La Via Speciale S.Natale 2017

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luglio 2017

Speciale S.Natale 2017

Nella foto, scattata durante il blackout imposto dallo stato di Israele: una donna con il suo bambino mentre esce dalla sua casa, illuminata da una torcia, a Khan Younis nel sud della striscia di Gaza.

necessitĂ di compassione


pag.3 Editoriale:

pag.4

Un cuore nuovo

Un amore gratuito

don Umberto

Laura Rizzi

pag.5

La compassione

pag.6-7

nel mondo del lavoro

Il paese delle

Alessandro

lacrime è misterioso

Fummi pag.8-9

pag.10

Noi lo facciamo

Una pastiglia al dĂŹ

per amore Erika Negroni

Maria Elisa Ghedini

pag.12-13

Teatro

pag.14

che passione

Il presepe vivente

Nicola Negri

Stefano Costi

pag.11

La compassione anima della medicina

pag.15

un libro un film un teatro


Un cuore nuovo Don Umberto “Compassionevole sei tu Signore” Sono parole prese dall’inno liturgico del tempo di Avvento. Parole pregate, perché ripetute ormai da tanti anni. Sono esse ad avermi ispirato il tema di questa edizione natalizia de LA VIA. In fondo Natale è il modo con cui la compassione di Dio ha preso forma e sembianze concrete nella persona di Gesù Cristo. Natale è la compassione di Dio per noi. Celebrarlo, viverlo, festeggiarlo non può quindi escludere il sentimento della compassione. La retorica del Natale che ci fa più buoni, lo sapete, mi nausea.

Ma la compassione come stile di vita no. La compassione è qualcosa di più profondo. Non solo per noi cristiani. Quando l’anno scorso partecipai all’incontro con il Dalai Lama mi ricordo le sue parole: “l’amore e la compassione sono necessità, non lussi. Senza di loro, l’umanità intera non potrà sopravvivere.”. La compassione è la capacità di cogliere il dolore altrui, l’altrui sofferenza, o semplicemente l’altrui problema, facendoli propri senza resistenze. Ogni gesto morale conosce tre fasi, espresse da tre verbi: vedere, giudicare, agire. La compassione è l’anima di tutti e tre.

Senza di essa non si può vedere il bisogno dei fratelli; senza di essa non si può giudicare con amore, senza di essa non esiste un agire solidale. Eppure questa compassione è costantemente minacciata. Subisce continui attacchi: dall’indifferenza, dalla superficialità, dall’egoismo. Mi fa paura tutto ciò. Mi fa paura anzitutto a livello personale. Temo i miei indurimenti di cuore; mi inquieta agire solo come se stessi facendo un mestiere. Ma ancora più mi spaventa a livello sociale: il bisogno spietato della competitività che crea sempre più poveri; il cinismo affaristico che umilia gli altri; la durezza e la mancanza di solidarietà. E la paura di essere compassionevoli. Abbiamo composto questo numero de LA VIA (e ringrazio tutti coloro che vi hanno scritto) per riflettere proprio su questo tema. Ci siamo chiesti cosa sia la compassione in diversi ambiti del vivere e se sia possibile praticarla. Lo abbiamo fatto nella speranza che essa possa crescere in noi. E che la compassione di Dio nel Natale ci renda più simili a lui.

Auguri!

Don Umberto

Il buon Samaritano. Dipinto, eseguito nel maggio 1890, olio su tela, dal pittore olandese Vincent van Gogh (1853 – 1890), ora conservato nel Kröller Müller Museum di Otterlo (Olanda). -3-


Un amore gratuito la Caritas parrocchiale si racconta Come cristiani veniamo sollecitati spesso a riflettere sulla parola ‘compassione’. Fin dai primi incontri di catechismo, da bambini, ci viene detto che Dio è per noi un Padre buono e misericordioso. E per questo (lo ricordiamo proprio a Natale) ha mandato Suo Figlio Gesù a farsi uomo in mezzo a noi. Gesù con il suo stile di vita, i suoi miracoli, le sue predicazioni ci ha fatto conoscere la compassione di Dio ed il Suo amore gratuito. Gesù non si è limitato solamente a provare pena per l’umanità, ma è intervenuto in modo concreto nelle situazioni di sofferenza. Provare compassione quindi non significa solamente commuoversi per le situazioni degli altri, ma anche cercare di entrare in empatia con loro e desiderare di alleviare le loro pene. Ed è proprio questo sentimento che ha spinto noi del gruppo Caritas a metterci in gioco. Da più di 7 anni dedichiamo un po’ del nostro tempo e nostre energie a questo servizio (…Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Mt 10,8) che è rivolto a tutti: italiani, stranieri immigrati, profughi. Fin qua il discorso fila….ma con il passar del tempo ci siamo accorti che non è semplice ‘lavorare’ con i poveri. Situazioni di disagio ne incontriamo tante e con il tempo si corre il rischio di ‘farci l’abitudine’, di arrivare piano piano quasi all’indifferenza e sentire che il sentimento della compassione viene un po’ meno… I bisogni materiali sono solo una ‘faccia’ della medaglia. Succede a volte che di fronte a situazioni che pensavamo di avere aiutato ci siano comportamenti e scelte che fanno tornare alle stesse difficoltà da cui si era partiti. Ascoltiamo storie di vita con esigenze diverse dalle nostre che a volte proprio non condividiamo, che non sentiamo ‘sincere’. Chi si ri-

volge a noi (non tutti naturalmente) talvolta non ha rispetto per quello che facciamo, avanzano pretese e pensano che il nostro ‘fare’ non sia gratuito. Tutto ciò non ci sembra giusto e in questi momenti è difficile pensare che la compassione dovrebbe andare oltre la giustizia. Ed è proprio la presunta giustizia che provoca momenti di crisi. Le critiche che a volte arrivano dalla comunità sono pesanti da sopportare. Capita di sentirsi inadeguati perché qualcuno ti dice che forse si potrebbe fare di più. Oppure viceversa ci accusano di un eccessivo buonismo che non è di aiuto a nessuno ma che anzi è una rovina per la società: “sono fannulloni” - “digli di andare a lavorare…” (come se fosse semplice trovare lavoro) – “mandateli a casa loro…”. Allora si insinua il dubbio…..forse sprechiamo tempo? Ci viene voglia di mollare tutto!! Come affrontare questa tentazione? E’ umano e necessario cercare delle conferme. Conferme che possiamo trovare nella preghiera ritagliando magari qualche momento di silenzio personale per meditare di nuovo sulle motivazioni che ci hanno spinto “a fare” e alla convinzione

