" La Via " raccolta 2009

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in cammino con la Parola

Raccolta 2009


LA VIA

2009

“LA FEDE CRISTIANA E’ UN’ ESPERIENZA DI VITA, UN LUOGO DOVE INCONTRARE PERSONE, STABILIRE RAPPORTI, PROPRIO COME SU UNA VIA… ” (Via del 16/12/2007)

In queste pagine abbiamo raccolto le meditazioni di don Umberto pubblicate sulla “Via” che, settimana dopo settimana, ci hanno guidato, provocato o consolato: Per non dimenticare, Per intravedere risposte, Per scovare una luce che rischiari le nostre domande

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo


LA VIA

2009

Un altro anno è trascorso. E anche in questo 2009 che ci siamo lasciati alle spalle, La Via per ben 45 settimane ci ha tenuto compagnia. Un foglio piccolo, quasi tascabile, da portare ripiegato tra le banconote in un portafogli o celato tra le pagine di un’agenda… Un foglietto semplice, senza alcun colore attraente od immagine accattivante… Paginette umili che racchiudono in sé molto più dei numerosi appuntamenti settimanali che la parrocchia offre. La Via è soprattutto un silenzioso compagno che ci accompagna nei nostri giorni, nella nostra ferialità, piena di affanni e di distrazioni. E se è vero che la Bibbia è l’unica vera e grande Luce dei nostri passi, La Via è un piccolo cerino che rischiara tratti della strada che stiamo percorrendo e che non lascia spegnere il nostro desiderio di camminare con Cristo. Erika.

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LA VIA

Domenica 4 gennaio

2009

TI RACCONTO UN SEGRETO (Gv 1, 1-5 . 9-14) Tutto il Vangelo di Giovanni custodisce un segreto. Chi lo legge si imbatte spesso nella menzione di un “discepolo che Gesù amava” di cui non si dice il nome. Si sono fatte una molteplicità di ipotesi per capire di chi si tratta, ma nessuna soddisfa appieno tutte le esigenze. Ce n’è una però che ci emoziona più di altre: il discepolo amato senza nome è colui che in quel momento legge il Vangelo che è quindi invitato ad entrare a far parte delle vicende stesse, rivivendole in prima persona senza lasciarle solo scritte sulla pagina. In una parola il discepolo amato è ciascuno di noi mentre legge questo Vangelo e lo scopo del Vangelo stesso è quello di farci conoscere Gesù per seguirlo. A questo punto si fa più chiara l’intenzione stessa dell’apostolo Giovanni: il Vangelo fu scritto per far crescere nella fede e solo alla fine vi fu aggiunta una pagina importante perché era quella che dava senso al tutto. Questa pagina era il prologo! Sì proprio il testo ascoltato oggi nella liturgia: esso è il primo capitolo del quarto Vangelo ma fu scritto solo alla fine, quando il piano dell’opera era ormai definito. Dopo aver descritto cosa volesse significare essere discepolo l’evangelista si è chiesto: da dove ha origine tutto ciò? E ha risposto con una riflessione filosofica e a tratti poetica. Ci dice che il vero credente è un’eccezione perché tanti, troppi, non accolgono il Verbo fatto carne. Chi crede infatti non vive “secondo la carne e il sangue”, cioè secondo i desideri spontanei. L’espressione “carne e sangue” infatti, descrive in forma sintetica i modi di sentire e di vivere che nascono in noi senza essere scelti ma suggeriti dagli umori personali e dai modi di dire e pensare espressi da tutti. Vivere con la fede nel Vangelo vuol dire rompere la dipendenza dagli umori e dai luoghi comuni che premono su di noi come un peso inerte. Vuol dire mettere di mezzo, tra l’inclinazione e l’azione, l’ascolto disponibile della Parola di Gesù per lasciarci guidare da Lui. Il cammino per essere simili discepoli è accompagnato dalla sapienza di Dio che opera “fin dal principio”, dando senso e ordine alle cose e facendo rientrare tutto, anche gli sbandamenti, dentro il suo misterioso disegno. La meta è chiara: servire il Signore. L’origine pure: il pensiero provvidenziale di Dio. Tra i due poli, la nostra vita: piccola, semplice, ma unica e irripetibile.

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Domenica 11 gennaio Battesimo di Gesù CON I PECCATORI (Mc 1, 7-11)

Al vederlo lì in fila con tutti gli altri nessuno l’avrebbe mai detto che quell’uomo era il Figlio di Dio. Il battesimo di Giovanni era per il perdono dei peccati e i più incalliti venivano da lui per essere lavati e purificati. Tra questi Gesù di Nazareth. Lui che non ha mai conosciuto peccato. Cominciò così il suo ministero tra noi, con questa sua dichiarata scelta di stare con i peccatori e non contro di loro, con la sua opzione di convertirli con la condivisione e non con la minaccia. Per tutta la vita Gesù si comportò così, al punto da essere chiamato “amico dei pubblicani e dei peccatori”. Ma a Lui questa etichetta non darà mai problemi: egli non si curò della sua immagine perché la sua certezza era che di questa immagine si sarebbe preoccupato Dio stesso, il Padre suo. Spesso Gesù chiese il silenzio sulla sua persona e i suoi gesti; quando lo cercavano per farlo re si ritirava in luoghi solitari; quando era acclamato e osannato faceva discorsi duri ed esigenti. Per questo, ancor oggi, ha una parola vera da portare in una società che ha fatto dell’immagine il suo feticcio. Ci si preoccupa di come si appare agli occhi degli altri a volte in modo eccessivo. La cura per la forma fisica diventa più importante di quella per la salute e il mercato dei prodotti estetici si incrementa sempre più. Abbiamo costantemente bisogno di essere riconosciuti, apprezzati, considerati. Tutto ciò potrebbe anche essere naturale, se non fosse che l’effetto collaterale di una simile cultura è lo scoraggiamento e la desolazione che sperimenta chi non rientra in questi canoni. Proprio come i peccatori del tempo di Gesù, scartati e disprezzati dai ben pensanti. Loro andavano da Giovanni il Battista; noi sappiamo di poter contare sul Signore. Ogni volta che sentiamo rinascere in noi il dubbio di non essere nulla, ogni volta che la fatica di vivere ci pare eccessiva e la delusione fa capolino deve tornare alla nostra memoria il Figlio di Dio che scende nell’acqua del Giordano. Non dobbiamo sfinire la nostra forza nel tentativo inutile di salvare la nostra immagine agli occhi degli altri e ai nostri stessi occhi; dobbiamo invece rinnovare l’attesa fiduciosa che oggi ancora risuoni dal cielo una voce e proclami la nostra dignità di figli.

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2009


LA VIA

Domenica 18 gennaio IL NOSTRO NOME RISUONA (Gv 1, 35 - 42 e 1 Sam 3, 3 - 10)

Oggi si parla di vocazione. E’ un tema assolutamente fondamentale nella prospettiva della fede cristiana; e soprattutto non è l’esperienza privilegiata di pochi cioè solo di quelli che “hanno avuto la vocazione”. La vocazione è esperienza comune non solo dei cristiani, ma addirittura di tutti gli uomini. La nostra vita infatti è possibile soltanto nella forma di una risposta ad una chiamata: soltanto udendo il proprio nome pronunciato da altri ciascuno arriva a comprendere la sua identità. Su questo tema dell’identità si sviluppano nella cultura odierna molte riflessioni. Si dice che ci sono identità deboli, che non ci sono più padri autorevoli, che sono in crisi le figure istituzionali dall’insegnante al prete. A volte c’è confusione persino sull’identità fondamentale di maschile e femminile: i margini tra i due si presentano incerti con le prevedibili conseguenze etiche. I grandi progressi delle neuroscienze, con la loro analisi della mente umana, hanno portato sì grandi benefici, ma anche profondi interrogativi su chi sia veramente l’uomo se viene equiparato ad un insieme di cellule neuronali in movimento. In questo contesto, non sempre sereno, le pagine bibliche di oggi suggeriscono una direzione: l’identità può essere compresa alla luce della vocazione. Solo se capisco chi mi chiama, con che nome mi chiama, che cosa attende da me, posso insieme trovare la mia identità. E’ così fin dalla nascita: quando un bambino sente pronunciare il suo nome capisce di esistere agli occhi degli altri. E tutta l’infanzia trascorre così: ogni bambino si sente chiamare; la sua vita non è possibile se non come risposta alla voce che chiama. I bambini non sono preoccupati per se stessi: giocano fino allo sfinimento, fino ad ignorare l’orario. Ma considererebbero assurda la richiesta di inventare da se stessi la loro vita o la loro identità. Questa identità viene riconosciuta attraverso la voce della mamma e del papà che deve rimandare però ad un’ALTRA VOCE che sta fuori campo. E’ la voce protagonista del racconto biblico della chiamata del piccolo Samuele; è la voce di Cristo che chiama i discepoli a seguirlo. E’ strano che, con il sopraggiungere dell’età adulta, si metta a tacere questa voce che i bambini inequivocabilmente sentono. Mi chiedo se nell’invito di Gesù a tornare come bambini non ci sia anche quest’appello a prestare ascolto alla VOCE invece che al frastuono che ci circonda.

Si dice che solo da adulti si capiscono le cose e si conosce la vita; si dice che l’infanzia è una condizione di passaggio, una condizione temporanea. Sarà anche vero, ma non di rado mi trovo a pensare che sia la condizione adulta ad essere effimera. L’infanzia,lei sì che è eterna.

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2009


LA VIA

Domenica 25 gennaio

2009

UNA FRETTA “EVANGELICA” (Mc 1, 14-20) Quello di Marco è un vangelo breve, asciutto e incisivo. Sedici capitoli in tutto che si leggono in non più di due ore. E’ come un fulmine o una meteora. Tutto si svolge in fretta nelle pagine di questo vangelo.L’avverbio “subito” interviene spesso a scandire i tempi della narrazione. Anche Gesù si muove come se, per l’urgenza del fare, non ci fosse neppure un minuto da perdere. Egli inizia il suo ministero con una frase: “.. il tempo è compiuto, convertitevi”. Bisogna prendere coscienza che il tempo favorevole è questo, domani sarebbe troppo tardi. A questa fretta di Gesù fa eco S. Paolo nella lettura odierna “fratelli, il tempo si è fatto breve!” Certo fa riflettere questo ripetuto appello ad agire subito, senza tergiversare. In genere, infatti, la fretta non è una buona cosa. La nostra sapienza popolare ci fa dire che essa è una cattiva consigliera; ma anche la tradizione spirituale della Chiesa insegna a valorizzare l’attesa e la pazienza piuttosto che la fretta e l’affanno. Vengono in mente le parole di S. Agostino che pregava così: “Signore, rendimi santo, ma non subito”. Perché allora questa insistenza di Gesù ad agire con immediatezza? Se guardiamo a noi stessi ci accorgiamo che quando si tratta di fare del bene, di compiere un sacrificio o una azione che non ci procuri immediato vantaggio allora siamo portati a rimandare molto i nostri gesti. Prima di deciderci ci attardiamo a lungo, magari con alibi e pretesti banali ma che noi sentiamo insuperabili. Forse è proprio in queste situazioni che Gesù raccomanda la fretta. Si tratta di compiere scelte buone, gesti di attenzione o sacrifici o anche quando non ci sono le condizioni ideali e la nostra convinzione interiore non è del tutto solida. E’ il bene stesso a suscitare l’urgenza. Tanto spesso invece la nostra fretta e la nostra impazienza le esercitiamo nei confronti degli altri. Quando coltiviamo aspettative di qualsiasi tipo nei confronti dei fratelli allora, piano piano, diventiamo anche esigenti e vorremmo vedere l’immediato realizzarsi dei nostri desideri. Siamo portati ad essere impazienti con gli altri e pigri con noi stessi, mentre Gesù ci esorta a fare l’esatto contrario Dio ha con noi una pazienza infinita: ma di essa fa certamente parte anche il continuo appello ad affrettare la nostra conversione, senza rimandare all’infinito il bene da compiere.

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Domenica 1 febbraio

2009

LA PAROLA FERISCE (Mc 1, 21-28) La Parola di Dio può far male. Si consiglia, a chi soffre emozioni troppo forti, di stare lontano. Fa male anzitutto a chi la trasmette, a chi la annuncia, se la annuncia con sincerità. Mi viene in mente una splendida pagina del romanzo di Bernanos “Diario di un curato di campagna”. Si racconta di un giovane prete che va a trovare un anziano parroco, un uomo sapiente, ma burbero e arcigno. Il colloquio tra i due è toccante e alla fine l’anziano congeda il giovane con questa frase: “quando il Signore trae da noi, per caso, una parola utile alle persone, dobbiamo sentirla dal male che ci fa.” La Parola di Dio però fa male anche a chi la riceve. Se si va ad ascoltare la Parola del Signore per cercarne un “effetto placebo” si rimarrà delusi. Perché essa deve inquietare. Deve corrompere anzitutto la nostra tranquillità. E’ ciò che ci testimonia il vangelo di oggi; l’ossesso guarito da Gesù reagisce dicendogli: “Sei venuto a rovinarci!” Mi colpisce questo grido di reazione. Quell’uomo ha avuto bisogno di passare attraverso una iniziale rovina per essere guarito. Era una persona normale, seduta tra i banchi della sinagoga, e la Parola di Gesù lo scuote, lo ferisce e lo sana. Quando Gesù parlava le persone avvertivano come un coltello nella piaga, come il sale sulle ferite, eppure continuavano ad andare ad ascoltarlo. Capivano che la sua Parola faceva crescere, perché pronunciata “con autorità”. Da dove veniva a Gesù la forza della sua parola? Anzitutto Egli parla in una sinagoga che è luogo di silenzio e di ascolto. Altre volte sceglierà il deserto o il monte o la riva del lago. Perché la Parola, per essere autorevole, deve avere il profumo del silenzio. Non può risuonare nel chiasso delle piazze o tra uno spot pubblicitario e l’altro. La forza della Parola di Gesù si fondava ancora sulla sua aderenza alla vita: non impartiva lezioni, ma parlava dal cuore. Il cuore dell’uomo è il suo oracolo, perché da lì vengono le parole più vere; sono quelle più profonde non quelle istintive, perché il cuore non è il luogo della spontaneità. Per arrivare al cuore di noi stessi e delle cose ci vuole tempo,come quando si cerca una sorgente sotterranea. Ma da quella profondità nascono parole autorevoli, parole che fanno crescere. E queste parole, come quelle di Gesù, a volte hanno bisogno di portare rovina. La Parola di Dio può far male: ma è un male che si converte nel nostro vero bene.

