" La Via " raccolta 2012

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Parrocchia S.Teresa Benedetta della Croce Roveleto di Cadeo Pc

Ascoltate e vivrete

LA VIA RACCOLTA 2012


LA VIA L’IMPORTANZA DEL NOME L’intuizione è arrivata da una constatazione immediata: Roveleto e Cadeo sono attraversati dalla via Emilia che è la croce e la delizia dei nostri paesi. Crea magari un po’ di traffico, ma garantisce la vitalità dell’ambiente e anche la funzionalità di esercizi commerciali. Evidentemente però non è questa la motivazione portante della scelta di questo nome. In realtà bisogna cercare il motivo direttamente nel Nuovo Testamento. La VIA era infatti il nome con cui era chiamata la prima comunità cristiana. Quando S. Paolo, negli Atti degli Apostoli, racconta la sua conversione, dice di aver perseguitato accanitamente ”questa nuova via” riferendosi al cristianesimo. (At 22, 4 ) I cristiani stessi erano chiamati, nel 1° secolo, “quelli della via”. Tutto questo è spiegato molto bene dal priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, nel suo libro “La differenza cristiana”. A me pare stimolante pensare che, mentre in quei secoli tutti i sistemi di pensiero o le religioni venivano chiamate “dottrine”, il cristianesimo fosse chiamato “VIA”. Essere cristiani non è infatti questione di imparare una lezione, o di usare solo la mente per idee astratte. La fede cristiana è un’esperienza di vita, un luogo dove incontrare persone, stabilire rapporti, proprio come su una via. Siamo in cammino, mai fermi, esattamente come gli angeli che Giacobbe vide salire e scendere sulla scala (Gen 33 ). Per questo il nome “la via” mi è sembrato quanto mai azzeccato: siamo anche noi come la prima comunità cristiana, entusiasti dell’incontro con Gesù e i fratelli e mai sazi, mai arrivati, mai chiusi a quelle novità che lungo la strada Dio ci farà trovare.


un pensiero....

Siamo giunti alla quarta edizione della nostra Via, che ripropone la Parola di Dio così sapientemente illustrata nelle celebrazioni domenicali da don Umberto. C'è qualcosa di affascinante nell'essere accompagnati da questa Parola, innanzitutto si può toccare con mano la dimensione profetica del Vangelo. Quella dimensione che pone l'uomo di fronte alla rivelazione; risuona in questo pensiero il versetto della scrittura che dice : "Tu bambino sarai chiamato profeta dell'Altissimo." Ma per parlare di Dio di fronte all'assemblea occorre custodire nel cuore la Parola. E' solo permettendo ad essa di penetrare nel profondo, che si può entrare in contatto con il nostro vero io. Oltre al fascino, la Parola esiste se riusciamo a trasformala in azione. Una parola senza azione è destinata a scivolare sulle cose, non ha la capacità di trasformare la nostra vita nè la realtà circostante. Qui emerge la bellezza e la consapevolezza di essere chiamati “figli di Dio” e cioè di collaborare insieme al nostro Creatore per dare un nome e dignità a quanto ci circonda. E' in quest'ascolto, che sa tradursi in azione, che la Parola cessa di essere il compiacimento estetico di un bel racconto e assume il timbro della carità, l'unica forza che ci permette di uscire dal nostro egoismo, per andare incontro agli altri e che ci permette insieme agli altri di costruire una società più giusta. Altro aspetto non secondario è la dimensione terapeutica della Parola di Dio, ecco perché siamo chiamati a custodirla e a pronunciarla, essa ha un volare intrinseco che va oltre noi stessi, i nostri limiti e le nostre fragilità ed è realmente in grado di sanare la nostra vita e la nostra società.

Stefano


Domenica 8 gennaio 2012 “VIDE SQUARCIARSI I CIELI”

Battesimo del Signore

(Mc 1, 7-11)

Si conclude il tempo Natalizio, il tempo liturgico più breve dell’anno, un tempo così esiguo da farci pensare che quindici giorni trascorsi tra una festa e l’altra siano davvero pochi per cogliere il mistero di Dio che si fa uomo. Abbiamo quasi l’impressione di aver compiuto un salto all’indietro, una specie di flash back per capire da dove viene e come sia nato questo oscuro falegname di Nazareth che oggi si accoda agli altri per essere battezzato da Giovanni. Tutto sembra normale nel suo battesimo tranne la voce dal cielo “tu sei il Figlio mio, l’amato”. Preferisco la traduzione letterale che suona: “il beneamato”. Dio infatti ci ama bene. Sufficiente imbeccata per intuire che esistono diversi modi di amare: si può anche amare male. Ci viene detto che l’amore non è mai sbagliato: ma ne siamo convinti? Io non mi capacito molto: se si ama in modo possessivo, se si ama viziando una persona, se si ama qualcuno perché ci da quel che a noi manca, si può dire “amore” per narrare quel sentimento? È una parola abusata, lo sappiamo, ma l’astenerci dall’usarla non ne aumenta certo la comprensione. Non fa male amare, ma fa molto male amare male. Gesù invece(e in Lui tutti noi) è amato bene dal Padre suo (e nostro).È amato di quell’amore che rende adulti, autonomi,veri e consapevoli. Non a caso il Battesimo del Signore coincide con l’inizio della sua missione: presa di coscienza del senso della sua vita, della sua identità e responsabilità. Quando Gesù vide squarciarsi i cieli, capì che il Padre era con Lui, era per Lui. Dura si fa la vita, invece, quando il cielo sopra di noi rimane chiuso e Dio svanisce dai pensieri. Dura e piena di affanni. Ne basterebbe uno: la nostra cura dell’immagine, non in senso estetico, ma nell’energie che spendiamo ad inseguire l’idea di noi stessi che gli altri ci restituiscono. Per placare quest’affanno Gesù ci offre la sua scelta: in fila con i peccatori, senza privilegi, senza preoccupazione alcuna per la propria immagine. La sua certezza era che di questa immagine si sarebbe preoccupato Dio stesso. E così sarà per il resto della vita: non lo preoccuperà la sua figura quando lo chiameranno mangione e beone, quando lo criticheranno per l’abbraccio di una peccatrice, quando si burleranno di lui coronato di spine.Aveva il cuore che riposava in Dio da quel giorno in cui si immerse nell’acqua del Giordano.Ogni volta che i cieli paiono chiusi sulla nostra testa dovrebbe tornarci alla mente questa scena. In fondo, non siamo stati battezzati anche noi? Don Umberto

La Via

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Domenica 15 gennaio 2012 CHIAMATI

Gv 1, 35-42)

Dopo la rivelazione dell’identità di Gesù fatta da Dio Padre al Battesimo del Giordano, oggi si chiarisce la nostra identità: noi siamo dei chiamati, chiamati alla sequela. I testi di oggi infatti ci invitano a riflettere sul tema della vocazione: la chiamata di Samuele nella prima lettura e quella dei primi discepoli nel Vangelo offrono l’opportunità di ritornare su questo argomento. Nel parlare di vocazione c’è sempre il rischio di limitarsi all’alternativa matrimonio/consacrazione come se fossero gli unici modi di intendere la chiamata. Essa invece abbraccia un campo molto più vasto e presuppone la risposta ad alcuni interrogativi di fondo: la vocazione è per tutti o solo per alcuni? E’ per un tempo determinato o definitiva? E’ legata ad un preciso incarico o è generica? La risposta a queste domande va collocata dentro un quadro di sviluppo vocazionale che aiuta ad orientarci. È un quadro in quattro tappe: siamo chiamati alla conversione, alla comunità, al servizio e, infine, ad un preciso stato di vita. Anzitutto quindi c’è una vocazione per tutti che è quella a vivere in Cristo, cioè a convertirsi continuamente alla sua persona e al suo stile di vita; poi c’è una vocazione ad essere Chiesa, cioè ad una appartenenza, e anche questa è per tutti. Terza tappa è la vocazione al servizio e può prendere forme diversificate nella Chiesa ma ad esso tutti siamo chiamati: operai nella vigna. Infine la vocazione più specifica ad uno stato di vita: qui le cose si differenziano perché distinte sono le mediazioni per le chiamate più particolari con cui aderire al Signore. Ciascuno è chiamato ad una precisa modalità con cui rendere vive ed operanti le prime tre tappe. Dalle pagine bibliche di oggi emergono, a questo riguardo due costanti. La prima: la vocazione non coincide con quel che uno sente dentro di sé come inclinazione o desiderio o aspirazione. Possiamo sentire e desiderare di tutto, ma se non c’è qualcuno che ci chiama non c’è vocazione. La Via