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Laura Rizzi

ed entusiasmo che avevamo all’inizio del nostro percorso, pensando che possiamo vedere il volto di Gesù soprattutto nelle persone povere e sofferenti. Il nostro ruolo è umano/caritativo e nasce dal Vangelo del Buon Samaritano. Non è nostro il compito di governare e regolamentare la vita civile. E poi fortunatamente arriva anche qualche ‘consolazione’ che può avere diversi aspetti. Può essere un grazie ricevuto e che sentiamo particolarmente sincero, la commozione di una persona che per un attimo non si è sentita sola o un ‘aiuto’ che arriva inaspettatamente dall’esterno. Un grazie a tutti coloro che ci aiutano e sostengono dandoci fiducia in questo nostro servizio che svolgiamo, con tutti i nostri limiti, a nome di tutta la comunità.


La compassione nel regno del lavoro Storie di re, di sudditi e di eroi Un’edizione di Repubblica di qualche mese fa riportava il classico articolo dall’incipit: “Recenti studi americani dicono che..”. La notizia dell’articolo era che le aziende con un personale soddisfatto vantano un incremento del fatturato annuo del 20,9% in più rispetto alle altre realtà esaminate. Ciò che colpisce davvero, però, di quell’articolo, è la ricetta riportata per sfornare un buon personale soddisfatto: Percorso di carriera deciso e condiviso, retribuzioni e benefit costruiti sulle esigenze personali e investimenti sullo sviluppo e crescita delle persone”; una compartecipazione dunque, non esattamente quello che, a livello globale, sta accadendo oggi per i giovani dove - per utilizzare le parole di Zygmunt Bauman – finché le assunzioni dei giovani sono un buon affare, grazie alle sovvenzioni statali, si può anche pensare ad un’assunzione altrimenti, il consiglio più dispensato, è quello di non fare gli schizzinosi, di prendere i lavori che vengono senza fare troppe domande e, soprattutto, il celebre: siate flessibili! Ecco quello che oggi si chiede ai giovani, lontano anni luce dalla ricetta del recente studio americano. Quello che si chiede dunque è di non iniziare a scrivere il loro “progetto vita”, di non autodefinirsi. Di non avere garanzie e sicurezze: in sintesi, di non avere stima in se’ stessi. Ma chi è a chiedere questo? Succede davvero? “Che noia il posto fisso ragazzi!” sentenziava il Premier Monti. “Giovani non siate troppo choosy” Urlava un’anglofona Fornero mentre, riferendosi al mondo del lavoro, invitava i nostri ragazzi a non fare gli schizzinosi. “Meglio non averli più tra i piedi!” diceva invece più recentemente il Ministro Poletti in merito ai giovani italiani all’estero. Ecco, non c’è più spazio per tutti. O almeno, non c’è spazio per chi ancora non vuol barattare la sua dignità per un duro lavoro con un magro salario. Dove si trova, dunque, la compassione nelle parole di ben due ministri del lavoro della nostra Repubblica? Schopenhauer scriveva che per par-

tecipare al dolore di una persona, per provare cioè compassione, serve identificarsi in lui, fare in modo, cioè, che le differenze tra me e lui si appiattiscano, perché è proprio sulle differenze che si fonda l’egoismo. Noi, invece, viviamo in una società dove l’ambizione è potere. Si sogna, cioè, di arrivare a un gradino così elevato della nostra gerarchia sociale tale da poter incarnare quello che Carl Schmit definiva il Sovrano: cioè colui che ha potere di esenzione; chi, dunque, può fare ciò che per altri è vietato. Così, questa smania, la si vede incarnata sia nei più alti gradini della nostra piramide, con le tracotanti dichiarazioni prima riportate, ma anche nei più infimi scalini della nostra società dove, sempre con più ferocia, gli immigrati sono visti e trattati, in tanti piccoli regni commerciali, come usurpatori dei diritti di nascita. Dove, dunque, prendere esempio in questo costante addestramento all’insensibilità cui siamo sottoposti? C’è ancora compassione in una società dove una parola come esuberati, cioè non-necessari, è divenuta d’uso comune per definire gruppi più o meno grandi di uomini? Sì, non lontano da qui, a Bologna, si è combattuta una battaglia. E’ durata due anni e si è svolta sui banchi dei tribunali ma, al termine della guerra legale, la Curia ha preso in mano una multinazionale

Alessandro Fummi

da 1,5 miliardi di euro: la FAAC. L’azienda leader mondiale nella produzione di cancelli automatici è stata lasciata in eredità alla curia e, il Vescovo Matteo Maria Zuppi, dopo aver a pieno titolo preso possesso di quanto a lui spettava, ha destinato parte dei profitti a chi non trova occupazione, ai famosi “esuberati” in cerca di ricollocazione e alle aziende più fragili per fare assumere nuovi lavoratori. Dalla Chiesa, cosa ci si aspetterebbe: Carità. Elemosina. Dal governo, invece piani di ripartenza, compassione e progetti mirati alla risoluzione dei problemi economico-occupazionali. Così non è: i governi, spogliati dalle loro prerogative dalle forze della globalizzazione che non sanno contrastare, non fanno altro che cercare e offrire nemici e capri espiatori che, a loro dire, mirano l’incolumità collettiva. A Bologna, invece, non si è trattato di fare un’elemosina ma di un progetto solido e imprenditoriale di aiuto alle persone nella ricerca della propria autonomia. Nella speranza che questo sia da esempio per amministrazioni e governi, di pari passo corre il sogno che da questa bella favola sboccino migliaia di nuove persone illuminate dalla consapevolezza che nessuno di noi deve restare mai in catene perché qualcuno sia sovrano.