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Domenica 8 febbraio

2009

Bisogno di guarigione (Mc 1,29-39) e (Gb 7,1-7) Al tempo di Gesù Cafarnao era un piccolo paese con poco più di mille abitanti. Per questo, di fronte all’altissima densità di malati e di indemoniati di cui parla il Vangelo si rimane perplessi. Gesù opera guarigioni fin dopo il tramonto del sole, quando neppure agli schiavi era più permesso di lavorare. Sembra che i malati si siano concentrati tutti in quella cittadina talmente è esagerata la loro presenza. Forse erano giunti a Cafarnao anche dai dintorni. O forse lo scarso sviluppo della medicina faceva sì che tante fossero le persone con salute cagionevole. Ma se noi considerassimo anche la prima lettura di oggi capiremmo il senso di questa sproporzione. Il libro di Giobbe presenta un situazione di malattia che riguarda ogni uomo. Richiama alla mente quella che il filosofo Kierkegaard chiama “la malattia mortale”: un’esperienza che non riguarda solo il corpo ma anche lo spirito. Una condizione di tristezza, di sfiducia nella vita e di vuoto di senso dal quale si viene afferrati, per periodi che possono essere anche lunghi, venendo condotti ad attendere qualcosa, una svolta, un evento che non accade mai. La condizione dell’uomo, se la guardiamo con disincanto non è quella che viene offerta dalla pubblicità: belli, felici e vincenti. E’ qualcosa di molto più precario e più fragile: noi siamo tutti bisognosi di guarigione. La comparsa di Gesù genera subito qualcosa di nuovo. Egli parla nella sinagoga di Cafarnao e rompe la routine soporifera di quel paese; entra in casa di una donna malata e la guarisce; rimane fino a sera inoltrata e sana una gran quantità di indemoniati. Gesù porta la guarigione di cui c’è bisogno. E mette in evidenza segni inequivocabili di tale guarigione. La suocera di Pietro, sanata dalla febbre, si mette a servire, si rende disponibile, uscendo da una preoccupazione rivolta unicamente a se stessa per andare incontro agli altri. Il vuoto di senso si colma smettendo di guardare solo il proprio mondo (il proprio ombelico direbbero i padri della Chiesa) per abbracciare ciò che c’è intorno e fuori di noi. Una vita offerta, una vita donata, come fu quella di Gesù,rappresenta la vera guarigione. La forza di questo dono il Signore la trova nella preghiera alla quale ricorre sottraendo il tempo ad altre, pur legittime, incombenze. E quando tutti lo cercavano perché urgente era il bisogno di lui, egli andava altrove… Gesù, in verità, è sempre alla ricerca di un “altrove”; incapace di lasciar scivolare nella routine la forza del suo amore, rinnova la sua freschezza interiore nel contatto con Dio.E così guariva. Guarirà anche noi.

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Domenica 15 febbraio

2009

TRASGRESSIONE E SALVEZZA (Mc 1,40-45) Una terribile condanna alla solitudine. Ecco cos’era la lebbra: una malattia che generava emarginazione, isolamento, allontanamento da parte della società. Il lebbroso rappresentava tutto ciò che gli uomini per bene non volevano vedere: le brutture, le imperfezioni, il marciume. E come se non bastasse, un lebbroso era ritenuto alla stregua di un peccatore colpito da Dio e la sua malattia era il castigo divino. Alle barriere erette da parte degli uomini si aggiungevano quelle di Dio… O meglio, quelle di una certa idea di Dio: un Dio meschino quanto le persone, un Dio allineato con gli stessi sentimenti umani, paurosi e faziosi. Un Dio che non si differenziava in nulla e faceva sue le stesse piccole idee delle persone, perché in fondo non ne era che il prodotto. Sempre l’umanità ha dovuto far fronte a questo rischio: quello di manipolare Dio, facendogli dire quello che gli uomini avevano in testa, anzi, invocandolo come grande giustificatore delle azioni umane, anche se riprovevoli. Un Dio assurdo, ma che non poteva dar fastidio a nessuno perché tranquillamente addomesticato. Ma se una persona non ha più gli uomini con cui stare e nemmeno un Dio da invocare cosa gli rimane? Cosa rimaneva a quel lebbroso? Ormai, solo un ALTRO DIO lo poteva salvare; anzi un Dio “totalmente altro”: Gesù Cristo. Il miracolo avviene, lo sappiamo bene ormai, ci siamo così abituati a questi racconti di guarigione che essi non ci sorprendono più. Ma ci dovrebbe sorprendere il fatto che questo miracolo sia reso possibile da due trasgressioni: trasgressivo è il comportamento del lebbroso che si avvicina a Gesù. Non ne aveva il diritto. Era un gesto che la legge puniva a colpi di pietra; ma trasgressivo è anche il gesto di Gesù che tocca il lebbroso. Era proibito. Del resto avrebbe potuto guarirlo senza toccarlo. La trasgressione per Gesù vuol dire cancellare la distanza, abbattere gli steccati della separazione, diventare lui stesso un appestato assumendo su di sé la condizione maledetta dell’altro. E con questo gesto dipinge i tratti di un nuovo volto di Dio. Nei confronti del lebbroso resta un ultimo atto di prudenza: Gesù gli dice di andare a presentarsi al sacerdote perché la religione istituzionale possa accertare la sua guarigione. Ma il lebbroso non ci va. E fa bene. Perché di un dio che lo aveva scartato, emarginandolo come avevano fatto gli uomini non ne vuole più sapere e di una religione piena di regole, ma vuota di carità non vuole più sentirne parlare. E noi?

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LA VIA

Domenica 22 febbraio

2009

ANDARE OLTRE (Mc 2,1-12) Il Vangelo di Marco, al termine di un racconto di guarigione, ripropone spesso l’ordine di Gesù di tacere. Egli compie miracoli e poi chiede che non lo si faccia sapere in giro. Inizialmente si resta sorpresi di questa ingiunzione da parte di Gesù, ma poi il significato ci diventa chiaro. Gesù diffida di quel fervore immediato e troppo facile che suscitano i suoi gesti di guarigione: esso appare una reazione solo umana, e troppo umana, che non coglie il senso del mistero annunciato da quelle guarigioni. Esse infatti non sono semplici rimedi a situazioni di disagio e di sofferenza, ma annunciano un mistero. Come tali non possono essere colte, nel loro pieno significato, da reazioni emotive e spontanee, ma richiedono tempo e riflessioni, richiedono di essere metabolizzate. C’è bisogno,insomma, di “andare oltre”, di non fermarsi solo a quel che si vede, perché solo andando oltre ci si mette in sintonia con Gesù. Il miracolo raccontato dal Vangelo di oggi va compreso esattamente con questa logica. Anzitutto occorre oltrepassare la folla che impedisce l’accesso diretto a Gesù. Coloro che stanno intorno al Signore sono come una barriera per il paralitico che deve essere calato dal tetto sul suo lettuccio. La massa è spesso un impedimento ad una esperienza di fede forte, ad un reale incontro con Cristo. Occorre sempre uscire dalla confusione, “andare oltre” la calca, la folla indistinta, per mettersi in gioco personalmente. Una volta davanti al paralitico è Gesù a compiere un gesto con cui va oltre l’evidenza: egli lo guarisce ma associa questa guarigione al perdono dei peccati. Gesù è capace di “andare oltre” nel senso che vede nel male fisico l’espressione di un altro male, un male morale, una ferita interiore. Per Gesù una ritrovata efficienza fisica che non fosse accompagnata da una ritrovata integrità interiore non sarebbe un vero miracolo. A che serve risolvere una paralisi esteriore se rimane paralizzata la propria interiorità? Gesù sa che la ragione vera per cui la paralisi fa tanto male sta nel fatto che gli uomini fanno consistere la loro vita in quelle cose che solo con le gambe si possono fare e quindi chi non le può usare è spacciato. Ma la vita non consiste in quelle cose; la vita vera sta nel nostro legame con Dio. Se noi fossimo certi d’essere cari a Dio e amati da Lui, nessun male di questo mondo potrebbe toglierci la fiducia. Perdonando i peccati del paralitico, Gesù vuole fargli comprendere esattamente questo: non è disprezzato da Dio solo perché non può far uso delle gambe! Possiamo chiederci anche noi che cosa ci paralizza: forse, se cercassimo bene, troveremmo in qualche angolo della nostra anima il timore di essere colpevoli senza rimedio. Troveremmo il timore, che nasce dal peccato, di non essere accolti, capiti, amati dal Signore e capiremmo che è questo a paralizzarci. Ma solo allora gusteremmo la bellezza di questa pagina del Vangelo.

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LA VIA

Domenica 1 marzo -1° di Quaresima

2009

TRA NOE’ E GESU’ (Mc 1,13-15) L’appuntamento fisso si rinnova e la Quaresima ritorna, con il suo radicale appello alla conversione, alla sobrietà e alla carità. Ci si presenta davanti agli occhi l’immagine ormai familiare di Gesù nel deserto, tentato da Satana. La versione però è quella dell’evangelista Marco, che ne dà notizia in modo conciso, senza alcuna informazione relativa ai contenuti delle prove che Gesù dovette superare in quei quaranta giorni. Il senso di questa esperienza di Gesù è suggerito attraverso pochissime indicazioni, laconiche, ma molto dense di suggestione. Tra tutte, la più eloquente dal punto di vista simbolico mi sembra quella conclusiva dell’episodio:” Gesù stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”. E’ una visione di grande armonia e di pace. C’è qualcosa di paradisiaco e di bucolico in questo rimanere di Gesù tranquillo anche tra animali feroci. E’ simile a quei momenti (pochi a dire il vero) nei quali capita anche a noi di sentirci sereni, pacificati, in profonda sintonia con la vita e con il creato. Anche la prima lettura fa pensare a questo scenario: al termine del diluvio Dio ristabilisce la sua alleanza con Noè e, attraverso di lui, con la creazione intera.Un respiro sereno sfiora gli esseri viventi, dagli animali alle piante. La differenza consiste, evidentemente, nel modo con cui si è giunti a questa armonia. La generazione del diluvio era cattiva e fu spazzata via da un intervento di Dio, duro ma efficace. Per ritrovare sintonia ci fu bisogno di fare piazza pulita. Con Gesù invece si è giunti all’armonia grazie alla capacità di vincere le tentazioni e quindi di resistere al desiderio di imporsi e di possedere a tutti i costi le cose. La situazione in cui Gesù viene a trovarsi ricorda il paradiso: mediante la sua lotta vittoriosa con Satana, Gesù trasforma il deserto in giardino. Ma c’è bisogno di passare attraverso una mortificazione dei desideri perché ciò avvenga. Per noi oggi forse questo è un linguaggio antico e indigesto ma la sua verità resta immutata. Tutti sappiamo che l’eccesso del cibo, delle bevande o la dipendenza dal desiderio degli occhi sono nutriti da una permanente agitazione dello spirito; in una parola, sono nutriti dal nervosismo. Ci accorgiamo spesso di essere nervosi ma non sappiamo il perché. Il nervosismo è in realtà l’indice di una assenza: ci viene a mancare qualcosa che riteniamo di dover avere e così ci sentiamo colpiti da un’ingiustizia. Allora ci tuffiamo sulle cose per riempire questa assenza che ci fa soffrire. Ma nel deserto, dove Gesù andò, non c’era niente da possedere o niente da vedere: e solo quando la bocca è vuota e gli occhi placati è possibile cogliere quello che c’è nel cuore. Questa situazione di pace e di armonia, senza nervosismo, non è un’illusione o una chimera. E’ il frutto di un tempo quaresimale in cui si ridimensionano bisogni, pretese e aspettative per porre la nostra fiducia in Dio al quale appartengono tutti i nostri giorni. Buona Quaresima

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Domenica 8 Marzo - 2° di Quaresima ADDIO MONTI (Gn 22 e Mc 9, 2-10)

Il titolo lo prendo in prestito dal Manzoni, ma spero che non mi vengano chiesti i diritti d’autore. Mi sembrano le parole più adatte a dire in quale contesto ci faccia muovere oggi la liturgia. C’è il monte sul quale è chiamato a salire Abramo per sacrificare suo figlio; e c’è il monte sul quale sale Gesù per trasfigurarsi davanti ai discepoli. Il fascino di questi monti biblici non sta tanto nella strada faticosa per arrivarci quanto nel mistero dell’”altro versante” che essi svelano. Evidentemente la salita è un’immagine simbolica: è il simbolo di un cammino che va verso Dio, che si innalza a qualcosa di straordinario e di sublime. Ma anche l’ “altro versante” è simbolico: il monte rivela qualcosa di inedito, di sconosciuto che però attrae e incuriosisce. Per Abramo la vetta del Moria è una meta inquietante ed angosciosa: dovrà salire lassù per sacrificare suo figlio, quel figlio tanto atteso e tanto amato. Ma una volta giuntovi, gli si rivela la bellezza dell’altro versante. Sul monte il Signore provvede. Ciò che Abramo temeva come una prova terribile si dimostra essere un segno della provvidenza. E la notte oscura della sua fede si trasforma nell’aurora di luce del dono di Dio che gli restituisce il figlio. E così anche per gli apostoli che salgono sul monte con Gesù sono in serbo piacevoli sorprese. Avevano conosciuto Gesù sempre immerso tra la gente, pronto a guarire, consolare,liberare, ora invece lo vedono tirarsi in disparte, sottrarsi all’assedio della folla e delle sue attese. Gesù si è spesso assentato quando coglieva aspettative sbagliate nei suoi confronti. La sua vita non fu un continuo rispondere alle attese della gente. Anzi, il suo mistero fu quello di essere spesso altrove rispetto a dove le persone volevano che egli fosse, costringendo gli altri a cercarlo più che essere lui a cercare loro. E per gli apostoli ciò significò sperimentare l’altro versante del monte, cioè conoscere Gesù in un modo nuovo più intimo, più vero. Lo conobbero in tutta la sua gloria e la sua realtà divina. Gesù li ha sottratti alla pianura e li ha portati in alto, lontano dal mondo abituale. Facendoli uscire dalla vita ripetitiva, appesantita dalle consuetudini e offuscata dalle convenzioni hanno potuto intuire la verità interiore del loro maestro. Per questo è necessario, ogni tanto, uscire dalla dimensione mortificante della pianura e guadagnare l’aria delle altezze, del silenzio, della solitudine e della preghiera. E custodire la consapevolezza che i monti vanno abbandonati. Sia per Abramo, che per gli apostoli con Gesù, il monte non fu una meta ma una sosta. Da quei monti occorreva discendere perché la vita era altrove. Ma senza quei monti la vita avrebbe avuto tutto un altro significato: senza dubbio più vuota e più povera. Fa’ che la tua Quaresima non passi senza trovare anche tu il tuo monte su cui salire.