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Domenica 22 gennaio 2012 FRONTIERE

S.Agnese (Mc 1, 14-20)

Proprio lì passava la frontiera, da Cafarnao. Quel punto del lago era solcato dalle barche e attraversato dagli uomini. Una frontiera, infatti, non è un confine. Il confine chiude, la frontiera evoca passaggi, transiti e scoperte. Gesù chiamò uomini di frontiera ad essere suoi compagni di viaggio: i primi li andò a cercare proprio lì. Voleva gente che potesse emozionarsi alla sola prospettiva di lasciarsi attraversare l’anima dalla sorte e dai volti di tanti fratelli e sorelle. Voleva gente a cui non fosse indifferente il destino degli altri e la loro salvezza.Gente capace di guardare al futuro e lasciarselo sconvolgere da una parola: “Seguitemi”.Non che fossero dei santi, tutt’altro. Ma probabilmente, assuefatti al ritmo di vita che la pesca impone, avevano imparato a godere di quel silenzio interiore che il buio della notte ti sussurra, quando il paese dorme e tu pensi, sogni, o forse ti immalinconisci. Familiarità con la solitudine e dimestichezza con le domande vere, quelle che non riesci più a farti quando sorge il sole e la giornata ti afferra togliendoti il beneficio della quiete: queste attitudini abitavano in loro. Ogni nuovo giorno è benedetto, ma pure gravido di nuovi affanni; in esso c’è l’evidente capacità di far sentire ciascuno come espropriato: ti manca il tempo per fare le cose che vorresti, per incontrare le persone che ami, persino per ribellarti alla tirannia degli impegni quotidiani. Sensazioni non estranee anche per i pescatori del lago di Galilea che colsero però nella voce del Maestro di Nazareth l’opportunità per aprire mente e cuore ad una realtà più ampia della preoccupazione per la quantità del pesce finito nelle reti.Le reti infatti furono lasciate e il tempo riempito di nuovi orizzonti.Un tempo diverso, un tempo segnato dall’Avvento del Regno cioè dal primato di Dio: l’unico in grado di dare senso anche al futuro e di interrompere quell’incertezza che porta ad evitare investimenti troppo impegnativi. In loro ci fu risolutezza: non più oppressi dalla paura di ogni giorno si lasciarono afferrare da quella insolita allegria che capita quando lo sguardo al futuro permette di prendersi il diritto di vivere il presente.

La Via

Don Umberto raccolta 2012


Domenica 29 gennaio 2012 “CRISTO, MIA DOLCE ROVINA”

(Mc 1, 21-28)

Il titolo lo prendo da p. Turoldo; sono parole sue. Io me ne approprio, con rispetto, perché ritengo che esprimano sinteticamente le emozioni e le considerazioni che il Vangelo di oggi ci suggerisce; anzitutto riguardo al modo con cui il Signore Gesù parlava. Le sue parole sono autorevoli: la gente era sorpresa e meravigliata per l’autorità con cui si esprimeva. Di fronte ad una parola autorevole non si può mai far finta di niente: se una parola è vuota e irrilevante allora la si può lasciar scivolare nell’indifferenza e sonnecchiare beatamente mentre viene pronunciata. Ma le parole autorevoli hanno un potere su di noi: cambiano le carte in tavola, possono innalzarci o farci sprofondare, possono esaltarci o, appunto, rovinarci. Per questo l’indemoniato del Vangelo chiede a Gesù “sei venuto a rovinarci?” Sarà pure stato indemoniato,ma certamente era intelligente. Aveva capito perfettamente chi era Gesù, afferrandone la portata delle parole e delle azioni. In quella tipica genialità che il male sa avere, intuiva che il quieto vivere in cui si era barcamenato era giunto al capolinea. E tutto questo perché il Maestro di Nazareth non solo parlava, ma anche agiva. C’erano i fatti, nella loro concretezza, ad accreditare ancor più le sue parole. Il primo fu la liberazione di un uomo posseduto da uno spirito impuro: e se quell’uomo fossimo noi? Inizierebbe la nostra rovina: Cristo infatti è venuto a rovinare quel nostro cristianesimo ateo, per cui siamo credenti alla domenica per un’ora e viviamo un ateismo pratico per il resto della settimana; quella nostra condivisione rassegnata della giornata tra mediocrità e rimpianti; questa nostra sottile ma giustificata, a volte legittimata, convivenza con il male. La liberazione da tutto questo comporta fatica: dove sarebbe quindi la dolcezza di questa rovina? Nel fatto che il Signore Gesù non priva mai una persona di un punto d’appoggio (tanto più se falso) senza offrire se stesso come sostegno. Nell’incontro con Gesù ci si perde qualcosa solo perché in cambio si ottiene un bene ancora più grande. Don Umberto La Via

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Domenica 5 febbraio 2012

San Biagio

UNITI MA NON “FUSI”

“Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura une delle altre[…]Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor. 12, 24 b-25; 27). La crisi delle vocazioni ci ha indotti a ripensare il nostro modo di essere Chiesa, per non subire gli eventi, ma per pilotare il cambiamento con la dottrina comune e la prassi consolidata della Chiesa. Da oltre un anno abbiamo reso più stretta l’unità pastorale fra le nostre parrocchie per metterle in grado di continuare ad annunciare il Vangelo, celebrare i sacramenti della salvezza, testimoniare la carità in modo efficace. Ci siamo ispirati al progetto della Comunità pastorale che sta attuando da qualche anno l’arcidiocesi di Milano. In questo tempo, attraverso le liturgie unitarie e le altre attività fatte insieme come un’unica comunità, sono nate cose belle. Ora è giunto il momento di fare il passo successivo: la fusione fra le quattro parrocchie del comune di Cadeo; ci accingiamo a questo passo dopo aver avuto il parere favorevole del Consiglio di Unità pastorale, il parere favorevole e l’appoggio del Vicario generale e del Vicario episcopale territoriale. Chiariamo subito che non è una fusione come quella tra aziende e banche, perché la natura della Chiesa è diversa: è una comunione organica, una gerarchia funzionale di ministeri e carismi che edifica il Regno di Dio nel mondo. La fusione è funzionale a un raccogliere, coordinare in modo più efficace i ministeri e carismi in cui si articola la comunità parrocchiale sotto la guida del suo pastore proprio. La fusione fra parrocchie quindi rende il corpo ecclesiale più snello e funzionale nelle sue membra, ove ognuna si prende cura delle altre, perché “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor. 12, 26). In concreto dunque, passare da quattro a un’unica parrocchia non vuol dire chiudere le filiali più piccole (lo abbiamo dimostrato con le liturgie unitarie), ma gestire meglio le risorse umane e materiali della comunità sul territorio. L’unica comunità parrocchiale avrà quattro poli; nei mesi che verranno il Consiglio di Unità pastorale rifletterà su come valorizzare ogni singolo paese, quali attività, servizi di tutta la futura parrocchia dislocare in ogni paese. L’erigenda Chiesa nuova è pensata per il servizio di tutto il territorio del comune di Cadeo nel suo complesso, non della La Via

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Domenica 5 febbraio 2012

San Biagio

UNITI MA NON “FUSI”

sola Roveleto. Dato che in un futuro non lontano resterà un solo prete per comune, potrà contare su una unica amministrazione parrocchiale (più funzionale di quattro divise), con un’unica equipe amministrativa. Sarà più semplice gestire anche un unico gruppo di catechisti, educatori e formatori, come anche un’unica rete per gli altri servizi caritativi e pastorali. La procedura si articolerà nei seguenti passi: richiesta al vescovo da parte dei titolari delle parrocchie per fonderle in un’unica parrocchia; il vescovo, sentito il Consiglio presbiterale, emetterà il decreto di fusione, dando un nuovo nome alla parrocchia (per sottolineare che nasce una nuova realtà, non si tratta di Roveleto che fagocita le altre parrocchie); il vescovo trasmetterà la pratica al Ministero dell’Interno (tramite Prefettura e corredandola della documentazione necessaria), affinchè la fusione sia annotata nel Registro delle Persone Giuridiche; il titolare della nuova parrocchia, mediante notaio, comunicherà al catasto la fusione che ha generato la nuova parrocchia, con il nuovo nome e farà le volture, per passare i beni e i diritti delle precedenti parrocchie alla nuova. Tutta la procedura avrà tempi brevi (qualche mese, un anno) e costi contenuti.

