, scriverà Triffez in un inedito documento chirografato del 1977 pressoché integralmente trascritto e tradotto in queste pagine, dopo l’esposizione alla galleria Dulac del 1963 la sua ricerca diviene più scientifica e analitica, indaga sulla terza e la quarta dimensione e “le seul problème fut de réprésenter les rapports de l’espace et de la lumière”. Lo stesso manoscritto sarà concluso dalla parola “ESPACE”, così, in lettere maiuscole. Lo ‘spazialista’ Triffez entra allora in un espace vague: da un lato perde i contatti con un ambiente culturale che era e sarà potente -rammentiamo che dopo la chiusura di “Planète” Louis Pauwels diverrà nella seconda metà degli anni ’70 con il “Figaro Magazine” un punto di riferimento ‘reazionario’, del dibattito culturale in Francia- si trova anche in difficoltà con il milieu artistico di ‘avanguardia’ i cui esponenti non potevano accettare le sue sofisticate sperimentazioni percettive e luministiche, le sue esplorazioni spaziali, per un sostrato simbolista, esoterico e spiritualista mai rinnegato e per una attenzione e perizia tecnica, nella fattura dell’opera, estreme.
Jean Pourbaix nasce borghese, da un padre farmacista, un notabile attento al soldo, con cui si intenderà sempre poco, nel 1931 a Houdeng-Goegnies, nella provincia di Hainaut, in Belgio, un piccolo comune attraversato da tre corsi d’acqua, all’ombra delle gigantesche macchine ferrigne del Canal du Centre, quegli ascensori idraulici per battelli che poi diverranno Patrimonio dell’Umanità. Quel plat pays per certi versi lo affascina, anche iconograficamente, per altri gli va stretto: sa che etimologicamente houdeng è connesso a houx, l’alloro spinoso, e da precoce cultore di icononologia egli intravede il suo destino. Appena può, dopo studi umanistici spiritualmente -e molto cattolicamente- ispirati, se ne va senza un soldo a Parigi per fare l’artista. Un classico degli anni ’40: Saint-Germaindes-Près, l’esistenzialismo, il jazz, Boris Vian, j’ irai cracher… e quindi non può più chiamarsi Pourbaix e opta per il nom de pinceau Triffez. Da Parigi poi, tra il 1948 e il 1953 verso il Sud della Francia: Saint-Tropez, Antibes, Nizza, Cagnes, en plein soleil, altra meta obbligata per certe peripezie di individuazione artistica. Laggiù conosce Jean Cocteau, persino Henri Matisse, che lo incoraggia a intraprendere la carriera di pittore, e tra molti altri il nostro Manfredo Borsi, il primo che gli mostrerà “le fond du problème: donner à la peinture un support faisant corps avec son époque”. La massima, un po’ sibillina, gli apparirà chiara solo dopo alcuni anni, ai tempi della pittura ‘spaziale’ con tutte le sue connesse sperimentazioni materiche e tecniche. Nel 1953 incontra a Haut-de-Cagnes la futura moglie Hélène San-Galli -si veda il box nella pagina successiva- e da quel momento non si separeranno più. Dopo due anni trascorsi di nuovo in patria, segnati negativamente dal servizio militare obbligatorio e positivamente dalla nascita, nel 1955, della figlia Tamara -lei stessa poi artistariprende dall’anno successivo i suoi viaggi verso il Sud dell’Europa -la Grecia, la Spagna- e, oltre, l’Africa, in Marocco, a Tangeri, e qui il milieu artistico e umano è ancora d’altro tipo, e il trip pure… Poi di nuovo in Belgio, dove nel 1958 la straordinaria Esposizione Universale di Bruxelles qualcosa gli lascia in tema di immaginario nucleare e spaziale e scientifico -è molto colpito dalla ‘architettura musicale’ del paraboloide iperbolico ‘elettronico’ del Padiglione Philips di Jannis Xenakis e di Le Corbusier- e dove due anni dopo nasce il secondo figlio, Jean Manuel. È un’epoca di frequentazioni altolocate e di salotti aristocratici, nei quali fa l’importante conoscenza, anche artisticamente, di Louis Pauwels (vedi il testo Breve incontro a fianco). E inizia la transizione verso una pittura ‘cosmica’, tuttavia ancora limitata al nostro sistema solare… Nel 1962 a Londra, alla Woodstock Gallery, in una sua personale onorata dalla visita del Principe Filippo di Edimburgo -‘lascito’ delle trascorse frequentazione nobiliari a Bruxelles- alcuni titoli rivelano una definitiva ‘entrata in orbita’: Soleil noir, Cité future, Mer astrale, D’un monde à l’autre, Planète… e infatti, l’anno dopo, di nuovo a Parigi, organizza con Louis Pauwels la mostra del Realismo fantastico alla Galerie Dulac.
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“Mon cher Triffez, il ne passe pas de jour sans qu’un de mes visiteurs ne tombe en arrêt devant votre tableau qui orne mon bureau de la rue du Berri. Que devenez-vous?”. È il testo di un biglietto dattiloscritto datato 4 giugno 1964, firmato Louis Pauwels, inviato dall’ufficio di Parigi del direttore della rivista “Planète” al pittore Jean Triffez a Bruxelles. Una inedita prova documentale, recentemente acquisita dal Seminario Superiore di Arti Applicate di Torino, che da un lato dimostra un apprezzamento per l’opera dell’artista belga, dall’altro un allentamento di rapporti personali e professionali. Eppure l’incontro tra i due intellettuali compatrioti (Pauwels era nato a Gand nel 1920, Triffez a Houdeng-Goegnies nel 1931) era stato assolutamente determinante: fu infatti Triffez a indurre Pauwels a un’incursione del Realismo fantastico anche nella pittura contemporanea (“realismo fantastico” era locuzione adottata da Pauwels e Bergier per sintetizzare il loro pensiero sia nel best-seller Il mattino dei maghi che nella rivista “Planète”). Difatti il 7 maggio 1963 alla galleria Roger Dulac a Parigi si apriva la mostra Le réalisme fantastique, annunciata come “Première Exposition presentée par Planète”. Quattro gli artisti partecipanti: Pierre Clayette, Monasterio, Jean Triffez, Verlinde, compagnia un po’ eterogenea, e non del tutto gradita a Triffez. Se infatti egli poteva guardare con qualche interesse a Monasterio, un fotografo catalano transitato da esperimenti sulla carta sensibile a un’allucinata pittura ‘grottesca’ e ‘ctonica’, aniconica e a Clayette, virtuoso litografo, illustratore e scenografo ‘piranesiano’, apparentabile al nostro Fabrizio Clerici, e alle sue architetture e città d’invenzione e navigli e macchine volanti, era perplesso di fronte all’opera di Verlinde, un abile ‘neofiammingo’, una sorta di Surfanta che sarà poi il solo a rimanere davvero ‘sul mercato’ come pittore e a vedersi dedicata una monografia nel 1983 da Pauwels (nonostante egli avesse dichiarato nel 1963 di non voler proporre pittori “attardés dans le surréalisme” non fu uomo di conseguenza). Dobbiamo ora iniziare a spiegare una ‘differenza’ di Triffez, che lo condurrà non solo fuori dall’orbita di “Planète” ma dello stesso ‘sistema’ dell’arte. Pierre Chapelot, il geniale grafico di “Planète”, così sinteticamente ne descrive il lavoro nella segnalazione della mostra parigina del 1963: “Les plus récentes toiles de Triffez réinventent le cosmos en blanc et noir. La parole de Titov descendant de sa capsule le hante: ‘L’univers interstellaire attend son peintre et son poète. Triffez ambitionne d’être ce peintre, sinon ce poètè’.” (P. Chapelot, Quatre peintres du réalisme fantastique, in “Planète”, n. 10, mai/juin 1963). Una pittura ‘astronautica’ quindi, da considerare perfettamente in tema con questo giornale? Non soltanto, lo ‘spazialismo’ di Triffez non si fondava soltanto su sue curiosità scientifiche e tecnologiche -entrò anche in contatto con progettisti del razzo europeo Ariane-
autunno-inverno 2007
Poi ancora a Bruxelles, dove nel 1964 nasce la figlia Carla, e qualcosa vorrà pur dire se tutti e tre i suoi figli sono nati in Belgio, anche fosse un caso, perché il caso la sa lunga. Comunque dopo qualche tempo decide di lasciare il plat pays per la vera, classica meta di ogni grand tour che si rispetti: l’Italia. Dove giunge nel 1968, si stabilisce con la famiglia in Lombardia e allestisce una personale alla galleria Il Salotto di Como, con la quale firma anche un primo contratto. Per la verità non si tratta del suo debutto italiano: già nel 1964 aveva tenuto una mostra alla galleria Numero di Venezia, e nell’occasione era stato pubblicato un catalogo con un importante testo -alquanto esoterico, ma seriamentedi René de Solier, il migliore tra i pochi dedicati al suo lavoro. Presto, anche quel ramo del lago di Como gli sembra angusto soprattutto rispetto alla vicina Milano, allora una vera capitale dell’arte e del collezionismo. Tenta i primi approcci, andando a trovare Arturo Schwarz, e come credenziali non presenta quelle ‘alchemiche’, vere, ma quelle trotzkiste, false (aveva solo casualmente conosciuto a Parigi esponenti della IV Internazionale). Schwarz forse si preoccupa, viste le tensioni del tempo, e preferisce non seguirlo personalmente, ma presentarlo a Gianni Schubert, che diverrà il suo gallerista di fiducia. Sostenendolo per anni assieme a un grande collezionista dell’epoca, Italo Magliano. Del 1970 è la personale alla Galleria Arte Borgogna, presentata da Pedro Fiori: uno di quei casi nei quali l’artista influenza concettualmente il critico, difatti Fiori dopo fonderà con Salvador Presta la Codi-Art, l’arte “dei codici dell’universo”. Frequenta poco i colleghi artisti italiani, e gli unici coi quali registra vaghe interferenze teoriche sono evidentemente ex ‘spazialisti’ come Gianni Dova (Fontana invece l’aveva conosciuto, prima, in Belgio). Iniziano altre intermittenti residenze italiane: Roma, Positano, Castellamare di Stabia, di nuovo Roma, in un’irrequietezza solo in parte dovuta a ragioni alimentari, che indebolirà anche i suoi rapporti con il mercato. Poi, dalla seconda metà degli anni ’70, le Americhe: quella del Sud, dal Brasile al Venezuela; quella del Nord, da New Orleans a New York. E a New York, dove vive all’inizio degli anni ’80 al Chelsea Hotel -altro alto luogo di pensiero laterale e vite spericolate- scopre di essere molto malato. Torna a morire a Roma, nel 1983. Da allora l’Italia, l’Europa, tutti lo dimenticano. La sua opera non viene più mostrata né in personali né in collettive significative, per più di trent’anni. Ricompare una prima volta nella mostra odDesign! curata da chi scrive e Almerico de Angelis al Lingotto durante la Fiera Internazionale del Libro di Torino del 2004, nella sezione intitolata The Future Room e in Supercraft, la prima esposizione organizzata, nel novembre 2005, al MIAAO di Torino. Dove Triffez ha ritrovato una sua casa. Per gli apporti alla redazione di questa nota biografica si ringraziano l’architetto Giusto Puri Purini, marito di Tamara, e soprattutto Hélène San-Galli Triffez, per l’ascolto, la gentilezza e la fiducia.
La porta dell'invisibile deve essere visibile René Daumal, Il Monte Analogo, 1952
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Jean Triffez, Cité future, 1968, tecnica mista e aerografo su tela, cm 30x20, (particolare) Archivio SSAA, Torino, foto Ernani Orcorte/MIAAO
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ricerche spaziali I jean triffez
i meno omologati e precostituiti che abbia conosciuto Torino in questi decenni” secondo Paolo Fossati, brano che a suo tempo adottammo come epigrafe alla ricerca sulla pittura di Concentrazione: “Le citazioni dalla Blavatzsky e da Steiner del Kandinsky della Geistige, l’appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane, il fatto che uno dei primi scritti italiani sull’arte astratta sia di J. Evola, sono ben significativi di un rapporto ambivalente di rifiuto per la carica letteraria, moralistica o immo-ralistica del simbolismo speso alla spic-ciola… e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni, e suggestioni, e segrete corrispondenze di immagini e speculazioni (…). Solo attraverso l’acido dissolvitore dei Malevitch e dei Mondrian (il simbolismo), poteva calcinarsi al fondo del crogiuolo, deponendovi i residui letterari, i simboli esterni, sino a riconquistare un punto di incontro tra interesse per la superficie dipinta e carica ‘metafisica’… che sola fa la grande poesia e la grande pittura. Riusciremo o no in questo compito: non lo sappiamo, ma sarà questo in ogni caso l’unico titolo di merito che potremo presentare a giustificazione del nostro sforzo. Almeno avremo evitato l’equivoco più antipatico che grava sull’arte astratta: che si tratti di cosa ‘moderna’ o, peggio, di ‘avanguardia’. Che bel giorno quello in cui potremo lavorar in pace al compito che la sorte ci ha affidato, certi che non è sulla misura della contingente attualità che il nostro lavoro verrà giudicato!” (A. Galvano, in “Arte concreta 12”, 1953).
L’attività di ricerca del Seminario Superiore di Arti Applicate della Congregazione dell’Oratorio di Torino e quella espositiva del MIAAO, entrambi situati in San Filippo Neri, è fondata sull’esperienza dell’Associazione DIOCE1, costituita nel 1991, che organizzò una serie di manifestazioni nel complesso monumentale juvarriano dal 1992 al 1995. Tra le mostre più rilevanti va ricordata Concentrazione, allestita dall’architetto Toni Cordero nel 1992 nella Chiesa Maggiore e nella Sacrestia e dedicata alle ‘apparizioni’ del cerchio (con tutte le associazioni simboliche relative) nella pittura ‘astratta’ internazionale tra l a metà degli anni ’50 e quella degli anni ’ 60 del secolo scorso2, allo scopo di r icostruire “una complessa teoria e
pratica della ‘visione’, anfibologicamente costituita da una analisi dei processi percettivi e da esperienze esistenziali sovente ai limiti del misticismo”. Tra i 30 artisti presenti in mostra non era stato possibile per varie ragioni inserire Jean Triffez, la cui opera era, all’inizio degli anni ’60, sicuramente apparentabile a quelle analisi ed esperienze, come dimostrano il suo testo Entre ciel et terre del 195960, ora in collezione MIAAO, e la successiva costituzione a Londra, nel 1962, di un pur effimero Solar Group che lo riconosceva come leader. Oggi colmiamo quella lacuna con questo omaggio a Jean Triffez, e riproponiamo, anche per intendere meglio il suo lavoro, un brano di Albino Galvano, filosofo e artista “tra
Nel 1953, la giovanissima Hélène SanGalli il cui cognome denuncia origini italiane -lontane, la sua famiglia proviene dalla Russia- si trova in Costa Azzurra, e va al cinema a vedere il film L’envers du Paradis. Il regista è Edmond T. Gréville, gli attori sono il grande Erich von Stroheim, Jacques Sernas, e la deliziosa Etchika Choureau, che aveva girato poco prima in Italia I vinti di Antonioni. Interpreta Violaine, una giovinetta che ha il mal di petto e torna nell’albergo tenuto dai genitori in un’amena località provenzale, dove conosce un affascinante artista dalla moglie alcolizzata, e da cosa si sa nasce cosa, magari una tragedia… Più che dalla vicenda strappacuore della giovane tisica, e dalla trama di un film che viene considerato “un émouvant drame d’amour” oppure “un grossier mélodrame populaire”, Hélène resta affascinata dalla location pittoresca: Haut-de-Cagnes, poco lontano… Decide di andare a visitare quei luoghi in un momento di libertà (deve già mantenersi per vivere). E là, in un bar, vede appesa una Crocifissione che la folgora. È quasi la stessa sensazione provata di fronte a un capolavoro di
tutti i tempi come La Vergine delle rocce, che aveva visto a Londra. Si informa sull’autore di quell’opera, le dicono che è un giovane artista e che possono presentarglielo. È Jean Triffez. Si conoscono, e non si lasceranno più. Non sarà una vita facile, con quel mistico deraciné dalle ridottissime attitudini pratiche, e dalle conseguenti permanenti difficoltà economiche, poco capace di amministrarsi anche sul mercato dell’arte. Una vera storia d’amore, ma anche di profonda intesa culturale. Infatti cosa aveva visto Hélène in quel quadro di un giovane squattrinato che le aveva ricordato addirittura Leonardo? La risposta arriverà, più di dieci anni dopo, da “Pianeta”. Sul numero 6 del febbraio-marzo 1965 viene pubblicato il racconto La vergine delle rocce di Poul Anderson. Il grande scrittore di fantascienza narra la storia del primo allunaggio -nella realtà era ancora di là da venire- di tre astronauti americani. Che notano subito “un’ombra più fredda di tutte le ombre della terra”, e una “luminosità fredda e al tempo stesso maledettamente calda”, e persino una nebbia che “brillava come l’oro attraversando la
luce e si dileguava, evaporava…”. E mentre si muovono su pietre nere friabili, nelle quali brillano frammenti luminescenti, sotto l’alone vermiglio di Marte, in un paesaggio roccioso, sempre con una stranissima luce che illumina i loro tratti di “di una bellezza sovrumana”, notano delle orme. Qualcuno era stato già lì. Solo uno dei tre segue quelle orme, sin che, esaurendosi l’ossigeno, l’aria viziata quasi lo intossica, ma un momento prima scorge una croce incisa in una roccia. E in quel momento ricorda dove già aveva visto quella rarissima e vaghissima luce crepuscolare… Tornato sulla terra, assicurato dai servizi segreti che i russi non li hanno preceduti, si rivolge poi a un professore perché lo assista in un viaggio per cercare di capire come fosse riuscito ad allunare quel precursore, così: “Passeremo da Londra. Lei andrà alla National Gallery, e si fermerà di fronte a una quadro chiamato La vergine delle rocce, ne studierà la luce, che bagna la Madre e il Fanciullo: una luce fredda, pallida, ineffabilmente dolce, che non ha mai brillato sulla terra. E leggerà il nome del pittore: Leonardo da Vinci”. Quel racconto su “Pianeta” era illustrato da un dipinto di Triffez.