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2009


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Domenica 15 Marzo - 3° di Quaresima

2009

TOGLIETE IL LIEVITO VECCHIO (Gv 2, 13-25)

“Imparate da me che sono mite e umile di cuore” Con questa frase, e con altre, Gesù ha presentato se stesso ai suoi. Sono parole che a prima vista non trovano riscontro nel gesto narrato oggi nel Vangelo. Gesù si scaglia contro i venditori che si trovano nel recinto del Tempio e rovescia i loro tavoli da lavoro. Un atto che sembra frutto di un temperamento istintivo e passionale. Un gesto inatteso e sconcertante che dovette impressionare fortemente i presenti. Ma Gesù non voleva tanto orientare la sua irritazione contro i mercanti del Tempio come fossero odiosi trafficanti, quanto denunciare il fatto che le pratiche rituali fossero diventate fonte di profitti illeciti e che l’esteriorità dei gesti avesse preso il sopravvento sulla sincerità del cuore. Il racconto infatti inizia con una breve annotazione: “si avvicinava la Pasqua dei Giudei”. Per celebrare la Pasqua le famiglie d’Israele dovevano ripulire la loro casa da tutto ciò che era impuro e vecchio: quindi pulizie esteriori per indicare la preparazione interiore alla festa. E’ a questa usanza che fa riferimento S. Paolo quando dice: “Togliete via il lievito vecchio”. Pertanto, come tutti pulivano e purificavano la propria casa, così Gesù vuole purificare la casa di Dio, il Tempio. E lo fa con un gesto deciso e inequivocabile. In questa immagine della purificazione ritroviamo il centro del messaggio di questo Vangelo. Si può infatti, quasi senza accorgersene, stabilire un rapporto con Dio come quello dei mercanti del Tempio: avere a cuore i propri interessi e usare Dio come mezzo per raggiungerli. I nostri interessi infatti possono essere di vario genere: la salute, il successo, il denaro, la serenità e per ottenerli si può invocare il Signore senza mai discernere se questi stessi interessi siano nella linea del Vangelo oppure no. In buona fede ci ritroviamo spesso a mettere prima i nostri interessi e poi Dio invece che fare il contrario,lasciando andare nell’oblio quelle splendide parole di Gesù: “il Padre vostro celeste sa di che cosa avete bisogno; cercate prima il Regno di Dio e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” C’è quindi bisogno di purificazione, ma di una purificazione che parte dal cuore e ci aiuti a rimettere al centro Dio. Il cuore dell’uomo è infatti il vero Tempio, dove abita la presenza di Dio dal momento in cui, con il Battesimo, ciascuno di noi è stato incorporato a Cristo. E Gesù che conosce il nostro cuore e sa quello che c’è in ciascuno ci aiuti ad essere veri nei nostri rapporti e nella nostra fede perché la Quaresima sia realmente un tempo di conversione.

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LA VIA

Domenica 22 Marzo - 4° di Quaresima COLLOQUI NOTTURNI (Gv. 3, 14 - 21)

Il colloquio tra Gesù e Nicodemo di cui ci parla il Vangelo di oggi avviene di notte. Nicodemo infatti era un capo dei farisei e non voleva farsi vedere pubblicamente in compagnia del maestro di Nazareth. Gesù però non lo mette in imbarazzo, non lo accusa di viltà, ma lo accoglie in una confidenza che sorprende. Come se la notte fosse la cornice ideale per una intimità amicale il Signore svela a Nicodemo la profondità della sua persona e il senso della sua missione: “ Io sono venuto non per condannare, ma per salvare il mondo”. L’immagine emblematica utilizzata da Gesù è quella del serpente di bronzo innalzato da Mosè. Il popolo di Israele, nel deserto, era stato attaccato da serpenti velenosi che mordevano la gente: questo flagello fu interpretato come un castigo di Dio per le colpe del popolo stesso che si lamentava per il cammino faticoso e che non sperava più nella provvidenza di Jahwhe. Ciò che sembrava una condanna diventa invece strumento di salvezza,esattamente come per la croce di Cristo. Il popolo, guardando il serpente, riconosceva la propria colpa e così trovava salvezza; il cristiano, guardando la croce, riconosce le sue colpe e così sperimenta il perdono. Chi non vuole riconoscere le sue colpe resta nelle tenebre per nascondersi, perché la luce metterebbe in evidenza la verità della sua persona. La minaccia vera alla nostra vita non viene dalla grandezza della nostra colpa, ma dalla nostra ostinazione a non volerla considerare, magari scaricandola sugli altri e negandoci così la parte più bella del volto di Dio: la sua misericordia. Ma siccome troppo poco crediamo a questa sua misericordia, va a finire che cerchiamo in tutti i modi di negare la nostra colpa e di negare, in tal modo il nostro bisogno del suo perdono. Il nostro peccato non è senza rimedio: chi ha la forza di alzare lo sguardo al crocifisso lo sa bene.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

2009


LA VIA

Domenica 22 Marzo - 4° di Quaresima

Signore, Gesù Cristo! Gli uccelli hanno i loro nidi e le volpi le loro tane, ma tu non avesti dove posare il capo, Non hai avuto un letto su questa terra. Tuttavia eri quel luogo segreto, l’unico, In cui il peccatore potesse trovar rifugio.

E anche oggi tu sei il nascondiglio: Quando il peccatore corre a te, Si nasconde in te, è nascosto in te. Allora egli è eternamente difeso, Poiché l’amore nasconde la moltitudine dei peccati

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2009


LA VIA

Domenica 29 marzo - 5° di quaresima LA GLORIA DI GESU’ e LA GLORIA DEL MONDO (Gv 12, 20-33)

Un gruppo di pagani, greci, si rivolge all’apostolo Filippo chiedendogli di vedere Gesù. E’ con questa richiesta che si apre il Vangelo di oggi. Una richiesta con un significato preciso: il desiderio di vedere Gesù è già, nell’intenzione dell’evangelista, un inizio di fede e non una semplice curiosità. E’ un momento grande e per Gesù costituisce un segno da parte del Padre: inizia la sua glorificazione, già prima preannunciata;inizia con l’accorrere dei pagani verso di lui. Questa glorificazione, intesa come irradiamento della presenza di Dio dimorante nel Verbo incarnato, non pare oscurata dalla Croce ma anzi troverà in essa la sua pienezza. La passione, momento estremo di fragilità, rivelerà la gloria di Cristo. E’ da questa idea di gloria che un cristiano si lascia plasmare. Se pensiamo alla gloria, noi oggi siamo portati ad associarla al successo, alla capacità di realizzare se stessi magari a scapito degli altri. Ci sembra che per essere nella gloria occorra essere “qualcuno” o quantomeno farsi strada nella vita. Per Gesù invece la gloria consiste nel fare dono della propria vita fino alla fine. Egli è nella gloria in modo diverso da come la concepisce il mondo: una vita vale, dal punto di vista del Vangelo, se è spesa per amore. Come il seme deve morire per portare frutto così Gesù porterà, attraverso la sua morte, vita abbondante per tutti gli uomini. Il tema della gloria intercetta quella domanda fondamentale di ogni persona: quando una vita umana è una vita di valore? Io ritengo che questa domanda sia feconda in due momenti chiave della vita: la giovinezza e la vecchiaia. Da giovani si decide cosa farne della propria vita, quale direzione darle e su quali valori lasciarla germogliare. Da vecchi ci si interroga, prima dell’incontro definitivo con il Padre, su cosa ne è stato della nostra vita, sui frutti che ha portato, sul valore che ha avuto. Ad entrambe le età Cristo potrebbe rispondere che tutto ciò che non viene donato va perduto (soprattutto la vita) e a lui fare eco S. Paolo nel ricordare che saremo giudicati sull’amore. Confesso che quando vedo generazioni di giovani crescere con l’ideale di diventare famosi ed affermare se stessi, sento dentro di me l’onda lunga dello scoraggiamento, soprattutto per le delusioni che loro stessi subiranno. E mi pare che in questo marasma di voci chiassose la proposta cristiana sia un sussurro. Forse è così; ma tutti i sussurri meritano attenzione, se non altro perché non ci impongono la loro presenza.

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2009


LA VIA

Domenica 5 aprile SOLITUDINE E SALVEZZA

Quasi fosse un portale d’ingresso alla Settimana Santa, la domenica delle Palme ci offre l’intera Passione di Gesù così come è importata dal Vangelo di Marco. Ma è nella lettura del profeta Isaia che noi possiamo trovarne una chiave interpretativa. Perché tutta questa sofferenza? Perché questa solitudine? Gesù, figlio di Dio, non poteva salvare il mondo in altro modo? La profezia ascoltata parla di un uomo che soffrendo ……… “una lingua da discepolo, perché sappia indirizzre una parola allo sfiduciato” (1550 ,4) Non è facile indirizzare una parola allo sfiduciato; ogni parola incoraggiante infatti che sia a lui indirizzata è da lui facilmente intesa come parola leggera, pronunciata da chi in realtà non conosce il suo dolore. Per potergli parlare con frutto occorre,in qualche modo, passare personalmente attraverso la medesima prova. Ed è ciò che fa Gesù con la sua passione. Egli muore perché ogni persona che muore possa affidarsi a lui; egli soffre perché ogni persona che soffre si senta capita; egli ha paura perché la paura dell’uomo non sia mai abisso incolmabile; egli sente l’abbandono perché tutti quelli che si sentono abbandonati da Dio abbiano un compagno di viaggio. Mi persuado sempre più che Gesù doveva passare attraverso questa passione. Ogni altro modo di morire non avrebbe salvato integralmente gli uomini. La nostra è una cultura che esalta l’individualismo fino all’estremo, senza accorgersi, a volte, delpenoso esito di solitudine che esso porta con sé. Anche Gesù si ritrovò solo. Il racconto della Passione è un progressivo allargarsi dell’abisso di solitudine sperimentato dal Cristo. Al colmo di questa avventura però, egli trovò la forza di affidarsi al Padre, ed in quella fiducia la solitudine si trasformò in compagnia. Iniziamo così questa settimana Santa, per ritrovarci anche noi a celebrare la vittoria del perdono sul rancore, la vittoria della bellezza su ogni forma di volgarità, la vittoria del profumo della vita su ogni sentore di morte.

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2009


Domenica 12 aprile S. Pasqua

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UNA PORTA SULL’ETERNO La notte di Pasqua l’assemblea liturgica appare piuttosto rarefatta. Non c’è confronto con la Messa della mezzanotte di Natale. A Pasqua, i pochi giorni di vacanza previsti per la festa sono un’attrattiva forte e in tanti ne approfittano per muoversi dalla propria quotidianità. E’ come se la Risurrezione di Gesù fosse un mistero senza spazio e senza tempo che può essere ugualmente celebrato ed apprezzato in ogni luogo della terra. Si dice, appunto: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”. Leggendo attentamente il Vangelo però, ci si accorge che le cose non stanno esattamente così. Ai suoi discepoli Gesù, attraverso la parola dell’angelo, dà appuntamento in un luogo preciso: “E’ resuscitato dai morti e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Perché poi proprio in Galilea? La Galilea era stata l’inizio di tutto e soprattutto quella terra era stata il teatro abituale della vita di Gesù. Lì il Signore aveva compiuto i primi miracoli; lì aveva chiamato i discepoli; nella sinagoga di quella città egli aveva cominciato ad annunciare il Vangelo. Cristo risorto quindi non va in un’altra vita, ma ritorna nella vita di prima, con una presenza nuova però. E’ proprio il quotidiano il luogo dove fa esperienza del risorto. Tutte le cose che Gesù ha fatto in Galilea, tutte le parole pronunciate e le azioni compiute vanno rilette alla luce della resurrezione. Pensare di credere al Gesù di Galilea, cioè agli insegnamenti del Signore, senza credere alla sua risurrezione è un controsenso. Perché senza resurrezione le parole di Gesù diventano una semplice morale di vita ma non certo la buona notizia che salva. E’ significativo che anche i gesti compiuti da Gesù risorto siano gesti intrisi di quotidianità: chiamare Maria per nome, mangiare il pesce sul lago di Tiberiade, spezzare il pane con i discepoli. Tutte azioni che Gesù nella sua vita aveva compiuto ripetute volte. La resurrezione di Gesù è quell’evento grazie al quale il mondo spirituale e soprannaturale irrompe nel quotidiano trasfigurandolo. Non si tratta solo della vita oltre la morte, ma anche e soprattutto del fatto che ogni azione da noi compiuta non finisce in se stessa e ogni cosa che noi vediamo non ha solo la sua dimensione reale ma è come una fessura che dischiude l’invisibile; mi tornano alla mente le bellissime parole di Pavel Florenskij: “Al mondo niente si perde, ne’ del bene ne’ del male, e prima o poi si manifesta apertamente anche ciò che per un certo tempo, a volte molto lungo, rimane invisibile”. Tra noi e il mistero, tra noi e l’eterno c’è una relazione sostanziale che la resurrezione di Gesù ha definitivamente ristabilito. Ogni giorno possiamo aprire la porta che ci spalanca la realtà spirituale e soprannaturale realizzando così il nostro desiderio che ciò che facciamo, amiamo, crediamo, rimanga per sempre.Il Signore ci conceda di vivere da risorti!