La Via

Don Stefano

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Domenica 12 febbraio 2012 CHIACCHIERE VUOTE E SILENZI ELOQUENTI

(Mc 1, 40-45)

Si può morire di solitudine? Se lo sarà chiesto mille volte il lebbroso di cui ci parla il Vangelo. Egli era, tra i poveri, il più povero. Isolato, allontanato, scartato. Esisteva, ma era come se non ci fosse: perché ogni essere umano ha bisogno di almeno una persona che lo accolga, almeno una agli occhi della quale esistere ed essere apprezzato. Se non è così, la persona muore. E quest’uomo moriva. Moriva la sua carne, come quella di tutti, non per l’inesorabile scorrere del tempo, ma per questa troppo lunga solitudine. Un cuore muore per assenza d’incontri e ogni carne muore se non è toccata, se non entra in relazione. Per questo Gesù lo guarisce toccandolo: avrebbe potuto farlo solo con le parole, ma non sarebbero bastate a far comprendere a quel lebbroso che c’era qualcuno che voleva ancora incontrarlo e in quest’incontro fargli nuovamente dono di un corpo capace di relazione. L’uomo guarito entra finalmente nel villaggio e Gesù ne resta fuori. Sembra che il Signore abbia preso il posto del lebbroso, che la sorte solitaria ora tocchi a Lui, come se Egli si fosse caricato di quel male. E questo misterioso scambio ha bisogno di essere contemplato nel silenzio. L’ordine di Gesù è davvero perentorio: “guarda di non dire niente a nessuno”. Al contempo è sorprendente: quel miracolo sarebbe stato visibile a tutti, l’evidenza della carne guarita avrebbe suscitato scalpore. Come avrebbe potuto egli tacere? I miracoli scadono nel sensazionalismo, è sempre così, tanto più oggi che questo sensazionalismo si nutre di trasmissioni televisive. E tuttavia occorre che almeno colui che è stato oggetto del miracolo di Gesù non partecipi alla chiacchiera comune correndo il rischio di dimenticare in fretta la solitudine da cui è venuto e il male da cui è stato sanato. Non c’è da rimuovere nulla, piuttosto da custodire nell’intimo del cuore il senso di ciò che è accaduto. Perché parlare di ciò che è assolutamente personale ed unico, a volte, è come dilapidare un patrimonio. Occorre che le cose si sedimentino dentro di noi, abbiano il tempo di decantarsi e di fermentare prima di uscire imprudentemente alle nostre labbra. Una cultura come la nostra vive sempre connessa, sempre interattiva, tutti devono sapere tutto: e così mancano i silenzi, la riflessività la discrezione. Di fronte all’esibizionismo della trasparenza giustificato dalla micidiale coincidenza tra verità e spontaneità dovremmo riscoprire la bellezza del senso del pudore. Don Umberto

La Via

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Domenica 19 febbraio 2012 CENTRARE LO SCOPO DELLA VITA

(Mc 2, 1-12)

A Gesù ci si può avvicinare in tanti modi. Il lebbroso ha fatto ricorso a una trasgressione, il paralitico si è affidato alla collaborazione di quattro volonterosi. Sarebbe stato bello vedere un varco aprirsi tra la folla al passaggio del paralitico. Forse in quel momento Gesù stava parlando dell'attenzione che bisogna riservare ai malati e agli emarginati. Ma la folla rimane compatta e impenetrabile. Le persone che stanno attorno a Gesù non sempre sono di aiuto a chi voglia avvicinarsi, anzi talvolta rappresentano un ostacolo. I cosiddetti devoti non rendono certo un buon servizio a Gesù quando lo sequestrano dentro i loro recinti e con la loro presenza ingombrante creano attorno a lui una specie di schermo o di barriera. Per fortuna ci sono presenze più leggere e sensibili che invece di cercare esclusivamente il proprio benessere spirituale, si mettono a disposizione di altri meno fortunati. I quattro barellieri di cui il Vangelo celebra l'iniziativa estrosa e premurosa a favore di un infelice ci offrono l'immagine di quella chiesa che si vorrebbe sempre incontrare: una chiesa al servizio di tutti coloro che cercano il volto di Gesù, soprattutto di quanti, per avvicinarsi, avrebbero bisogno di qualcuno che li incoraggi e li aiuti a trovare il percorso giusto, anche a costo di aggirare l'ostacolo rappresentato dai cosiddetti devoti. Ma il Vangelo ci suggerisce anche un'altra riflessione: come Gesù si avvicina a noi? Con il lebbroso aveva compiuto il gesto estremamente imprudente di toccare il suo corpo infetto. Con il paralitico, Gesù si comporta in un modo ancora una volta sconcertante. L’avesse soltanto guarito, sarebbe stato un miracolo in più che avrebbe accresciuto la sua fama di taumaturgo. Ma che bisogno c’era di toccare il problema del perdono quando la grazia più urgente era quella della guarigione? Forse perché allora si pensava che ogni infermità fosse collegata a una condizione di peccato? Se proprio voleva liberarlo da ogni sospetto di colpevolezza, bastava che lo guarisse subito: una volta recuperata la sua integrità fisica, nessuno più avrebbe potuto dubitare della sua integrità morale. Per Gesù una ritrovata efficienza fisica che non fosse accompagnata da una ritrovata integrità interiore non sarebbe un vero miracolo. La Via

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Domenica 19 febbraio 2012 CENTRARE LO SCOPO DELLA VITA

(Mc 2, 1-12)

A che serve risolvere una paralisi esteriore se rimane paralizzata la propria interiorità? Ecco perché Gesù si rivolge al paralitico con queste parole: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati ». Peccare è non centrare lo scopo della vita. Ci sono persone a cui non si saprebbe rimproverare qualche colpa specifica, ma che secondo il Vangelo si trovano in una condizione di peccato perché non hanno centrato il bersaglio della loro vita. Sono quelle persone che nell’attraversare la vita sono ripiegate su valori che non sono essenziali: coltivano il fare, l’avere, il prestigio personale, la riuscita non importa come, e sacrificano il sentimento, la pietà, la fiducia, la dimensione contemplativa e orante. Perciò il modo migliore di leggere il racconto che ci ha lasciato Marco è quello di fermare l’attenzione non tanto sugli aspetti spettacolari e un po’ folcloristici, ma sul suo carattere rivoluzionario, e di arrivare a stabilire con Gesù, nel segreto della nostra coscienza, un dialogo fiducioso e sincero per dirgli: «Signore, anch’ io mi trovo in una condizione di peccato perché ho l’impressione di non essere capace, per tanti motivi, di centrare lo scopo della mia vita. Ripeti anche per me le parole che hai detto al paralitico a Cafarnao. Rimettimi in cammino, con il tuo perdono, verso i valori veri, quelli che tu ci hai fatto conoscere con la tua meravigliosa avventura in mezzo agli uomini ». Don Luigi Pozzoli