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Copertina del magazine del progetto Dioce, 1992, che riproduce, in alto, Richard PousetteDart, Golden Center, 1964 sotto a destra Jean Triffez, Entre ciel et terre, 1960, olio su tela, cm 73x92, Archivio SSAA, Torino, foto Studioelletorino
1) Il Direttivo dell’Associazione Dioce, il cui nome era tratto dai Canti Pisani di Ezra Pound, era così composto: Presidente Padre Giuseppe Goi (d.O.), Segretario Sergio Bocca, Consiglieri Enzo Biffi Gentili, Toni Cordero, Mario De Giuli, Gianni Dolino, Giorgio Griffa, Alfredo La Penna, Luciano Segre, Mario Tortonese. 2) Vedi E. Biffi Gentili (a cura di), DIOCE Concentrazione Elogio del Decoro Histoire du Ciel Cerimoniale, catalogo mostre Chiesa Maggiore e Sacrestia di San Filippo Neri, Galleria Martano, Galleria La Bussola, Galleria Alisso Design, Torino, 23 aprile-31 maggio 1992; Centro Tibaldi, Milano 1992.
Per costruire la città di Dioce che ha terrazze color delle stelle
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Ezra Pound Canti Pisani, 1948
Jean Triffez, Confusion des metamorphoses, 1971, tecnica mista e aerografo su tela, cm 50x100, Archivio SSAA, Torino foto Studioelletorino
Quando Jean Pourbaix a Parigi decide di farsi chiamare Jean Triffez, quel nuovo cognome è in realtà una ‘seconda scelta’. Il primo pseudonimo adottato era Jean Sniff, tanto per sottolineare un tipo di ‘aspirazioni’ diverse rispetto a quelle dei valloni benpensanti come il suo babbo, ma poi opterà per una soluzione meno provocatoria. Comunque, la questione della ‘duplicità’ da allora lo ossessiona, e per tutta vita mediterà di scrivere un romanzo, continuamente rinviato, e mai davvero cominciato, sullo ‘sdoppiamento’ (anche perché, forse, quel Triffez definitivamente scelto sembra addirittura etimologicamente alludere a un ulteriore scindersi delle personalità; oltre che a un costitutivo ‘disordine’). Comunque, senza dubbio Triffez perseguiva deliberatamente stati di alterazione -tra le sue fonti letterarie primarie va anche citato l’Aldous Huxley de Le porte della percezione- anche attraverso l’assunzione di sostanze. In una serie di vignette autobiografiche inedite, che disegnava e mostrava solo a parenti o amici strettissimi e che conserviamo in fotocopie a noi donate dalla vedova Hélène, compare a esempio un tavolo, primo arredo di una nuova casa occupata in seguito a uno dei innumerevoli traslochi, sui quali disporre i primi ‘accessori’ indispensabili, e immediatamente, alla tavola successiva, gli accessori compaiono schizzati, nei
loro contenitori: oppio e vino, cocaina e hashish, marijuana e vitamine, e nel ‘fumetto’ correlato egli dice “je ne veux pas de vitamines”… Il che non fece bene alla sua salute, ma del resto Triffez amava dire, da sempre, che “la morte era la sua amante”. Tuttavia, la rivelazione di questi comportamenti da maudit avrebbe solo valore aneddotico se non fosse collegata a obbiettivi artistici importanti. Ma soprattutto, sempre, Triffez cercherà, coadiuvato o meno da supporti psicoattivi, di divenire un Dévoreur de limites per raggiungere altri -e forse alterati- livelli di coscienza attraversando una regione ‘crepuscolare’ (e Régions crépuscolaires difatti è il titolo di uno dei suoi quadri) e altri spazi. Questo crepuscolo diviene anche scelta estetica, una sorta di costante ‘maniera nera’, di atra atmosfera nella quale far comparire e flottare forme e colori ‘vivificati’ e alieni, ovoidi e maschere cosmiche, pulviscoli e gas cromatici. Insomma, come commenta René de Solier “l’image est en relation avec le monde planétaire, courbes et reliefs inconnus” e “on affronte les monstres, des énergies localisées, un complexe d’énergies liées à des modes de conscience divers. Les monstres qui dévorent ou s’épandent en torsade, vibrions hybrides, deviennent le signe de l’affrontement et d’une liberté dangereuse”. Già, una libertà pericolosa, anche, e
molto, artisticamente, per la difficoltà di iscrivere quel tipo di lavoro assolutamente eccentrico in qualsivoglia tendenza. Perché la sua è, nota accettabilmente Pedro Fiori presentandolo sia alla Galleria Borgogna a Milano che alla Galleria dello Scudo a Verona nel 1970, è una “spazialità irrazionale, adimensionata” che implica già alla radice “una concezione metafisica del cosmo”. Inoltre la ‘metafisica’ pittura di Triffez è anche estremamente ‘fisica’, politecnica -dagli oli e dai pennelli a una vera e propria passione per la bombe, l’aerografo dei poveri, frequentissimamente adoperato e col quale si era anche ritratto, impugnandolo come un’arma, nelle sue casalinghe comic strips- e polimaterica, giungendo a usare non solo la dentelle come ‘mascherina’ in suoi capolavori come Le sens de la fumée, ora in collezione SSAA/MIAAO, ma attingendo anche alla poubelle, come testimonia Hélène. Insomma Jean Pourbaix, Sniff, Triffez restano tutti coerenti con quella fase di “Planète” nella quale la rivista, ci dice Veraldi “se mit sinon à approuver, du moins à considérer avec une attention sympathique les contestataires, les hippies, les happenings, les drogues hallucinogènes, les extravagances artistiques burlesques, les théologies subversives… et autres éruptions de psychopathies et sociophaties latentes…”.
Estratto da un manoscritto di Jean Triffez sui diversi periodi della sua pittura, redatto nel 1977 a San Paolo del Brasile in occasione di una sua mostra privata organizzata da Maria Ruth dos Santos Escobar, celebre attrice divenuta, dopo la caduta della dittatura, deputato al parlamento brasiliano: “Il primo periodo, definibile come figurativo, influenzato da tutto l’espressionismo fiammingo, più correttamente dovrei dire nordico, poiché comprendeva Rembrandt, Van Eyck, Munch, Bosch e Permeke e mille altri ancora. Periodo se non mistico sicuramente religioso: una Deposizione (Collegiale di Santa Gudula a Bruxelles), una Via Crucis (Nizza), un Ritratto di Cristo. Insomma: le Fiandre, il Nord. In pratica, mostre a Bruxelles (Cheval de Verre), al Palais des Beaux Arts di Charleroi, a Ostenda eccetera: delle officine, il lavoro, montagne di carbone, i cavalli ciechi delle miniere, e tutto ciò dipinto in materia e colore smaglianti. Il secondo periodo: semplificazione e sintesi delle forme. Verso il Mediterraneo, Atene, Efeso, Granada, insomma tutti i colori del mondo, e allora il mio colore s’oscura, il Fuoco è diventato Cenere, il Rosso è divenuto Nero. Periodo alchemico, magico, filosofico (mostre a Parigi da Julliard, alla Biennale di Venezia, alla Woodstock Gallery di Londra). Il terzo periodo è segnato dalla scoperta fisica, carnale, del cosmo da parte dell’uomo (‘la terra è un angelo’ disse Titov). Collaborazione con ‘Planète’ e creazione con Pauwels e Bergier del Realismo Fantastico in pittura. Mostra alla Galerie Dulac e Biennale di Parigi. Il quarto periodo fu evidentemente più scientifico. Collaborazioni con dei biochimici e dei genetisti: la questione dominante diviene quella della terza e della quarta dimensione e della rappresentazione delle relazioni tra spazio e luce. In ogni caso ho cercato, cerco e cercherò sempre un equilibrio tra significante e significato. Tutto questo
spiega, ritengo, i fondi neri dei miei quadri: essendo il Nero per gli orientali la porta del colore, e per gli scienziati la natura del cosmo e in ogni casi l’apertura sullo SPAZIO.
1° Periodo: olio su tela, gouache, acquerello 2° Periodo: olio su tela, glacis 3° Periodo: acrilico e olio su tela, sabbia di conchiglie prodotta al pestello 4° Periodo: acrilico, vinilico, poliestere, lacca naturale cinese, lacca sintetica.”
P.S. dal punto di vista tecnico:
Jean Triffez, Vers un nouveau espace, s.d., tecnica mista e aerografo su tela, cm 100x70 (particolare), Courtesy Hélène San-Galli Triffez
ricerche spaziali II groupe space
Sono trascorsi tre lustri dalla pubblicazione, nel 1992, del primo volume curato dall’Associazione Dioce allora attiva in San Filippo Neri a Torino, che si proponeva di eleggere a “tema d’applicazione prioritario la semiologia del sacro nel mondo e nelle arti dei nostri tempi”. Nell’occasione, in un breve scritto introduttivo ricordavamo l’exemplum di Filippo che “coglie i segni della presenza di Dio nel nostro tempo, ne permette l’esprimersi, li favorisce: nasce l’Oratorio, mirabile sintesi di arte e orazione, di Bello e Spirito, ormai codificato dalla storia”. E come da allora “nelle case oratoriane disperse sulla terra, piccole, modeste, familiari, non potenti, non note, il cammino di ricerca continua e coinvolge, anche qui, a Torino”. Quel cammino, tra mille difficoltà, è proseguito con la formazione del Seminario Superiore di Arti Applicate della Congregazione dell’Oratorio di Torino e del MIAAO e qualcuno ha interessato, anche oltre Torino: è stato per noi riconoscimento davvero insperato vederci chiamati nel 2005 a concludere i lavori di un convegno internazionale promosso dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana e dalla Biennale di Venezia con una relazione appunto dedicata alle esperienze in San Filippo a Torino (E. Biffi Gentili, Oratorio e Laboratorio. Arte liturgica e arte applicata, in Arte e Liturgia nel Novecento. Esperienze europee a confronto, atti del III Convegno Internazionale, Venezia, Scuola Grande di San Teodoro, 6-7 ottobre 2005; Nicolodi Editore, Rovereto 2006). Proseguiamo quindi accogliendo oggi con gioia nuovi progettisti alla vigilia della celebrazione di un Congresso Mondiale di Architettura nella nostra Città, ma con imbarazzo l’invito a dir qualcosa su una fonte specifica del lavoro di artisti come quelli del Groupe Space che espongono nell’Astronave Torino atterrata in San Filippo. Ci informano sul fatto che la loro opera è stata influenzata dal Surrealismo, e all’interno di questo movimento anche da Dalí, e tra i quadri di Dalí da due a tutti notissimi -persino a chi scrive- Crocifissi degli anni ’50. Si tratta de Il Cristo di San Giovanni della Croce del 1951, conservato nell’Art Gallery di Glasgow in Scozia e della Crucifixion or Corpus Hypercubicus del 1954, nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York. Dobbiamo allora, subito, cedere la parola a chi sull’argomento è autorevole, come Padre Heinrich Pfeiffer SJ, Professore di storia dell’arte cristiana nella Pontificia Università Gregoriana, che sul primo dei due magistrali Crocifissi ha scritto: “Salvador Dalí usa il disegno di San Giovanni della Croce per le sue composizioni. Il più noto è il dipinto intitolato Il Cristo di San Giovanni della
autunno-inverno 2007
Salvador Dalì, Il Cristo di San Giovanni della Croce, 1951, olio su tela, cm 204,8x115,9 (particolare), Art Gallery Glasgow
Croce. Anche questa immagine presenta un carattere visionario. Anch’essa è caratterizzata da una prospettiva inconsueta (…). L’intera croce viene qui rapidamente mostrata dall’alto, e in ciò consiste la sua più importante differenza rispetto al disegno di san Giovanni della Croce. Il cielo buio e l’intensa illuminazione dei bracci della croce sono ripresi inconfondibilmente dal Velázquez. Ma la sua luce non proviene -come in quel caso- dall’alto e dall’al di là, bensì inesplicabilmente proviene dal basso e in avanti a destra, cosicché la testa, la parte superiore del corpo e il braccio destro del Crocifisso come pure l’insegna scritta si profilano come ombre sugli assi prospetticamente molto accorciati della
Maxime Defert/Groupe Space, copertina del catalogo Geometrie fantastique, Fiac 81 Erthinger Gallery N.Y.C., Grand Palais, Paris, 1981
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Faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglia Primo Manifesto dello spazialismo, Milano, 18 Marzo 1948
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croce.” (H. Pfeiffer, L’immagine di Cristo nell’arte, Città Nuova, Roma 1986). Sul secondo Crocefisso, nella nostra ricerca di supporti, leggiamo sul sito Internet di uno studioso, Franco Maria Boschetto, che “la particolarità di questo quadro che più salta agli occhi è il fatto che la croce è sostituita da uno strano solido formato da otto cubi; sottotitolo dell’opera è infatti Corpus Hypercubicus. Se si riuscisse a ‘piegare’ la struttura in una quarta dimensione, perpendicolare alle tre dello spazio ordinario, e ad unire i cubi lungo facce quadrate, potremmo ottenere effettivamente un ipercubo a quattro dimensioni… In questo modo, con il ricorso alla quarta dimensione, il surrealista Dalí riesce a comunicare efficacemente
il messaggio secondo cui il Cristo morto vive ormai in un’altra dimensione, e la stessa morte di Gesù non è la semplice fine dell’attività biologica, bensì il culmine di un piano sovrannaturale voluto da Dio per la redenzione dell’umanità”. A questo punto non possiamo di certo ancora interrogarci sulle ambiguità percettive e prospettiche e spaziali dei lavori di Dalí e degli amici francesi ma piuttosto chiederci quali considerazioni può ricavare, nella contemplazione dell’arte sacra del pittore catalano, un osservatore attento anche a una lettura religiosa. Anzitutto, una: l’artista è consapevole di cimentarsi in un’impresa che attraverso l’estetica deve riconoscere e evidenziare la sostanza della realtà rappresentata. E la sostanza
Quando alla FIAC, la grande fiera d’arte parigina, nel 1981 la galleria Erthinger di New York organizza nel suo stand un’esposizione di Maxime Defert intitolata Géometrie fantastique, il Groupe Space -ufficialmente comparso nel 1975 e del quale Defert aveva fatto parte con Jean Allemand e Michel Guéranger- era scomparso da due anni. I tre moschettieri ‘spaziali’ avevano mantenuto buoni rapporti, avevano conservato di quell’esperienza mémoires lumineuses, diremmo -usando un po’ abusivamente una locuzione di Defert- ma ognuno era andato per la sua strada. Georges Charbonnier, nell’introduzione al catalogo di quella personale di Defert la cui copertina riproduciamo a fianco, sente peraltro la necessità di richiamare alcune dichiarazioni di poetica e pratiche operative del gruppo. Innanzitutto: “Space s’attache au plan”, alla tela: supporto quanto mai tradizionale e tuttavia, per provocare vertigini antiprospettiche e antigravitazionali, adotta “un moyen technique nouveau, l’aérographe” grazie al quale “la répartition de la couleur sur la toile ‘maintient’ le tableau sur le plan”. Restituendo al piano un suo primato, Space “retrouvait la possibilità de décrire avec impassibilité”, e oggetto di quella ‘rappresentazione’, era l’ universo. Non siamo distanti dal lavoro di Jean Triffez illustrato nelle pagine precedenti: il canto del cosmo in forme ‘astratte’ -in Space, geometriche- con ricerche di nuove dimensioni, una certa ‘surrealtà’ di fonti ed esiti, e moltissima perizia tecnica esercitata attraverso l’aeropenna con le sue possibilità di creare sulla superficie sovrapposizioni, traslucidità, sfumature, interpenetrazioni e aloni… Insomma “l’exploration de l’univers suscité par la technique” commenta Charbonnier, oltre che dalla “réflexion”, e l’arma di quella tecnica è lo strumento eletto dell’illustratore. Difatti, ai tempi del Groupe Space, i lavori dei tre erano stati celebrati, e riprodotti, dalla rivista “Crée. Créations et Recherches Esthétiques Européennes”
accanto a quelli di un altro trio, questa volta di art director pubblicitari, come Guido Buzzelli, Pierre Bouillé e Jean-Luc Falque, tutti magistrali, secondo il critico Gilles de Bure, perché “par le jeu de rêve, de la profondeur de champ, du traitement à l’aérographe, qui donne une sensation aérienne de transparence, on en est arrivé à introduire les trois dimensions sur un support plan”. È quindi fondamentale, per l’interpretazione del lavoro del Groupe Space, quella riflessione “sulle operazioni e sulle condizioni materiali della progettazione e della esecuzione delle forme artistiche” per troppi anni assolutamente carente nel nostro Paese (vedi al proposito AA.VV., Le tecniche artistiche, a cura di C. Maltese, Mursia, Milano 1981). E ancora comprendere che, secondo Corrado Maltese, si tratta di “una materia che implica nessi evidenti non solo con le idee filosofico-religiose, ma anche con la storia della tecnologia generale e della scienza”. Con tutti i rischi del caso, anche nel caso di Defert. Difatti il catalogo della mostra alla FIAC del 1981 si chiude, a proposito di armamentario e immaginario scientifico e tecnologico, con un suo statement illuminante: “Quello che mi piace in un bel paesaggio non è tanto il luogo in sé, ma sapere che forse un giorno potrei rivederlo alla televisione. Grazie al miracolo della registrazione e di una casalinga postproduzione diverrà magnifico, trascolorato, virato, esagerato dalle mie modifiche nella regolazione dei rossi o dei blu. Otterrei così l’essenza di quel sito, o piuttosto il fantasma cromatico che mi ha infestato. Solo a casa mia potrei assorbire quei miliardi di puntini colorati che formano l’immagine televisiva, memorizzando tinte e toni, accordi e distorsioni. Il godimento visuale sarebbe tale che nessun paesaggio naturale, per bello che sia, potrebbe concorrere con la sua riproduzione elettronica. È così che ho vissuto a New York, detestando la città e adorando lo schermo che 24 ore su 24 riversava milioni di immagini il cui dubbio interesse tuttavia non mi disturbava affatto, tanto ero colpito dalla forza d’impatto dei colori. È grazie a questo Mc Donald’s dell’immagine che mi sono nutrito per un anno, molto meglio che se me ne fossi andato per musei o gallerie. L’immagine televisiva mi ha aperto al colore -o piuttosto, per essere più precisi, a gamme cromatiche completamente nuove- e questo mondo ricreato, ricolorato, divenne il mio pane quotidiano. Ma nella mia
è un mistero; il secondo mistero principale della credenza cristiana, ricorda il catechismo, ovvero l’incarnazione. L’uomo rappresentato sulla croce è anche il figlio di Dio, l’Unigenito uguale a Dio Padre. Ignorarlo, conduce fatalmente a impoverire la rappresentazione; riconoscerlo, impone all’artista una penetrazione nel mistero, nell’ineffabile, vuoi come densa meditazione, vuoi come intensa rappresentazione concettuale. Penso che il tema sia stato affrontato in maniera impareggiabile da Paolo di Tarso, in occasione della risposta ai quesiti della comunità di Corinto; risposta -dicono gli esperti- carica dell’atmosfera del precedente incontro di Atene, mortificante e fallimentare (At. 17,16 ss), dove l’apostolo cercò di esporre agli eruditi del tempo la sostanza del nuovo messaggio religioso. È interessante ascoltarlo: “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunziare la salvezza. E questo io lo faccio senza parole sapienti, per non rendere inutile la morte di Cristo in croce. Predicare la morte di Cristo in croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione; ma per noi, che Dio salva, è la potenza di Dio. La Bibbia dice infatti: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e squalificherò l’intelligenza degli intelligenti”. Infatti, che cosa hanno ora da dire i sapienti, gli studiosi, gli esperti in dibattiti culturali? Dio ha ridotto a pazzia la sapienza di questo mondo. Gli uomini, con tutto il loro sapere, non sono stati capaci di conoscere Dio e la sua sapienza. Perciò Dio ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annunzio di salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei infatti vorrebbero i miracoli, e i non Ebrei si fidano solo della ragione. Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo. Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.” (1 Cor. 1, 17-25). Là dove, in varie forme, si fa riferimento al Cristo, è d’obbligo dunque la coscienza del mistero. Viene in mente una lunga tradizione, all’interno del cristianesimo, della cosiddetta teologia negativa, secondo la quale si parla saggiamente di Dio solo quando si accenna a ciò che egli non è. Ovviamente l’argomentare condurrebbe successivamente la riflessione intorno al costitutivo della fede, al rapporto con la ragione e con la scienza, alla ricerca del vero e al confronto con gli altri fenomeni religiosi di tutti i tempi. Ma a noi qui, ora, preme sottolineare che -a parere di chi scriveDalí non poteva ignorare tutto questo mondo, mentre dipingeva i suoi Crocifissi. pratica pittorica tutto ciò non poteva andare avanti troppo: la povertà, l’insufficienza cromatica della mia pittura mi diveniva insopportabile. Si poneva, evidente, un problema: come restituire sulla tela questa intensità colorata che percepivo quotidianamente dal monitor, senza tuttavia riuscire nel mio lavoro a simularla nemmeno lontanamente (…). La mia ambizione è quella di arrivare attraverso il lavoro sui colori a una sensazione di spazio sempre più vasto e a cromatismi sempre più artificiali, proprio come se il dipinto portasse in sé un colore ‘ritrasmesso’, nell’accezione televisiva del termine”. Erano ambizioni sbagliate? Probabilmente. Maxime Defert abbandonerà poco tempo dopo la pittura per il progetto: simili i destini, per tutti questi eccentrici nostri cugini transalpini.