Buona Pasqua! Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

2009


LA VIA

Domenica 19 aprile

2009

LA FEDE E IL PERDONO (Gv 20, 19 - 31) Ci sono momenti della vita in cui le persone si chiudono in se stesse. A causare questa chiusura può essere una forte delusione, una ferita, un dolore improvviso o anche un senso di paura e sfiducia .Riesco quasi ad immaginarmi l’apostolo Tommaso in una di queste situazioni, visto che il Vangelo ce lo presenta lontano dal gruppo dei discepoli quando Gesù appare loro. Forse Tommaso ha cercato di rimanere solo macerando dentro di sé lo smarrimento e la ribellione che provava per l’insorgere di domande che dovevano mettere in crisi la stessa fede in Dio: se Gesù era il Salvatore atteso perché Dio non gli aveva risparmiato una morte così crudele e vergognosa? Dov’era Dio in quei momenti? O forse Tommaso si era chiuso in se stesso perché schiacciato dal senso di colpa per non aver dato a Gesù, soprattutto nei giorni della passione, la prova di una vera amicizia e di una coraggiosa solidarietà. E’ una esperienza che conosciamo bene: quando si perde un famigliare o un amico è facile coltivare sensi di colpa per non aver saputo attestare tutto l’affetto che avrebbe meritato. Non credo sia una forzatura pensare che Tommaso fosse preso da questo senso di colpa. Quando Gesù si era recato sulla tomba di Lazzaro mettendo a repentaglio la propria vita, Tommaso aveva commentato con un entusiastico: “andiamo anche noi a morire con lui!”. Ma poi, sotto la croce, non c’era. Era fuggito come tutti gli altri discepoli. Lui che si era così tanto esposto, lui che aveva dichiarato il suo coraggio, ora evidentemente era paralizzato dalla vergogna. E’ per questo che il recupero della fede, per Tommaso, passa attraverso il perdono. Gesù risorto affida agli apostoli un primo compito: quello di rimettere i peccati. E questo perdono la comunità lo mette in pratica subito nei confronti di quel discepolo apparentemente fedele, ma ora affranto dalla sua viltà. Noi tutti sappiamo bene perché Tommaso giunge alla sua professione di fede: Gesù accetta di lasciarsi toccare da questo discepolo, mettendosi, in un certo senso, sul suo stesso piano. Cristo risorto si fa riconoscere in modo diverso da ogni discepolo a seconda della situazione appropriata che ogni persona viveva: l’affetto del nome pronunciato con Maria di Magdala; l’intuizione spirituale con Giovanni; la lentezza con Pietro; la fisicità con Tommaso. Ma forse dovremmo pensare che quest’ultimo abbia superato le sue incertezze non perché ha visto e toccato le ferite di Gesù, ma perché quelle ferite erano la testimonianza viva di un perdono e di un amore troppo grandi per essere cancellati dalla morte. A conquistare la nostra fede sarà sempre l’immagine di un Dio che ci ama fino a lasciarsi segnare dalle nostre sofferenze.

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Domenica 26 aprile e 3 maggio

2009

VITA QUOTIDIANA E SACRE SCRITTURE (Lc 24, 36 - 48) Gesù risorto mangia con i suoi discepoli e subito dopo spiega loro le Scritture. L’ordine dei gesti è esattamente invertito rispetto all’episodio di Emmaus: là Gesù aveva prima spiegato le Scritture e poi spezzato il pane con i suoi. Sembra che per il Signore al gesto più semplice e ordinario, quello di mangiare, si associ questo nuovo la lettura e la comprensione delle Scritture. Quotidianità e parola di Dio per Gesù vanno di pari passo, perché è la Parola stessa a dare senso ai gesti quotidiani. Occorre sbarazzarsi del timore che la religione sia solo una fantasia, una cosa chiusa nella mente e nei pensieri, che non riesca ad incidere nella vita di tutti i giorni. Tutto ciò che riguarda Dio e la sua parola è estremamente reale, molto più reale di tante nostre affannose occupazioni. Il mese di maggio che ci apprestiamo a vivere nella nostra comunità sia l’occasione per rilanciare la nostra fede.

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Domenica 10 maggio

2009

LA VITE E IL SUO FRUTTO (Gv 15, 1-8) L’evangelista Giovanni è l’unico a parlare di Gesù come “vera vite”. E’ una immagine che negli altri vangeli non compare, quasi fosse una simbologia cara solo all’autore di questo vangelo. Il contesto in cui Gesù pronuncia questa parola è quello dell’ultima cena e quindi il simbolo possiamo immediatamente coglierlo nel suo significato profondo: egli è la vite, pertanto anche il frutto della vite, il vino, è la sua stessa persona. Il sangue di cui il vino è immagine reale dice la verità più profonda dell’identità, il livello autentico dell’io di ciascun uomo. “Questo è il mio sangue” significa “questo sono io in tutta la mia verità”. La vite però non può trasmettere la sua linfa agli acini d’uva senza i tralci. E qui il testo evangelico sorprende: i discepoli, (quindi ciascuno di noi) sono i tralci. Senza di loro il messaggio di Gesù non può arrivare,non può essere trasmesso. Eppure i tralci sono fragilissimi, così poco resistenti da sbriciolarsi tra le mani se non restano uniti alla vite. Splendida metafora della nostra vita! Agli occhi di Dio noi siamo preziosi, unici, necessari; ma al contempo poveri, semplici come tanti fili d’erba. Sentirsi grandi e custodire l’umiltà è l’arte di vivere evangelicamente. Resta poi da sviluppare un’altra immagine:il retroterra umano e culturale in cui collocare il simbolo della vite e del suo frutto, il vino. Cosa significa piantare una vite? C’è un detto dei beduini del deserto che dice “se pianti una vite non puoi essere dei nostri”. Erano nomadi e per piantare una vite occorre invece stabilità. La vite dice investimento sul futuro, piantare una vite è segno di speranza; non a caso secondo la Bibbia fu il primo gesto compiuto da Noè dopo il diluvio. Ma non solo: la vite richiede pazienza, i frutti non sono immediati. Ci vuole calma, la stessa che si prova guardando i filari di vite che coprono le colline. E poi, diversamente dalle altre piante, il frutto della vite non è l’uva, ma il vino, cioè la sua evoluzione ulteriore. Che valenza simbolica ha il vino? Il pane è necessario per vivere, il vino no; il vino è segnato dalla gratuità, non è per sopravvivere, ma per far festa. Il vino può accentuare l’amarezza di chi è solo perché per essere gustato ha bisogno dell’intimità di una amicizia. E’ una bevanda che ha il potere di liberare dalla schiavitù dell’efficienza esagerata per chè libera dalle pressioni. Quando Gesù dice di essere la vera vite sta invitando ciascuno a stabilirsi su di lui come il proprio punto fermo a partire dal quale avere fiducia nel futuro. Quando identifica il vino con il suo sangue, non sta solo presentando il suo sacrificio, ma sta incoraggiando a gustare la sua amicizia e a gioire della sua presenza. Le tante metafore che il vino suggerisce sono tutte raccolte nella Bibbia: dalla gioia delle nozze di Cana, all’amore nel Cantico dei Cantici, alle parole splendide del libro del Siracide: “L’amico nuovo è come il vino nuovo: bevilo quando sarà invecchiato”. Oggi il Vangelo ci parla di gioia e speranza nel futuro. Non trasformiamo il cristianesimo nell’habitat naturale dai volti tristi che non hanno più niente da dare alla vita.

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Domenica 17 maggio

2009

IN QUESTO STA L’AMORE (Gv 15, 9-17) La pagina evangelica di oggi si colloca nel contesto dell’ultima cena. Gesù parla ai suoi discepoli ed è l’ultima volta che lo fa durante la sua vita terrena; queste parole quindi costituiscono il suo testamento spirituale, la consegna definitiva del suo messaggio. Questa consegna dice: “rimanete nel mio amore”. Spesse volte Gesù aveva richiamato i suoi all’amore reciproco; ora dice quale deve essere la radice di questo amore: si può amare se si riconosce l’amore ricevuto. Senza questa condizione previa l’amore è destinato a finire perché non è un’opera in potere dei discepoli, un’opera per la quale essi abbiano in sé le capacità necessarie. Per amare non basta volerlo: capaci di un amore affettivo si diventa unicamente riconoscendo prima di essere stati oggetto dell’amore personale di Dio. Ci sarebbe comunque da intendersi su cosa sia l’amore così come Gesù lo concepisce. Oggi la parola “amore” sembra diventata una formula magica, un fluido arcano, una verità a cui tutti devono arrendersi. Si parla di amore in ogni contesto a volte affrontando sbrigativamente domande necessarie a comprenderlo: l’amore è un sentimento o un’opera? E’ frutto di decisioni ponderate o è un istinto? E’ passione o raziocinio? Può sottostare ad un comando o dev’essere spontaneo? Gesù ha lasciato ai suoi il COMANDO di amarsi; ha strettamente legato l’amore all’OSSERVANZA dei comandamenti, suggerendo con chiarezza che l’amore è un’opera più che un sentimento. Si può quindi amare compiendo azioni buone nei confronti dei fratelli e farlo sulla parola di Gesù. E questo è amore anche se il nostro sentimento e le nostre emozioni non fossero sufficientemente sollecitate. Per l’amore cristiano non è necessario l’ammiccamento reciproco, ma il gesto evangelico. Solo così si ha garanzia di cercare il bene dell’altro e non tanto la sua approvazione. Assai eloquente a questo riguardo è l’amore di Gesù stesso: certo i suoi discepoli avrebbero preferito che Gesù li amasse in altro modo rispetto a quello che egli scelse . Ma soltanto a questo prezzo, soltanto a condizione che il suo amore fosse esigente e non condiscendente, fu possibile che grazie a quell’amore essi crescessero. Si realizzò per loro la bellissima frase di un Salmo: “ la tua bontà mi ha fatto crescere” (Sal 18, 36) Di fronte ad un amore esigente e concreto si può restare intimoriti. Eppure Gesù lega tutto questo alla gioia. Egli dice: “la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. E’ un grande dono la gioia. Non si può certo procurarsela attraverso accorgimenti e iniziative personali (una festa, la carriera, una bella casa …), ma è offerta in modo inspiegabile, come il profumo di un fiore appena sbocciato. Pur lasciandola nel suo carattere di mistero e di gratuità Gesù lascia intuire che chi custodiscel’esperienza dell’amore ricevuto e segue i suoi comandamenti sperimenterà una gioia che nessuno potrà togliergli. Dio Padre, fonte di ogni gioia vera, ci conceda questo dono.

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Domenica 24 maggio festa dell’Ascensione I DUE TEMPI ( Mc 16, 15 - 20)

Nella vita di Gesù ci sono come due tempi: un tempo che finisce e un tempo che rimane. L’Ascensione, il mistero del Quarantesimo giorno, separa il primo dal secondo. Infatti nella simbologia biblica il numero quaranta indica un tempo compiuto in se stesso, destinato a finire. Gesù apparve ai suoi discepoli per quaranta giorni e quel tempo si chiuse con la sua Ascensione. Qual è quindi il tempo che rimane? Quello della sua vita terrena che nient’altro fu che un assaggio, un anticipo della vita eterna. Anche nella nostra esperienza ci troviamo frequentemente nella condizione del tempo che finisce. L’idea e la sensazione di non aver mai abbastanza tempo per fare tutto ciò che abbiamo in mente o che ci incombe addosso, le sperimentiamo spesso. Il tempo è sempre troppo poco e la sua finitudine è la causa del nostro affanno. E se non riusciamo a fare qualcosa pensiamo di poterla fare domani, finché anche il domani comincia a farsi incerto. E’ significativo che anche nel vangelo il tempo che finisce (cioè i quaranta giorni delle apparizioni) è vissuto in fretta: Gesù non si lascia trattenere, sparisce davanti ai due di Emmaus, le donne corrono dai discepoli e i discepoli corrono al sepolcro. Oserei dire che c’è quasi un affanno anche in loro, quasi un presentimento che quel tempo finirà. Ma per tutto il resto del racconto evangelico le cose non stanno così. La vita di Gesù fu fatta di segni, opere e parole. Gesù fece miracoli, predicò, offrì se stesso nella sua passione E tutto ciò che fece era destinato a rimanere perché apriva alla dimensione della vita eterna: i miracoli erano per suscitare la fede, le parole per alimentare la speranza, la passione per generare la carità. Non sono forse queste per S. Paolo, le tre cose che rimangono? (1COR 13, 13) Così anche i discepoli, dopo l’Ascensione, ricevono il potere di compiere gli stessi gesti miracolosi di Gesù, e la missione di unire le persone a lui tramite il battesimo. Ma non per risolvere tempestivamente i problemi (cosa che sarebbe comunque lodevole) quanto per aiutare l’uomo e la donna di sempre a capire che in mezzo all’affanno del tempo che finisce ci sono gesti e parole che rimangono e che questa vita terrena ha già tracce d’eternità.