Banksy -5-


Il paese delle lacrime è misterioso. Ma tu non pu Un viaggio tra dono, perdono e “Non sapevo bene che cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo bene come toccarlo, come raggiungerlo... Il paese delle lacrime è così misterioso”. Così il Piccolo Principe di Saint-Exupery conosce la compassione, quel sentimento che può trovar posto in ciascuno di noi ma che talvolta a furia di veder troppa sofferenza attorno sembra sparire, liquefarsi e prendere la forma della sua antagonista: l’indifferenza. Così i vari “Je suis Paris/ Charlie Hebdo” si spengono rapidamente sotto il peso degli affanni quotidiani, l’immagine del piccolo profugo esanime sulla spiaggia sui profili social viene presto sostituito dagli scatti dei piatti gustati al ristorante o del quattro zampe domestico in improbabili pose. “Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti”, così scriveva Boccaccio, ma dove sta oggi l’umanità degli uomini? Come vivere la compassione come risposta autentica alla sofferenza dell’altro? Una via possibile la si trova nelle parole di Enzo Bianchi che pare tracciare la strada all’interno della dimensione della gratuità, per sanare il tessuto malato della nostra società. Una gratuità che è propria della compassione ma anche del dono e del perdono. IL DONO. Oggi è difficile riconoscere il dono gratuito, vi è sempre un’ambiguità presente, tant’è vero che molti si chiedono se il dono è ancora possibile. Nella mentalità dominante è entrato il “do ut des”, quel meccanismo dello scambio che fa sì che ogni azione che facciamo debba avere un ritorno, un’utilità che ritorna. Oggi siamo in una società mercantile dove tutte le cose le leggiamo attraverso il prezzo che hanno, non attraverso il valore che racchiudono, ma nonostante ciò vediamo che nella vita ci sono momenti in cui sentiamo il bisogno del donare, perché il donare è insito nel uomo, è ciò che ci distingue dagli animali, che obbediscono agli istinti e non fanno alcun dono gratuito. Pensiamo ai regali di Natale: certo per alcuni lo scambio avviene nel delirio del lusso e della loro potenza, (come dice

l’Apocalisse “In una festa di Babilonia”); ma quando un genitore o un nonno, fa un dono al proprio figlio, al proprio nipote, lo fa mosso dall’amore. Così Natale diventa significativamente festa del dono: in ognuno di noi c’è un bisogno profondo di dire faccio qualcosa di gratuito. Anche nell’uomo più egoista ci sarà un momento in cui lui sarà capace di gratuita. Fino a quando resterà questa capacità lui resterà uomo. A me cosa ne ritorna? - ci si può domandare - Mi ritorna il fatto di aver fatto un dono. Dono che può pervertirsi facilmente: dono perché sarà utile, per ingraziarsi qualcuno, fino alla perversione del dono a livello politico. Andare in un paese per fare un dono umanitario, quando in realtà si va a fare una guerra: l’abbiamo fatto in Libia, in Siria, nei Paesi poveri, nel Mediterra-

neo... Una perversione del dono fatta per avere un interesse enorme, quando invece dovremmo dare un aiuto in concerto con queste persone. Il vero dono è quello della presenza. Io sono qui, io ti offro la mia presenza. I genitori danno tutto ai propri figli: Ma la presenza ai tuoi figli quando la dai? Questo è il primo dono. Oso dire la parola esatta con cui Dio si è presentato a Mose, sperando di non risultare blasfemo: “Io sono colui che sono noi” così interpretia-6-

mo le parole di Dio al roveto ardente. Ma noi lo leggiamo in modo astruso, filosofico, mentre i rabbini ci dicono che quella parola significa semplicemente Io sono qui, sono qui per te. Ecco, questo per me è il vero nome di Dio ma anche il nome vero di ciascuno di noi per l’altro. A volte non sappiamo dare nulla agli altri, siamo maldestri, interpretiamo male i loro bisogni ma spesso basta dire all’altro ti dono la mia presenza. Da qui poi possono scaturire gli altri doni, altrimenti senza questa disponibilità il dono varia in base alla ricchezza e al potere che si ha. IL PERDONO. Per essere capaci di perdono bisogna essere capaci di dono gratuito, affinché l’altro si doni a sua volta. Io dono a te perché tu poi possa donarti, non a me, ma agli altri. Questa logica contagiosa incontra quella di Gesù, del “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Il perdono sta in una logica asimmetrica, dove il perdonare a chi ci ha fatto male non si può fare verbalmente ma richiede un lento cammino dentro di noi. Un cammino in cui assumiamo il torto, lo elaboriamo fino a capire che l’altro ha si compiuto il male, ma non è tanto diverso da noi. Certamente abbiamo bisogno anche di giustizia del torto subito, abbiamo bisogno che l’altro sia messo in condizione da non ripeterlo ma che la pena faccia di lui un uomo e non di degradarlo. Perdonare richiede un grande lavoro: estinguere rabbia e vendetta, senza mai aspettarci una ricompensa. A volte dobbiamo essere capaci di perdonare l’altro anche se l’altro non lo chiede: tremendo. Ma come cristiani ci dobbiamo spingere fino a qui. Gesù ci chiede di perdonare, Padre perdona, non sanno quello che fanno, Lui ce lo chiede... Se pensiamo ai genocidi, il perdono è difficile. Perdono non è giustificazione del male: questo deve rimanere a memoria perché aiuta la nostra civiltà a resistere alle barbarie che possono sempre tornare. Il male è male senza revisionismo. E il perdono in amore? All’interno di una storia non è facile dire ti perdono. Ma le cicatrici possono diventare il sale che dà sapore al pane spezzato tra due aman-


oi guardare all’uomo senza una stretta al cuore compassione guidati da Enzo Bianchi ti, aiutare la coppia, l’eros... Attenzione, prima occorre curare le ferite perché esse diventino cicatrici; altrimenti si fanno cancrena. Una cura fatta di intelligenza, di pazienza, di cercar capire l’altro nella sua fragilità, di mettersi al suo posto... In quel frangente non sarei forse caduto anch’io in un azione che richiede poi perdono? Non è facile: bisogna essere maturi, vincere infantilismi, la suscettibilità e dominare qualche volta i propri impulsi. Un lavoro enorme ma abbiamo davanti una metà che è oltre il male ricevuto, oltre il male fatto. LA COMPASSIONE. Compassione, un termine che in passato è stato utilizzato per indicare il sentimento verso persone in difficoltà ma anche con un’accezione distorta: tutti voi avrete ancora nelle orecchie la frase Non voglio far compassione a nessuno. Ma compatire non può essere utilizzato per indicare un atteggiamento usato dall’alto verso il basso; non può essere un guardare dall’alto con sufficienza. Compassione è un movimento in cui mi metto al posto dell’altro, un soffrire insieme. Con la compassione si viene a delineare un movimento in cui andiamo verso il male dell’altro, partecipiamo al suo male e il suo dolore lo sentiamo il “nostro” dolore. La compassione prende vita sempre da un faccia a faccia ma non è un sentimento privato, deve aprirsi una strada a livello politico, della polis, che deve essere investita della compassione.