Michel Guéranger/Groupe Space Navetta spaziale, 1982 installazione al Magasin du Printemp di Parigi
Quella degli Space, secondo il teorico più acuto di quel gruppo, Jean-Jacques Levêque, è una pittura che ha scelto di seguire la scia delle astronavi: “Space, lui, c’est mis dans les sillage des astronautes, et peint les machines que, sans doute, nous y croiseront demain”. Ma Levêque è critico attento, e preoccupato, dopo queste considerazioni, di possibili interpretazioni diminutive del loro lavoro: “Allemand, Defert et Guéranger, le artisans ce de mouvement, ne veulent pas faire des images de science-fiction. Il laissent cela aux dessinateurs de jaquettes de livres de série B, vendus dans les kiosques”. Illustratori di libercoli no ma di riviste sì: tanto è vero che il mensile di fantascienza “Futurs” sul numero 6 del dicembre 1978 occupa tutta la copertina con un’opera di Michel Guéranger (mentre altre copertine e gli interni di altri numeri riportavano disegni di Moebius e Siudmak, di Erik Bilal, Philippe Druillet, Jean Claude Forest e compagni: la crème de la crème delle bandes dessinées). E poi a ben leggere nel testo di Levêque compare una spia linguistica insidiosa: i nostri sono definiti artisans, una ‘squalifica’ per i cultori dell’arte ‘pura’. E Michel Guéranger, si facesse una ricerca di precedenti al proposito, risulterebbe persino artista applicato ‘laureato’ all’ENSAD, l’École Nationale Supérieure d’Arts Décoratifs di Parigi. Ma anche gli altri due, volendo invece strumentalmente e anche un po’ volgarmente utilizzare quella massima per cui si diventa ciò che si è, dopo l’esperienza pittorica riveleranno una certa propensione allo stesso ‘delitto’: Maxime Defert diverrà, con la sua società MCDE, l’ editore dei mobili e dei complementi d’arredo di Pierre Chareau; Jean Allemand interior designer con la sua impresa Alchante, e a sua volta editore, ad esempio, di una sedia dedicata a Philippe Druillet e poi ama da pazzi farsi ritrarre con alle spalle una collezione di razzi…
Jean Allemand/Groupe Space, Francia, Irradiation, 1978, acrilico e areografo su tela, cm 150x150
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ricerche spaziali II groupe space
Quando nel 1972 il jazzista visionario Sun Ra pubblica il suo album Space Is The Place, dall’America in giù tutti tendono le orecchie e guardano in alto. Sbagliando. Perché Place, in realtà è Place de la Concorde o des Vosges. Una piazza, in Francia. Lì, nel 1977, si schiudono le porte del cosmo al sibilo modernista di un sintetizzatore. Didier Marouani incide Magic Fly con i suoi Space e scavalca tre dimensioni sonore. Nella quarta, tra metronomia alla Giorgio Moroder, echi di tastiere allineati come anelli di Saturno e note sintetiche che affogano in effetti gassosi, indica il nuovo. Che è così: danzabile, alieno e geometrico. Gli Space inventano la Space Disco sovvertendo alcuni capisaldi della disco music. Sono freddi, privi di richiami sessuali e senza interventi vocali. Alieni per necessità e desiderio. Chi conosce la lingua non umana? Come comunicare se non attraverso una macchina? Gli Space
suonano con tute spaziali, nascosti dietro caschi anonimi (cioè come i Daft Punk, non a caso francesi, oggi) e traducono la loro sete di geometria fantastica abusando di effetti chromakey televisivi. Si muovono pochissimo e il giro di tastiere di Magic Fly intorno al quale costruiscono un’intera carriera è potenzialmente replicabile all’infinito. Dal dancefloor direttamente al riverbero di Orione. Prospettiva orizzontale e, su galassie parallele, gli Space Art. Dominique Perrier e Roger Rizzitelli affidano a tastiere e percussioni il compito di rendere sonoro il pulviscolo cosmico. Il loro hit, Onyx, ha i tratti di una colonna sonora dispersa, è algebrico in modo glaciale. Eppure va in classifica ovunque, insieme a Magic Fly. Segno che il mondo, seppur in poltrona, vuol mettere le cuffie e decollare. Fantascienza in vinile, mappatura cosmica suggerita da copertine disperse con l’aerografo in una spazialità immaginaria. Allunaggi e illustrazioni da riviste e romanzi di science-fiction, e in qualche caso come la copertina del 45 giri Onyx del gruppo Space Art, musicale, con analogie quasi impressionanti con quadri emblematici del Groupe Space, artistico, come i primi oli su tela di Michel Guéranger, senza che rapporto diretto alcuno vi fosse tra loro. Ah, l’air du temps…che anticipa un futuro prossimo e remoto al tempo stesso. L’immediato sono i Rockets, anch’essi parigini, che concretizzano rasature e vernice argentea con album come Sound Of The Future e Galaxy (1979-80).
Michel Guéranger/Groupe Space, Entrée intuitive dans un espace non formulé, 1976 acrilico e aerografo su tela, cm 100x100
Si sono già citate su queste pagine, nella sezione dedicata a Jean Triffez e alle ricerche predilette dell’Associazione Dioce, poi riprese dal Seminario Superiore di Arti Applicate, riflessioni di Albino Galvano su alcune fonti occulte -dalla Blavatsky a Evola- che avrebbero irrigato certa arte astratta, e persino ‘concreta’. Galvano aveva insistito su questo tema, ai tempi della sua adesione al gruppo torinese del MAC o Movimento Arte Concreta, anche a proposito della sua personale opera pittorica -a volte a suo modo ‘spazialista’ almeno a giudicare dai titoli di suoi quadri come Configurazione cosmologica del 1950, Celeste del 1952, il maiuscolo Galassia del 1953, il Lavoro cosmico del 1954aggiungendo a quella costellazione di imbarazzanti referenze quelle, “peccato questa volta assolutamente mortale” egli stesso scrisse, di René Guénon e dei surrealisti (A. Galvano, testo introduttivo alla sua personale alla Galleria La Giostra, Asti 1952). Ebbene, vent’anni dopo e più, in Francia, gli esponenti di un ‘movimento’ fiorito tra il 1975 e il 1980, il Groupe Space -composto dai giovani Jean Allemand, nato nel 1948, Maxime Defert, nato nel 1944, e Michel Guéranger, nato nel 1941- non provava scrupolo alcuno a dichiarare certo Surrealismo iscritto nel suo patrimonio genetico, accettando di veder indicato dal celebre critico e giornalista André Parinaud il loro “neo geometrismo fantastico” come tappa finale di certi “chemins du surréalisme” e chiusura di un complesso stemma di relazioni, tra le altre, con Dalí
e i suoi ‘paradossali’ Crocifissi, le atmosfere ‘aliene’ di Yves Tanguy, alcuni paesaggi di Max Ernst. Insomma, tutti casi esemplari di un “illusionismo spaziale” che William Rubin considerava uno dei tratti distintivi di quel movimento (W.S. Rubin, L’arte dada e surrealista, Rizzoli, Milano 1972). E non hanno difficoltà nemmeno a ritenere come lettura tutto sommato accettabile anche per il loro lavoro persino una delle definizioni di pittura fantastica fornita da alcuni cultori dell’iconosfera di “Planète”: “La peinture fantastique est un piège morphologique” (Marc Thivolet, Préface a Jean-Claude Guilbert, Le réalisme fantastique. 40 peintres européens de l’imaginaire, Éditions Opta, Paris 1973). Ma proseguiamo con le referenze presentate da Space: Piranesi, e Maurits Cornelis Escher, quello stesso Escher che in Francia era stato ‘scoperto’, ancora una volta, da “Planète” e dal suo gran grafico Pierre Chapelot (P. Chapelot, Une découverte: le visionnaire Escher, in “Planète” n. 8, gennaio-febbraio 1963). Il ‘giro’ francese di “Planète” non aveva mai riproposto, curiosamente, figure ed episodi di vero e proprio ‘Spazialismo’, filologicamente corretto (lo faranno, ma occasionalmente, i cugini italiani che sul numero 9 di “Pianeta” del settembrenovembre 1965 pubblicano un articolo di Guido Ballo intitolato Roberto Crippa o le avventure dello spazio, e lo stesso Ballo ritornerà su quel movimento dedicando sul numero 11 del marzoluglio 1966 un omaggio a Lucio Fontana, ovvero al padre di tutti gli spazialisti).
Jean Allemand/Groupe Space, Irradiance, 1985, acrilico e areografo su tela, cm 180x120
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Anche i membri del Groupe Space non dimostrano precisi interessi per le ricerche e le dichiarazioni spazialiste italiane, curiosamente, se si pensa, per fare solo un esempio a Maxime Defert e alla sua ‘scoperta della televisione’ -vedi pagina a fianco- quella stessa televisione che era stata oggetto del quinto Manifesto del Movimento Spazialista Italiano nel 1952. Ma per par condicio non si riferiranno mai nemmeno alle riflessioni dei loro conterranei del Groupe Espace di André Bloc fiorito negli anni ’50, e collegato al nostro MAC. E neppure, sempre restando in casa loro, a gruppi, attivissimi tra fine anni ’50 e poi almeno fino al fatale 1968, come il GRAV o Groupe de Recherches d’Art Visuel. Sì, nel ‘albero genealogico’ di Parinaud sovraricordato compare Victor Vasarely, ma come discendente, in linea diretta, di Escher, e precursore del nostro Lucio Del Pezzo: un altro bel ‘neo-geometrico surreal-metafisico’… e a proposito della neo-metafisica ‘geometrica’ italiana -da Lucio Saffaro ad appunto Del Pezzo- va ricordato un raffinato breve saggio, di argomento ‘cosmico’ e ‘celeste’, di Giorgina Bertolino (Le ultime stelle, in Ecbatana. Immagini del genio del luogo, Pluriverso, Torino 1993) dalla lettura del quale si trae però l’impressione di molte divergenze con il neo-surrealismo ‘geometrico’ di Space. Il gruppo sembrava quindi escludere ascendenze ‘avanguardiste’, almeno prossime: per le remote, il discorso un po’ cambia. Infatti tra gli antenati dichiarati compaiono il Picabia ‘astratto’, l’autore nel 1913 di
Edtaonisl, frutto, secondo William Rubin, di “una enorme bravura, di una immensa forza decorativa” e il suprematista Malevic, per la sua visione ‘dinamica’, cinetica della pittura, per quelle sue costruzioni fondate “sul peso, la velocità e la direzione del movimento” (i suprematisti sì, ma i futuristi no, anche se uno tra loro, come Michel Guéranger anche negli anni successivi a Space produrrà delle Peintures d’altitudes, alcune delle quali appaiono, clamorosamente, come una sorta di aggiornate ‘aeropitture’…). Hanno letto gli scritti del gran russo commentati da Andrei B. Nakov e sanno che teorizzava “uno spazio vettoriale che abolisce la vecchia prospettiva monoculare”, non presupponeva punti di fuga, ma una “libera navigazione” (K.S. Malevic, Scritti, a cura di A.B. Nakov, Feltrinelli, Milano 1977). E loro iniziano una “libera navigazione” nello spazio, non programmata, “intuitiva”, non calcolata perché anche la loro matematica è “errante” (virgolettiamo aggettivi che i nostri sovente usano nei titoli dei loro lavori, destando una certa impressione di ‘irrazionalità’). Il Groupe Space naviga ‘in solitario’: sono pochissimi gli artisti contemporanei che sentono sodali, e non sanno bene come realizzare apparentamenti teorici od operativi. Per esempio amano il lavoro dell’americano Al Held, anche per una sua dichiarazione: “gli scienziati parlano di mondi vasti e di universi, che i sensi non possono sperimentare. L’obiettivo di un artista non-oggettivo è creare queste immagini”. Alquanto isolati, sono preoccupati di apparire come autori “da fantascienza”, ma sottolineano il loro amore per un “immaginario” spaziale e per una pittura “spettacolare”, fatta di levitazioni e accelerazioni di corpi geometrici, di prospettive e di luci e ombre invertite o aberrate e così, scriverà un illustre commentatore, Michel Foucault, “la lumière qui surgit au cœur de chaque toile n’est pas source ni foyer: elle est plutôt l’effet de la vitesse, le sillage de ces figures-comètes, l’incandescence de leur poussée vertigineuse. L’accéleration indefinite de ces masses sombres fait sourdre sur leurs bords une braise également fugitive”. Siamo di fronte a un tipo di lettura che diventa di nuovo molto letteraria e ‘fantasiosa’. Un altro critico invece, Jean-Jacques Lévêque, sarà capace di dare dei tre un’immagine meno da showmen da space opera suggerendo che questo loro tentativo di andare verso una dimensione differente sugli schermi delle tele poteva essere connesso a quanto stava già avvenendo sugli schermi dei computer. Sembrava una contraddizione rispetto a quelle loro confessate, pericolose relazioni letterarie e pittoriche, sovente surreali. Non era così. Possiamo qui, ora, produrre una prova. Un vero scienziato, il matematico, specialista in geometria delle dimensioni superiori e in grafica computerizzata, professore alla Brown University, Thomas F. Banchoff, ha scritto un libro intitolato Oltre la terza dimensione. Geometria, computer graphics e spazi multidimensionali (Zanichelli Editore, Bologna 1993). Leggiamo anche solo un breve brano della sinossi, in quarta di copertina: “Oltre la terza dimensione racconta l’evolvere del concetto di dimensione, dalle piramidi egizie fino al celebre romanzo Flatlandia di Abbott e al dipinto di Dalí Corpus Hypercubicus…”. E Banchoff realizzò per la prima volta intorno agli anni ’70, gli anni del Groupe Space, il modello geometrico dell’ipercubo. Come volevasi dimostrare.