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Domenica 31 maggio Pentecoste DISGELO

Nel pensare, in questi giorni, al significato della festa di Pentecoste e all’azione dello Spirito Santo nella vita dei credenti mi è venuta in mente l’immagine del disgelo. Magari mi avrà influenzato il gran caldo di questa settimana, però trovo che si tratti di una metafora persuasiva. Quando Gesù promette lo Spirito Santo ai Discepoli lo presenta come colui che li “guiderà alla verità tutta intera” perché fino ad allora essi non riusciranno a portare il peso delle parole del Signore. Pur essendo stati con Lui per tre anni, pur avendo conosciuto tutto di Lui, non sono ancora in grado di rendergli testimonianza. Solo lo Spirito scioglierà il loro silenzio. Come il disgelo permette alla natura di riprendere vita, così lo Spirito farà emergere dal cuore dei discepoli tutto ciò che era taciuto e non compreso. Accade anche oggi che uomo e donna, genitori e figli, fratelli vivano insieme anni e anni senza trovare le parole per dire ciò che invece dovrebbe essere detto. Il silenzio, spesso non deliberato e inconsapevole, a volte vissuto con dispiacere, resta un muro difficilissimo da valicare. E’ come se le relazioni, nel loro livello più autentico e profondo, fossero congelate anche se nel quotidiano proseguono con gesti ordinari. E’ una dinamica che non si verifica solo nella famiglia ma anche nella vita della Chiesa più in generale. In questo caso il gelo prende la forma di una fede privata, tutta interiore e solo interiore, quasi intimistica e clandestina. Una fede che stenta così a diventare pubblica, ad esprimersi nella società con gesti di giustizia, disinteresse, carità e sincerità. Non a caso però, la Pentecoste fece sì che i discepoli cominciassero a parlare a tutti, pubblicamente, dando vita così a quello stile di testimonianza che sconvolse il mondo intero. Invochiamo il dono dello Spirito perché operi il disgelo di ciò che nella nostra vita appare come congelato soprattutto nei rapporti umani. Invochiamolo perché la Chiesa non si riduca al puro luogo fisico dove ciascuno incontri privatamente il suo Dio.

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Domenica 31 maggio Pentecoste

Incontro al mistero Spirito santo, Spirito di sapienza, di scienza, di intelletto, di consiglio, riempici, ti preghiamo, della conoscenza della volontà del Padre, riempici di ogni sapienza e intelligenza spirituale. Apri il nostro cuore alla consolazione del tuo dono perchÊ possiamo conoscere il mistero che nel tempo si va rivelando. Il mistero preparato da secoli eterni: la gloria di Cristo nell’uomo vivente. E tu, Maria, frutto privilegiato e primo di questa gloria di Cristo, rendi il nostro cuore sensibile alle vie di Dio, ai suoi modi di manifestarsi nella nostra storia. Aiutaci a camminare nella sua verità per poter incontrare il suo mistero.

(Card. Carlo Maria Martini)

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Domenica 14 giugno Solennità del Corpus Domini SEGNI CORRUTTIBILI DI UNA REALTA’ INCORRUTTIBILE

La sera dell’Ultima cena di Gesù con i suoi, tutto aveva il sapore di qualcosa che si stava chiudendo. Ultime erano le parole del Signore, ultimo il pasto, ultima la volta in cui lo vedevano prima della sua morte. La loro abituale compagnia pareva sul punto di interrompersi e i discepoli cercavano in tutti i modi di non pensare al poi; ma quel poi oscuro pesava sui loro cuori e incuteva timore: “se verrà meno il Signore che ne sarà di noi? Che ne sarà della nostra speranza?” Il rischio che quell’ultima cena potesse trasformarsi in uno straziante momento d’addio era reale, palpabile. A tale rischio Gesù volle rimediare con un gesto straordinario, tanto straordinario da renderlo il più grande tra tutti i segni e tra tutti i sacramenti. Egli ha legato al pane e al vino il suo corpo e il suo sangue, quindi la sua presenza perenne e duratura. Quei segni divennero indicatori corruttibili di una realtà incorruttibile. La presenza di Cristo tra noi infatti non finisce mai, è eterna, rimane per sempre; eppure questa presenza si manifesta con segni facilmente deperibili: il pane e il vino, il corpo e il sangue nella loro inesorabile caducità. Avrebbe forse potuto il Signore, legare la sua presenza ad un luogo o ad un edificio, ma non lo fece. Quanto pane e vino sono stati consumati e quanto sangue versato da quando esiste il Duomo di Milano? E nei nove secoli da quando c’è la cattedrale di Piacenza? Eppure queste enormi costruzioni servono a custodire al loro cuore i deboli e fragili segni del pane e del vino cui è legato indissolubilmente il corpo e il sangue del Signore. Con l’ultima cena, ciò che poteva essere facilmente consumato diventa segno di eternità e durata. Per una società come la nostra che vive consumando, che produce perché le cose sempre più finiscano, questo è un segno di speranza. La scelta del pane e del vino ha evidentemente a che fare con la quotidianità. Quotidiano è il gesto di nutrirsi di loro, quotidiano deve essere il rapporto con la persona di Cristo. Fare la comunione frequentemente è importante, decisivo. Ancor più importante è farla alle condizioni giuste. Mentre noi ci nutriamo di Gesù nell’Eucaristia e mangiamo il pane consacrato, in realtà è Lui che ci assimila a sé, ci conforma alla sua vita. Fare la comunione infatti significa aver parte alla vita di Cristo, sentirsi mossi dal suo Spirito, fare nostre le sue scelte, le sue motivazioni ed entrare, con gli stessi atteggiamenti, nel suo amore per il Padre e per gli uomini. La festa del Corpus Domini ci introduca sempre più nell’eterna presenza del Signore tra noi e susciti il desiderio di essere simili a Lui.

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Domenica 21 giugno

2009

ALL’ALTRA RIVA (Mc 5,35-41) C’è una geografia degli spazi e c’è una geografia del cuore; c’è una geografia dell’anima e una geografia della salvezza. La molteplicità di significati che questa parola può evocare ci sta pian piano diventando familiare. E’ per questo che siamo in grado di cogliere nelle sue sfumature l’indicazione del Vangelo di oggi: “passiamo all’altra riva”. Non è, evidentemente, solo un passaggio fisico ad essere in gioco. L’ “altra riva” è un luogo teologico e spirituale. Il suo retroterra simbolico è quello del passaggio del Mar Rosso e anche dell’attraversamento del Giordano: è una riva che dice libertà, salvezza, terra promessa. Ma nella vicenda storica di Gesù di Nazareth c’è di più. Quella riva rappresenta la regione del demonio, la terra infestata dal male, il luogo in cui ciò che è brutto, avvilente, meschino, ha il sopravvento. Gesù vuole arrivare fin là, per sfidare il male sul suo terreno: per questo le avversità cominciano fin dalla traversata: le acque, soggiogate dal nemico di Dio, si ribellano alla presenza del salvatore. Ma è una ribellione senza esito perché Gesù vince, come vincerà il male attraverso la sua morte e resurrezione. Tutta la nostra vita è, in fondo, una grande traversata, una sfida per sconfiggere quanto c’è di negativo, ambiguo, mediocre, dentro e fuori di noi. In questa lotta non siamo soli. Vi siamo stati chiamati da Gesù, non l’abbiamo scelto noi ed è per questo che egli ci sosterrà. Forse il fatto di non essere del tutto padroni potrà farci assaporare, come i discepoli, il gusto amaro della paura. Ma è la paura ad invocare la fede; il sonno di Gesù potrà essere anche il nostro. Assomiglia tanto a quello di un bambino piccolo che dorme in braccio alla madre anche quando intorno a sé c’è pericolo. Se la madre non ha paura anche il bimbo non avrà paura. E Dio non è forse per noi come una madre?

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo


LA VIA

Domenica 28 giugno

L’AMBIGUITA’ DELLE FOLLE CON GESU’ (Mc 5,21-43) Nella pagina di Vangelo proposta oggi alla nostra attenzione c’è un soggetto che dovrebbe rimanere solo sullo sfondo ma sembra, invece, assumere il ruolo di protagonista: è la folla. E’ sempre pressante, incalzante, ingombrante. Essa seguiva Gesù e gli si stringeva intorno quasi senza lasciarlo passare. Cristo sembra rallentato dalla folla tanto da non riuscire ad arrivare per tempo al capezzale di una bimba morente; la stessa folla nasconde, rendendola anonima, la donna che tocca il mantello di Gesù; ed è sempre la folla, fatta di gente senza nome, che viene a dire al capo della sinagoga che sua figlia ormai è morta. Quale rapporto vive il Signore con questa folla? Gesù non era un uomo da grandi folle.Non nel senso che non ne avesse intorno, anzi, ma per il fatto che non andasse a cercarle e non ne sentisse il bisogno: spesso di fronte alla folla andava altrove, senza trascurare di soccorrerla come nel caso della moltiplicazione dei pani. Il Vangelo di oggi ci dice qualcosa di ancor più profondo su questo rapporto tra Gesù e la folla. Per poter incontrare veramente il Maestro di Nazareth occorredissociarsi dalla folla che è una sorta di impedimento alla relazione autentica. La donna guarita dopo aver toccato il mantello del Signore sente risuonare per lei le parole della salvezza solo quando esce dalla massa anonima che la nasconde per rivelarsi come l’artefice di quel gesto. L’assunzione timorosa della propria responsabilità, scrollandosi di dosso il giudizio dei tanti che la ritenevano impura, trasforma il suo furtivo rapporto con Gesù in una grazia. Qualcosa di simile accade anche per Giairo, il padre della bambina malata. Egli si accosta a Gesù mosso da una logica religiosa che è quella della folla: cercare la guarigione. Paradossalmente, la morte di sua figlia pone fine a questa logica quasi superstiziosa (non a caso è la folla a dirgli di non disturbare più il Maestro) per dare inizio ad un rapporto fondato sulla fede. “Continua ad avere fede!” si sente dire da Gesù. Anche lui è finalmente uscito dalla massa e solo allora può seguire Gesù lontano dalla folla e dalle sue suggestioni: egli è preso dal Signore nel numero dei discepoli più fidati e cioè Pietro, Giacomo e Giovanni. Nella stanza segreta (dove Gesù voleva che ciascuno pregasse Dio Padre) egli sperimenta la potenza di Cristo e la grazia della vita di sua figlia. Ascoltando il Vangelo si accende in noi il desiderio di entrare con il Signore in quel luogo nascosto entro il quale è possibile fare esperienza di Lui. Sottratti e svincolati dall’assedio della folla, cioè dei luoghi comuni del mondo che ci circonda possiamo anche noi aver parte alla speranza di una vita che mai delude.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

2009


LA VIA

Domenica 5 luglio

2009

UN TRIPLICE STUPORE (Mc 6, 1-6) Lo stupore e la meraviglia scandiscono il brano evangelico di oggi, articolandosi in tre diverse sfaccettature. C’è lo stupore della gente che ascolta Gesù: è uno stupore positivo che nasce dall’ammirazione. Ma questa stessa folla improvvisamente muta atteggiamento: si fa prendere da uno stupore triste, contrariato, che nasce dal disappunto nei confronti di Gesù. E infine c’è lo stupore di Gesù meravigliato dalla incredulità dei suoi compaesani: è uno stupore che si tinge di delusione. Da questo stupore nasce la perentoria affermazione del Signore: “un profeta non è disprezzato che nella sua patria” Profeta non è colui che indovina il futuro, ma chi interpreta il presente, con spirito critico, alla luce della parola di Dio. Il profeta può anche pronunciare parole che ci infastidiscono e ci mettono in crisi. Per questo è difficile che sia uno di casa nostra, un nostro parente o fratello. E’ più facile lasciarsi correggere da un estraneo che abbia qualche autorità che da un nostro famigliare. Quando c’è troppa familiarità, svanisce la capacità di stupirsi, e senza stupore anche la profezia non viene accolta. E’ difficile essere profeti con quelli di casa e tuttavia è proprio di loro che dobbiamo occuparci per allargarne i confini fino a renderli capaci di ospitare Dio stesso.

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LA VIA

Domenica 12 luglio

2009

IL POTERE DI ESSERE DUE (Mc 6,7-13) Due, sempre due, ossessivamente due. La Bibbia ne è piena: è un numero che ritorna molto spesso a definirne i più significativi personaggi. Adamo ed Eva; Caino e Abele; Isacco e Ismaele; Giacobbe ed Esaù e via via fino al nuovo Testamento dove troviamo i due fratelli della parabola del figliol prodigo e i discepoli chiamati da Gesù a coppie. Oltre che chiamati anche inviati: “li inviò due a due” dice il Vangelo. Perché contro ogni amara solitudine, due è il numero della relazione e della compagnia; contro ogni sterile isolamento due è il numero della fecondità; contro ogni esaltazione personalistica due è il numero di chi impara a relazionarsi agendo insieme ad un altro. Solo Dio è Uno, perché Assoluto. Noi siamo sempre chiamati ad essere due. In questo sta il potere dato ai discepoli: a due a due ebbero il potere “sugli spiriti impuri” cioè la possibilità di guarire attraverso gesti straordinari che fossero però il segno di un potere, per così dire, “ordinario”: quello di esorcizzare il messaggio scoraggiante e addirittura disperante, che viene dalla malattia, dalla sofferenza, dalla solitudine, o magari soltanto dal cattivo carattere. La Parola del Vangelo può generare una vicinanza nuova, un legame diverso capace di portare luce anche nelle tenebre più fitte.

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LA VIA

Domenica 12 luglio

Signore è l’alba. Fa' che io vada incontro nella pace a tutto ciò che mi porterà questo giorno. Fa' che io mi consegni totalmente alla tua santa volontà. Donami in ogni momento la tua luce e la tua forza. Qualunque notizia io riceva oggi, insegnami ad accettarla nella quiete e nella fede salda che nulla può accadere se tu non lo permetti. In ogni mia azione e parola dirigi i miei pensieri e i miei sentimenti. In tutti gli eventi inattesi, non farmi dimenticare che ogni cosa proviene da te! Insegnami ad agire con apertura e intelligenza verso tutti i miei fratelli e le mie sorelle e verso tutti gli uomini, senza mortificare o contristare nessuno. Signore, donami la forza di portare la fatica del giorno che si avvicina, e di tutti gli eventi inclusi nel suo corso. Guida la mia volontà, insegnami a pregare, a credere, a perseverare, a soffrire, a perdonare... e ad amare!