La Via

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Domenica 26 febbraio 2012 DEPOSIZIONE

prima di Quaresima

(Mc 1, 12-15)

Ho pensato a questo titolo anzitutto a partire dal quadro che accompagna la nostra Quaresima Diocesana: Gesù deposto nel sepolcro e intorno a lui vari personaggi, da Giuseppe a Nicodemo, da Maria di Magdala a Maria di Cleopa. Ma la parola deposizione mi ha suggerito una domanda: che cosa dobbiamo deporre? La Quaresima è sempre stata legata ad una deposizione: si entra infatti in Quaresima dopo aver deposto la maschera del carnevale. Ci sono quindi maschere da deporre, non solo quelle buffe e burlesche della festa ma anche quelle più serie e preoccupanti che ci mettiamo ogni giorno. Maschere per difenderci maschere per apparire quel che non siamo, maschere per stare al passo con un mondo e una cultura che magari non condividiamo. Abbiamo bisogno, invece, di autenticità; occorre che ritroviamo il nostro vero “io” per incontrare il vero Dio. Niente è più idoneo a questo sforzo che l’ambiente del deserto, esattamente in quella cornice in cui inizia la Quaresima. Tutto torna, tutto si chiarisce. Il deserto in cui Gesù è portato dallo Spirito è lo stesso in cui dobbiamo inoltrarci noi, non per intristirci ma per ritrovarci più agili, più temprati, più convinti. Come fare per lasciarci condurre anche noi nel deserto? Occorre anzitutto che digiuniamo. L’abbondanza di cibo , di bevande, di vestiti, di spettacoli televisivi o di uso di social network nascono spesso da un’inquietudine. Sono indice di qualcosa che ci manca e che invece dovrebbe esserci. A volte non sappiamo nemmeno noi cosa, sentiamo solo di essere nervosi e così proviamo un po’ tutto nutrendo la speranza illusoria di poter conoscere all’improvviso il sollievo dall’oppressione per ciò che manca. Ma per capirlo occorre sospendere questa frenesia di sensazioni: solo quando la bocca è vuota e gli occhi liberi è possibile capire ciò che c’è nel cuore e di cosa veramente abbiamo bisogno. Così si crea lo spazio per la preghiera, altro cardine del tempo quaresimale. La Via

raccolta 2012


Domenica 26 febbraio 2012 DEPOSIZIONE

prima di Quaresima

(Mc 1, 12-15)

Una preghiera fatta soprattutto di ascolto più che di richiesta: leggere la Parola, con calma, senza fretta, un quarto d’ora al giorno. Staccando tutto, telefono,cellulare, internet. E chiedendo di non essere disturbati. Così dopo aver capito, pregando, che il tempo è di Dio ed egli ce ne fa dono, decidere di farne dono agli altri. Questo è il senso vero dell’elemosina: lasciare che gli altri entrino nel nostro tempo con i loro bisogni, a volte materiali ed economici, molto più spesso interiori e spirituali. Il deserto può uccidere o rendere ancora più vivi: entriamoci consapevolmente.

La Via

Don Umberto

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Domenica 4 marzo CONFERME

2° di Quaresima

(Mc 9, 2-10)

Ancor oggi, in Israele, il Monte Tabor è un luogo speciale. Il panorama che si gode dalla sua sommità è emozionante non solo per la bellezza dei luoghi ma anche per il loro significato: dal Tabor infatti si contemplano le tappe fondamentali della storia biblica laddove esse sono avvenute. Si capisce bene, restando lì, che la trasfigurazione di Gesù non poteva avere contesto migliore. Che significato ebbe, quell’episodio, per i tre apostoli che erano con il Signore? Fu una conferma che il loro cammino, la loro scelta di seguire Gesù era giusta. Per il maestro non erano tempi facili: c’era stata una perdita di consenso e molti si erano allontanati da lui. Anche i discepoli, ricevuto l’annunzio della passione, avevano iniziato a chiedersi se stare con quest’uomo di Nazareth non si sarebbe rivelato un clamoroso fiasco. Vedere Gesù sul monte completamente trasfigurato, glorioso e splendente nella sua più intima verità era quindi stato per loro un momento inizialmente faticoso, ma poi rassicurante, tanto da chiedere di restare per sempre lì con Lui. Anche noi abbiamo bisogno di conferme: ne ha bisogno la nostra comunità per capire se il cammino e le scelte compiute siano giuste; ne ha bisogno la nostra società di fronte ad un futuro incerto; ne hanno bisogno le famiglie quando riflettono sulle decisioni educative verso i loro figli; ne abbiamo bisogno tutti nelle nostre relazioni e nelle nostre dinamiche affettive. Ma questa pagina evangelica che cosa ci dice del modo con cui Gesù ha confermato i suoi amici? Anzitutto, questa conferma non fu fatta di parole vuote e retoriche ma di una presenza reale e concreta, tanto da generare il desiderio di non andare più via. Però fu temporanea. Durò poco, occorreva poi tornare a valle. Così dovrebbero essere le conferme, non continue e ripetute, ma poche ed essenziali. La Via

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Domenica 4 marzo CONFERME

3° di Quaresima

(Mc 9, 2-10)

Poi, essa coincise con una anticipazione del futuro glorioso di Gesù, dell’esito vittorioso della sua passione. La conferma in genere ha anche per noi questo tratto: anticipa il sapore buono dell’esito finale delle nostre scelte. Noi ci sentiamo confermati quando la nostra meta è chiara e ne percepiamo in anticipo la validità. Infine, la presenza sul monte di Mosè ed Elia, ci dice che ogni conferma si fonda sul passato; c’è qualcuno che ha trovato una luce di verità prima di noi, ci sono altri che ci hanno preceduto la cui esperienza può ispirare le nostre scelte. Pensare di essere sempre noi a dover cominciare è una condanna alla solitudine. Ci sia concesso dal Signore di essere anche noi confermati per poter dare conferme. Don Umberto

La Via

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Domenica 11 marzo UN TEMPIO NUOVO

3° di Quaresima (Gv 2, 13-25)

La prima parte di questo testo di Giovanni è prevalentemente dominata dall’azione. Gesù compie un gesto dimostrativo che viene narrato con ricchezza ed evidenza di dettagli. Che cosa si proponeva impugnando una sferza di cordicelle contro i venditori che si trovavano nel recinto del tempio e rovesciando i banchi dei cambiavalute? Sarebbe facile definirlo un contestatore, dal temperamento istintivo e passionale. Certo il suo era un gesto inatteso e sconcertante, che dovette impressionare fortemente i presenti. Probabilmente le autorità religiose da quel momento incominciarono a preoccuparsi di questo strano personaggio che aveva il coraggio di mettere in discussione l’apparato religioso organizzato attorno al tempio. Gesù infatti non voleva tanto orientare la sua irritazione contro i mercanti del tempio come fossero odiosi trafficanti (del resto svolgevano una funzione la cui utilità era riconosciuta da tutti), quanto denunciare il fatto che le pratiche rituali fossero diventate fonte di profitti illeciti e che l’esteriorità dei gesti avesse preso il sopravvento sulla sincerità del cuore. Gesù, pur amando il tempio tanto da invocarne la purificazione, doveva soffrire vedendo che Dio vi era tenuto come in ostaggio, separato dal mondo degli uomini da una barriera fatta di pietre, di riti e di gerarchie religiose. Bisognava perciò liberare Dio dalla prigionia del tempio e restituirgli la libertà di realizzare il suo desiderio più grande, quello di porre la sua dimora nel cuore dell’uomo. È Gesù il vero tempio di quel Dio di cui i giudei celebravano la presenza sul colle di Sion, in Gerusalemme. Questa grande novità si riflette stupendamente su tutta la nostra esistenza se appena si arriva a capire, attraverso le suggestioni della fede, che pure noi siamo tempio di Dio, essendo uniti a Cristo come membra del suo corpo. Si tratta di una verità meravigliosa che però deve essere onorata a partire da una domanda: in quale stato si trova la nostra cella interiore, là dove Dio vuole dimorare? Potrebbe essere un tempio profanato da interessi di ordine mercantile, come se valesse, anche nei rapporti con Dio, la legge del dare per avere. In realtà Dio non si lascia mai comprare. La Via