Sembra che in assenza di gravità l’individuo tenda a riferire il ‘basso’ ai suoi piedi e ‘l’alto’ alla sua testa... è logico pensare che possano crearsi delle situazioni ambigue, suscettibili di generare strani fenomeni visivi
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R.L. Gregory, Occhio e cervello,1966 Maxime Defert/Groupe Space, Architectures errantes n. 5, 1977, acrilico e aerografo su tela, cm 80x80, collezione Hewlett Packard
E Sheila, che ipnotizza francesi e non con larghe falcate in mini-short e un hit spaziale come Spacer. Produzione degli Chic, arredo sonoro fornito dai fidi B. Devotion e un verso come “nella nostra galassia ti puoi fidare di chiunque”. Lo Spazio diventa spazio commerciale o, addirittura, metratura da record, come per le folle oceaniche radunate dalle sirene synth di Jean Michel Jarre. Dopo i successi planetari di Oxygene (1977) sono Les concerts en Chine (1982) a richiamare pubblico enorme sotto il palco: gli Space Art, sopra. Oltre i confini francesi, da Monaco a New York, le cattedrali disco divengono spaziali volando sulle ali del mantello da regina delle galassie di Dee D. Jackson. Meteor Man e Automatic Lover sono, come suggerisce il titolo stesso dell’album, le Curve Cosmiche di una Venere da disco. Poi il futuro remoto, l’oggi invaghito della fantascienza analogica e valvolare degli Space. Didier Marouani è una star e suona regolarmente a Mosca e nelle ex Repubbliche sovietiche, terre di cosmonauti storici, che sanno apprezzare. Nel 1987 ha inciso una Space Opera per coro e sintetizzatori. Una copia del CD ha trovato consono alloggio nella stazione orbitante MIR, vanto del programma spaziale sovietico. La MIR ha girato intorno alla Terra per 86.325 volte a un’altezza media di 390 chilometri sopra la superficie terrestre. Immaginare quante volte ha incrociato un umano che ballava Magic Fly è roba da fantascienza.
Dominique Perrier, Roger Rizzitelli/ Space Art, copertina del 45 giri Onyx, 1977 a sinistra Michel Guéranger/Groupe Space, Mysthoriens Matinaux, 1975 olio su tela, cm 90x90
politecnici e multimediali I giampietro fontana, robin goode, alessandro scali, tullio rolandi
una comunicazione artistica aggressiva, sintetica e impattante. Dall’altro assegniamo un valore ‘divulgativo’ al nostro lavoro altrettanto importante: le nanotecnologie sono frutto del progresso scientifico e moltissima gente è all’oscuro dei passi da gigante che la scienza ha fatto nell’ultimo secolo (basti pensare all’alone di mistero che ancora avvolge la meccanica quantistica). Eppure i mondi che le nuove tecnologie sono in grado di svelare sono terribilmente affascinanti anche per i profani. Con le nostre opere non solo ‘minori’, ma ‘minime’, addirittura ‘nanesche’ speriamo di poter creare un contatto, anche solo empatico, fra il grande pubblico e nuovi mondi scientifici ed estetici, mentre le arti ‘maggiori’ di tutto ciò se ne fottono. Dunque l’arte come mezzo ‘popolare’ di diffusione delle conoscenze scientifiche? Anche. Avvertiamo la necessità di far uscire dai laboratori le conoscenze scientifiche e tecnologiche pure di alto profilo: bisogna che tutti se ne approprino, che tutti si ‘stupiscano’. Oggi noi non usiamo i pennelli ma nanotecnologie, sfruttando quello che la scienza offre. Ma questo è solo l’inizio. Non vogliamo sentirci legati per forza alla nanotecnologia. Esistono tantissime altre tecnologie che vorremmo applicare artisticamente. Il nostro obiettivo è aprire un laboratorio al Politecnico dove raccogliere gli input che arrivano dai ricercatori e rielaborarli artisticamente. Una moderna versione delle antiche botteghe d’arte. A tal proposito c’è un aspetto che ci ha estremamente colpiti: esiste un lasso di tempo in cui i
ricercatori testano i macchinari appena creati e lo fanno giocando (per esempio, nel caso delle nanotecnologie, creando minuscoli oggetti ‘dissacranti’). A noi piacerebbe inserirci in quella fessura fra gioco e ricerca e sfruttarla per comunicare qualcosa. Il laboratorio renderebbe stabile questo progetto e garantirebbe alle persone che hanno lavorato con noi finora di continuare a specializzarsi in questo settore ibrido, ‘tecnologico-artistico’: una figura professionale insolita, futuribile. Alla prima esposizione di NanoArte quale reazione vi aspettavate da parte del pubblico e quale è poi effettivamente stata? Tutto è andato come previsto: si è creata una sorta di ‘imbarazzo estetico’ per cui le persone non sapevano come rapportarsi all’opera. D’altra parte si tratta di chip di silicio appoggiati su un piedistallo e guardandoli non si vede nulla, salvo i marker che i tecnici mettono per delimitare l’ambito, immenso, in cui l’opera si trova. Lo sguardo dello spettatore corre alle didascalie e trova quiete solo quando passa agli ingrandimenti realizzati coi microscopi a scansione e certificati dal Politecnico appesi al muro. Solo fornendo le ‘prove’ si dimostra che l’opera esiste, se no potrebbe anche non esserci: un ‘paradosso estetico’ per cui lo spettatore dovrebbe ‘fidarsi’ dell’artista. Forse, per educare a questo tipo di ‘visione’ e di ‘esperienza estetica’, bisognerebbe, prima di arrivare a esporre chip e basta (che poi sarebbe tipica provocazione artistica), tentare la strada dell’interazione, esponendo anche dei microscopi ottici. Il problema è che non tutte le opere sono tanto ‘grandi’ -ricordiamo che misuriamo in nanometri!- da poter essere viste al microscopio ottico e le macchine che occorrerebbero, i microscopi elettronici a scansione FESEM, sono utilizzabili solo in laboratorio e da tecnici esperti. Le ‘nanopere’ prodotte finora sono molto diverse le une dalle altre: Africa è ‘impegnata’, Oltre le colonne d’Ercole è ‘fantascientifica’, Scemo chi legge è una gag. Esiste un filo conduttore? Il filo conduttore è il gusto del paradosso, della contraddizione, dell’ironia e della sfida intellettuale. Per esempio Scemo chi legge è emblematica: usare tecnologie sofisticate per produrre ‘sciocchezze’ infantili altro non è che una metafora dell’inutilità, quando non della pericolosità, di certa tecnologia se adottata acriticamente o speculativamente. Ma, si badi, questa opera può anche essere letta semplicemente come un divertissement. Per noi è molto importante che il primo livello di lettura sia immediato, poi è ovvio che a seconda del background di chi osserva le soglie interpretative si possono moltiplicare all’infinito: è la ‘semantica a gradini’… Non credete che le potenzialità espressive delle nanotecnologie finiscano per risolversi nella dicotomia visibileinvisibile? Si. Infatti, poiché non vogliamo che la nostra diventi una ‘maniera’, abbiamo in mente molti nuovi progetti che coinvolgono altre tecnologie, in linea con l’idea ‘didascalica’ cui facevamo cenno prima. Siete affascinati dalla fantascienza? Siamo affascinati dai confini, indistinti, della scienza. Più dai territori e dagli spazi estremi scientifici e che da quelli della sola fantasia indisciplinata. Ma d’altra parte a volte le loro frontiere sono labili: succedono cose ‘laggiù’ che hanno leggi talmente diverse dalle nostre da apparire contemporaneamente come reali e fantastiche.
Si sa, molti autori di architettura disegnata, intesa non come progetto ma come ‘genere’ artistico per cultori -e forse qualcosa di più, secondo una tesi ancor valida di Gianni Contessi esposta nel suo libro Architetti-pittori e pittori-architetti, Dedalo, Bari 1985- hanno sempre avuto, tra le altre, difficoltà a passare a quella costruita. La vicenda di Giampietro Fontana è al proposito emblematica e anche drammatica. Ma ogni regola ha la sua eccezione, e un altro personaggio torinese, professionalmente attivo, è nello stesso tempo un maestro nell’arte della rappresentazione di architetture virtuali. È Tullio Rolandi, classe 1938, architetto praticante ma anche e forse essenzialmente creatore di visioni. Negli anni ’60, Rolandi ha immaginato mondi nuovi irreali e fantascientifici, raccogliendo le esperienze di Archigram e Peter Cook. Prima di laurearsi aveva già iniziato l’attività di disegnatore realizzando con alcuni amici il fumetto “Ambarabà”, stampato sino al 1973, ma soprattutto cimentandosi con il cinema d’animazione, sino a vincere nel 1963 il festival di Skopje con il cortometraggio La casa senza tempo, tratto dall’omonimo fumetto. Esaminando i suoi lavori, spiccano immediatamente
una minuziosa attenzione al dettaglio, una tecnica di rappresentazione ‘classica’ e una profonda conoscenza della Storia. Durante i suoi viaggi in giro per il mondo, ha potuto trarre idee e nuove suggestioni, in particolare da quelli nel Sahara e in Afghanistan. Appaiono oasi postmoderne dove invece di cammelli si riforniscono astronavi, che fluttuano al di sopra di una tipica casbah su cui svettano torri ipertecnologiche. Ma la vera svolta è avvenuta nel 1984 quando Rolandi ha incontrato il computer. Grazie a un lavoro molto più tecnico che artistico, come la valutazione dell’impatto ambientale di un’autostrada, l’architetto ha dovuto realizzare una grande quantità di elaborati in un breve arco di tempo. Allora si è avvicinato a un Macintosh, che a quel tempo garantiva il massimo dell’interazione grafica tra uomo e macchina. Molto lontani dagli odierni render fotorealistici, gli elaborati che il computer produceva più di vent’anni fa richiedevano una postproduzione manuale di alto livello. L’architetto disegnava sfondi e dettagli a mano, con la tecnica imparata tra tecnigrafo e tavolo da cartoonist. Negli anni successivi non ha mai abbandonato il computer, continuando ad aggiornarsi con l’utilizzo di programmi sempre più complessi e arrivando infine, negli anni ’90, all’onnipresente 3D Studio Max, il software più utilizzato nel campo della renderizzazione architettonica. Fondamentale è stata la frequentazione dell’amico e collega Marco Patrito, autore della famosa multimedia graphic novel Sinkha, con i quale ha potuto scambiare importanti consigli e affinare la sua tecnica,
Alessandro Scali e Robin Goode, Oltre le colonne d'Ercole, 2006, silicio con strato di ossido cresciuto termicamente, litografia ottica con resist positivo, attacco chimico in HF, supporto 10x10, impronta più piccola um 135x460, immagini FESEM (Field Effect Scanning Electron Microscope)
Pubblicitari e grafici di professione. Si sono accostati all’arte per esprimersi altrimenti, con una grande voglia di rischiare intraprendendo percorsi inesplorati. Come un tempo il grande Franco Grignani, amano l’arte come sperimentazione e metodo, ma corretto dall’ironia. La NanoArte, ossia la creazione di artefatti in scala micro e nanometrica, è una svolta recente nelle loro ricerche e li sta portando alla ribalta, perché in questo campo sono pionieri. La loro prima opera, Oltre le colonne d’Ercole, del 2006, è una lastra di silicio su cui sono impresse impronte della dimensione di una cellula: primi passi verso lo spettacolare universo che la nanotecnologia è in grado di svelare. Sono Alessandro Scali (Torino 1972) e Robin Goode (Capetown 1978), hanno fondato il collettivo artistico Paperkut e l’agenzia di comunicazione Kutcomm. Li incontriamo nel loro studio torinese. Come è nata l’idea di intraprendere la sfida della NanoArte? La nostra curiosità professionale ci induce a far ricerca, a essere avidi di novità in tutti i campi. Nel 2004, navigando in rete, ci siamo imbattuti nelle prime immagini di nanotecnologia. Siamo rimasti impressionati dalle potenzialità espressive di questa nuova frontiera della scienza, che poteva consentirci un provocatorio gioco concettuale sul superamento delle ‘arti visive’. Abbiamo elaborato un progetto di NanoArte, inviato ovunque e, complice la ‘orizzontalità gerarchica’ propria di Internet, i più grandi luminari del settore ci hanno risposto indirizzandoci verso i centri di eccellenza italiani per le nano-
tecnologie: Trieste e Torino, Lecce e Catanzaro. Come è iniziata la collaborazione col Politecnico di Torino? Dopo aver conosciuto il professor Enzo di Fabrizio dell’Università di Trieste e dopo aver ottenuto da lui un feedback decisamente positivo circa la fattibilità e la qualità del progetto, abbiamo deciso di tentare nella nostra città, al Politecnico. Abbiamo preso contatto col professor Fabrizio Pirri del Dipartimento di Fisica, che ha formato un team, oggi composto da sei persone, e dato il via ai lavori. Dobbiamo tutto al Politecnico: noi ideiamo i temi di ricerca , quindi siamo gli ‘inventori’, ma loro li realizzano, sono gli ‘artisti applicati’… Quali nanotecnologie utilizzate? Diverse. Per esempio, per Oltre le colonne d’Ercole abbiamo usato la fotolitografia, per Africa la litografia ossidativa, per Scemo chi legge la laser ablation. Perché proprio la nanotecnologia come ‘strumento’ di produzione artistica? Occorre precisare: noi non abbiamo deciso di fare opere d’arte ‘invisibili’ perché ci siamo imbattuti nella nanotecnologia. È vero il contrario: la nanotecnologia ha tutte le caratteristiche per consentirci di esprimere in modo efficace e innovativo i concetti che noi volevamo comunicare facendo arte. Nuovi punti di vista, nuovi valori, nuove letture del mondo come, per esempio, la denuncia dell’invisibilità ‘politica’ di un intero continente nel caso dell’ Africa, in un’opera dalle dimensioni di 300x280 nm. Da un lato quindi usiamo le nanotecnologie perché ci consentono
Alessandro Scali e Robin Goode, U.N.O. (Unidentified Nanometric Objects), 2007, chip di silicio monocrisallino, supporto cm 1x1; dimensioni piramidi da 1 micron a 15 nm, immagini FESEM (Field Effect Scanning Electron Microscope)
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C’è moltissimo spazio in basso
Richard Phillips Feynman - nobelist physicist, teacher, storyteller, bongo player
Si è già accennato, su queste pagine, a proposito del visual design di Pierre Chapelot per “Planète”, a un possibile intrigante diverso uso dell’immagine non già come ‘illustrazione’ ma addirittura come ‘sostituzione’ di un testo. E di una tesi, di architettura? È successo anche questo: è il caso ‘storico’ di Giampietro Fontana, artista-architetto nato a Torino nel 1934 e successivamente emigrato in Svizzera, che nel 1981 discute la sua tesi di dottorato dal titolo Architecture italienne des années soixante: vue rétrospective presso il dipartimento di architettura dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna con pochissime parole e moltissimi disegni, bellissimi. Il fatto non resta confinato nell’ambito disciplinare o registrato sulla sola stampa specializzata, infatti sul quotidiano “Tribune. Le Matin” del 18 maggio 1981 compare un articolo intitolato Architecture italienne: une thèse très remarquable… en images, in cui Françoise Jaunin scrive: “Depuis qu’il esiste, c’est seulement la quatrième fois que le département d’architecture… délivre un doctorat. Mais par son originalité de conception et de réalisation, cet important travail de recherche historique et critique marque une première. C’est en effet essentiellement sous forme visuelle qu’il se présente, à travers une méthode de transposition iconographique dans laquelle le texte, réduit à quelques notations, ne fait office que d’accompagnateur et de guide dans la lecture des images”. Le ventiquattro grandi tavole presentate da Fontana, tecnicamente molto elaborate, in un virtuosistico uso di matite, pastelli colorati, acquerelli, guazzi, collages -Fontana era già pittore affermato- sono la ‘rappresentazione’ di testi di Ridolfi e Samonà, dei BBPR e di Aldo Rossi, di Gregotti e della Aulenti, del Superstudio e di Scarpa, di Nervi e Portoghesi, Michelucci e Valle e così via ma attraverso una serie di confrontages e ‘incorporazioni’ tra loro
Giampietro Fontana, Senza titolo, 1994-95 tecinca mista su cartoncino, cm 50x40 collezione Sergio Bacchio, Castellamonte
fino ad arrivare a padroneggiarla totalmente. Da allora Rolandi ha ampliato i suoi orizzonti professionali, utilizzando anche il suo background di architetto e storico, per produrre ricostruzioni di città ed edifici antichi, fondali e scenografie per spettacoli teatrali come il Mandarino Meraviglioso di Susanna Egri, e anche un videogioco ambientato in un castello medievale in collaborazione con Francesco Testa. Tullio Rolandi ha approfondito la tematica della città futura nelle illustrazioni commissionategli da Patrito
autunno-inverno 2007
Tullio Rolandi, La fortezza di ferro, 2006 matita su carta, cm 21x15
e monumenti storici e riferimenti iconografici alla trattatistica e fotogrammi da film, e insieme la ‘invenzione’ di un linguaggio. Quello di Babilonia. Difatti Mario Botta, commentando questo insolito lavoro, scrive che “la torre di Babele, simbolo stesso della diversità, diviene paradossalmente il denominatore comune con il quale confrontare temi, esperienze, problemi e speranze di quel periodo”. E quel linguaggio grafico diviene capace di rilevare aspetti e sollecitare interpretazioni “che certamente una analisi unicamente scritta non avrebbe potuto indagare”. Tuttavia alcune questioni devono essere necessariamente poste, anche da professori di quella stessa École Polytechnique come Jacques Gubler che si chiese: “S’agit-il d’histoire de l’architecture? S’agit-il de dessin ou de peinture?”. Giampietro Fontana risponde con la decisione di assegnare a quella tesi di dottorato un nuovo titolo, Babylone I, e di iniziare un ciclo omonimo di pitture e disegni da presentare nel mondo dell’arte. Che resta a sua volta perplesso per il carattere ‘ibrido’, transgender di quei lavori. Solo tolleranti case della vecchia, beneamata arte applicata gli concedono diritto d’ingresso, e si allestiscono due sue mostre importanti personali: Babylone II. Überall ist Babylon nel 1984 al Kunstgewerbemuseum di Zurigo e Babylone III. Babylones vaudoises nel 1989 al Musée des Arts Décoratifs di Losanna. Ma non basta: quei lavori che Alberto Sartoris aveva definito “ensembles incantatoires”, quel “monde d’utopies”, quei capricci tra archeologia e fantascienza non sono molto tollerati nel ‘sistema’ dell’arte. Che forse non gli perdona nemmeno una vita davvero troppo ‘pittoresca’: marinaio e fuochista, grafico pubblicitario e assicuratore, e pure dottore… E, come pittore, Fontana è altrettanto ‘indisciplinato’: si dedica anche a paesaggi, figure e personaggi. Col tempo le mancanze di riconoscimenti lo deprimono, diviene gravemente infermo, e il lavoro di tutta una vita rischia di essere disperso. Ma oggi per fortuna inizia una nuova Campagne d’Italie di Giampietro Fontana, retour de Suisse, a partire dal Piemonte dove è nato. La prima tappa è in corso a Castellamonte, dove parenti sensibili e attenti come la sorella Giuliana e il cognato Sergio Bacchio hanno raccolto molte sue opere, le più significative di un corpus che altrimenti rischiava di essere seppellito. E possiamo rivedere i suoi ritratti di architettura sospesi tra progetto e pittura, ove si accatastano sotto il segno di Babele fabbriche reali, mitiche o virtuali, così evocando insieme figure della costruzione e della distruzione, forse inquietanti ma certamente emblematiche della nostra attuale condizione… per Fuga da Thalissar, fumetto ambientato in una città composta da macrostrutture all’interno delle quali gli uomini hanno ricostruito la loro vita proteggendosi da un ambiente esterno inospitale. E qui si capisce che la sua opera, come quella di Patrito, segna uno scarto decisivo rispetto a una ‘scuola’ italiana degli anni ’80 i cui maggiori esponenti -Rossi, Scolari, Cantaforaprediligevano secondo Contessi i “luoghi della memoria” e della nostalgia, cioè di un Tempo evidentemente passato...