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2009


LA VIA

Domenica 19 luglio

2009

ATTIMI DI RIPOSO (Mc 6, 30-34)

Un invito al riposo. Ecco cos’è il Vangelo di oggi. Ma quale riposo? Gesù chiama i suoi apostoli a sottrarsi alla pressione della folla e alle aspettative della gente, perché una vita trascorsa a soddisfare le aspettative altrui, prima o poi, presta il fianco all’esaurimento. Il riposo cui allude Gesù è la capacità di prendersi cura di sé e del proprio io interiore ponendosi in ascolto della sua parola. Per questo occorre solitudine, occorre il luogo isolato di cui parla il Vangelo. Ma da luogo isolato che era, quell’ambiente, si trasforma subito in una piazza pubblica piena di persone: la gente corse fin là per trovare Gesù e gli apostoli. E’ come se il Vangelo sapesse che quel riposo silenzioso e pacifico fosse destinato a durare poco perché gli altri sono attorno a noi e chiedono la nostra attenzione. La vita quotidiana ci rivela la stessa costante: i tempi di riposo e di ricarica interiore sono un breve privilegio, ma occorre che ci siano. Il resto della vita è fatto di dedizione e di servizio, come fu per Gesù. Egli infatti non allontanò la folla che accorreva ma si dedicò ad essa. Lo fece prima con l’insegnamento e poi con la moltiplicazione dei pani. Il primo gesto di solidarietà fu l’insegnamento perché non c’è più grande povertà dell’ignoranza e perché istruire un altro vuol dire aiutarlo a maturare la propria dignità. Fu un grande gesto d’amore poiché “l’amore consiste nella comunicazione reciproca, cioè nel dare e comunicare ciò che si ha cosicché se uno ha la scienza la dia a chi non ce l’ha” (S. Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali)

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LA VIA

Domenica 6 settembre

2009

UDIRE E PARLARE (Mc 7,31-37) Nessuna parola può entrare quando le orecchie sono chiuse. Nessuna parola può uscire quando la lingua è bloccata. Niente entra e niente esce: c’è solo chiusura. Ecco cos’era l’uomo sordomuto di cui parla il Vangelo: il simbolo di tutta la chiusura che siamo capaci di mettere in atto, quando il nostro piccolo io diventa la misura di tutte le cose. Nel gesto miracoloso di Gesù noi cogliamo, quindi, il desiderio di Dio di farci aprire alla parola Sua e dei nostri fratelli per poter, a nostra volta, farne dono. La successione delle azioni compiute da Cristo svela il senso di questo prodigio: Gesù guarisce prima la sordità e poi il mutismo; perché prima occorre ascoltare e poi parlare. E’ una successione naturale, accaduta a ciascuno di noi: ogni bambino nasce senza poter parlare, ma potendo udire dei suoni. L’infanzia ha esattamente questo tratto: l’assenza di parola. Non a caso in latino il termine “infantia” significa proprio “incapacità di parlare”. Prima quindi c’è l’udito e poi il linguaggio. Quando c’è un difetto di parola si soffre: quando non si riesce a comunicare, quando non si trovano le frasi giuste, quando non si sa cosa dire, si prova imbarazzo, vergogna, a volte dolore. C’è però anche l’altro difetto: l’incapacità di ascoltare, e più in profondità, di udire. E’ un difetto più nascosto, quasi inavvertito ma proprio per questo più grave. L’incapacità di dire parole vere, buone efficaci, nasce sempre dalla precedente incapacità di udire e ascoltare. Guardiamoci intorno: c’è un’incredibile moltiplicazione di parole, fino all’eccesso. Ci basta accendere la TV o anche entrare in una libreria … Ma contemporaneamente cresce il bisogno di essere ascoltati: tanti cercano qualcuno che li ascolti e spesso non lo trovano. Il muro della sordità è più diffuso di quanto si possa pensare, anche in coloro (come noi preti) che dovrebbero avere il carisma di ascoltare. E’ difficile ascoltare veramente: difficile ascoltare un rimprovero ma anche ascoltare chi ci parla in modo buono. Tanto più è difficile ascoltare chi non parla, chi ci chiede qualcosa senza parole o chi ci esprime incoraggiamento con la sua sola prossimità. Ascoltare è veramente un miracolo: non c’è scienza medica o psicologica che possa supplire a questa eventuale carenza. Ascoltare è il primo gesto divino e spirituale che l’uomo possa compiere. Per questo, dopo il suo miracolo Gesù chiede che non ne si parli in giro, ma che si taccia. Il Signore vuole che si mantenga questa priorità dell’ascolto sulla parola. Forse anche l’invito evangelico a tornare come bambini racchiude questo messaggio: non avere parole, ma stare in ascolto di Dio e degli altri senza riempirli delle nostre innumerevoli verbosità.

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LA VIA

Domenica 13 settembre

2009

UNA DOMANDA SEMPRE APERTA (Mc 8,27-35) “E voi chi dite che io sia?” Come se Gesù dicesse oggi a ciascuno di noi: “Chi sono io per te?” Per noi che ci diciamo cristiani questa è la domanda decisiva da cui dipende tutta la verità del nostro modo di vivere la fede. Non basta, per essere cristiani, aver ricevuto il battesimo, appartenere ad una chiesa, praticare una religione o una morale che comunemente vengono definite cristiane, ma occorre che ci sia questo momento di interrogazione, nel segno della più radicale sincerità, sulla figura di Cristo. Questa è una domanda che provoca, che costringe in qualche modo a mettersi in gioco, ad uscire dall’abitudine delle pratiche religiose per cercare un livello più autentico di incontro personale con Cristo. La sensazione che si prova nel dare risposta a questo interrogativo è quella di non sentirsi mai all’altezza:noi sappiamo che la risposta dovrebbe andare nella direzione di un’importanza assoluta da dare al Signore, ma ci accorgiamo che la nostra vita, che costituisce la risposta concreta, non conferma ciò che vorremmo. Questa impressione di sdoppiamento ce la dà anche Pietro: la sua risposta è precisa, assoluta, completa. Ma il suo modo di pensare e di vivere non era secondo la logica di Gesù e del Vangelo. Questa domanda di Gesù mette a nudo lo scontro tra ideale e reale che c’è dentro ciascuno di noi, ma non dobbiamo sentirci mortificati di fronte a questa sensazione. Ciò che conta è lasciar macerare dentro di noi la domanda, confessare umilmente la propria inadeguatezza e al tempo stesso affidare alla preghiera il desiderio di conoscere di più la persona di Gesù perché conoscendolo lo possiamo amare e amandolo possiamo conformare a lui la nostra vita. Per alcuni Gesù è solo l’oggetto della venerazione e della devozione; per altri è il compagno di viaggio; per altri ancora un grande sapiente che ha lasciato un insegnamento da seguire. Tutte le risposte contengono una verità e tutte sono comunque incomplete. E’ la loro incompletezza, la loro parzialità che spinge a metterci in cammino. A noi piacerebbe progettare la nostra vita come una totalità senza rotture, come una continuità senza interruzioni, ma chi si mette seriamente sulla strada del Vangelo sa bene che la forza della persona di Gesù chiamerà sempre a mettere in gioco le proprie abitudini per condurci pian piano ad un rapporto sempre più vero con lui.

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LA VIA

Domenica 20 settembre

2009

MANIE DI GRANDEZZA (Mc 9, 30-37) Gesù con i suoi discepoli. Ancora una volta, come da due domeniche a questa parte, il Vangelo ci offre una scena in cui Gesù è solo con gli apostoli. La gente, la folla anonima è ai margini; come se non potesse entrare in quella relazione unica e speciale che intercorre tra il Maestro e i dodici. Il Signore stava progressivamente educando i suoi alla verità della sua persona e per dedicarsi a questo compito era indispensabile sospendere la pressione indebita di molte presenze esterne. E’ un compito che si presenta a volte arduo e difficile perché i cuori dei discepoli sono lenti ad aprirsi al mistero di Dio. Emblematica è la scena di oggi dove è il silenzio a farla da padrone, almeno nei discepoli. Gesù annuncia la passione, i suoi non capiscono, ma non gli chiedono nulla per timore. Parlano e confabulano tra di loro senza coinvolgere il maestro nei loro discorsi. Pare quasi di vederli: Gesù davanti e loro dietro, a debita distanza. Quando il Signore pone loro una domanda essi non rispondono; tacciono e raccolgono l’insegnamento di chi ha comunque capito i loro pensieri anche senza parole. Ma perché questo mutismo? Perché questo essere restii a parlare con Gesù? I dodici si erano fatti prendere da manie di grandezza. Gesù stava salendo a Gerusalemme e lì sarebbe stato riconosciuto nella sua qualità di leader. Allora ci sarebbe voluto un braccio destro, un uomo fidato e poi una cerchia più qualificata; come su una scala gerarchica. I discepoli fantasticavano, creandosi scenari mentali in cui essi stessi si vedevano grandi e importanti. Come accade anche a noi, pure loro sentivano questo irrefrenabile impulso ad essere di più degli altri: più in vista, più bravi, più affermati. Ma queste manie di grandezza svaniscono quando vengono messe di fronte a Gesù. I discepoli tacciono perché sanno che le loro preoccupazioni sono grossolane e puerili rispetto alla grandezza del Vangelo. Quando questa esperienza accade è una grazia. Quando si prende in mano il Vangelo o ci si mette davanti a Gesù crocifisso ci si accorge di quanto siano piccoli e relativi, a volte, i nostri pensieri e i nostri affanni, allora significa che Dio sta facendo breccia nel nostro cuore per deporvi il seme della sua Parola. Così fu quel giorno in cui il silenzio dei discepoli divenne una porta spalancata alla sapienza del Maestro:

“se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”

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LA VIA

Domenica 4 ottobre

2009

PER LA NOSTRA DUREZZA DI CUORE (Mc 10, 2-16) Quando una solitudine non è abitata da qualcun altro, allora è una maledizione. Nella Genesi è scritto: “non è bene che l’uomo sia solo” e ciò vale, evidentemente, anche per la donna. Perché non è bene? Perché ogni essere umano è incompleto e incompiuto. Non potendo bastare a se stesso , ha bisogno di avere accanto una presenza che alleggerisca questa sua condizione di finitezza. Può trattarsi anche della compagnia di Dio, o di un gruppo di amici, o di una comunità. Ma per i più si tratta della compagnia di un essere umano che viene amato come noi stessi. Ed è proprio ciò che ha pensato Dio fin dagli inizi: l’uomo poteva avere a disposizione tutto il creato, dalle piante agli animali, ma tutto ciò non era sufficiente a colmare il suo vuoto. La donna fu, allora, il più grande dono di Dio per poter vivere l’avventura stupenda dell’amore. Poi però sappiamo come è andata. E’ interessante che nel Vangelo di oggi Gesù definisca con la parola “durezza di cuore” la nostra incapacità di amare fino in fondo. Usa questo termine all’interno di un discorso forte e impegnativo sul tema del divorzio. Dice che Mosè, permettendolo, si è arreso alla durezza di cuore delle persone. Ma lui, Gesù di Nazareth, a questa durezza di cuore non si vuole arrendere. Il suo parlare è chiaro e tagliente: tutte le unioni nate dopo separazioni sono adulterine. Rimango senza parole ascoltandolo: penso a coppie conosciute e sento una fitta allo stomaco. Ma dalla Parola del Vangelo io sono stato salvato (e lo sono tuttora) e ho imparato a masticarla anche quando è un boccone amaro. Di questo però sono convinto: Gesù ha una enorme fiducia nella capacità di amare che ciascuno si porta nel cuore. Non confondendo l’amore con il sentimento Gesù crede fermamente che si possa amare con con tutto se stessi anche al di là delle proprie emozioni e che si possa vivere questo amore fino al dono della vita. Tra i legami umani il vincolo di paternità o maternità è fondato sul sangue, ma quello uomo–donna è fondato sulla libertà e sullo spirito. Gesù ha sempre considerato il secondo più importante del primo: proprio perché legato alla libertà, allo spirito e alla fede, il vincolo matrimoniale è indissolubile. Onestamente continuo a preferire un Dio che mi dica:”tu hai la forza di amare fino in fondo” ad uno che accetti, compatendomi” la mia durezza di cuore.

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LA VIA

Domenica 11 ottobre

2009

COSA VOGLIO DI PIU’ DALLA VITA (Mc 10, 17-30) Nota è la pagina evangelica; nota come quella pubblicità in cui ad un certo punto viene posta la domanda: “ma cosa vuoi di più dalla vita?” È una domanda cruciale, decisiva per un cristiano. Peccato che nella pubblicità tutto vada a finire con un semplice bicchiere di digestivo. Bastasse quello a placare le nostre inquietudini … Evidentemente non poteva bastare all’uomo che nel Vangelo si accosta a Gesù chiedendogli cosa deve fare “di più” per avere la vita eterna. Forse era un giovane. Certamente era ricco. Certamente era anche bravo. Aveva tutto: cultura, soldi, serietà, religiosità. Cosa voleva di più dalla vita? Voleva la certezza che quel che faceva rimanesse per sempre. Voleva essere sicuro che lo portasse nell’eternità. Forse sarà stato preso anche lui da quel dubbio tremendo che fa dire “ma chi te lo fa fare?” E Gesù gli risponde. Anzitutto portandolo a pensare a Dio, il solo buono. Perché il primo errore di quest’uomo era cercare in un’altra regola da osservare, in un’altra cosa da fare la certezza dell’eternità. Invece questa certezza la si ritrova in Dio e quindi nel cuore, laddove si rivela l’essere e non tanto l’avere o il fare. E poi la risposta di Gesù si fa più chiara e meravigliosa: “fissatolo lo amò”. Questa fu la vera risposta del Signore. È la profondità di questo sguardo ad offrire la salvezza. Gesù rivela a questo giovane che l’appagamento non parte da un sapere e da un fare, da un avere o da un possedere, bensì da un ricevere o da un lasciarsi amare e plasmare. Solo quando è guardato quest’uomo smette di essere un anonimo e diventa persona. Perché lo sguardo di Gesù non si posa su ciò che è già amabile, ma rende amabile ciò su cui si posa. Questo sguardo d’amore domina tutto e accompagnerà l’uomo sempre e dunque, fin giù all’inferno, se fosse il caso. Ecco perché questo sguardo dà la vita eterna. Ed ecco cosa vogliamo di più dalla vita: uno sguardo vero che ci faccia esistere. La richiesta di vendere tutto è solo una diretta conseguenza; bisogna trovarsi con il proprio nulla per incontrare Cristo. Dal proprio nulla non ci si può salvare: SI VIENE SALVATI. E il Signore si china su questo giovane per sollevarlo dalla sua palude: ma egli preferisce rimanere attaccato alle sue certezze piuttosto che identificarsi con lo sguardo d’amore di Gesù. È allora che il suo volto, (dove Gesù aveva posato lo sguardo) diventa scuro e triste. Ma se va via triste è segno che per un istante la gioia vera l’ha provata. Se ne andrà per sempre o solo per un momento? Tornerà egli di nuovo presso il Maestro, questa volta finalmente libero? Per lui, e per noi, speriamo di sì.