Oggi la compassione è diventata difficile, il nostro contesto culturale ha una percezione del male differente dal passato, basta pensare alla rimozione della morte. Parlare di dolore ci riconduce obbligatoriamente al problema del male. Quel male che nella vita prima o poi ci attende al varco e su cui ci interroghiamo circa la sua origine. Unde malum? Domanda legittima ma che non trova risposte convincenti. In realtà la domanda che ci dovremmo fare è Cosa fare contro il male? L’unica risposta possibile è la compassione, che non è la soluzione alla sofferenza, ma l’unica replica sensata. Dove trova posto la compassione oggi? Siamo abituati alla spettacolarizzazione del male, all’orrido trasmesso dai media. Un male che teniamo lontano attraverso la mediazione del mezzo di comunicazione, dove il media stesso diventa un muro tra noi e gli altri. Siamo diventati “prossimi virtuali”, moltiplichiamo le relazioni con contatti liquidi inversamente proporzionali al numero di contatti reali, arrivando così alla morte della prossimità. Compassione, parola latina è simile ad un altra parola, greca, a cui però noi attribuiamo un altro significato, “simpatia”; medesimo significato ma la simpatia la si sente, mentre la compassione la si esercita. Compassione è quando siamo in grado di dare noi stessi agli altri, di stare accanto all’altro e di mettersi al suo po-

sto. Chi fa il centro dell’etica sulla compassione è il Buddismo: un soffrire non solo con gli uomini ma anche gli animali e tutto il creato. Il buddismo ci insegna rispetto perché tutti soffriamo e siamo comunicanti in una passione, questa è la verità più profonda. Compassione è una luce che tutti che conosciamo e la peculiarità del Cristianesimo è quella di mettere l’accento su chi sta in basso. Nel Cristianesimo c’è un’opzione preferenziale verso l’ultimo, la vittima delle vittime. Dobbiamo imparare a leggere la vita con la prospettiva di chi sta più in basso. In giro trovo persone anonime, in difficoltà gravi, ma come le guardo? Con i miei occhi? O con i loro occhi? Mi chiedo come chiudono la vita la sera? Oggi c’è una grande insensibilità verso la giustizia e l’uguaglianza. Nessuno se ne prende più a cuore. [Riadattamento interventi di Enzo Bianchi: incontro del 27 febbraio 2013 a Genova Intervista a Radio Rai , 4 maggio 2013]

Enzo Bianchi è nato a Castel Boglione (AT) in Monferrato il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, alla fine del 1965 si è recato a Bose, una frazione abbandonata del Comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, ha scritto la regola della comunità la quale conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di cinque diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (BR), Assisi (PG), Cellole-San Gimignano (SI) e Civitella San Paolo (RM). È stato priore della comunità dalla fondazione fino al 25 gennaio 2017. Nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nel 2007 ha ricevuto il “Premio Grinzane Terra d’Otranto”, nel 2009 il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro Il pane di ieri, nel 2013 il “Premio internazionale della pace”, nel 2014 il “Premio Artusi”, nel 2016 il “Premio Emmanuel Heufelder”. Dal 2014 è cittadino onorario della Val d’Aosta e di Nizza Monferrato, dal 2017 della città di Palermo. -7-


Noi lo faccia In dialogo con l’islamol “Dove le persone si sono incontrate, si sono stimate”. Bastano queste parole di don Giampiero Alberti per racchiudere in una frase l’essenza della compassione: solo la relazione azzera le distanze e ci mette in connessione, cuore a cuore. Compassione, un’emozione per la psicologia, un movimento volontario agito verso l’altro per i cristiani. La compassione è esigente: talvolta il vivere il dolore con l’altro ci destabilizza, ci pesa, anche quando l’altro è un familiare, una persona cara. E la compassione vissuta con chi ha poco da spartire con noi? Verso gli immigrati? Verso chi ha una fede religiosa differente e che pare “calpestare” la nostra?

e cultura. Ma i musulmani odierni, per vivere la Parola, oggi cercano di estrapolare le cose importanti in cui impegnarsi, per esempio l’aspetto che Islam è “pace”, e che è questo l’Islam da portare e da vivere.

Di compassione e fede (islamica) abbiamo parlato con don Giampiero Alberti, responsabile del servizio per il dialogo interreligioso della diocesi di Milano, da oltre 30 anni quotidianamente al lavoro con le comunità islamiche milanesi.

Noi cristiani siamo ancora ragionevolmente toccati dalla paura, dai tanti gesti di violenza, ma non dobbiamo nasconderci; dobbiamo invitare gli amici musulmani a trovare i punti che ci accomunano entrambi.

“L’Islam è la religione del rispetto reciproco fra persone di tutte le razze e religioni. Insegna ad essere rispettosi con gli anziani, a vivere felicemente con la famiglia. Il Corano insegna anche ad essere generosi con i poveri e i malati”. Ma a noi questa visione non sempre torna...

In fondo anche noi cristiani “tralasciamo” versetti della Bibbia duri e violenti forse più di quelli coranici....

Noi abbiamo due punti di riferimento per l’Islam: il Corano che è parola di Dio e la Sunna che sono le tradizioni. Spesso i nostri fratelli musulmani mettono insieme le due cose, mescolano Parola

Il problema è che spesso noi ci soffermiamo su aspetti e versetti di Corano che ci hanno fatto vedere - che parlano di conquista, di violenza verso il nemico o verso chi non accetta il loro pensiero. Tutte cose presenti nei testi sacri ma che da una buona parte dell’Islam di oggi vengono lasciate da parte. Versetti legati a certe situazioni precise, inserite in determinati contesti, che non possono trovare posto nel mondo di oggi, e che quindi non vengono più tradotti.