Tullio Rolandi, Il tempio, 2002, immagine realizzata con programma di modellazione 3D Studio Max per un fumetto inedito di Marco Patrito
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politecnici e multimediali I marco patrito, marco rostagno
Marco Patrito, Darshine, 2004 copertina del fumetto “Atmosphere” immagine realizzata in computergrafica 3D
Sinkha è una graphic novel totalmente realizzata in computergrafica 3D, articolata in un percorso a capitoli ricco di immagini statiche e animazioni che da alcune di quelle originano. Sinteticamente, la trama narra le vicende degli Sinkha, creature aliene immortali dai poteri pressoché infiniti, la cui supremazia è minacciata da coloro che durante la battaglia di Shadowm hanno trafugato la pericolosa arma Khahaek, l’unica che potrebbe distruggere l’intera comunità; sulle tracce dei nemici sono Hyleyn e Darshine, le due conturbanti eroine protagoniste. Oggetti e personaggi sono inventati e modellati da Marco Patrito seguendo esclusivamente l'estro creativo e la conoscenza dell'anatomia. Chiunque abbia avuto la fortuna di entrare negli studi della Virtual Views, ha provato la netta sensazione di veder realmente nascere un universo nuovo, differente, parallelo: la stessa sensazione che può trasmettere un romanzo di Philip J. Farmer. Ma non solo la ‘fucina’ trasmette vibrazioni altre, aliene; anche lo ‘shop’ sfrutta a pieno le potenzialità di un mezzo futuribile -per quanto integrato nella nostra culturacome Internet: i CD-rom di Sinkha, infatti, sono disponibili anche on line sul sito www.virtualviews-shop.com. In questo spazio virtuale si possono acquistare i DVD con le avventure di Hyleyn, corredate da una colonna sonora originale e disponibili in italiano, inglese e francese (in Italia viene distribuito anche il formato cartaceo edito dalla Vittorio Pavesio Production); le game card da collezione e le stampe delle eroine digitali. E.F.
Nel 1952, per una sorta di imperscrutabile convergenza di intenti editoriali, oppure, astrologicamente, per un raro allineamento di costellazioni, nell’arco di pochi mesi nascono le prime cinque pubblicazioni italiane interamente dedicate alla fantascienza, genere fino a quel momento nel nostro Paese relativamente trascurato. Fra queste, edita da Mondadori, eccellerà storicamente la “Rivista mensile di avventure nell’universo e nel tempo”, “Urania”. Per quella che lui stesso definisce una sorta di ‘astrale congiunzione’, o un segno del destino, nello stesso mese e anno del numero 1 di “Urania” nasce Marco Patrito, architetto e illustratore torinese, che, trent’anni più tardi, proprio per la Collana mondadoriana dedicata ai più grandi autori della fantascienza, realizzerà più di 150 copertine. Patrito, rappresentante eccellente di quell’attivissimo milieu torinese di architetti-designer-artisti che la nostra Turin Spaceship Company qui intende riscoprire, oltre a essere uno dei migliori illustratori di science fiction italiani, è noto ai più per essere il padre di Sinkha, la prima multimedial graphic novel del mondo. Già la definizione palesa i termini di quella convergenza fra generi differenti (fumetto e cinema) e fra media vecchi e nuovi (carta stampata e PC) che rende l’opera di Patrito emblematica di una tendenza dominante nella nostra cultura inevitabilmente condizionata dalla rivoluzione digitale. Quella tendenza per cui, secondo il principio della rimediazione, che comprende il concetto stesso di multimedialità, “i nuovi media ‘rimodellano’ i vecchi media, costruendo forme di ibridazione innovative” e “i vecchi media ‘rimodellano’ se stessi per rispondere alle sfide delle nuove forme emergenti” (J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation, Guerini Studio, Milano 2003). L’epopea dei Sinkha -ambientata in un universo fantastico popolato da creature aliene- è interamente realizzata in computergrafica 3D (interessante la commistione fra mezzi di produzione artistica all’avanguardia e contenuti futuribili) e segna la nascita di un genere ibrido, rimediato: una miscela di illustrazioni, cinema, narrativa e fumetto, con cui il lettore può interagire attivamente se fruisce della versione su CD-rom (nuovo medium), o tradizionalmente se opta per la versione cartacea (vecchio medium). Per saperne di più abbiamo incontrato Patrito nel suo studio torinese: l’apparente normalità trasmessa dall’edificio un po’ datato è stata subito ridimensionata alla vista della sua postazione di lavoro, una workstation readymade straordinariamente simile a un avamposto astronavale. Per non smentirsi. Di formazione architetto, lei non ha mai intrapreso quella carriera per dedicarsi invece alla pittura, alla fotografia, all’illustrazione tradizionale e digitale.
Oggi si dedica esclusivamente alla computergrafica? Dipende da cosa si intende per computergrafica. Nel mondo dell’immagine il computer è uno strumento che consente di ottenere risultati impensabili con tecniche tradizionali, specialmente se parliamo di scene animate e oggetti in movimento. Però oggi l’informatica ha invaso prepotentemente ogni settore e qualunque cosa, se non è creata sul computer, è quantomeno gestita e filtrata in modo digitale. Sto varando nuovi progetti che faranno un uso più limitato delle immagini di sintesi rispetto a Sinkha (che è totalmente in 3D), ma è chiaro che anche un'immagine fotografica o filmato reale oggi viene gestito in digitale ed elaborato attraverso la computergrafica. Detto questo non dimentico l’utilità degli strumenti tradizionali: confesso che la vecchia, cara matita ha ancora un ruolo tutt’altro che secondario, e ogni mio lavoro inizia con centinaia di schizzi e montagne di carta. Quando e come è nata la passione per la computergrafica 3D? Per molti anni ho dipinto, ho disegnato copertine per libri e creato fumetti con tecniche tradizionali anche se per certi versi, a quel tempo, ritenute alternative. Poi ho iniziato a desiderare di potermi muovere all'interno dei miei disegni ed esplorarli da diverse angolazioni. Il computer mi permetteva di farlo! Stiamo parlando di quasi vent'anni fa e allora non c'erano gli attuali software per il 3D e tantomeno la potenza dei computer di oggi, ma se ne intravedeva già la potenzialità. Certo i miei primi lavori erano assolutamente ‘pionieristici’ ma, con molta pazienza e alcuni accorgimenti, il risultato era piuttosto interessante. Quando e come è nata l’idea di Sinkha? Come si è evoluta? L’epopea dei Sinkha è nata nel 1990 e il primo modello 3D di Hyleyn l’ho realizzato nel 1991. Con il multimediale volevo creare un ibrido fra fumetto e cinema, un prodotto realizzabile con un budget contenuto rispetto ad un film e con un impatto visivo del tutto nuovo. Il primo episodio, che per motivi editoriali oggi è stato ribattezzato “episodio 0”, era in realtà un romanzo illustrato; solo in seguito ho deciso di utilizzare i baloon per i dialoghi e trasformarlo in un vero e proprio fumetto multimediale. Questo però accadde molti anni dopo. Subito dopo l’episodio iniziale, sulle ali del successo, il mio editore statunitense mi convinse a continuare con Sinkha ma in versione videogame.Gli interventi validi ma limitati di alcuni collaboratori non erano più sufficienti, serviva un team e una società capace di gestire numerosi creativi e programmatori. Ma dopo oltre un anno di lavoro, prima di poterlo completare, l’editore americano fallì. Tentammo di continuare in modo auto-
Marco Patrito, Ancown, 2004, dal romanzo grafico multimediale Sinkha, immagine realizzata in computergrafica 3D
nomo ma, dopo molte peripezie, dovetti arrendermi, sciogliere il gruppo e il videogame non fu mai finito. Con l’arrivo del nuovo millennio decisi di riprovare con Sinkha versione fumetto, sia multimediale che cartaceo, realizzando altri tre episodi. Come è stata accolta Sinkha da esperti e pubblico quando è uscita? E oggi? All’inizio fece molto scalpore e vendemmo molte copie specialmente negli Stati Uniti. Era una novità e a quei tempi si pensava che il futuro dell’editoria fosse nel multimediale. Tutti attendevano il successo degli E-Book, che però non arrivò mai. Nel 2000, quando ho riproposto Sinkha, ho subito verificato la difficoltà nel trovare distributori disposti a trattare il multimediale. Mentre per la versione destinata alla stampa su carta ho trovato editori in tutta Europa e negli Stati Uniti, la versione su CD-rom viene venduta solo attraverso Internet. È vero che questo consente la diffusione in tutto il mondo, dal Canada alla Malesia, ma
complessivamente in un numero limitato di copie. Quali sono le ragioni che l’hanno portata a prediligere il mezzo digitale per le sue graphic novel? Ovvero, cosa è in grado di offrire (di diverso o in più) la computergrafica 3D? Oggi si tende a preferire la computergrafica per l’effetto di ‘fotorealismo’ esasperato che consente di ottenere. Però io per Sinkha ho cercato di restare nei confini dell’iperrealismo pittorico. Il lato affascinante è dato dalla possibilità di gestire il set come per un film: le scenografie sono percorribili e gli attori recitano. La computergrafica 3D ha poco da spartire col disegno tradizionale; in realtà è molto più vicina alla scultura e alla progettazione architettonica e forse proprio per questo, data la mia formazione, è un mezzo che da subito ho sentito mio. Sinkha mescola immagini statiche e immagini in movimento. Quali sono le tecniche e i programmi che utilizza?
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Io, perduta nell'immensità del vuoto assisto allo sfacelo degli scafandri Laura Germonio, La linea e dopo, in "Selene", n. 5, dicembre 1965
In via Valeggio, alla Crocetta, a Torino, nel 1965 si allestisce la rampa di lancio di una pubblicazione a fumetti di fantascienza: “Selene”. Nell’appartamento borghese l’Editrice Littera produce una graphic novel non banale, in un inedito e interessante formato ‘quadrotto’, con disegni di Paul Savant (in realtà Marco Rostagno, che sarà poi autore di diverse copertine di “Urania”) e con sceneggiature di Dadus e Victor Newman (tra gli sceneggiatori reali, oltre i nom de plume, ho scoperto Corrado Farina, anche autore di recensioni, nella parte finale del fumetto, di film ‘spaziali’, ma su questo personaggio ritorneremo). Sono gli stessi promotori a definire limiti e caratteri di questa Selene cisalpina: “Le sue derivazioni dalla francese Barbarella sono abbastanza evidenti, ma altrettanto evidenti sono le cose che la differenziano dalla collega d’oltralpe; mentre Barbarella, infatti, manifesta una spiccata tendenza libertina che la fa passare continuamente dalle braccia di un astronauta al letto di un robot, Selene è, sostanzialmente, una brava ragazza…”. Per la verità Selene s’ispira non solo a un modello cartaceo, ma anche a uno fisico: la sua rassomiglianza con Brigitte Bardot è assolutamente evidente. Le dichiarate precauzioni editoriali non impediscono pratiche erotiche soffici, e il lettore viene titillato da nudi parziali, in scene di schiena, da aderenti tutine in maglina, ove rarissimamente una strategica piega, proprio lì, provoca ad arte frisson… Sicuramente più aggressivi erano alcuni testi: un buon esempio è rappresentato da una recensione del già citato Corrado Farina sul numero 3 dell’ottobre 1965, che scrive: “La fantascienza è un po’, in campo cinematografico, la figlia della serva. I pochi giornali di cinema che sono sopravvissuti in Italia, sono oggi troppo impegnati a recensire i film sulla Resistenza per poterle dedicare anche solo un quarto di colonna”. Il torinese Farina, che è anche regista, cercherà, oltre l’esperienza di “Selene”, di dimostrare
Marco Rostagno, tavole da “Selene, la ragazza delle stelle”, anno 1, n. 4, novembre 1965
che la fantascienza poteva essere un ‘genere’ anche intellettualmente e politicamente stimolante: prima con alcuni corti e documentari poi, dopo il suo trasferimento a Roma, con i lungometraggi Hanno cambiato faccia, con Adolfo Celi, del 1971, Primo Premio ex-aequo al Festival Internazionale di Locarno, e Baba Yaga, del 1973 con Carroll Baker, la mitica interprete di Baby Doll. Film, soprattutto il primo, di ‘fantapolitica’, ove il ‘vampirismo’ diveniva caratteristica del capitalismo e della tecnologia: esito intelligente e complesso di un percorso avviato, con vampiri più tradizionali seppur ‘spaziali’, proprio su “Selene” (La notte dei vampiri n. 3, ottobre 1965). Nel 1966 con il numero 7, in formato albetto, “Selene” muore e nasce Selen, pseudonimo di Luce Caponegro, che diverrà
famosa come pornostar. L’associazione, si badi, resta disciplinare: l’attrice romagnola diverrà personaggio di un fumetto e addirittura di una testata, che cito quindi qui virgolettata: “Selen”. Una saga erotica anni ’90 che si deve all’ottimo disegnatore e poi grafico 3D Luca Tarlazzi, romagnolo anch’egli, di Lugo (per restare in tema ‘fantascientifico’ rammento una sua copertina ove Selen è accrocchiata a RanXerox, il mitico cyborg creato da Stefano Tamburini). Siamo in un altro universo, ormai è lontana anni luce la Torino di Selene, in fondo una madamim, seppur stellare (eppure qui a Palermo, nell’amata Sicilia da dove scrivo, ho provato una intermittence du coeur su base non già olfattiva ma visiva: di fronte al Palazzo della RAI c’è la ditta Fruscío -di intimo, la ragione sociale è stata scelta
per evocare “il suono magico di un indumento pregiato che scivola tra le mani”- e guarda caso noto un modello Selene, un coordinato reggiseno pushup e culotte a vita bassa in retina elasticizzata, molto aderente, “caratterizzato da preziose rifiniture di strass”, iridescente, che avrebbe potuto indossare anche la nostra stellina subalpina…).