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LA VIA

Domenica 18 ottobre

2009

IL MITO DEI PRIMI POSTI (Mc 10, 35-45) A cosa pensano i due apostoli che chiedono a Gesù di sedere al suo fianco nella sua gloria è facile capirlo. Certamente non avevano in mente il paradiso o la vita oltre la morte, ma una gloria tutta terrena. Stavano andando verso Gerusalemme e là Gesù si sarebbe manifestato come messia vittorioso, da tutti acclamato e osannato (secondo loro). E quindi ciò che essi desideravano era prendere parte in modo speciale a questo trionfo. Anche nei discepoli fa capolino quel modo di pensare che pervade la nostra società e le cui aspirazioni più vistose e tenaci sono quelle dell’ambizione, della volontà di primeggiare e di occupare i primi posti. L’affermazione di sé è vista come il valore più importante, da anteporre a tutto, alla fede, all’amicizia, a volte perfino alla famiglia. Non capita raramente di sentire uomini e donne che dicono: “prima la mia realizzazione e poi i bisogni dei miei figli, di mio marito, o di mia moglie”. A partire almeno dall’800 si è affermata una cultura fondata sulla volontà di potenza come unico modo di sopravvivere in una società fortemente concorrenziale. Che cosa si insegna ai giovani che vogliono affermarsi nella società se non la voglia di battersi per riuscire a prevalere sugli altri? Anche noi siamo dentro questa logica implacabile. Purtroppo anche la Chiesa, quando è preoccupata del suo potere e della carriera dei suoi ministri. Quel giorno anche gli apostoli furono afferrati da questi pensieri. A questo modo di ragionare Gesù contrappone un mondo che celebra altri valori: non quelli dell’ambizione e del dominio ma dell’umiltà e del servizio. È una proposta audace, così audace da non essere capita e condivisa. Proprio a partire dall’800, la stessa filosofia che incoraggiava l’affermazione dell’individuo denigrava il cristianesimo con parole feroci: “servire gli uomini è la più grande idiozia” diceva un poeta francese; “Gesù è un ladro di energia” gli faceva eco un altro. La fede cristiana era vista (e per molti lo è ancora oggi) come l’alimento delle persone deboli, meschine, senza ideali, sconfitte dalla vita. Ma io chiedo: chi ha fatto cose grandi come madre Teresa nella sua umiltà? Chi ha dato speranza agli afflitti come il futuro beato don Carlo Gnocchi? Chi ha influenzato la cultura del suo tempo come S. Francesco d’Assisi nella sua povertà? E allora chi sono veramente i “grandi”? Gesù propone un mondo capovolto, un mondo che ha nome “regno di Dio”. Credo che questo si intenda quando ogni giorno nel Padre nostro noi imploriamo “venga il tuo regno”. Venga un modo di pensare che ci faccia uscire dall’asfissia della concorrenza, del potere e dell’efficienza. IL MIRACOLO NASCOSTO

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LA VIA

Domenica 25 ottobre

2009

(Mc 10, 46-52) Gesù guarisce un cieco. Non è il primo e non sarà l’ultimo cieco guarito nel suo ministero. Più volte il Maestro ripete questo genere di miracolo con il chiaro intento di presentare se stesso come la luce che illumina ogni uomo. Gli occhi che si aprono al mondo rappresentano l’inizio della fede, quell’orientamento del cuore e della mente che permette di vedere in modo nuovo ciò che prima era nascosto. Fin qui è l’evidenza del miracolo. C’è però un altro dato miracoloso in questo episodio evangelico per cogliere il quale occorre entrare nel testo con profondità. Perché questo cieco si trova seduto sul ciglio della strada e soprattutto all’uscita della città? È un dato strano ed inusuale: il Vangelo stesso racconta di un altro cieco guarito alla Piscina di Siloe, cioè dentro le mura di Gerusalemme. E anche i mendicanti solitamente stavano in luoghi frequentati, addirittura negli Atti degli Apostoli si racconta di uno di essi alla porta bella del Tempio, quindi nel centro della città. Ne’ ciechi ne’ mendicanti erano quindi ai margini. Perché invece il cieco di questo episodio lo è? Sembra un uomo che viva degli avanzi degli altri, non solo gli avanzi materiali, ma gli avanzi di tempo, di attenzione, di amore. È un escluso. La sua posizione non è casuale, ma voluta. È stato emarginato dalla città, perché a chi vive nella tranquillità dà fastidio avere tra i piedi qualcuno che con la sua presenza faccia capire che ci sono cose che non funzionano e che ci sono equilibri da ricomporre. Quando si vive da pianificatori perfetti del proprio benessere, i bisogni degli altri sono sempre un impaccio. E così è meglio allontanarli, facendo finta che non ci siano. E ciò fintanto che non si decida di dare credito alla Parola di Gesù. Nell’episodio infatti le stesse persone che rimproverarono il cieco per farlo tacere e che lo avevano escluso su invito del Signore lo cercano, lo accolgono, lo portano dal Maestro. Ecco svelarsi allora il miracolo nascosto: non è solo la cecità sanata, ma anche l’indurimento del cuore della società onesta che viene educata all’accoglienza. Forse Gesù ci ha detto che “i poveri li avremo sempre con noi” proprio perché ci sia qualcuno che con il suo bisogno gridato ci richiami alla necessità della nostra conversione.

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LA VIA

Domenica 25 ottobre

2009

“Guidami, luce benigna, nel buio che mi circonda; nera è la notte e ancora lontana la casa. Non ti chiedo di vedere oltre e lontano: solo, passo dopo passo, dove posare il piede”. (Card. J H Wewnan)

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Domenica 1 novembre 2009 Tutti i Santi

2009

IN MEDIO STAT VIRTUS (Mt 5, 1-12) Traduco subito l’espressione, per non lasciare qualcuno all’oscuro; in latino significa “la virtù sta nel mezzo”. È una massima che conosciamo tutti. Una massima che esalta l’equilibrio, la moderazione, la giusta sintesi tra due estremi. Ma è anche una massima pericolosa, della quale l’altra faccia della medaglia si chiama mediocrità. Oggi festeggiamo uomini e donne che mediocri non lo sono stati affatto: i Santi. Ma alla santità non siamo chiamati tutti? La domanda è evidentemente retorica perché la positività della risposta ormai da tempo è stata proclamata nella chiesa. Ogni battezzato è chiamato ad essere santo, dice il Concilio Vaticano II. E noi ci riconosciamo chiamati alla santità? Forse no. Forse siamo tacitamente rassegnati ad una condizione palesemente mediocre, della quale non sapremmo neppure immaginare il rimedio. In questa tacita resa alla distanza inaccessibile della santità dobbiamo vedere le ragioni del carattere spento e triste della nostra fede. La santità ci è estranea, come estranea ci è la delinquenza. Non siamo in nessuno dei due estremi; siamo nel giusto mezzo. O mediocri? Eppure la santità non è un ideale impossibile, una meta raggiungibile solo a costo di imprese eroiche. La santità è molto più quotidiana di quanto sembri e i Santi molto più numerosi di quel che crediamo. Molto eloquente a questo riguardo è la lettura odierna del brano dell’Apocalisse: c’è una moltitudine di persone vestite di bianco che solo dopo la morte rivelano la loro identità. Sono santi, ma hanno vissuto come sconosciuti! Neppure il veggente del libro si era accorto di loro. A volte i santi sono sconosciuti e senza figura in questo mondo: non vanno sui giornali e neppure sugli altari; ma ci sono. Nel nostro sentirci distanti dalla santità c’è anche questa inconscia convinzione che un santo sia cosa rara e che quindi sia meglio adeguarsi a come vive la maggioranza. Gesù invece i santi li riconosce subito e li chiama ad uscire dall’ombra; li raccoglie intorno a sé e davanti alla folla proclama la loro condizione: sono beati. Le beatitudini evangeliche sono anche la santificazione di condizioni di vita che il mondo tenderebbe a rifiutare e che invece rendono sensibili e vicini a Dio e al suo regno. Allora ci accorgeremmo che la virtù non sta nel mezzo. Sta al centro. Ed è tutt’altra cosa.

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LA VIA

Domenica 8 novembre

2009

DIO VEDE NEL SEGRETO (Mc 12, 38-44) È sempre sorprendente lo sguardo di Gesù. Non ci fosse stato il suo sguardo, il gesto di quella donna sarebbe passato inosservato. C’erano nel tempio altri personaggi ben più importanti, altri gesti ben più appariscenti. E lei, la povera donna vedova, pare di vederla per quello che racconta il Vangelo: schiva, appartata, quasi vergognandosi della pochezza della sua offerta. Ma Gesù riscatta con il suo sguardo quel gesto umile e oscuro celebrandone la grandezza. Molte monete gettate nel tesoro fanno rumore e strepito, attirano l’attenzione. Ma due spiccioli sono silenziosi, nessuno fa caso a chi li offre; ci vuole la capacità di guardare laddove nessuno guarda per potersene accorgere. Ci vogliono gli occhi di Gesù che si posano su ciò che è nascosto per beatificarlo. Questa vedova è uno dei personaggi apparentemente secondari del Vangelo data la brevità della sua apparizione, eppure dobbiamo ritenerla come una delle figure più grandi ed esemplari. La vedovanza, al tempo di Gesù, era una situazione molto penosa e difficile da affrontare: ci si trovava sole, senza aiuti economici e con figli a carico, spesso costrette a mendicare. Non era solo un vuoto materiale, ma anche un vuoto affettivo. Possiamo immaginare quanto quella donna soffrisse per il fatto di sentirsi sola, senza più una voce amica, senza più un gesto di tenerezza. Avrebbe avuto tutte le ragioni per esprimere amarezza e risentimento contro il destino, la sorte, il mondo, Dio stesso: che cosa aveva avuto di buono dalla vita? E invece niente: compie un gesto di una generosità inaudita, un gesto segnato dal grande valore della gratuità. Anche il brano dell’Antico Testamento parla di una vedova. Anch’essa offre per il profeta Elia tutta la farina e l’olio che aveva a disposizione. Ma sperimenta pure la ricompensa di Dio: la farina e l’olio si moltiplicano per lei e per suo figlio. La vedova del Vangelo invece non ottiene alcuna ricompensa. Come avrà fatto poi a trovare da mangiare? Cosa sarà accaduto il giorno dopo? Non lo sappiamo. Abbiamo solo davanti agli occhi un gesto disinteressato. Un gesto che si nutre solo del gusto della carità. Verissime risuonano le parole di S. Bernardo: “L’amore basta all’amore. L’amore ha in sé la sua ricompensa” In un mondo in cui tutto viene fatto con secondi fini o con interessi nascosti, poter contemplare la gratuità di una vedova è un miracolo. Ciò che conta non è la misura o la quantità di quello che possiamo dare, ma il come lo diamo. Se è poco quello che potremo offrire, sarà Dio stesso a colmare le nostre insufficienze.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo


LA VIA

Domenica 15 novembre

2009

OGNI GIORNO C’É UN MONDO CHE NASCE (Mc 13, 24-32) Ci viene offerta una pagina evangelica che parla dei giorni della fine e ci viene offerta alla penultima domenica dell’anno liturgico. Si profila la conclusione del cammino celebrativo della chiesa e siamo invitati a meditare su ciò che finisce e su come ci rapportiamo all’idea della fine. Può finire un’esperienza, un iter formativo, un percorso scolastico. A volte può finire una relazione; finisce, finirà certamente la vita, nostra e dei nostri cari. Come ci rapportiamo all’idea della fine? Bisognerebbe stare in questa domanda e provare a rispondervi per cogliere a fondo il messaggio odierno del Vangelo. La fine generalmente inquieta. Non parliamo solo della fine dell’esistenza ma della fine di tutto ciò che sperimentiamo qui sulla terra. Pensare al fatto che le cose finiscono,quando in esse stiamo bene, è fonte di ansia, persino di angoscia. Ci si sente mancare il respiro, a volte ci si scoraggia. Si pensa che, dato che tutte le cose finiscono, non valga la pena impegnarsi in esse. Eppure tutti i grandi maestri spirituali hanno insegnato che si cresce a mano a mano che si impara a metabolizzare il pensiero della fine. Essi dicevano che per imparare a vivere bisogna imparare a morire. E il vangelo cosa ci dice? Che la fine è in realtà un nuovo inizio. Non fu così la fine della vita di Gesù? Non fu forse l’inizio della resurrezione? Nella logica evangelica quando le cose finiscono si sta preparando qualcosa di nuovo da parte di Dio. Non è semplicemente l’ovvietà delle cose, perché questa novità che si prepara si fonda sulla continuità e stabilità della parola del Signore. Gesù dice: “cieli e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Noi potremmo infatti trovarci a veder finire il nostro lavoro, il nostro mondo, la nostra cultura, anche i nostri affetti. Ma ci accorgeremmo che sempre la verità del Vangelo rimane: Dio c’è e ci precede; noi siamo figli dell’unico Padre; la carità e l’amore potremo sempre incarnarli, in qualsiasi condizione. In fondo, ogni giorno c’è un mondo che nasce; perché mantenere lo sguardo solo su quello che muore?