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Domenica 11 marzo UN TEMPIO NUOVO

3° di Quaresima (Gv 2, 13-25)

Ciò che conta, nei rapporti con Dio, è il principio della pura gratuità. Un’altra forma di profanazione del tempio interiore può essere data dalla pretesa di avere Dio solo per noi, dimenticando che è Padre di tutti. In questo caso c’è un solo modo di purificare il tempio del nostro cuore: è quello di riconoscere l’ eminente dignità di ogni uomo e di onorarla concretamente, con grande libertà e generosità Dio è nell’uomo, ci dice Gesù. Perciò se vogliamo amare Dio non possiamo chiuderci nel recinto delle nostre private devozioni, ma dobbiamo fare della nostra vita uno spazio eucaristico dove l’altro viene accolto alla tavola dell’amicizia per celebrare insieme la grande umanità del nostro Dio. Don Luigi Pozzoli

La Via

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Domenica 18 marzo CERCARE LA VITA

4° di Quaresima (Gv 3, 14-21)

Un colloquio notturno, quasi clandestino, nascosto agli occhi della gente, ma luminosissimo per chi ne avrebbe avuto memoria negli anni a venire: ecco cosa fu l’incontro tra Gesù e Nicodemo. Perché un uomo del genere cercò il Signore? Nicodemo aveva tutto: capo dei farisei, era in una posizione sociale di prestigio, stimato, apprezzato, ricercato per la sua spiritualità e cultura. Perché va da Gesù? Aveva bisogno di altro. Nicodemo anelava alla vita che non muore. Un uomo che non ha più le incombenze pratiche e immediate a tormentarlo, prima o poi arriva alla domanda cruciale: cosa rimane di tutto ciò che vivo e che faccio? È una domanda che bene o male fa capolino nella vita di tutti. È una domanda sapiente perché ci aiuta a ridimensionarci, ironicamente, come direbbe Totò, a “futilizzarci”. Ma la sua sapienza consiste anche nella spinta che ci da a ricercare ciò che veramente vale, ciò che dura, ciò che è eterno. Con questi desideri Nicodemo incontrò Gesù. Ne ebbe una risposta chiara: ciò che rimane, ciò che passa alla vita eterna è quanto viviamo nella logica della Croce di Cristo. L’offerta della nostra vita per amore, associandoci alla croce di Gesù, ci unisce anche alla sua resurrezione. Così la croce è il giudizio di Dio sul mondo: non nel senso della condanna del mondo (la paura di Nicodemo e la nostra) ma nel senso che attraverso la croce di suo figlio Dio mostra al mondo cosa è veramente duraturo. La croce è il discorso di Dio all’umanità, un discorso che rivela la verità, senza umiliare le persone, senza schiacciarle, ma accompagnandole e risollevandole dal loro dolore. Ci sono però molte logiche contrarie al dono di sé: logiche di potere, di autoaffermazione, di egoismo. Spesso le preferiamo, perché “gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce”. Ci sembrano più vantaggiose, ci illudono di darci salvezza, si insinuano in ogni scelta che facciamo. Poi però rivelano la loro inconsistenza lasciandoci soli. La Via

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Domenica 18 marzo CERCARE LA VITA

4° di Quaresima (Gv 3, 14-21)

Proprio come i serpenti, la cui pericolosità sta anche nel loro strisciare nascosto. Quando un serpente è innalzato come quello di Mosè nel deserto, cui Gesù fa riferimento, allora perde la sua efficacia perché può essere visto ed evitato. Abbiamo bisogno di vedere le logiche contrarie alla croce che abitano dentro di noi; abbiamo bisogno che siano rischiarate dalla luce vittoriosa di Cristo. Solo così avranno meno potere. Don Umberto

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Domenica 25 marzo

5° di Quaresima

ATTRAZIONE (Gv12,20-33) “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”. Su queste parole di Gesù oggi cade la nostra attenzione. Il Signore le pronunzia all’interno della risposta data a quel gruppo di greci che volevano vederlo; la loro era una richiesta dettata dalla curiosità, forse da una esigenza culturale e filosofica. Gesù replica che avrebbero capito solo al momento della crocifissione. Solo lì, sulla croce, egli avrebbe attirato tutti a sé . La croce , quindi, attrae. È proprio così? Il crocifisso ci attrae? Non è banale porsi questo interrogativo ora che il Triduo Pasquale si avvicina. La parola attrazione è oggi troppo confusa all’interno di un contesto culturale creato dal marketing . Sembra che l’attrazione sia il potere che gli oggetti esercitano su di noi per essere acquistati. Oppure la seduzione che le persone esercitano per essere ammirate. Ma essere attratti non significa essere sedotti e neppure essere affascinati. L’attrazione lascia sempre la persona libera di aderire, non può essere imposta con la forza e nemmeno fare leva sulle passioni. Anche il crimine, essendo una passione negativa, attrae gli uomini. Basta sfogliare i giornali o guardare la tv per accorgersi di quale altissimo audience abbiano gli episodi negativi. Ne siamo attratti; ma nessuno poi vorrebbe realmente viverli. Basterebbe questo a rivelare la falsità e l’inconsistenza di quella attrazione. Come basterebbe vedere la delusione o lo svuotamento che vivono coloro che agiscono per seduzione o perché sono affascinati da qualcuno. Persino i fondatori di ordini o comunità religiose non sono stati immuni a questo rischio. Solo la verità autentica o la bellezza possono attirare perché lo fanno nell’umiltà, senza accecare l’uomo, senza imporsi, ma andando di pari passo con la carità amorevole. La bellezza infatti si realizza nell’amore realizzato che può fondarsi solo sulla verità. Amore, bellezza e verità: ecco cosa troviamo nella croce di Cristo. Per questo Egli, innalzato da terra, ci attrae. Il crocifisso infatti non si può imporre, nemmeno strumentalizzandolo come segno culturale. La Via

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Domenica 25 marzo ATTRAZIONE

5° di Quaresima

(Gv12,20-33)

Nell’umiltà della sua apparente sconfitta egli rivela agli uomini la possibilità di dare un senso al proprio dolore, di curare le ferite dell’anima ancora aperte, di tergere quelle lacrime che mai abbiamo asciugato: in una parola, di trasformare il male in bene. È questo che ci attrae. A tal punto che, seduti ai piedi di Gesù crocifisso, non ce ne vorremmo più allontanare. Don Umberto

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Domenica delle Palme 1 Aprile INFINE (Mc 14-15,47)

Inizia una settimana grande e importante, così importante da essere definita “santa”. Essa è il gioiello dell’anno liturgico, è quel tesoro prezioso che, se scoperto, è in grado di tenere in vita nei momenti di crisi e di difficoltà. È però una perla troppo spesso dimenticata da noi cristiani a vantaggio di feste forse più sentimentali ma ormai avariate da scelte consumistiche. In questo caso no: la passione non si vende, un morto in croce non fa mercato. Probabilmente non suscita nemmeno sentimenti di bontà, ma voglia di fermarsi , di meditare, accogliere e contemplare. La frenesia ordinaria rischia invece, in questi giorni, di accentuare la sua ingombrante presenza per curare i preparativi pasquali. Dovremmo invece custodire il silenzio: un silenzio che si faccia Parola, non la nostra, ma quella di Dio. Senza silenzio e raccoglimento non si entra nel mistero di morte e resurrezione a cui ci stiamo accostando. Senza silenzio e raccoglimento non può nascere un’adesione sincera; al suo ingresso a Gerusalemme Gesù fu accolto da una folla chiassosa e frenetica, la stessa però che poi lo condannò ad essere crocifisso. In questi giorni, dovunque ci trovassimo, casa, per strada, a scuola, al lavoro, teniamo la mente e il cuore legati a Cristo. Solo allora la preziosa liturgia del triduo fiorirà come l’esito più naturale dei nostri sentimenti. Don Umberto

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Domenica 15 Aprile IN FUGA DAI SEPOLCRI?