Marco Patrito, Hyleyn, 2007, tavola dal fumetto “Il Pianeta delle Nuvole”, immagine realizzata in computergrafica 3D
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Ho utilizzato molti programmi 3D da quando ho iniziato, ma nell’ultimo decennio il principale resta Maya che consente di gestire al meglio la character animation, cioè i movimenti e la recitazione dei personaggi. Dopo aver ‘scolpito’ il mio personaggio creo uno scheletro ‘su misura’ che, inserito con particolari deformatori all'interno del modello, lo trasforma in un insieme di pelle e muscoli. È un lavoro tutt’altro che semplice ma alla fine il personaggio può muoversi e recitare quasi come un vero attore. Io sono, per natura, proiettato verso il futuro e cerco di essere sempre aggiornato (ZBrush3 per modellare è eccezionale) ma non per tutti i software l’ultima versione è la migliore: per e esempio, utilizzo ancora un vecchio Macintosh su cui è installato Photoshop 3.0. Lei si occupa sia della sceneggiatura sia della realizzazione tecnica? Lavora con un team? Non c'era un vero team per Sinkha. In linea di massima dopo aver scritto la sceneggiatura ho realizzato io tutti i personaggi, con relativa character animation, e la maggior parte degli oggetti e delle scene. Ci sono state collaborazioni eccellenti, ma anche piuttosto rarefatte, con validi creativi che hanno realizzato per Sinkha alcuni ambienti ed oggetti. Poi, ovviamente, per la versione su CDrom c'è chi ha realizzato le musiche (non dimentichiamo infatti che la colonna sonora è stata creata ad hoc) o le localizzazioni nelle varie lingue. Fondamentale il contributo di mio fratello Fabio che ha provveduto all’authoring multimediale e alla realizzazione degli effetti sonori. Da cosa trae ispirazione per la realizzazione dei suoi ambienti fantastici? Non è facile capire da dove nascono certe idee, a volte appaiono all’improvviso e per questo è importante avere subito a portata di mano matita e blocco da schizzi. A volte sono di natura onirica. Ma più spesso mi è utile osservare con attenzione ciò che mi circonda e già esiste, la natura in generale: il mondo animale, vegetale, minerale; le nuvole, a volte così bizzarre, o una pietra dall’aspetto un po’ bislacco. Com’è il suo ambiente di lavoro? Il mio studio è una casetta con un angolo di verde e tanti gatti. All’interno, molte stanze e quella dove lavoro un po' oscurata, per vedere bene i colori sui monitor. Nonostante schizzi e appunti un po’ ovunque, è abbastanza ordinata perchè sono quasi maniaco. Quasi sempre un gatto sulle ginocchia con la proibizione assoluta di saltare sul tavolo dove ci sono workstations recenti assemblate da me e mio fratello. Ha dei riferimenti artistici o letterari forti? No, almeno non consciamente. È ovvio che è impossibile non essere influenzati da grandi artisti del passato o contemporanei, ma nessuno è stato per me un vero e proprio riferimento per lo stile grafico o per i contenuti. Altro discorso è invece lo stimolo diretto che alcuni artisti mi hanno dato per incrementare la passione o aprirmi verso nuovi orizzonti possibili. Quali i progetti in corso? Ho nuovi progetti molto interessanti, ma ancora troppo embrionali per parlarne. Comunque non saranno multimediali e neppure dei fumetti, ancora una volta cambio rotta per esplorare nuovi orizzonti.
politecnici e multimediali II germàn impache, MWC, giulia caira
German Impàche, Starship, 2007, astronave in plastica, resina, materiali di recupero, cm 200x50 Mutoid Waste Company, Performance alla Cavallerizza Reale di Torino per i sindacati dei metalmeccanici 11 gennaio 2003, foto Maurizio Elia
L’immaginazione è il primo elemento. Tutto parte generalmente da una visione notturna. Questa si materializza con un disegno o con un semplice bozzetto. Ciò che mi preme è verificarne subito l’ingombro tridimensionale. In seguito pianifico la costruzione della struttura di base che deve risultare robusta, in vista di eventuali trasporti; quindi penso a rivestirla con particolari che appaghino l’occhio, utilizzando sovente materiali di recupero, i più svariati, persino i medicinali scaduti! Quello che mi appassiona nella costruzione di veicoli, oggetti, tute spaziali è proprio l’architettura e la meccanica, ciò che definisco l’hardware della fantascienza. Parliamo del design delle astronavi, le sue e quelle viste nei film. Le mie astronavi devono avere una linea affusolata, un forma aerodinamica ed elegante. Le astronavi di Star Trek sono inverosimili, esageratamente grandi, sembrano delle città. Qui prevale un design retrò, ma rimangono comunque icone nell’immaginario della fantascienza. In 2001 Odissea nello Spazio, il design è decisamente più moderno, ispirato diretmente ai modelli di astronavi mandate realmente nello spazio. Kubrick infatti per
la preparazione del Discovery aveva seguito alcuni progetti della NASA. Parliamo della straordinaria fotografia Astronave Torino che porta la sua firma e che è stata scelta per la comunicazione della mostra. In un’era condizionata dalla ‘rivoluzione digitale’, perché per la riproduzione di questa immagine ha scelto di avvalersi di tecnologie tradizionali -fotografia, montaggio e sviluppo con procedimento fotomeccanico di Giorgio Stella- e non delle più recenti tecniche di computergrafica? Proprio perché sono un artigiano, mi piace poter creare manualmente un ‘effetto speciale’ che la computergrafica non è in grado di realizzare. Con la stessa tecnica costruisco i miei modelli. Mi affascina l’idea di ripercorrere le tappe dei costruttori degli esordi, quando si riusciva a realizzare tutto con l’ausilio di pochi mezzi tecnologici a disposizione, sfruttando al massimo la fantasia e l’abilità artigianale. Il pensiero va al sorprendente film di Kubrick, sostenuto soltanto da una cinquantina di effetti speciali. Citando una massima di Louis Pauwels, l’autore insieme a Bergier de Il mattino dei maghi, che dice “per es-
sere al presente bisogna essere contemporanei al futuro”, quale idea di futuro vuole trasmettere con la sua arte spaziale? Sicuramente l’idea di un futuro in cui l’uomo continui a esplorare nuovi mondi, con quello spirito di avventura e scoperta che è proprio della razza. Ma anche sintomo di speranza. Le mie astronavi non sono macchine di conquista e distruzione, ma veicoli per trip mentali. In ogni caso l’idea di futuro, così come lo si immaginava all’epoca delle prime esplorazioni spaziali -lo Sputnik, primo satellite artificiale, venne lanciato in orbita nel 1957- è stata superata per l’evoluzione della tecnologia. Una ricerca affannosa dominata dalla sfida tra russi e americani per la conquista dello spazio, per la supremazia scientifica e politica, che ha finito per costruire stazioni orbitanti a scopo militare. Quegli anni sono lontani. Oggi siamo già dentro il nostro futuro. E la sfida tecnologica deve affrontare innanzi tutto il problema del vivere meglio. E quali sono i suoi progetti futuri? Ho diversi progetti in cantiere, ma per scaramanzia preferisco non parlarne. E poi, una cosa che ho imparato nella vita è di non fare programmi per il futuro.
Lucia-Lupan, Alessandro Scarpa, Mauro Pirredda/MWC, Ragazzo bidone, 2006, bidoni in plastica, paraurti di automobili, carenature di scooter e motocicletta, tubi Innocenti, cm 350x250x250 (particolare) sotto Giulia Caira, Hans Hollein su Harkonnen Capo Chair di H.R. Giger, 1995, stampa in bianco e nero virata seppia
Dove un guru dell’architettura come Hans Hollein può sedere sul trono della potente stirpe degli Harkonnen, se non in una mostra dal titolo Delirium Design? Succede ad Abitare il Tempo, a Verona, nel settembre del 1995. L’obiettivo di Giulia Caira, giovane artista torinese agli esordi incontra il design alieno di H.R. Giger in una sorprendente serie di fotografie inedite, che risucchiano nel cosmo biomeccanico del maestro svizzero gli illustri visitatori della mostra, come Hollein e Alessandro Mendini, ben felici di farsi ritrarre come i perfidi signori del pianeta Arrakis (altrimenti noto come Dune) usciti dalla penna di Frank Herbert… Delirium Design nasce come omaggio a Edgar Allan Poe, ma anche a H.P. Lovecraft, ispiratore del ciclo pittorico di Giger intitolato al Necronomicon del turpe Abdul Alhazred che fa da sfondo alle visioni allucinate del maestro svizzero, tradotte
con il consueto pathos da Giulia Caira, a suo agio negli spazi uterini e claustrofobici della mostra. Curata da Enzo Biffi Gentili e da William Sawaya, anche autore dell’allestimento, “che guarda a Poe attraverso la lente della cinepresa di Roger Corman, il geniale regista del ‘ciclo di Poe’ de La maschera della morte rossa, e al suo uso virtuosistico del colore e della scenografia”, colleziona sogni ibridi e mutanti di architetti, designer e artisti visivi: Gotscho, Jaume Tresserra, Vivienne Westwood, Giorgio Branca, Giorgio Vigna, Nanda Vigo e molti altri. E per la prima volta espone in Italia i terrificanti mobili “vertebrati” in alluminio pressofuso dello scenografo di Alien -e del leggendario e mai realizzato Dune di Alessandro Jodorowsky-, l’autentico padre del cupo immaginario alieno di fine secolo. I suoi arredi, concepiti negli anni ’70, ne fanno un precursore nel campo del design d’ispirazione sci-fi, che ha oggi, in un mondo ormai fatto di oggetti da buttare, i Mutoidi tra i suoi maggiori interpreti.
L’invasione dei mutoidi. È il titolo di un articolo di Marina Leonardini comparso su “La Stampa” di Torino del 1 dicembre 2002. Di quali ‘ultracorpi’ si trattava? Erano così abbigliati: “Calzettoni, anfibi, camicie a quadrettoni, canottiere, elmetti e occhiali da saldatore”. Costruivano alla Cavallerizza Reale una gigantesca architettura semovente e cigolante, un Tempio metalmeccanico commissionato dalla Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura per Artigiano metropolitano. Adesso tornano al MIAAO per imbarcarsi sull’Astronave Torino, in compagnia dei loro cani e del gigantesco robot Bin Lad. Non rilasciano quasi mai dichiarazioni. Eccezionalmente, allora, uno di loro, Lyle Rowell, disse alla giornalista che “catalogarci è impossibile. Non siamo junk tribe, né… hippies. Siamo più vicini all’idea anarchica, è vero, ma non sposiamo nessuna idea politica: siamo artisti in movimento”. Eppure, l’11 gennaio 2003, i Mutoidi si unirono ai rappresentanti dei sindacati dei metalmeccanici FIM FIOM UILM per una ‘rappresentazione’, artistica e critica, di una crisi della FIAT “problematica e traumatica”, come dichiarò Tom De Alessandri, ai tempi Assessore al Lavoro della Città, approvando quel “modo innovativo per unire tra loro arte, industria, lavoro”. Altri tempi, ora che si è tutti così très design? Può darsi. Ma male non ci farà rammentarli, attraverso le parole di chi dell’erezione di quel maiuscolo ‘tempio’ antagonista fu uno dei protagonisti, curatori e cantori, l’artista applicato polimorfo, e scrittore, Pablo Papageno Echaurren: “Mentre a Torino la Fiat collassa, mentre la grande industria metalmeccanica sprofonda, i vertici saltano, gli esuberi vengono liquidati come indesiderati dopo essere stati spremuti a dovere, mentre nella Torino industriale succede il finimondo, in questa stessa Torino, ma negli spazi della Cavallerizza Reale (via Verdi 9), si è inaugurato il Temp(i)o della biomeccanica. Qui, nell’ambito della manifestazione di Artigiano metropolitano (curata da Enzo Biffi Gentili), è stata innalzata un’immane macchina desiderante, realizzata magistralmente con pezzi di scarto, materiali di recupero, rottami disumani, qui quelli della Mutoid Waste Company hanno costruito un organismo subtecnologico, ultrapunx. La Mutoid Waste Company (MWC), la più potente tribù apolide, nomade e resistente che da un paio di decenni è intenta a praticare quei gesti creativi che George McKay definisce ‘atti insensati di bellezza’. E la bellezza, gratuita, generosa, grandiosa, gronda dagli ingranaggi di questo enorme orologio privo di centro, un orologio che pratica il sabotaggio sistematico del tempo produttivo, sia esso taylorista, postfordista, toyotista o comunque scandito al solo fine di sfruttare o sanguisugare la vita. I Mutoidi mettono in scena una clessidra basculante, oscillante, rotante, una specie di ampolla di San Gennaro che attende fiduciosa che si compia il miracolo della liquefazione del sangue operaio, subdolamente spillato e raggrumato nel prodotto alienato. I MWC vogliono ricordarci che un fantasma si aggira per l’Europa, è il fantasma dell’Opera d’Arte, il Fantasma dell’Opera(io), il fantasma dell’artista
arrivista, dell’artista strutturato per essere commercializzato, aureolato per poter essere quotato in asta, in borsa, in corsa per il premio alla carriera. A tutto questo, essi contrappongono una deriva lavorativa, un’alternativa pratica, una soluzione esistenziale. Per l’occasione, I Mutoid (ciao Lyle, Debbie, Randy, Charlie, Lucia-Lupan, Strappa, Marino & company!) hanno lasciato per un paio di mesi il loro glorioso accampamento a Sant’Arcangelo di Romagna e si sono installati con le loro unità abitative ricavate da cisterne riattate, con i loro camion metà astronavi e metà scassoni rugginosi, coi loro inseparabili cani, proprio nella Torino degli Agnelli, e qui hanno lavorato, disegnato, progettato, saldato un formidabile complesso plastico che la sera d’inaugurazione è stato percosso, battuto, suonato. Non Fiat voluntas sua, non si affermi la sua (della Fiat) concezione del lavoro, sia invece volunT.A.Z. nostra, sia dato libero sfogo a una Zona Temporaneamente Autonoma, ovvero sottratta al controllo del sistema, dell’arte, dell’industria. Una Zona Totalmente Artigiana, coraggiosamente ‘p-Artigiana’. Altre presenze nel Tempio: Bruno Petronzi (dipendente Fiat, suo è il cero votivo
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Cover boy di questo numero 0 di Afterville. Astronave Torino è giustamente Germàn Impache, torinese di origine argentine, abile artigiano metropolitano, specialista in modelli di astronavi, ma non solo. Il suo talento di modellista si ‘applica’ infatti in diversi campi: dai progetti di scenografie e allestimenti per rassegne scientifiche o festival di fantascienza, alla prototipazione rapida per una multinazionale americana, sino alla realizzazione di plastici areonautici per la Alenia. Le macchine interplanetarie restano però il suo primo amore. Quando e come è nata la sua passione per le astronavi? L’idea di viaggiare nello spazio con enormi astronavi mi ha sempre affascinato. Anche se, per assurdo, da bambino ero terrorizzato dalle macchine in movimento. Per scongiurare le paure infantili ho iniziato a costruire navicelle spaziali: mi piaceva già allora esprimere la fantasia recuperando oggetti d’uso comune per trasformarli in oggetti spaziali. La prima astronave l’ho costruita quando avevo otto anni. Da grande ho poi capito che i veri astronauti, come Malerba, il pilota dello Shuttle, sono persone di estremo rigore scientifico, con anni di studio e lavoro alle spalle, grande senso del sacrificio, e di conseguenza con un approccio meno ‘passionale’ al viaggio cosmico. I veri piloti spaziali, lanciati in orbita, hanno i piedi ben piantati per terra… Quali sono state le sue fonti di ispirazioni letterarie e cinematografiche ‘di fantascienza’? Per quanto riguarda la letteratura, sicuramente i racconti di Giulio Verne, o di scrittori come Philip Dick e Isaac Asimov per la loro visione ‘filosofica’ del futuro. Per il cinema, 2001 Odissea nello spazio di Kubrick ma anche il design delle navicelle spaziali dei film di Lucas, e le atmosfere di Metropolis di Fritz Lang. E soprattutto i grandi illustratori del fumetto come Moebius e Juan Giménez, le cui visioni futuristiche sono state pubblicate in note collane di settore come “L’Eternauta”, “Lancio Story” o “Métal Hurlant”. Per la cosiddetta scuola argentina la fantascienza, il viaggio verso mondi altri, rappresentava la speranza di liberarsi dall’oppressione politica di quegli anni. Fumetti politici, impegnati, contro il regime. Alcuni di quei maestri sono poi desaparecidos, altri si sono rifugiati in Spagna. Mentre per la scuola anglo-americana la fantascienza, di ispirazione ‘vittoriana’, ci mostra supereroi come Doctor Who, Capitan America o Spider Man alle prese con extraterrestri scesi sulla terra a scopo di conquista. Un’invasione dallo spazio temuta e combattuta. Il clima politico della guerra fredda e la rincorsa spaziale tra russi e americani si riflettono nei film americani di fantascienza di quel periodo che ci mostrano esseri umani dotati di un’intelligenza superiore rispetto ai mostruosi extraterrestri invasori da sconfiggere. In ogni caso resta l’importanza del mondo dell’illustrazione: il fumetto prefigura lo storyboard, la sceneggiatura, l’ambientazione scenografica dei film di fantascienza. Cosa l’ha spinta o come è nata l’idea di trasformare questa sua passione in mestiere? Ho sempre pensato che la mia passione potesse trasformarsi in un lavoro. Ho sempre creduto che la mia fantasia avrebbe potuto darmi da vivere. (n.d.r. perseveranza premiata poiché Impache ha iniziato il suo ‘mestiere’ fin dai primi anni ’90: ha partecipato alla Biennale di Fantascienza a San Marino; del 1994 è la prima mostra personale con l’esposizione dei suoi modelli al Festival del Fumetto di Falconara nelle Marche; nel 1995 ha lavorato al padiglione degli effetti speciali nella rassegna di Experimenta dedicata al Centenario del Cinema. Poi gli allestimenti per diverse mostre di fumetti e per i raduni dello Star Trek fans club che annovera almeno due milioni di iscritti). Tornando alle sue astronavi, quali sono le fasi di lavoro per realizzare un mezzo spaziale?
autunno-inverno 2007
Penso che ci sia uno strano desiderio di parlare con le macchine: c’è un parcheggio a Zurigo: guidi fino all’entrata e senti una voce che dice: parcheggiare qui ti costerà tot, con un’intonazione molto meccanica… Ma c’è qualcosa di un po’ strano in quella voce… c’è un cavo che corre sotto la porta, e se guardi bene vedi che c’è un uomo che nella stanza vicina ‘fa’ quella voce…
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da un’intervista di Charles Amirkhanian a Laurie Anderson in Theories and Documents in Contemporary Art, 1996
composto da catarifrangenti Fiat e il pesce-Cristo), Germàn Impache (modellista di navi spaziali, ha realizzato la cappella del Minotauro con residuati recuperati), Mimmo Laganà (meccanico di mestiere, presenta divinità egizie motorate), Cane Nero (macrochip in plastica con teschi prelevati nei mattatoi torinesi e sbiancati nell’acido), Sergio Barboni (Gorgone alienata, Eden senza pomi), Ermanno Barovero (quarti di bue in lamiera da carrozziere foggiati con martello da battilastra), infine il sottoscritto con teschi di stoffa, ceramica e un muralecollage sinottico sul neo artiere”. (P. Echaurren, Il fantasma dell’opera(io). Artigiani in mostra a Torino, in “Carta”, 19 dicembre 2002).