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo


LA VIA

Domenica 22 novembre 2009 Cristo Re VEDERE IL VERO RE (Gv 18, 33 - 37)

Mi piacciono i visionari, quelli che sanno vedere più in là del reale, quelli che scorgono cose che altri non vedono. Quelli che le vedono magari in sogno e sognano anche ad occhi aperti. Perché chi sogna anche di giorno vede più cose degli altri. I visionari che rasentano il grottesco come Don Chisciotte o che non vengono compresi, come El Greco, sono portatori di verità. Oggi la liturgia ci offre due visionari: il profeta Daniele e l’apostolo Giovanni nell’apocalisse. Entrambi vedono (che bello questo verbo nella sua normalità) guardando nelle visioni notturne. Come a dire che la visione delle cose che sono in cielo esige, come suo sfondo, che questo mondo, con i suoi pregiudizi, i suoi difetti, le sue errate prospettive, venga per un po’ oscurato. Il profeta e l’apostolo chiudono gli occhi alle cose della terra come fosse ormai senza più fascino il mondo; li riaprono però sulla verità, nascosta dietro le apparenze. C’è invece chi dalle apparenze viene accecato: il governatore Pilato. Guarda il mondo come forse lo guardiamo noi e non riesce a scorgere, in Gesù, la verità incarnata. Ci vorrà sua moglie per suscitargli qualche interrogativo; una moglie che vide Gesù in sogno, guarda caso di notte, anche lei. Pilato e Gesù sono lì, uno di fronte all’altro: entrambi sono re, ma di una regalità differente. Per cogliere quella di Cristo ci vuole la visione, per vedere quella di Pilato basta la banalità dell’apparenza. Chi è in realtà il vero re? O meglio, cosa significa essere re? Pilato detiene il potere, ma deve usarlo come piace ad altri, non a lui. È costretto ad interrogare Gesù da coloro che stanno nascosti nell’ombra. Deve muoversi attento a non urtare i Giudei e contemporaneamente a soddisfare l’imperatore. È un topo in gabbia. Schiacciato da più parti, non è interessato nemmeno a sapere cosa sia la verità. Eppure solo la verità potrebbe renderlo libero. E come si può essere re se non si è liberi? Chi invece cerca la verità e la accoglie allora può capire la regalità di Gesù. Nessuno prende la vita di Gesù: egli la offre da se stesso. Nessuno ha potere su di lui, nemmeno la paura della morte con le sue sottili persuasioni. Gesù è sovranamente libero, per questo è un re. È per questo che il suo gesto d’amore rimane il più grande compiuto nella storia; perché è un amore scelto, voluto, attuato e non subìto. Aver vinto su se stessi, diceva S. Francesco, è la vera letizia. Forse è anche la vera regalità.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

2009


LA VIA

Domenica 29 novembre 2009 1°di Avvento VEGLIARE E INCONTRARE (Lc 21, 25-28.34-36)

Inizia l’Avvento e ci viene consegnata un’immagine. È l’immagine dell’incontro tra due donne, Maria ed Elisabetta, entrambe piene di vita perché in attesa di una nuova vita, quella dei loro figli. Il loro incontro fatto di sguardi e di una intesa di tipo spirituale introduce alla splendida preghiera del Magnificat, l’inno di lode più noto e più pregato in tutta la storia della chiesa. Proprio questa preghiera orienta e qualifica tutto il percorso che la nostra Chiesa Diocesana compirà in preparazione al Natale. Un percorso scandito da tappe che ci facciano via via riscoprire le grandi cose che il Signore sta facendo per noi. La tappa di oggi ci lascia francamente disorientati dovremmo prepararci ad un lieto evento ed invece ecco risuonare annunci di catastrofi, terrore ed angoscia. Ma il Signore che viene non dovrebbe portare la pace? Le catastrofi di cui parla il Vangelo non è Dio a causarle: esse accadono. Come tutti i momenti terribili di sconforto e paura accompagnano la storia, quella universale e quella particolare di ciascuno di noi. È in quei momenti però che emerge la parola di salvezza per coloro che hanno saputo vegliare Gesù fa esattamente questo invito: “vegliate in ogni momento, pregando”. Che cos’è questo vegliare di cui il Signore parla? Noi trascorriamo le nostre giornate molto spesso senza pensare alla verità della nostra vita. Sappiamo che essa non potrà scorrere all’infinito come scorre oggi o come è trascorsa ieri. Lo sappiamo bene e tuttavia i nostri cuori sono come stregati da un’illusione irresistibile: ci sembra che la vita sia una cosa ovvia, dotata di una consistenza scontata, quasi dovuta. Tant’è che se la vita si interrompe la riteniamo la più grande delle ingiustizie, quasi un torto operato ai nostri danni. Occorrerebbe smontare questa illusione. La nostra vita infatti è sempre segnata da una certa fragilità, da una lacuna che rimanda ad un compimento più grande. Vigilare vuol dire appunto tener vivo nel cuore, attraverso la preghiera, questo sentimento di incompletezza e di precarietà che ci faccia capire che il tempo presente non ha in se stesso la sua giustificazione. Solo così quel giorno non ci piomberà addosso come un ladro e l’Avvento che sempre si rinnova avrà il sapore di una nostalgia.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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LA VIA

Domenica 6 dicembre 2009 2° di Avvento C’E QUALCUNO AD ASCOLTARE? (Lc 3, 1-6)

Nella prima biografia scritta su S. Francesco d’Assisi, si racconta l’episodio famoso della predica agli uccelli: alle porte di Perugia, il Santo si rivolge ai volatili trovandoli “disposti ad ascoltare devotamente la Parola di Dio.” Gli uomini non si erano mostrati altrettanto devoti e così Francesco si era rivolto agli animali. Nella prima lettura di oggi sembra si verifichi qualcosa di analogo: il profeta Baruc parla, pronuncia parole di consolazione ma rivolge la sua parola alla città genericamente intesa. Dal momento che non trova uomini in carne ed ossa pronti ad ascoltarlo, il profeta sceglie di parlare ai muri. Nella città, Gerusalemme in questo caso, gli abitanti ci sono, le vite si incrociano e le chiacchiere si sprecano. Ma l’ascolto, quello sembra mancare. Quando quindi risuona una Parola, non una chiacchiera, pare cadere nel vuoto. Anche il Vangelo sembra proseguire nello stesso solco tracciato dalla parola profetica: Giovanni Battista è l’ultimo dei profeti; egli parla, ma parla nel deserto. Chi potrà mai ascoltarlo nel deserto? Anche la sua predicazione sembra segnata dallo stesso destino: un seme gettato senza terreno che lo raccolga. Sorprendentemente però, la voce del profeta propizia un vero prodigio: molti escono dalla città e si raccolgono in quel luogo deserto. Lì scoprono di essere in tanti, riuniti dallo stesso desiderio, dalle stesse attese, dallo stesso ascolto. La città era piena di gente, ma deserta di relazioni. Il deserto, che era privo di gente, si riempie ora di relazioni. Le cose si ribaltano e come spesso nel Vangelo, la loro verità si cela dietro l’apparenza. Gli uomini, finchè se ne stavano nella città avevano l’impressione di essere soli: nel deserto si accorgono d’essere insieme. Tutto accade per la forza di una Parola, quella profetica, eco di quella di Dio. Una Parola efficace, viva e vivificante. Una parola così, poteva ssere pronunciata unicamente da un uomo avvezzo a stare solo con Dio, perché per fare magie con la parola occorre essere cresciuti negli immensi spazi vuoti della solitudine. Anche per noi è questa Parola! Anche per la nostra città e i nostri paesi dai quali siamo chiamati ad uscire per andare verso il deserto. Solo lì è possibile trovare quei fratelli che finchè viviamo nella città triste e spenta, sembrano lontani.

Solo lì può diventare reale l’ascolto della verità e non delle chiacchiere; così grazie a ciascuno di noi il profeta potrà parlare non ai muri e S. Francesco non agli uccelli. Il Signore ci guidi in questo cammino.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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LA VIA

Domenica 13 dicembre 2009 3° di Avvento “in laetare” DALLA FOLLA AL POPOLO (Lc 3,10-18)

All’inizio dell’odierno brano evangelico si parla di “folla” e successivamente queste folle diventano “popolo”. Non si tratta puramente di due sinonimi, ma di due parole qualitativamente diverse. La differenza la fa una raggiunta identità, precisa, definibile orientata ad uno scopo. La folla è infatti indistinta e anonima, il popolo ha una sua personalità corporativa, è tenuto insieme da un ideale. Che cosa fa nascere questo passaggio dalla folla al popolo? Da cosa scaturisce questa evoluzione? Anzitutto l’essere usciti dalla città per andare verso il deserto a vedere ed ascoltare la parola del Battista. È nel deserto che la coscienza si scuote e pone le domande più vere. Ancora si ripete il paradosso: nella città, dove c’è frenesia di vita, il cuore è tutto chiuso nell’inerzia e nel torpore; nel deserto, dove tutto tace immobile, il cuore si risveglia e l’urgenza di scegliere ciò che è radicale e duraturo emerge in tutta la sua freschezza. “Che cosa dobbiamo fare?” questa è la domanda di una coscienza risvegliata. È la domanda di chi vuole mettersi in gioco, di chi non si accontenta più, di chi finalmente comincia a provare di nuovo un desiderio, non un bisogno, e non vuole metterlo a tacere. Solo questo desiderio può condurre alla ricerca e la ricerca approdare alla gioia, tema chiave di questa terza domenica di Avvento. La gioia si oppone a quella nota di stanchezza e di inerzia che rischia di appesantire la vita; la gioia è l’indice di una vita che non si trascina, di una vita che esce dall’anonimato senza qualità. Per questo la gioia è anche la porta stretta attraverso la quale entrare per passare dall’essere folla all’essere popolo. In questo popolo, nel Vangelo, ci sono anche i soldati. Pure loro interrogano il Battista, probabilmente timorosi della sua risposta e dell’eventuale durezza delle sue parole. Ma non c’è durezza nelle parole di Giovanni: solo ricorda ai soldati che il potere che hanno sugli altri non deve essere usato a loro stesso vantaggio. In fondo tutti abbiamo un potere sui nostri fratelli. C’è il potere che viene dal sapere, quello che viene dalla posizione sociale, o quello che viene da un carattere forte. Ma c’è anche il potere che viene dall’affetto: perché anche l’affetto di altri nei nostri confronti ci dà un potere su di loro. Non approfittiamone! Non strumentalizziamo a nostro vantaggio ciò che Dio ci ha dato come dono! Solo così ci scopriremo anche noi parte di questo popolo di salvati, popolo di Dio in cammino e in gioiosa attesa della venuta del Signore.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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LA VIA

Domenica 20 dicembre 2009 4° di Avvento PENSIERI A NATALE

L’approssimarsi del Natale ha un effetto quasi infallibile: accelera improvvisamente i già serrati tempi del vivere quotidiano. La vita di ogni giorno è segnata da un affanno strutturale e da un ritmo sempre ben sostenuto; ma quando Natale è alle porte tutto il tempo a disposizione sembra non bastare mai. Si corre per i preparativi, si pensano e cercano i regali, si fanno visite, anch’esse frettolose, a persone che non si vedevano magari da tempo. Sarebbe qui fin troppo superfluo e forse retorico lanciare l’ennesimo appello a rallentare la frenesia della vita. Già altre volte l’abbiamo fatto dalle pagine di questo semplice foglietto parrocchiale; le soluzioni non appaiono molte: ogni tanto bisogna togliersi l’orologio, sedersi, star fermi e constatare, alla fine della giornata, che si è riusciti ugualmente a fare tutto. Non è però di questo che vogliamo trattare, ma di un rischio, anzi due, insiti in questa accelerazione natalizia del tempo. Il primo rischio è che la corsa e l’affanno comportino lo smarrimento del senso dell’attesa; e con lo smarrirsi dell’attesa il sopraggiungere del Natale come di un giorno vuoto. Capita proprio così! Si sta in fibrillazione per qualche giorno, tutti presi da mille cose tranne che dalla preghiera, e quando Natale arriva, essendo un giorno connotato da un senso spirituale ci pare che sia poca cosa, quasi una giornata spenta. Accade di pensare alla sera del 25: “tutto qui Natale?” Il secondo rischio è meno evidente, ma spiritualmente più pericoloso: i preparativi che fervono ci portano a ritenere che Natale sia una nostra creatura. Senza che ce ne accorgiamo, questa festa rischia di assumere la consistenza di un evento da costruire invece che da ricevere. Mentre la festa di Natale non è il risultato di una nostra laboriosa costruzione, ma della grazia di Dio. Nemmeno i nostri impegni cristiani possono essere sufficienti: il Signore è sempre molto più in là di noi, anzi, più in basso di noi. Nessuno dei pastori presenti a Betlemme era pronto a quella nascita, a quel rivelarsi di Dio. Furono gli angeli ad offrirla loro come dono. Lasciamo da parte dunque l’agitazione. Non deve accadere che le molte cose da fare ci distraggano dall’ascolto della voce degli angeli. “Ti faccio i miei migliori auguri, anzi uno solo, ma credo sia l’unico che da vero amico ad un altro caro si possa fare, ed è : la pace del cuore sia sempre con te, poiché quando ogni giorno tu possederai la pace, sarai veramente ricco”.

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

2009


2009

Parrocchia Beata Vergine del Carmelo Roveleto di Cadeo Piacenza


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