(Gv20, 19 - 31)

Chi è stato a Gerusalemme sa che il S. Sepolcro non offre una bella immagine di sé. Se ci si va al mattino presto, nel silenzio, è possibile godere del suo misticismo, altrimenti nel resto della giornata, il luogo si trasforma in una caotica massa di persone che si riversano in quella chiesa annerita dagli incendi, sporca, trasandata e mai restaurata. Troppi turisti, troppi curiosi fanno venire la voglia di allontanarsene. In fondo però poco male. Il sepolcro non va amato, Cristo va amato. Dal sepolcro Cristo è uscito e noi non dobbiamo certo cercare di rinchiudercelo; anzi probabilmente abbiamo qualche sepolcro da cui allontanarci anche noi. Oggi ci viene presentato un apostolo che fu capace di abbandonare il sepolcro del suo scetticismo e della sua incredulità: Tommaso, il grande credente, che uscì dalla tomba della delusione nei confronti dei suoi amici e compagni di fede, quella che ti prende quando ti accorgi che la Chiesa reale è fatta di uomini e donne peccatori e che non serve a nulla sognarla migliore se quei sogni diventano un implacabile metro di giudizio e di condanna. Egli abbandonerà il sepolcro delle sue paure e del suo smarrimento che lo portava a dubitare. Capiva che se Cristo era davvero risorto allora tutta la vita sarebbe cambiata e per questo c’era bisogno di un punto d’appoggio sicuro. Noi invece siamo tranquillamente disposti ad ammettere la resurrezione di Gesù, ma la nostra vita non cambia mai. Non è questione di un nostro sforzo etico, ma di vera e sincera disponibilità: essere toccati dalla resurrezione di Cristo è un dono elargito dallo Spirito Santo a coloro che lo chiedono con cuore semplice nella preghiera. Quando Caravaggio dipinse questa scena dell’incredulità di Tommaso, realizzò Cristo nell’atto di afferrare la mano dell’apostolo per metterla nel suo costato ferito. Solo Gesù può accompagnarci nelle sue piaghe, e può farlo se noi lo desideriamo. La Via

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Domenica 15 Aprile IN FUGA DAI SEPOLCRI?

(Gv20, 19 - 31)

Il Signore può farci dimorare nel suo costato, in quel luogo dove anche le ferite vengono trasfigurate, in quel luogo in cui si approda quando si abbandonano i sepolcri del nostro tossico dolore, del nostro risentimento e delle nostre paure. Don Umberto

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Domenica 22 aprile PROIEZIONI E FANTASIE

(Lc 24, 35-48)

I due discepoli di Emmaus non pensavano certo che avrebbero fatto ritorno a Gerusalemme così in fretta, ne’ tanto meno che avrebbero avuto la grazia di vedere di nuovo il Signore Risorto. Il loro cammino a ritroso avvenne la sera tardi, di corsa, con l’ansia e la gioia di chi ha qualcosa di importante da dire. Essi però, non pensavano neppure alla doccia fredda che avrebbero ricevuto una volta raggiunti gli altri discepoli: c’era scetticismo, sfiducia e poca convinzione che Gesù fosse risorto davvero. Persino di fronte al Signore stesso,apparso in mezzo a loro, gli apostoli si mostrarono “stupiti e spaventati, perché credevano di vedere un fantasma”. È una paura strana quella dei fantasmi, strana e fulminea, così repentina da far pensare che altra fosse la paura vera degli apostoli. Non la paura dei fantasmi, ma la paura delle loro fantasie, cioè la sensazione che la loro precedente fede in Gesù fosse frutto della loro immaginazione. Spesso infatti avevano dovuto fare i conti con un Gesù ben diverso dalle loro aspettative: lo attendevano messia politico, forte e vittorioso ma egli rifiutava di essere re; lo cercavano in un luogo ed egli era altrove; avevano riposto in lui non solo speranze, ma pure desideri e proiezioni, ma egli le aveva disattese. Troppo spesso e con troppe ripetute smentite avevano toccato con mano la differenza tra i loro pensieri e quelli del maestro. Troppo cocente era stato per i discepoli il passaggio dall’ideale al reale. Sempre faticoso e doloroso è questo passaggio per ogni credente chiamato ad accogliere la realtà di Dio senza colorirla delle proprie proiezioni e fantasie o la realtà della parrocchia senza immaginarla perfetta per poi giudicarla quando se ne capiscono i limiti. Per allontanare questa loro paura (quella di essersi ancora una volta costruiti un’illusione) Gesù mangia con i discepoli: un gesto semplice, richiamo concreto alla vita ed esplicito riferimento all’eucarestia. Ma non solo: appare mentre i due di Emmaus parlano, perché solo l’ascolto fiducioso dei testimoni permette di trovare il Signore, e in quel frangente spiega le Scritture, perché solo l’apertura intelligente del cuore La Via

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Domenica 22 aprile PROIEZIONI E FANTASIE

(Lc 24, 35-48)

alla Parola permette di uscire dal vicolo cieco di una fede costruita da noi a tavolino. In quella stanza della cena ci siamo anche noi: di fronte a quella reale concretezza che ci fa dire che la nostra fede non è solo un’illusione. Don Umberto

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Domenica 29 aprile IL PASTORE “BELLO” (Gv 10, 11-18) Di solito, con riferimento a questo testo di Giovanni, si parla del buon pastore. Ma nel testo greco c’è l’aggettivo kalos, che vuol dire bello. Si dovrebbe quindi parlare del pastore bello. Perché Gesù applica all’immagine del pastore un aggettivo che solitamente troviamo associato ad altre parole, come amicizia, volto, sorriso, poesia, paesaggio? Qui la bellezza non viene messa in relazione con l’aspetto esteriore del pastore, ma con il suo modo di comportarsi che si differenzia totalmente da quello degli altri pastori. Una nota rilevante riguarda il modo con cui il pastore bello entra in rapporto con il suo gregge. Mentre gli altri pastori vedono il gregge come una massa indifferenziata di pecore su cui esercitano il loro controllo, imperioso e coercitivo, il pastore proposto qui come modello conosce le sue pecore e viene da esse riconosciuto. A questo modo Gesù ci libera dalle immagini intollerabili di Dio, causa di nevrosi e di ateismo, e al tempo stesso ci libera da quella esperienza di solitudine e di vuoto che ci porta a esprimere talvolta questo lamento: «La mia vita è proprio insignificante: nessuno che si ricordi di me e che mi dimostri un poco di quella amicizia che fa vivere ». «C’è una presenza tenera e amante che non ti dimentica», ci dice Gesù. «Il tuo nome, Dio lo tiene scritto sul palmo della sua mano ». C’è una seconda nota che rende bella la figura del pastore: « Io offro la mia vita». Gli altri pastori si servono delle pecore per vivere, il vero pastore invece è lui che dà la vita per le sue pecore. Gesù mette l’accento sul dono della vita. Amare, per Gesù, vuol dire dare la vita. Questo è il modo con cui Dio ci ama. Non dobbiamo perciò aspettarci da Dio i segni della potenza secondo la logica umana. Noi Dio lo vorremmo diverso: come dispensatore di miracoli, come operatore di interventi forti e visibili, come signore della storia, da vincitore. E non nascondiamo la nostra delusione tanto da pensare che se Dio ha creato questo mondo avrebbe molte cose da farsi perdonare. La Via

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Domenica 29 aprile UN TERREMOTO INTERIORE

(Gv 20, 19-23)