Sì. Tutti, anche gli ebrei e noi cristiani, abbiamo fatto un cammino di purificazione nella rilettura dei testi sacri. Quello che spetta a noi oggi, e lo vivo come sacerdote, è valorizzare le cose che abbiamo in comune, senza sincretismi. Penso alla spiritualità della preghiera, della carità, della giustizia, fino a rivede-

re l’antropologia uomo-donna. Rileggendo versetti del Corano, per esempio, scopriamo che in tribunale per fare un uomo occorrono due donne presenti. I cambiamenti nell’Islam stanno avvenendo, ma dobbiamo saper accettare che sono presenti due differenti “anime”. Islam, religione della compassione. Ma poi ti guardi attorno e non trovi strutture da loro organizzate a favore dei deboli o sofferenti. O siamo noi che non le vediamo? Tanti arrivano in Italia e subito bussano alle porte di parrocchie e Caritas... I musulmani non hanno strutture come le nostre, anche se nei paesi islamici ne ho conosciute. Ad Aleppo c’era - purtroppo oggi non c’è più - una moschea che aveva un centro organizzato per i più deboli, un grande lavoro era fatto per aiutare i più deboli e in difficoltà. I musulmani non hanno il volontariato, spesso non capiscono il nostro. O meglio, leggono il nostro volontariato come un diritto a loro riservato, un dovere dello Stato nei loro confronti. Ma la Chiesa non è lo Stato, e ciò che fa, lo fa per amore. Fuori da parrocchie e Caritas occorre mettere un cartello per spiegare questa cosa: “Non siamo pagati dal Comune, lo facciamo per amore”. Scrivetelo fuori dalle vostre chiese perché non tutti l’hanno capito. In diocesi a Milano di cartelli ne abbiamo fatti tantissimi, nelle diverse lingue,

Don Giampiero Alberti Nasce a a Cernusco sul Naviglio (Milano) l’8 novembre 1947. Viene ordinato prete il 28 giugno 1972 e nel 1994 si laurea in Arabo-Islamologia. Consegue il Dottorato di Ricerca nel 2002. Attualmente esercita il suo ministero a Cesano Boscone (Milano) presso la Parrocchia di S. Ireneo, e da oltre 30 anni è incaricato per i rapporti con l’Islam al Servizio per l’Ecumenismo e il Dialogo della Diocesi di Milano. Inoltre: incaricato presso la Conferenza Episcopale italiana il Consiglio Ecumenico delle Chiese (K.E.K.) - Ginevra il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (C.C.E.E.) S. Gallo -8-


mo per amore ogo don Giampiero Alberti per far capire alle donne, che vengono a prendere i pannolini o il latte, che agiamo per carità e non per legge. Spostiamo l’attenzione su noi cristiani. Il cristianesimo ci invita a una compassione diretta a chi sta più in basso. Poi ti accorgi che tante persone- an-

Erika Negroni che cristiane - vengono colte dall’emozione opposta, quella del disgusto. Questa visione è propria della nostra società. Se solo in tanti avessero la possibilità di conoscersi e parlare... Manca l’incontro: abbiamo paura e i pregiudizi prendono il posto dei giudizi.

Nella mia esperienza dove le persone si sono incontrate si sono stimate. Spesso accade che ti compatisco - con accezione negativa - perché non ti conosco. E’ l’incontro che ci salva dalla deriva umana .

GERUSALEMME < la spianata delle moschee, luogo di incontro >

Manca l’incontro: abbiamo paura e i pregiudizi prendono il posto dei giudizi. Nella mia esperienza dove le persone si sono incontrate si sono stimate. “L’Islam è la religione del rispetto reciproco fra persone di tutte le razze e religioni. Ma la Chiesa non è lo Stato, e ciò che fa, lo fa per amore. Fuori da parrocchie e Caritas occorre mettere un cartello per spiegare questa cosa: “Non siamo pagati dal Comune, lo facciamo per amore”. Noi cristiani siamo ancora ragionevolmente toccati dalla paura, dai tanti gesti di violenza, ma non dobbiamo nasconderci; dobbiamo invitare gli amici musulmani a trovare i punti che ci accomunano entrambi. E’ l’incontro che ci salva dalla deriva umana -9-


Una pastiglia al dì ascolto e tanta attenzione al bisogno

Maria Elisa Ghedini

Il dottor Daniele Belli: essere medico tra malattia, sofferenza e fragilità Me la ricordo come fosse ieri. Andava a trovare tutti, senza distinzioni e preferenze, dagli anziani acciaccati alle neo mamme in difficoltà. Sapeva guardare con amore al dolore e alla fatica dell’altro, senza sosta. Era la signora Gilda, l’ostetrica comunale da tutti conosciuta e che continuava a mettersi al servizio anche raggiunta l’età della pensione. Era mia nonna: lei mi ha insegnato a restituire questa attenzione, in primis proprio verso di lei, con la quale ho condiviso i suoi ultimi anni di vita. I suoi occhi e i suoi sorrisi - per il tempo e le cure che a lei dedicavo - mi donavano una gioia profonda. Questa empatia verso le fragilità, da lei ereditata, oggi mi interpella, così chiedo cosa sia la compassione a chi quotidianamente assiste gli anziani, come il dottor Daniele Belli. Cosa significa la parola compassione per un medico che ogni giorno è vicino a persone sofferenti e anziane? Nel nostro mestiere di medici la cosa più importante credo sia mettere la persona al centro del nostro lavoro. Spesso siamo abituati a curare le malattie, ma davanti a noi c’è una persona che soffre, il rischio che corriamo è quello di identificare il paziente con la malattia stessa, così cerchiamo di dare risposte cliniche mettendo in gioco le capacità di medico. Ma il centro è la persona con i suoi bisogni, la sua storia e il rapporto umano diventa elemento essenziale nella cura di qualsiasi paziente, in particolare di chi è anziano. L’anziano necessita prima di tutto di

ascolto, di essere accolto con un sorriso per sentirsi a suo agio, poi ci sono le medicine, ma perché siano ancora più efficaci hanno bisogno anche dell’empatia con il malato stesso. Oggi facciamo fatica a parlare di morte, di sofferenza e fragilità. La tecnologia sembra farla da padrone anche nella medicina. Ma è possibile curare una persona senza uno sguardo amorevole? Mai, in nessun caso. Soprattutto quando siamo davanti agli anziani che hanno bisogni totalitari, e sono appunto fragili. Fragile è un termine medico e significa avere una complessità di problemi, di malattie croniche che lo rendono vulnerabile e questo implica tante attenzioni non solo della medicina. Certo la medicina a volte è indispensabile però è solo una parte, l’altra è tutto il rapporto umano, il prendersi carico di tutti i bisogni che emergono. Davanti alla morte poi il paziente è consapevole, mentre spesso per i parenti è difficile capire che la morte è parte della vita, un momento imprescindibile che è necessario accettare, altrimenti si corre il rischio di cadere nell’accanimento terapeutico. La compassione implica sentire il dolore della persona che ti sta davanti ma un medico deve saper tenere le distanze dal proprio paziente per essere obiettivo e per non essere schiacciato dal dolore. Quanto è difficile trovare il giusto equilibrio? Nei ricordi della mia lunga carriera di medico ci sono vecchi pazienti che mi dicono: “Mi ricordo quando entravi in camera sorridente”. Il malato coglie questi