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politecnici e multimediali II MWC, bruno petronzi, vittorio pavesio, michele guaschino
non andava bene la società, pur senza essere dei terroristi o dei violenti, hanno cominciato a produrre, per vivere, oggetti e scenografie, quasi vergognandosi se qualcuno chiedeva “Che bello! È arte?” e loro “Nooooo, l’arte è un’altra cosa!”. Loro non sono da happy hour, loro magari si attaccano alla bottiglia di Jack Daniel’s dal mattino fino a quando non crollano: hanno poi cominciato a lavorare per discoteche e locali e oggi tengono workshop, anche in Giappone, a volte strapagati. Ma resiste una radicale incompatibilità con certi soggetti, perché il gallerista e il mutoide sono inconciliabili… insomma, restano ‘irriducibili’ al sistema, anziché conformarsi come giocoforza facciamo tutti, io per primo. Si finisce sul mercato e ci si adegua alla domanda, alla concorrenza, a quello che fanno gli altri, alle ‘tendenze’. Loro invece mi piacciono perché sono un prodotto, forse ingenuamente, basic. Sicuramente il loro rapporto con il consumatore è stato ambiguo, perché il loro prodotto finiva in posti come le discoteche, dove la gente lo trovava ‘spaziale’ -occhio però, parliamo della Romagna- ci tornava, e allora la discoteca gli faceva fare un mostro ancora più grande. La loro vera forza era però, senza voler fare del moralismo, quella di stare fuori dal mercato dell’arte. Io quando li ho conosciuti ho chiesto subito “Ma siete degli artisti?” “No no no!”. Per esempio Strapper e Debi, i Mutoidi con cui sono entrato in contatto più da vicino, e sono diventati una coppia di carissimi amici, mi raccontano che tanti altri mutoidi adesso hanno figli e i figli magari non riescono ad accettare di vivere accanto alle discariche. La plasti-cità con cui Debi crea i suoi pezzi, è poe-sia: loro hanno per me una capacità straordinaria, ancora libera, di creare. Ogni tanto mi chiamano, dicendomi che hanno dei pezzi che hanno prodotto ma che poi non hanno venduto e mi propongono di comprarli. Poi non si fanno
Accade raramente che nasca una corrispondenza d’amorosi sensi -non una partouze- tra politici e intellettuali, pubblici dirigenti e artigiani eccellenti. Torino, 2002. A Palazzo Bricherasio, allora sede della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, Rolando Picchioni ed Enzo Biffi Gentili decidono di celebrare il Centenario dell’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902 con una serie di mostre riunite sotto il titolo di Artigiano metropolitano. Nella manica nuova di Palazzo Reale, allora sede della Direzione Regionale all’Artigianato, Marco Cavaletto e Tiziana Bernengo incontrano il giornalista Orlando Perera e gli commissionano un libro da intitolare L’artigiano curioso, che sarà pubblicato da Daniela Piazza. Nella città della FIAT, allora sofferente, si pensa di sopra Bruno Petronzi, Disegno preparatorio di C-Dino, 2004, ominide lettore di CD, tracciato vettoriale sotto Vittorio Pavesio, Base spaziale, 1980, modello realizzato con materiali di recupero nell’allestimento della mostra odDesign!, Fiera Internazionale del Libro di Torino, 2004 foto Ernani Orcorte/MIAAO
sentire, passano tre mesi e io mi ricordo “Ah, aveva chiamato Strapper non gli ho più detto niente”. Lo chiamo e gli dico “Strapper c’è ancora quella roba?” “Sì sì, è ancora tutta qui”. Ma è tutto molto rilassante, forse adesso un po’ meno perché sono molto richiesti in giro, molti assessorati alla cultura dopo l’allestimento della Macchina del Tempo per Artigiano metropolitano a Torino, li chiamano. Ma non sono cambiati per niente. Hanno icellulari, ma sono sempre gli stessi, esausti, che non funzionano. Dall’underground alle discoteche è il superamento di un’epoca, no? Lavorare per le discoteche era il male minore. Sicuramente era uno spartiacque, un peccato originale, quasi come lavorare per la Coca Cola. Ma bisogna pur vivere… Mai visto spettacoli dei Mutoidi dal vivo? Il vero spettacolo sono proprio loro, ho pensato quando li ho conosciuti: erano venuti a cena da me all’epoca del Tempio metalmeccanico. Poi ho visto che alla Fnac c’erano in vetrina due loro automi, e la commessa, gentile, mi ha detto che piacevano molto anche a lei e che se avesse avuto i soldi se li sarebbe comprati. Ho chiesto quanto costavano: 4.000 euro. Una bella cifra. Io allora le ho chiesto di mettermi in contatto con gli autori e così incontro Strapper, iniziamo una trattativa pazzesca e alla fine li prendo. Tornando a quel primo incontro, una sera li invito qua, in fabbrica, stavamo ancora ristrutturando e c’era il parcheggio in costruzione e io gli stavo facendo vedere gli spazi, nevicava grosso così, si battevano i denti e Strapper era in canottiera, praticamente a torso nudo. Io gli chiedo ”Non ti vesti?” e lui “Ma va”, ha preso la bottiglia di whisky e ha attaccato a bere. Un vero spettacolo! I Mutoidi quindi incarnano questa sua idea di creatività come espressione libera? Non è che sia insensibile all’arte, anzi, penso di avere sofferto della sindrome di
promuovere una diversa cultura del progetto. Perera infatti rileva nella prefazione del suo libro che “oggi le cose sono cambiate. La crisi dell’occupazione nelle grandi fabbriche… il tramonto del mito del posto fisso, l’aspirazione dei giovani a recuperare un rapporto creativo con il lavoro non possono non restituire almeno in parte attualità all’antica rete delle botteghe artigiane”. E delle boite, aggiungeremmo, facendo riferimento a una specifica cultura metalmeccanica. Si trattava insomma, per tutti, di non considerare più l’artigianato “come il Panda del WWF”, ma di indicare nuove prospettive per una Eccellenza Artigiana del Piemonte che necessariamente doveva fondarsi su nuove pratiche, materiali e tecniche. Partendo dal genius loci: qui a esempio mostriamo il disegno di un ‘robottino’ di Bruno Petronzi, un ex ‘baracchino’ FIAT che è un modello emblematico di ‘lavoro liberato’, autoprogettato e autoprodotto. Dopo aver frequentato la Scuola d’Arte Applicata e Design di Torino come car designer, dal 1994 Petronzi ha iniziato e realizzare vari progetti artistici e grafici cimentandosi in differenti campi: dal riciclaggio e dall’assemblaggio di componenti e ricambi automobilistici al web design, sino a vincere nel 1996, a Todi, il Premio Nazionale di Artigianato Fatto ad Arte. Alcuni dei suoi progetti sono stati selezionati al concorso Zona Riuso del Castello di Rivoli ed esposti in numerose mostre tra cui Eco Way nell’occasione di Abitare Il Tempo ’95 a Verona e a Copenhagen per la mostra Design as Identity presso il Louisiana Museum. Uno dei suoi lavori è entrato a far parte della collezione per il Design del XX Secolo del Museum of Decorative Art & Design di Gand in Belgio, uno dei suoi quadri luminosi è stato acquistato dalla GAM di Torino. Altra storia di insolita e autentica passione è quella di Vittorio Pavesio, che invece parte dal disegno e dal fumetto. Prima, fin da bambino, la lettura dei classici come “Topolino” o “Il Corriere dei Piccoli” e la venerazione per gran maestri del fumetto come Hugo Pratt e Dino Battaglia. Poi, da ragazzo, continua ad ‘almanaccare’, ma anche per vedere se è possibile trasformare la passione in professione. Formatosi come grafico pubblicitario, i suoi primi lavori per la pubblicità, il visual design e la grafica editoriale gli consentono di racimolare risorse per dedicarsi al fumetto e farlo diventare un mestiere. Ha iniziato a pubblicare nel 1977 sul settimanale “Il Nostro tempo”. Nel 1978, insieme ad Alberto Setzu, ha creato il personaggio Lockness, il mostro della laguna. Oggi Pavesio è un affermato autore ed editore di fumetti che collabora con “Topolino”, “Dolly”, “Torino Affari”, “Mondo Erre”, “Il Corriere di Chieri”, “Il Corriere dei Piccoli”, “Dodo”. È tra i fondatori dell’Anonima
Stendhal a 9 anni, di fronte alla Pietà di Michelangelo, e sono dislessico, per cui per me esiste solo il visual, la multimedialità, la forma. Il linguaggio della visione è essenziale per sopravvivere. Sono scettico nei confronti dell’industrializzazione di questa sensibilità, per come si è ‘divulgata’. Intendiamoci, non ho pregiudizi di nessun tipo sul ‘mercato’ e quindi ben vengano per i giovani possibilità di provarci, di guadagnare dei soldini, di girare il mondo, superando gli stereotipi di una volta, la bohème… Anche se oggi c’è un mercato un po’ drogato ed quasi più facile vivere per qualche artista che per qualche idraulico. Poi qualche compromesso bisogna pur farlo per campare (…). Ma se l’ arte è solo promozione, ‘immagine’, è grafica. E c’è differenza tra un poeta e un grafico. L’artista deve raccontare qualcosa, emozionare. Quindi io penso che i Mutoidi, belli o brutti, giusti o sbagliati che siano, sono ‘veri’: per questo mi piacciono. Poi riconosco una sensibilità nella loro plasticità che mi affascina. Non mi chiedo se sono ‘originali’, se mi prendono per il culo, se sono importanti, se il prezzo è giusto… Non mi cattura tanto la loro manualità, la perizia nell’uso del saldatore, quanto il fatto che pur essendo trucibaldi sono dolci… Le loro opere non sono mai aggressive, anche se arrivano da trascorsi culturali belli spessi… Ai quali si sente vicino? Mi dichiaro solidale. Da che mondo e mondo c’è gente che non è contenta del mondo, lo vorrebbe più giusto, migliore, più libero, credo ci sarà sempre. Anche se la mia generazione non è una generazione di contestatori, vengo dopo il 68, sono nato nel 1956 e nel 1968 avevo 12 anni. Nel ’75 ho iniziato a a lavorare, io non sono mai stato in disordine mentale… io ho sempre detto “per cambiare qualcosa bisogna arrivare alla stanza dei bottoni”, quindi tanto vale cercare di arrivarci invece che fare tanto Fumetti, di cui è stato vice presidente. Pubblica come editore, con le sue Vittorio Pavesio Productions e Fantasy Factory, opere del fumetto italiano di qualità. È stato eletto miglior editore Italiano alla Mostra di Lucca del 1997, e attualmente è direttore artistico e organizzatore della fiera annuale Torino Comics. Ma Pavesio è anche, come Impache e Petronzi, un gran riciclatore. Straordinaria a esempio è una sua maquette di città d’invenzione, da fantascienza, tutta dipinta in ‘verde marziano’, quasi totalmente composta da tubetti di latta e plastica da confezioni di farmaci e vario consimile scatolame e persino un galleggiante del serbatoio dell’acqua di un cesso: divertita ‘saldatura’ tra progetto di urbanistica spaziale ed esito da intossicazione alimentare che Almerico de Angelis, lo scomparso direttore di “MODO” -storica rivista di design anch’essa purtroppo decedutavolle esporre nella mostra odDesign!, curata con Biffi Gentili alla Fiera Internazionale del Libro di Torino del 2004. Ma evidentemente non basta recuperare materiali di scarto provenienti dalla produzione industriale e dalle sue discariche, limitarsi a un bricolage ‘divertente’. Il design non può essere solo odd, ‘pazzerello’. O, meglio, ci sono anche, in Piemonte, casi di design ‘comico’ ma progettualmente molto complesso e prodotto, in materiali di sintesi, in grandissima serie. Orlando Perera ci illustra al proposito la storia del designer torinese Roberto Zucca. Di origine biellese, è oggi uno dei più affermati modellisti italiani. Dalla sua notevole abilità manuale nascono moltissimi oggettini ‘promozionali’ e ‘sorpresine’ e giargiatule semoventi a volte prodotte in milioni di esemplari. È un tipo di produzione in cui notoriamente eccelle, qualitativamente e quantitativamente, la grande impresa Ferrero di Alba, quella della Nutella e degli ovetti Kinder. Zucca studia giunti, incastri e montaggi e movimenti di figurine e di macchinari fantastici, ispirandosi al mondo policromo e fracassone più famosi ‘caratteri’ dei cartoons. Si tratta di un
Mario Cresci, Il tempio metalmeccanico, 2002, fotografia a colori, Archivio SSAA, Torino
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Perché è un ammiratore e gran collezionista dei Mutoidi? Il mio interesse per l’arte contemporanea è talmente basso per cui mi piacciono i Mutoidi. Non mi interessa l’arte che se non la conosci e non ne parli sei uno sfigato, che se non ce l’hai attaccata ai muri sei un tagliato fuori, non mi interessa al punto che potrei dire che non ho mai comprato un quadro. Mi sono appassionato ai Mutoidi perché le loro opere rappresentano la sintesi di un percorso culturale ed esistenziale moderno, duro e puro, vero, serio, non da galleria e da cocktail. I Mutoidi nascono negli anni ’70 -loro me la hanno raccontata così, e se non è vera è ben inventata- sono ragazzi inglesi che si sono ritrovati come tanti a rifiutare la società e tutto quello che li aveva preceduti, ’68 compreso. Loro erano di quelli che hanno incominciato ad abbandonare la società, andando a vivere nei posti più difficili, tra l’immondizia, nelle discariche, e se ne sono fatta una ragione di sopravvivenza, in quei contesti… quelli sì che sono ‘non-luoghi’, altro che i supermercati e gli aeroporti citati dagli intellettuali fighetti… E cominciano a frugare nella spazzatura e tra i demolitori per ‘arredare’ spazi privati -i loro- e pubblici -si fa per dire- perché sovente si tratta di attrezzature e installazioni per rave party: tutti lì per far festa e qualche volta a morire, e il gioco era andare avanti finché non ce n’era più neanche uno: infatti una volta i morti erano 5, un’altra 20, un’altra 7… Negli anni nei quali è arrivata la Tatcher, Zia Maggie come la chiamano loro, e ha detto “ora basta con queste cazzate” e in un modo o nell’altro la festa è finita, qualcuno è finito in galera, qualcuno è tornato dalla mamma, qualcuno è diventato commercialista o avvocato, e i più resistenti culturalmente e psicologicamente hanno trovato asilo in paesi più accoglienti. Quindi si sono formate le comunità spagnola, italiana, tedesca, olandese e questi ragazzi a cui
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Verso il mito del viaggio perduto tra i pianeti dalla stazione morta sommersa dalla nebbia
Adriano Spatola, La definizione del prezzo, 1992 casino. Quindi mi sono preoccupato di quello. Lo si immaginava il mondo cambiato, certo, ma io non mi sentivo adeguato, non ero capace di fare quello che altri facevano, girare, spaccare e ho preferito cercare, a fatica, la mia autonomia principalmente economica (…). Si dice che ti fai i soldi e poi sei schiavo dei soldi, no, è diverso. Non è facile, ma non ne sono condizionato, provo a essere misurato, a tenere la barra al centro. Cerco di non rompere le scatole: non conviene a me, e neanche agli altri. La mia generazione è supergiù la generazione di Steve Jobs, Richard Branson, Bill Gates, ragazzi di 50, non di 60 anni. Nel ’77 non ero all’università, il punk lo guardavo con rispetto, come adesso osservo Grillo… Interessi verso la fantascienza e il suo immaginario? Più che per la fantascienza ho sempre lavoro alquanto complesso: Zucca scolpisce a mano i prototipi usando la resina epossidica o poliuretanica, poi affronta la parte ingegneristica per le parti cinetiche, la fattibilità tecnica in base alla complicazione degli stampi. La realizzazione è sottoposta a rigidi parametri fissati dai detentori dei marchi dei personaggi, per cui tratti, espressioni e gesti devono essere coerenti con la loro immagine. Inoltre, essendo distribuiti su scala mondiale e destinati a un pubblico eterogeneo, le riproduzioni non devono in alcun modo offendere principi etici, idee politiche, dottrine religiose. Poi le normative di sicurezza: essendo, in teoria, destinati ai bimbi, i pupazzi devono essere atossici, privi di parti acuminate, non ingeribili, resistenti a trazione, torsione e masticazione. Zucca ha collaborato anche con l’americana Mattel, importante ditta produttrice di giocattoli che ha la sua sede europea nel novarese. E come designer ‘generalista’ ha realizzato, tra le altre cose, casalinghi e linee di complementi d’arredo e un modello in polistirolo termoformato per un apparecchio rilevatore di gas dell’ASEA Brown Boveri. Quest’ultima citazione ci consente di giungere a un’altra conclusione. L’industria deve molto all’artigianato, non solo geneticamente ma attualmente. Sul tema, testo di riferimento resta il catalogo della mostra Dov’è l’artigiano, curata da Enzo Mari alla Fortezza da Basso a Firenze nel 1981, una cui importantissima sezione era intitolata Qualità artigianale nel contesto industriale. Si pensi ai prototipi, il cui numero, secondo Mari, dipende dalla complessità tecnologica della produzione e/o dalla qualità innovativa del progetto. E si guardi, nella Galleria Soprana del MIAAO, la forma ‘spaziale’ e si ascolti il flusso musicale ‘celestiale’ dei diffusori acustici della Belths progettati e realizzati in esemplari pressoché unici dagli artieri pinerolesi Federico Colombatto e Mauro Miletto con materiali e procedimenti estremamente sofisticati, quasi esasperati. Capolavori. Arte, fatti da parte.
Foglietto di istruzioni per il montaggio di una sorpresina Kinder Ferrero
avuto interesse per la scienza, per esempio la teoria del Big Bang mi ha sempre affascinato. Ma anche quelle figure di scienziati che vanno oltre, come Einstein che diceva “l’immaginazione è più importante della conoscenza”. E subisco il fascino della trasgressione, senza la quale non può esserci invenzione. Penso a Christian Barnard, il chirurgo dei primi trapianti di cuore, trasgressivo e figo come pochi. Ma tornando a noi le immagini ‘fantascientifiche’ che mi piacciono sono quelle dello sbarco sulla luna, ma anche in quel caso si tratta di scienza… Certo un film come 2001 Odissea nello spazio è un capolavoro, ma lo vedo di più come un’opera shakesperiana… Mi ha incantato di più Fantasia, o, per tornare a Kubrick, la perturbante fantasmagoria di Arancia Meccanica.