Perché non mette un pò di ordine in questo mondo così mal riuscito? Perché non è capace di convertire i lupi in agnelli o quanto meno di togliere ai primi almeno un po’ della loro spavalda sicurezza e di dare agli agnelli un po’ della forza dei lupi? Gesù ci risponde: « Io offro la mia vita. Questo è il mio modo di amare, il modo di amare di Dio. Tu soffri? Io vengo e soffro con te. Ti senti “pietra scartata dai costruttori” di questo mondo i quali amano scartare le pietre inutili? Io sono pietra scartata come te, accanto a te. Ciò che posso darti è il mio amore perché tu ti senta amato e continui ad amare. La forza è tutta qui. Il vero miracolo è qui. Perché solo l’amore alla fine vince». Don Luigi Pozzi

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Domenica 6 maggio POTATURE (Gv 15,1-8) Gesù ci invita a riflettere su di una scomoda verità: perché una vite porti frutti occorre potarla. C’è qualcosa di curioso nel vedere una vite potata: fa quasi impressione scorgere la “lacrima” della linfa sgorgare dal taglio come il sangue da una ferita. Eppure quel gesto è necessario perché il tralcio, accorciato nel punto giusto, concentri tutte le sue energie nel futuro grappolo d’uva. Sembra quasi che la natura esprima, a modo suo, ciò che accade nella vita delle persone. Come se il creato custodisse in sé, in germe, le verità più profonde dell’esperienza umana. Ogni potatura, infatti, fa soffrire: fallimenti, decisioni sofferte, rinunce, lutti, sono tutte forme di potatura; sono tagli che fanno sanguinare il cuore. Ma proprio come accade in natura, forse Dio li permette perché la nostra vita porti più frutto sotto altri punti di vista. Una grande sofferenza può ad esempio aiutare a capire e accompagnare coloro che soffrono; una decisione sbagliata può rendere più sapienti; una rinuncia può generare energie nuove. Così è, in fondo, tutta l’esperienza spirituale cristiana: secondo la più grande tradizione dei santi ogni “no” pronunciato era sempre in vista di un “si” più grande e più vero. La fecondità, sotto tutti i punti di vista, è lo scopo di ogni potatura. Anche la croce di Gesù fu in qualche modo una potatura: tutto l’amore che egli provava per gli uomini si concentrò in quel punto, in quel costato squarciato da cui fluì sangue ed acqua. Non poteva che essere così dal momento che Cristo parlò di se stesso come della “vera vite” e di Dio come il “vignaiolo”. Dal punto di vista storico l’inizio della coltivazione della vite ha permesso e favorito lo sviluppo della civiltà: per poterla coltivare, infatti, un popolo deve diventare stanziale, non più nomade. Così può formarsi una propria cultura,un proprio mondo di valori e di abitudini. Anche per aderire a Gesù vera vite bisogna pian piano fare scelte che ci La Via

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Domenica 6 maggio POTATURE (Gv 15,1-8)

qualifichino come cristiani e che manifestino la nostra cultura, la nostra vita, il nostro patrimonio spirituale. Tra tutto, quella stupenda capacitĂ che dovrebbero avere i cristiani di non maledire le potature della vita ma di chiedersi a quale frutto piĂš maturo il Signore li stia chiamando Don Umberto

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Domenica 13 maggio RIMANENZE O RIMASUGLI? (Gv15, 9-17) Rimanere mi sembra proprio un bel verbo quando è associato all’amore. Ha il sapore di qualcosa che resiste, che dura e non finisce. Ha il sapore di una promessa compiuta, niente affatto transitoria, ma permanente nel suo adempiersi. Proprio questo è il lascito di Gesù ai suoi ”rimanete nel mio amore”. Non c’è da crearlo l’amore, non c’è da fabbricarlo o produrlo con le nostre buone intenzioni o con i nostri sentimenti: l’amore c’è già, è quello che Gesù ci ha lasciato e per sempre. È un verbo felice proprio perché oggi l’amore sembra quanto di più passeggero ci sia. Lo si cerca ovunque, lo si invoca come un diritto, se ne rivendica la libertà senza vincoli etici o morali ma se ne percepisce anche tutta la fragilità. Sembra concepito come una specie di fluido arcano, qualcosa di superstizioso e magico che arriva all’improvviso e altrettanto velocemente se ne va, quasi capriccioso, lasciando le persone vuote,sempre costrette a cercarne altro. L’amore di cui parla Gesù invece è Dio stesso: precede la storia di ciascuno di noi, anzi la fonda. Senza quest’amore noi non esisteremmo. Non è quindi una nostra conquista, ma un legame che ci unisce a Dio e ai fratelli sin dall’inizio, dalla creazione. Tutti noi siamo molto più legati di quel che pensiamo o di quel che sembra, ma non ce ne accorgiamo. Un unico Spirito è stato effuso nei nostri cuori ma è facile dimenticarsene:per questo l’amore diventa un cammino arduo e faticoso, che lascia molti delusi e scoraggiati. Si cercherà di sostituirlo allora con il piacere, che è il surrogato di coloro che non hanno il coraggio di essere felici. Ma nel Vangelo c’è una parola che spesso sostituisce l’amore: amicizia. Gesù parla più spesso di amicizia che di amore. Perché l’amore appartiene all’ordine della carne e della natura, l’amicizia appartiene all’ordine dello Spirito, della libertà, della scelta. L’amicizia è l’amore più limpido e disinteressato:essa si fonda sulla reciprocità, è paritetica. La Via

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Domenica 13 maggio RIMANENZE O RIMASUGLI? (Gv15, 9-17) Gesù ha vissuto la povertà, ma in quanto ad amici è stato un ricco. Da questa sua ricchezza, umana e divina,ha attinto per dare con abbondanza. L’ha fatto molto più di quanto gli uomini meritassero, tanto che possiamo parlare di “rimanenza” del suo amore. È un’altra parola che mi piace, rimanenza. Ha il sapore del sovrappiù, dell’esagerazione. Forse sta a noi non relegare quest’amicizia divina ad un piccolo rimasuglio della nostra vita. Don Umberto

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Domenica 27 maggio SUSCITA IN NOI LA PAROLA

(Gv 15, 26-27; 16, 12-15)

Il titolo di questa riflessione lo assumo così com’è dall’inno che viene recitato nei vespri per pentecoste. Quando Vangelo e Atti descrivono e narrano il dono dello Spirito ai discepoli di Gesù, lo fanno con linguaggi diversi ma pure con elementi comuni: tra questi ci colpisce il fatto che il dono dello Spirito sia legato alla possibilità di comunicare. Nei giorni della sua vita terrena Gesù aveva certo parlato con i discepoli; lo aveva fatto a lungo e ripetutamente. Ma ciò non era bastato ad abbattere una specie di diaframma interposto tra Lui e loro, una sottile barriera che impediva la reale comprensione. Molte cose erano rimaste inespresse, taciute, perché i discepoli non erano capaci di portarne il peso. A pensarci bene, accade anche oggi che tra uomo e donna, tra fratelli, tra genitori e figli si possa vivere insieme, magari per anni, senza trovare le parole per dire ciò che invece dovrebbe essere detto. C’è un silenzio, spesso non deliberato e inconsapevole che ci blocca. Lo viviamo a volte con dispiacere, altre volte lo accettiamo passivamente, senza mai riuscire ad infrangerlo. Il rischio è che questo mutismo su cose che sentiamo vere, renda poi banale e piatta la comunicazione ordinaria. Il dono dello Spirito sarà per gli apostoli la grazia di penetrare nella verità della loro comunicazione. Lo Spirito garantirà una conoscenza vera di Gesù e quindi una profondità di comunione che ancora non avevano sperimentato. Anche il brano degli Atti sottolinea la stessa cosa: dopo la Pentecoste fiorisce una rinnovata capacità di comunicare, talmente incisiva da essere capita anche da chi non parla la stessa lingua. L’ostilità dei Giudei alla figura di Gesù aveva costretto gli apostoli a chiudersi nel cenacolo, luogo emblematico del mutismo della parola. Anche oggi molti cristiani, allorché percepiscono l’ostilità del mondo nei confronti di Dio, si chiudono in un mutismo. Si consolano dicendo che la fede è una questione interiore, che non ha bisogno di essere manifestata. Siccome Dio è diventato straniero al mondo, allora anche loro si estraniaLa Via