... la medicina a volte è indispensabile però è solo una parte, l’altra è tutto il rapporto umano, il prendersi carico di tutti i bisogni che emergono.

aspetti come un aiuto, sono delicatezze assolutamente necessarie per mettere la persona a suo agio e fargli sentire che sei lì per lui. Non sono gesti scontati: con gli infermieri e le nuove generazioni di medici cerchiamo di trasmettere questo valore della centralità della persona.

dott. Daniele Belli Certamente è necessario anche mantenere le distanze e questa è la parte più difficile della nostra professione, l’essere sempre in grado di dare al malato qualcosa in più delle medicine senza essere coinvolti eccessivamente. Con la troppa “vicinanza” si corre il rischio di cadere in burnout, quando il medico non riesce più a sopportare il carico di sofferenza che incontra. Dall’altro lato ci può essere anche l’effetto contrario: la morte è una cosa naturalissima e si cerca di sdrammatizzare. L’importante è che ci sia una linea oltre la quale non si possa andare proprio per tutelare questo equilibrio così difficile.

... il centro è la persona con i suoi bisogni, la sua storia e il rapporto umano diventa elemento essenziale nella cura di qualsiasi paziente, in particolare di chi è anziano.

“Mi ricordo quando entravi in camera sorridente”. Il malato coglie questi aspetti come un aiuto, sono delicatezze assolutamente necessarie per mettere la persona a suo agio e fargli sentire che sei lì per lui.

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La compassione anima della medicina

Papa Francesco: fine vita, accanimento terapeutico e prossimità responsabile Curare sì, ma per il bene integrale della persona. La medicina ha sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona. Rinunciare all’accanimento terapeutico. È una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutana-

sia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte. Il ruolo malato. Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità - sottolinea il Catechismo -. È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. La prossimità responsabile: l’altro nome della compassione. Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma

questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accumuna e proprio lì rendendoci solidali. E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. Assenza di privilegi e fragilità non chiudano le porte alla cura. Una particolare attenzione va riservata ai più deboli, che non possono far valere da soli i propri interessi. Se questo nucleo di valori essenziali alla convivenza viene meno, cade anche la possibilità di intendersi su quel riconoscimento dell’altro che è presupposto di ogni dialogo e della stessa vita associata. Inoltre trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura. ESTRATTO E RIADATTATO DAL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE AL MEETING REGIONALE EUROPEO DELLA “WORLD MEDICAL ASSOCIATION” SULLE QUESTIONI DEL “FINE-VITA”, 16-17 NOVEMBRE 2017

IL BIOTESTAMENTO E’ LEGGE 1. Disposizione anticipata di trattamento (DAT) In previsione di una eventuale e futura incapacità di autodeterminarsi, ogni persona maggiorenne capace di intendere e volere può esprimere le proprie convinzioni in materia di trattamenti sanitari. 2.Come redigere e depositare la Dat. Deve essere redatta attraverso un atto pubblico o per scrittura privata, autenticata da notaio/pubblico ufficiale/ medico del SSN o convenzionato... 3. Consenso del paziente. Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata....

4.Nutrizione e idratazione artificiale. Ogni persona maggiorenne e capace di agire ha il diritto di accettare o rifiutare qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso.... 5.Responsabilità del medico. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciarvi. 6.Minori e incapaci. Il consenso informato è espresso dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore o dall’amministratore di sostegno. 7. Pianificazione condivisa delle cure. - 11 -

....La pianificazione delle cure può essere aggiornata al progressivo evolversi della malattia su richiesta del paziente o su suggerimento del medico. Credevo che mangiare e bere fosse un diritto naturale della persona, a meno che non vi siano controindicazioni cliniche. Così come garantire la libertà di obiezione di coscienza fosse un diritto costituzionale garantito”. don Massimo Angelelli, direttore Ufficio pastorale della salute CEI


Teatro che ‘conversazione’ sul teatro e il Federico Buffa è sinonimo di qualità. Lo è dalla sua “prima vita”, iniziata nel 1991, anno della prima telecronaca di basket al fianco di Flavio Tranquillo; tanto che, per oltre vent’anni, quando in Italia scrivevi NBA intendevi (o meglio ascoltavi, e ti godevi) Buffa-Tranquillo, da TV Koper Capodistria a Sky Sport, passando per Tele+. Da “uomo di basket”, il 58enne giornalista milanese si destreggiava nel frattempo alla grande anche come opinionista calcistico, passando con nonchalance dai meandri della tattica su Milan Channel ai retroscena del calciomercato su Sky. La “seconda vita” di Buffa cominciava nel 2014, quando ‘Storie Mondiali’ - dieci puntate dedicate ad altrettanti Mondiali di calcio - era il preludio di enorme successo al ruolo da inviato, sempre per Sky Sport, in Brasile in occasione del campionato del mondo. Buffa narratore diventava così On the Road, raccontando in ‘Storie di Campioni’ una serie di leggende del calcio europeo nelle città che li hanno visti nascere, crescere o trascorrere la parte più importante della loro carriera; senza dimenticare il documentario griffato Sky Arte ‘Graffiti a NYC’. In queste trasmissioni antologiche, lo showman e precursore del web (il suo sito è nato nell’ormai lontano 2001) ha dimostrato secondo il critico tv Aldo Grasso di «essere narratore straordinario, capace di fare vera cultura, cioè di stabilire collegamenti, creare connessioni, aprire digressioni in possesso di uno stile avvolgente ed evocativo». Scrittore e doppiatore, Federico Buffa

è già pienamente calato nella sua “terza vita”, nei panni di attore teatrale. Per confermare l’assunto iniziale, il suo debutto con lo spettacolo ‘Le Olimpiadi del ‘36’ si è rivelato un successo clamoroso, con la parentesi ‘Il rigore che non c’era’ seguita da ‘A night in Kinshasa’. E proprio la nuova fatica teatrale relativa all’incontro di boxe, ma anche episodio di riscatto sociale che cambia la storia, tra Ali e Foreman andrà in scena al Centro Parrocchiale di Roveleto il 24 febbraio 2018. Buffa è ormai un amico del nostro paese che, caso più unico che raro, ha potuto applaudire lo spettacolo sui Giochi Olimpici di Berlino nel 2016 e divertirsi e riflettere con la ‘Conversazione’ del 2017. Per ‘La Via Speciale S. Natale 2017’ abbiamo avuto l’onore e il piacere di intervistare, sulla sua “nuova vita” e non solo, un campione non solo nel mondo del teatro e dello spettacolo ma anche nella vita, grazie ad una rara umanità. Prima di farlo in prima persona, eri un appassionato di teatro? Se sì, quale lo spettacolo a cui sei più legato?