Michele Guaschino, Alieno avvistato sul monte Musiné il 15/08/1977, 1997 lattice, vetro e metallo
Il libro su L’artigiano curioso di Orlando Perera ci racconta anche la storia dell’ossessiva passione di Michele Guaschino per i mostri. Appassionato di fantasy da bambino, e da ragazzo di cinema de’ paura e di science-fiction, Guaschino si intestardisce a voler rifare con le sue mani le creature abominevoli viste sullo schermo. Deve impadronirsi delle tecniche che stanno dietro la creazione di quelle maschere. E alla fine realizza il suo sogno. Al Liceo Artistico apprende l’arte della modellatura con gli stampi. Colleziona maschere gommose e, nel 1986, dopo aver visto il film dell’orrore Halloween III di John Carpenter, cede a un’irrevocabile vocazione ed elabora i primi lavori in lattice. Dal rapporto con il truccatore Ezio Fontana impara il trucco estetico teatrale che permette di raffinare gli interventi sulle maschere. Con Fontana Guaschino realizza i suoi primi effetti speciali per sfilate di moda, pubblicità, TV, teatro. La notte di Halloween del 1991 vola a Los Angeles per incontrare Rick Baker, vincitore di sette Premi Oscar per gli effetti speciali, tra i quali uno vinto per il trucco di Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis. Negli Stati Uniti visita diversi laboratori e aziende che producono materiali per effetti speciali e, rientrato in Italia, mette a frutto quell’esperienza realizzando simulacri sempre più sofisticati. Poi l’incontro decisivo con il trasformista Arturo Brachetti. La perizia di Michele Guaschino è oggi mostruosamente polimorfa e si cimenta in differenti settori: dai trucchi di scena per spettacoli teatrali e spot televisivi alle riproduzioni in plastica di cioccolatini per le pubblicità di industrie alimentari piemontesi; dalle creazioni di mostri per il Dylan Dog Festival di Milano fino alla realizzazione di protesi mediche al silicone e di automi per celebrati e stracitati artisti, che quasi mai menzionano il suo determinante apporto.
the end
continua dalla prima complessi, universi caratterizzati da una coerenza interna precisa, a tratti estrema. Per ciascuna di esse il minimo comun denominatore è la distonia (di volta in volta impercettibile o macroscopica) rispetto al -qui e ora- di chi le ha pensate. Gli elementi che le popolano -essi stessi creazioni del gusto e dell’ingegno del presente: edifici, veicoli, elementi di arredo- attingono alla realtà solo per tradirla, a turno trasfigurandola o rovesciandola. Nel corso degli anni (reali) gli universi (virtuali) della fantascienza si sono trasformati radicalmente, facendosi sempre più materici, toccando un ipotetico zenit e poi andando oltre, rarefacendosi fino alla smaterializzazione. Partita da quegli stupendi e perfetti oggetti rétro che popolavano la fantascienza d’antan (gli aeromobili imbullonati dei romanzi di Verne, il razzo bianco e rosso dei fumetti di Tintin, i velivoli di stagnola dei corti di Méliès), l’oggettistica di genere ha iniziato a impiegare materiali nuovi, deformandosi, assorbendo la luce, corrompendosi. La schematica e indefinita perfezione degli esordi si è pian piano consumata, lasciando spazio a texture sempre più difettose e deperibili, intaccate dal tempo e dall’uso, corrose dalla ruggine e dallo smog.Dal sense of wonder di Uomini sulla Luna al ferruginoso disfacimento dei vari Alien, passando per Solaris e Dark Star, la materialità diventa materialismo, in un deterioramento continuo che individua le sue colonne d’Ercole nel futuro distopico di Blade Runner. Al termine di questo processo di corruzione e perdita di senso c’è il passaggio dalla fisicità alla metafisica (anticipato dal nulla abbacinante di L’uomo che fuggì dal futuro), giù giù lungo la china che porta agli universi binari di Johnny Mnemonic e Matrix, fino all’immaterialità assoluta di Final Fantasy, che di questa deriva è -per l’appunto- la fantasia finale. Afterville: la mostra Afterville è la mostra che ripercorrerà le tappe di questo percorso estetico e formale: durerà da maggio a luglio 2008 e compirà una ricognizione in una fantastoria urbanistica alternativa. Presenterà dieci tipologie di città ideali, che non esistono se non come riflesso degli immaginari generati nell’ultimo secolo daarchitettura, cinema, fumetti, design e -più recentemente- videoclip, pubblicità, videogame. Dieci temi urbani fondanti,
cristallizzati intorno ai depositi degli infiniti domani fin qui rappresentati. Dieci nuclei nati dal tentativo di associare alla sequenza di forme-città un sistema di percorsi possibili, da cui ricavare conclusioni plurime e ramificate. Dieci algoritmi che costituiscono un insieme spurio di comunicazioni, immagini, flussi, scambi mai esistiti davvero eppure fortemente sedimentati nella memoria collettiva. Dieci metropoli che la mostra renderà visibili, accessibili, reali, sottraendole alla loro trascendenza e fornendo di esse una strenua illusione di verità. Afterville: gli eventi Afterville è anche il marchio ombrello che lega insieme un anno di eventi e di iniziative, in occasione dell’UIA (il Congresso mondiale degli Architetti) e di Torino World Design Capital 2008. Come tutti i viaggi si inaugura con un decollo, quello di Astronave Torino. Turin Spaceship Company, la mostra del Museo Internazionale di Arti Applicate che dal 6 ottobre 2007 al 6 gennaio 2008 elabora il tema della città futura (o postcittà) tratteggiando i contorni di una Torino insolita ed eccentrica, documentando e ricostruendo i risultati di questa sperimentazione urbana nel campo dell’architettura, della pittura, del design, dell’artigianato metropolitano. Astronave Torino (di cui trovate ampia documentazione su queste pagine) costituisce il capitolo zero, l’evento madre che dà il via ufficiale al ciclo di iniziative di Afterville. Nel maggio 2008, i rapporti tra fantascienza e pensiero progettuale verranno affrontati in Afterville e dintorni, convegno che riunirà intorno allo stesso tavolo di lavoro un architetto, un regista di videoclip, uno sceneggiatore di fumetti, critici cinematografici e letterari, chiamati a confrontarsi sulle caratteristiche formali e strutturali degli innumerevoli futuri configurati dai vari media. Sarà uno sguardo d’insieme interdisciplinare sul significato della città e dell’organismo urbano, ospitato dal Politecnico di Torino e coordinato dal presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Torino Riccardo Bedrone. Nel giugno 2008, presso il Circolo dei Lettori, il ciclo di incontri A Ovest di Afterville presenterà quattro momenti di approfondimento teorico, quattro occa-sioni di confronto a cui prenderanno parte professionisti dell’architettura ed esperti della
autunno-inverno 2007
comunicazione: Fuga da San Angeles. Architetture e design nel cinema di fantascienza; Città d’inchiostro. Architetture e design nei fumetti di fantascienza; When Tomorrow Comes. Architetture e design del futuro nei videoclip musicali; Future Is Now. Architetture e design del futuro nella pubblicità. Sempre nel giugno 2008, l’edificio più visionario e utopico della città di Torino -la Mole Antonelliana, costruita sul finire dell’Ottocento e oggi sede del Museo Nazionale del Cinema- ospiterà la serata Da Metropolis ad Afterville. In tale occasione gli squarci di futuro si sposteranno sul piano delle sonorità, con la musica ipnotica, oscura, dilatata dei torinesi Larsen, uno dei gruppi avant rock più rilevanti del panorama europeo. La band terrà per l’occasione un concerto dal vivo nell’Aula del Tempio della Mole: la performance sarà accompagnata da una videoinstallazione che ripercorrerà un secolo di storia del cinema di fantascienza, presentando come in un caleidoscopio un’antologia di scorci, profili ed elementi delle città di domani. Concluderà l’anno di manifestazioni legate ad Afterville, nell’ottobre-novembre 2008, la mostra Afterville. Divine Design, che spingerà l’approfondimento delle soluzioni spaziali ed estetiche delle città del futuro verso il loro orizzonte più estremo: quello delle città, affollatissime, dell’Aldilà… La mostra verrà ospitata ancora una volta dal MIAAO, il Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi, chiudendo il cerchio di Afterville nello stesso punto in cui si era aperto dodici mesi prima. Afterville: il film Nonostante il gran numero di produzioni cinematografiche che Torino è stata in grado di attrarre negli ultimi anni, nessun regista pare aver mai nutrito l’esigenza di cimentarsi con il suo orizzonte urbano in un’ottica proiettiva, futuribile. Nonostante le grandi potenzialità tecnologiche, estetiche, visive ed emozionali, la città è rimasta estranea alle immagini della modernità generate dal cinema di fantascienza. Costituiscono una sporadica (e parziale) eccezione a questa dimenticanza due lungometraggi a basso budget, ambientati in una Torino sostanzialmente identica a quella del presente: Omicron di Ugo Gregoretti, che nel 1963 immaginava un alieno operaio nella grande industria della metropoli di Subalpia, e La città dell’ultima paura di
continua dalla prima trasgressive: grafici-artisti come Alessandro Scali e Robin Goode con la loro Nano-arte; architetti-artisti come Giampietro Fontana, Tullio Rolandi e lo strepitoso Marco Patrito. E poi designer che si autoproducono, artigiani metropolitani come Michele Guaschino, German Impache, Vittorio Pavesio, Bruno Petronzi, Roberto Zucca, sovente ‘riciclatori’ e assemblatori di oggetti trovati. Partecipi di una ‘estetica delle rovine’ della tradizione industriale torinese che raggiunse un suo climax sublime nell’allestimento da parte della Mutoid Waste Company di un Tempio metalmeccanico antagonista alla Cavallerizza Reale nel 2002. Variegatissima quindi, anche ideologicamente, la nostra Turin Spaceship Company, però accomunata dallo stesso intento dichiarato da Pauwels e Bergier sul primo numero ‘torinese’ di “Pianeta” del 1965: “siamo semplicemente un gruppo di persone… le quali si interessano a fatti di cui i giornali e le riviste di vasta diffusione -e qualche Istituzione dobbiamo aggiungere- abitualmente non parlano”.
Carlotta Petracci, AV1, 2007, fotografia per il manifesto ufficiale di Afterville sotto Undesign, Take off Astronave Torino, 2007, visual per la prima mostra del programma culturale di Afterville
Carlo Ausino, che nel 1972 filmava (tra mille difficoltà tecnico-produttive) strade e piazze vuote, superfici alla De Chirico spopolate dall’esplosione di una bomba atomica. Nel corso delle iniziative e degli eventi di Afterville, verrà presentato il cortometraggio girato per l’occasione dalla coppia di registi Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, specializzati nel campo della fantascienza e autori di titoli apprezzati e premiati in tutto il mondo quali E:D:E:N e The Silver Rope. Afterville. The Movie, realizzato grazie al sostegno della Film Commission Torino Piemonte, racconterà la quotidianità di una coppia di personaggi alla vigilia dell’ultimo giorno dell’umanità, sullo sfondo di una Torino stravolta in
chiave visionaria. Per mezzo di effetti visivi computerizzati di grande efficacia, lo skyline della città verrà modificato secondo le indicazioni di un grande nome dell’architettura contemporanea, che disegnerà -sovrapponendoli alle linee attuales c o rc i e p a n o r a m i m o z z a f i a t o . Grazie a questo film, nato per colmare il vuoto d’immaginazione di un secolo cinema, Afterville non si presenterà soltanto come un momento di speculazione e di approfondimento teorico ma costituirà un’occasione concreta per ridisegnare il profilo della metropoli, sintetizzando sul capoluogo piemontese simboli, archetipi e immaginari delle infinite città di domani.
Joan Abellò Juanpere Fabrizio Accatino Jean Allemand Paolo Anselmetti Sergio Bacchio Robi Basme Riccardo Bedrone Pier Paolo Benedetto Zaira Beretta Enzo Biffi Gentili Famiglia Boglietti Marco Boglione Michele Bortolami Giulia Caira Laura Castagno Roberto Maria Clemente Maxime Defert Tommaso Delmastro Elisa Facchin Mirella Ferrera Gianpietro Fontana P. Giuseppe Goi d.O. Robin Goode Federica Grosso Michele Guaschino Michel Guéranger Germàn Impache Maurizio Lesna Gino Lo Stagnino Edgardo Michelotti Angelo Mistrangelo Leonardo Mosso Lucia-Lupan Ernani Orcorte Marco Patrito Vittorio Pavesio Luisa Perlo Francesco Pernice Carlotta Petracci Bruno Petronzi Mauro Pirredda Alessandro Scali Alessandro Scarpa Piergiorgio Scoffone Tullio Rolandi Marco Rostagno Jean Triffez Tamara Triffez Hélène San-Galli Triffez Alessandro Scali Massimo Teghille Tumi Turbi Tullio Rolandi Roberto Toso Enzo Venturelli Vittorio Viarengo Barbara Zandrino Roberto Zucca
Presidente del Congresso Riccardo Bedrone, Relatore generale Leopoldo Freyrie, Amministratore Luigi Cotzia, Consiglio di coordinamento: Gaetan Siew, Raffaele Sirica, Franco Campia, Simone Cola, Sergio Conti, Louise Cox, Martin Drahovsky, Jordi Farrando, Giorgio Gallesio, Giorgio Giani, Donald J. Hackl, Giancarlo Ius, Mario Viano. Comitato scientifico: Relatore generale Leopoldo Freyrie, Ernesto Alva, Pio Baldi, Achille Bonito Oliva, Alessandro Cecchi Paone, Odile Decq, Michele De Lucchi, Ida Gianelli, Rodney Harber, Stefania Ippoliti, Van Straten, George Kunihiro, Tarek Naga, Suha Özkan, Carlo Hernandez Pezzi, Michelangelo Pistoletto, Francesco Profumo, Joseph Rykwert, Vladimir Slapeta, German Suárez Betancourt, Jennifer Taylor, Mario Virano. Comitato finanziario: Luigi Cotzia, Giuseppe Antonio Zizzi, Donald J. Hackl. Organizzazione: Istituto di Cultura Architettonica (I.C.Ar) Torino 2008 srl. Staff operativo: Mario Caruso General Manager, Michele Iannantuoni Administrative Manager, Laura Rizzi Coordination of activities in Torino (OAT), Raffaella Lecchi Scientific Committee Secretriat, Luca Molinari Scientific advisor, Pier Benato Relations with Italian Orders, Vincenzo Puglielli Relations with UIA sections and Workig Programmes, Pierluigi Mutti Press Agent, Liana Pastorin Public/Media relation - Collateral events (OAT), Administrative Manager Collateral events (OAT) Eleonora Gerbotto, Corine Veysselier Public Relation, Laura Rodeschini (RODEX) General organization - Relations with the Business Sponsors, Elisabetta Mariotti Legal advisor, Roberta Asciolla Logistics and Fair, Antonella Feltrin Web - Structure and contents, Rosanna Bonelli Communication Plan, Francesco Agnese GMA Radio - Technical Manager, Maria Vittoria Capitannucci GMA Radio - contents and interviews, Chiara Ingrosso GMA Radio - contents and interviews, Olympia Kazi GMA Radio - contents and interviews, Marco Folke Testa GMA Radio - Technical support, Simona Castagnotti Web designer.
,, Jean-Christophe Grangé I fiumi di poropora, 1998
numero 0
numero speciale direttore Enzo Biffi Gentili caporedattore Luisa Perlo art direction Undesign Michele Bortolami Tommaso Delmastro redazione Elisa Facchin Mirella Ferrera Federica Grosso Liana Pastorin/FOAT impaginazione elettronica Paolo Anselmetti ufficio stampa De Angelis Relazioni stampa mostra curatori Enzo Biffi Gentili Luisa Perlo Undesign grafica Bellissimo allestimento Arte in Movimento assicurazioni Arte Sicura trasporti Arte in Movimento Gondrand mostra realizzata con il contributo di
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Presidente Raffaele Sirica, Vicepresidente Vicario Massimo Gallione, Vicepresidente Luigi Cotzia, Vicepresidente Gianfranco Pizzolato, Consigliere Segretario Luigi Marziano Mirizzi, Tesoriere Giuseppe Antonio Zizzi. Consiglieri: Matteo Capuani, Simone Cola, Pasquale Felicetti, Miranda Ferrara, Leopoldo Emilio Freyrie, Nevio Parmeggiani, Domenico Podestà, Pietro Ranucci, Marco Belloni. Presidente Riccardo Bedrone, Vicepresidente Sergio Cavallo, Segretario Felice De Luca, Tesoriere Adriano Sozza. Consiglieri: Roberto Albano, Domenico Bagliani, Giuseppe Brunetti, Mario Carducci, Mariuccia Cena, Franco Ferrero, Franco Francone, Giorgio Giani, Elisabetta Mazzola, Gennaro Napoli, Stefania Vola. Direzione Laura Rizzi. Staff: Arianna Brusca, Alda Cavagnero, Sandra Cavallini, Antonella Feltrin, Eleonora Gerbotto, Fabio Giulivi, Milena Lasaponara. Presidente Domenico Bagliani, Vicepresidente Fabio Diena, (membro di diritto all'OAT) Riccardo Bedrone. Consiglieri: Maria Rosa Cena, Franco Francone, Marcello La Rosa, Carlo Novarino, Claudio Papotti, Ivano Pomero, Giuseppe Portolese, Claudio Tomasini. Staff: Maddalena Bertone, Chiara Boero, Giulia Di Gregorio
è un progetto ideato e curato per la FOAT da Undesign, Michele Bortolami e Tommaso Delmastro con Fabrizo Accatino e Massimo Teghille e incubato da Commissione OAT Visione Creativa