Venni avvicinato da Caterina Spadaro del teatro Menotti di Milano, che aveva visto una puntata di ‘Storie Mondiali’ su Sky. Caterina, la mia prima coach, mi ha poi consegnato ad Emilio Russo, regista e direttore artistico del Menotti, e da lì è nato lo spettacolo sulle Olimpiadi del 1936. Alla mia età attore non lo puoi diventare, puoi solo provare a stare sul palco e prendere le luci giuste. La cosa più difficile e quella che ti viene più naturale quando sei sul palco. In televisione la voce non è così importante, in teatro è quasi tutto. Cambiano profondamente sia la pronuncia che il modo di sillabare. I teatri, e di conseguenza le città, che ti hanno dato più e meno ‘soddisfazione’ durante il tour ‘Le Olimpiadi del 1936’? Più soddisfazione: Udine. Meno soddisfazione: Bologna, Bergamo e Trieste. Il tuo significato del concetto di “compassione”.

Il teatro è una passione che mi ha trasmesso mio padre; con lui da piccolo sono andato centinaia di volte. Ricordo con entusiasmo al teatro Sannazaro di Napoli una pièce, ‘Il morto sta bene in salute’, con Pietro De Vico, fenomenale attore caratterista napoletano. Ad oggi, non ho mai riso così tanto.

Quello letterale di sofferenza comune con tutti gli esseri senzienti.

Chi ti ha proposto il primo spettacolo teatrale e quando hai capito che potevi fare l’attore come ‘lavoro’?

Sul presidente non saprei, si tratta di nomine politiche. Il mio mister è sempre Carlo Ancelotti. Per il resto, no comment!

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Permettimi un ‘Bonus Track’ legato all’attualità: quali sarebbero il tuo CT e presidente della FIGC ideali? E, se ti chiamassero per avere un ruolo in Federazione, cosa risponderesti?


e passione significato della compassione

Nicola Negri

F E D E R I C O

B U F F A

Ogni sera, da piccolo, mio padre mi faceva leggere L'arcimatto, la rubrica che Gianni Brera scriveva sul "Guerin Sportivo". Mi diceva: "Non importa se non capisci tutto quello che dice, l'importante è familiarizzare con quel linguaggio che sembra non avere niente a che fare con il calcio". Mi servì a capire che si poteva parlare di sport senza essere legati esclusivamente al fatto tecnico, usando un lessico atipico e mettendoci dentro anche ciò che accade fuori dal campo da gioco. ... non m’inviarono da nessuna parte e una collega di Sky mi chiese di raccontare delle storie che non c’era il tempo di narrare in diretta per riempire gli intervalli tra una partita di pallacanestro e l’altra. Federico Ferri si accorse dell’esperimento e mi disse: ‘Perché non fai la stessa cosa con il calcio?’. Non ero convinto, ma provai con l’infanzia di Maradona. Trovavo magnifico raccontare il modo in cui si forma un campione in una megalopoli come Buenos Aires, crescendo in una casa riparata da un tetto di lamiera, dormendo in sette in una stanza. La storia piacque. Mi chiesero di farne altre.....

Mi offrirono di commentare le partite del campionato universitario americano di pallacanestro a Tele + e una serie di favori della sorte trasformò in lavoro la mia passione.

Nella maggior parte dei casi, i fuoriclasse si accorgono di possedere un meccanismo straordinario intorno ai dodici anni. Ma per diventare degli sportivi di altissimo livello devono avere altre due qualità: un'ossessione funzionale che permette loro di applicarsi allo sport per cui si sentono portati, e un impressionante desiderio di rivalsa. - 13 -


Il presepe vivente un segno della compassione del Padre celeste Il presepe vivente è una tradizione popolare che ha lo scopo di rappresentare la nascita di Gesù. La stessa tradizione popolare attribuisce la rappresentazione storica del primo presepe vivente della a San Francesco d’Assisi, nel borgo di Greccio, presso Rieti, nel 1223. Nell’avvicinarmi al Natale ho pensato: che bisogno aveva San Francesco di ricreare una rappresentazione teatrale così fedele alla realtà storica della nascita di Gesù? San Francesco, era così intimamente legato a Dio, che bisogno aveva di rappresentare “fisicamente il” presepe? Il motivo di tale rappresentazione può risiedere nel fatto che tutto il popolo potesse rivivere in modo figurato tale nascita del Salvatore. Sicuramente una delle motivazioni puo’ essere questa, ma a me piace pensare che Francesco lo abbia fatto prima di tutto per sua spiritualità. Penso che questo desiderio sia scaturito naturale dal contatto profondo con Dio. Tutti abbiamo bisogno di leggere e di vedere dei segni, ma i segni si leggono e si

vedono se riusciamo a stare agganciati all’unica fonte che è in grado di generare vita . San Francesco è il patrono d’Italia. Un santo la cui mistica così profonda è ammirata da tutti, credenti e non credenti (ancora oggi i luoghi più importanti del cristianesimo sono dati in custodia a un francescano da un custode musulmano) Rappresentare un presepe , come da anni si sta facendo a Cadeo non è solo una rappresentazione popolare o una tradizione tramandata a partire dal 1223. Per San Francesco era un reale incontro con il mistero della salvezza, con quella incarnazione che è stata in grado di operare nella storia. Penso che dobbiamo avere un sentimento di gratitudine anche nei confronti di chi si adopera tutti gli anni per realizzare in nostro presepe vivente. Questo evento offre a tutti la possibilità di entrare in unione spirituale con il misericordioso evento dell’incarnazione. Certo, molti continueranno a vedere in questo una recita folcloristica. La Comunità dei Credenti al contrario, potrà scoprire quella Parola che illumina le tenebre. In quella

Stefano Costi

rappresentazione, sarà possibile fruire di quello stesso contatto fisico che Francesco cercava attraverso la sua unione con il Vangelo. Francesco aveva capito che la Parola di Dio ci spiazza sempre: era consapevole che, solo partendo dal mistero della nascita di Gesù, si era in grado leggere e osservare gli uomini e la natura. Come comunità di credenti, oggi siamo chiamati sulle orme di Francesco a costruire dei segni che possano lasciare un’impronta di fede; sarà forse per questo che come comunità siamo chiamati a costruire una chiesa? Qualcuno pensa che la vita spirituale e la fede si basino su qualcosa di aleatorio ma noi sull’esempio di S. Francesco sappiamo che la fede si basa su gesti concreti e reali. La spiritualità si basa su azioni piccole e quotidiane, cha lasciano traccia e incidono fisicamente sulla storia. Quelle e stesse tracce e quelle stesse usanze che si tramandano nel tempo siano l’auspicio per tutti di un reale incontro con Dio e con i fratelli.

Il presepe e l’albero di Natale «sono i segni della compassione del Padre celeste, della sua partecipazione e vicinanza all’umanità, che sperimenta di non essere abbandonata nella notte dei tempi, ma visitata e accompagnata nelle proprie difficoltà»

in alto: Eremo francescano di Greccio: Il cuore del Santuario è la piccola Cappella del Presepio. a sinistra :Santuario di San Francesco in Assisi, Basilica Superiore, ciclo degli affreschi (1296-1330) di Giotto, Scena XIII: Il presepe di Greccio l'incoronazione di Cristo bambino. - 14 -


Un libro, un film, un teatro la nostra pagina della cultura

IL LIBRO

G. Zanchi

Un piccolo ma fecondo libro per riflettere sulla Chiesa e sul suo futuro. Quali nodi deve sciogliere? Quali priorità vivere? Sono le domande a cui l’autore, teologo della diocesi di Bergamo, offre con lucidità una risposta.

IL FILM

Ridley Scott Blade Runner 2049 è un gran film, praticamente un capolavoro.

Il regista canadese Denis Vi l l e n e u v e compie un omaggio e al tempo stesso un atto di liberazione dal primo film. I contatti ci sono, abbondantemente, ma anziché rivisitare e ripercorrere gli snodi e i luoghi topici del primo film, 2049 va avanti, apre a una nuova pista, fe-

L’ARTE DI ACCENDERE LA LUCE ed. Vita e Pensiero La Chiesa di oggi sembra in cerca di un varco per il futuro. Mossa dal potente impulso riformatore di papa Francesco, diventa sempre più consapevole della necessità di un cambiamento al proprio interno per essere all’altezza di quanto richiestole dal vangelo di Gesù. Che forma dare all’istituzione ecclesiastica perché non finisca con l’oscurare il volto del Dio di Gesù, ma riprenda quell’arte di tenere accesa la luce della fiamma evangelica che sa attirare moltitudini? Ma perché il vangelo possa parlare alla

BLADE RUNNER 2049

storia è necessaria anzitutto l’esistenza di una comunità. La testimonianza credente può darsi nel mondo solo grazie a una comunità di uomini e di donne che danno alla loro vita la forma del vangelo, solo attraverso il loro laborioso esercizio di quotidiana fraternità che si fa largo nei gesti di costruzione della città, della storia, della convivenza umana. Questa è la posta in gioco della presenza dei cristiani nel mondo. A questo essi servono.

regia Denis Villeneuve

dele all’idea che se si conosce bene la propria storia non si è condannati a riviverla. Cioè a farcela rivedere sul grande schermo. “Andare avanti” rispetto al precedente film-capolavoro poteva essere un atto di tracotanza tragico e definitivo, invece gli autori si dimostrano perfettamente in grado di prendere in mano la storia e aumentare, crescere, arricchire, andare oltre. Harrison Ford, che arriva molto avanti nel film (quando quasi te lo sei dimenticato, ma poi lui non si fa più dimenticare), è la colla che tiene tutto assieme ma non è il protagonista.

Come ai tempi di Guerre Stellari, a fare l’attor giovane è un altro, il convincente Ryan Gosling. Accanto a lui c’è la stupenda e virtuale Ana de Armas. Villeneuve si prende carico sia della dimensione visiva di Blade Runner 2049 che dell’evoluzione del suo immaginario. E noi scopriamo che il regista di Sicario (2015) e Arrival (2016) non sbaglia davvero un colpo. È un maestro capace di costruire complessi e affascinanti meccanismi visivi e al tempo stesso mettere assieme narrazioni ricche e articolate, costruite su più strati.

IL TEATRO Federico Buffa A NIGHT IN KINSHASA di F. Buffa e M.E. Marelli Autunno del 1974, Kinshasa, Zaire. Il dittatore Mobutu regala ai suoi sudditi il match di boxe del millennio per il titolo mondiale dei massimi, tra lo sfidante Muhammad Ali (Cassius Clay, prima della conversione all’Islam) e il detentore George Foreman. Ali ha 32 anni, l’altro 25. Sono entrambi

neri afroamericani, ma per la gente di Mobutu, Ali è il nero d’Africa che torna dai suoi fratelli, George è un nero non ostile, complice dei bianchi. Tanta gente assedia lo stadio dove ci sarà il match e grida «Alì boma yé», Alì uccidilo. “È un incontro epocale che va al di là della boxe, un incontro che parla di riscatto sociale, di pace, di diritti civili. Ali torna nella terra dei suoi avi, a riscoprire le sue origini. ‘Sono africano, l’Africa è la mia terra. Da lì veniamo’. Sta nelle strade, va negli ospedali, incontra i bambini. E da lì parte il racconto di Federico Buf- 15 -

fa, giornalista sportivo che si è imposto all’attenzione del pubblico per la straordinaria capacità di raccontare le storie dei campioni e degli eventi sportivi. Un narrazione sincopata, tenuta “sulle corde” da una serrata partitura musicale scritta ed eseguita al pianoforte da Alessandro Nidi e ritmata dalle percussioni di Sebastiano Nidi, all’interno della cornice visionaria della regista Maria Elisabetta Marelli.

24 febbraio 2018 Roveleto teatro centro parrocchiale ore 21


...nessun filo spinato potrĂ rallentare il vento... Jovanotti

www.parrocchiaroveleto.it

www.parrocchiaroveleto.it Responsabile don Umberto Ciullo via Emilia 144, 29010 Roveleto di Cadeo Pc tel. 0523 509943 www.parrocchiaroveleto.it stampa: Puntodigitale Roveleto di Cadeo


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