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Domenica 27 maggio SUSCITA IN NOI LA PAROLA

(Gv 15, 26-27; 16, 12-15)

no da questo mondo. Certo, usufruiscono di tutte le utilità che la società civile offre; ma per ciò che concerne la fede restano muti. Così tanto muti da non riuscire a capire più di che pasta siano fatti. Il mistero di Pentecoste, celebrando la verità della comunicazione e la ritrovata lingua per parlare a tutti gli uomini, ci inviti a rivedere questa forma angusta, risentita e un po’ comoda di vivere la fede. Don Umberto

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Domenica 3 giugno TRINITA’ E FAMIGLIA (Mt 28, 16-20) Associare la solennità liturgica della Trinità alla festa della famiglia viene quasi istintivo. Si tratta di due realtà di comunione, due realtà in cui domina lo stile della relazione, del legame profondo tra le persone. Come nella Trinità le persone divine stanno insieme senza annullare le loro singolarità e differenze, così in una famiglia i membri che la compongono dovrebbero sostenersi reciprocamente senza schiacciarsi o annullarsi l’un l’altro. Certo il rischio di presentare una famiglia ideale è concreto: troppo alta sembra essere la figura della Trinità per poter essere imitata. Forse però ci sono altri elementi che accomunano Trinità e famiglia. Ad esempio il senso di mistero. Comprendere la Trinità sino in fondo non è possibile, ed è giusto che sia così, perché la realtà di Dio non può essere misurata dalla mente umana. Allo stesso modo in ogni famiglia ci sono dinamiche difficili da conoscere e persino da capire: restano un mistero alcuni legami e resta un mistero anche la bellezza di un amore fedele e longevo. Per questo ha bisogno di una forza e di una grazia che vengono da Dio. La Trinità resta certamente inimitabile, ma senza dubbio la possiamo invocare, lo facciamo già ogni giorno con il segno della croce. A Dio che è Trinità ci rivolgiamo per quelle famiglie che affrontano la bellezza degli inizi, perché il loro entusiasmo nutra le giornate anche quando diventeranno ordinarie e ripetitive; a Dio che è Trinità chiediamo di sostenere quelle famiglie che sono nella stagione della prova, la prova di affetti che si inaridiscono che si logorano e si allentano; spesso c’è crisi di comunicazione e quei linguaggi che costituiscono il sogno promesso nell’incontro tra uomo e donna si bloccano nell’ incapacità di ascolto reciproco. La luce della Trinità vogliamo chiederla per tutte quelle famiglie in cui più intenso si sta facendo il tempo della dedizione: dedizione agli anziani, dedizione ai bambini in tenera età: ci vogliono energie sempre nuove, ci vuole cura e motivazione per i momenti in cui ci si sente sfibrati. La Via

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Domenica 3 giugno TRINITA’ E FAMIGLIA (Mt 28, 16-20)

Ma gli sguardi riconoscenti di coloro che amiamo non hanno prezzo. Danno la stessa gioia e lo stesso calore dello sguardo di Dio Trinità su coloro che lo pregano e vivono “perfetti come perfetto è il padre vostro celeste” (Mt 5,48). Don Umberto

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Domenica 10 giugno SENZA DI TE NON CI STO PIU’

(Mc 14,12-16.22-26)

Nella mia vita ho celebrato migliaia di Messe, spesso con vera partecipazione, a volte con stanchezza per il numero eccessivo in una sola giornata. Sempre però con lo stesso stupore e la stessa meraviglia: che in un gesto così semplice, un uomo così indegno possa rendere presente l’immensità di Dio. Dalla più povera delle favelas alla più pomposa delle cattedrali, dal più sperduto villaggio di montagna alle masse oceaniche dei grandi eventi papali, l’eucarestia mantiene lo stesso cuore, la stessa verità, la stessa forza. E dopo anni, mi accorgo che questo mi affascina ed insieme mi persuade: la sua immutabilità, la sua capacità di essere davvero un memoriale, cioè un gesto così stabile nel tempo da rendere presente ciò che è accaduto secoli fa, non solo nel ricordo, ma anche nella vita di coloro che vi partecipano. In coloro che hanno fede, una fede vera nella presenza reale di Gesù nell’Eucarestia, la celebrazione è un vero momento di gioia, di pace e profondità interiore; tanto vere da non dipendere dalle condizioni in cui si celebra. Per questo è un bene che l’Eucarestia opponga una pacata ma ostinata resistenza a quei tentativi di trasformarla in qualcosa di più accattivante e al maldestro senso di protagonismo di noi preti che la facciamo diventare una performance personale, accompagnata da canzoncine, simboli eccessivi, chiose continue per renderla più “gradevole”. Per poi magari lamentarci se le persone scelgono la messa in base al prete che la celebra. Forse ciò che abbiamo perso nelle nostre messe non è la solennità dei riti o il fascino misterioso del latino, forse non abbiamo perso solo l’armonia del celebrare, forse non dobbiamo solo ripensare il ruolo di chi celebra e l’eccessiva enfasi data all’omelia … forse ciò che manca è proprio la fede. Mi vengono in mente i martiri di Abitene che davanti ad uno sconcertato procuratore romano intenzionato a salvarli dalla morte se avessero rinunciato a radunarsi la domenica, risposero: “senza partecipare all’Eucarestia non possiamo vivere”. La Via

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Domenica 10 giugno SENZA DI TE NON CI STO PIU’

(Mc 14,12-16.22-26)

Avremmo bisogno di recuperare un po’ di quella forza, di quella convinzione e di quella fede; in un mondo in cui si sgretolano le certezze, in cui viene meno ogni senso di appartenenza c’è davvero bisogno di unità, di una diversità armonizzata intorno a un sogno, il sogno del Regno di Dio. Perché i sogni non siano chimere frustranti occorre nutrirli: se vengono alimentati, essi pure sono in grado di sostenerci. Il nostro nutrimento è l’Eucarestia: quasi solo per la sua umile bellezza vale la pena essere cattolici. Don Umberto

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Domenica 17 Giugno SU CHI VOLGERO’ LO SGUARDO?

(Mc 4, 26-34)

Gesù parlò sempre con particolare emozione di quelle realtà piccole e semplici che conservano la magia degli inizi: egli ha celebrato il lievito nascosto (Mt 13,33), l’obolo della vedova (Mc 12, 42), il fiore del campo (Mt 6,28), il bambino che non conta nulla. In questa esaltazione degli inizi poveri e semplici, che è la più bella teologia della speranza, dobbiamo leggere la parabola del seme. Basta poco per essere attratti e sedotti da ciò che è appariscente, grandioso e vincente. Ma per volgere lo sguardo ai segni piccoli e nascosti occorre una sapienza tutta particolare. Anzitutto ci vuole discernimento: una capacità di scrutare nel profondo, di cogliere quel germe di bontà e di Vangelo che sta sotto le apparenze, che non fa rumore, che non si impone, ma che nasce silenziosamente. Magari dentro ciascuno di noi Dio si fa strada così, con piccoli segnali, con fugaci pensieri, con attimi di quiete strappati alla quotidianità convulsa. Ma anche nella vita della Chiesa il Vangelo cresce così: laddove poche persone, senza ansiose preoccupazioni di numeri, si lasciano guidare dalla parola, lì veramente il Regno di Dio fiorisce. Per restare in sintonia con questa logica del seme ci vuole anche pazienza e capacità di attendere. Mi colpisce il fatto che le principali figure evocate da Gesù nel Vangelo, agricoltori, pastori, pescatori, siano tutte contraddistinte dalla capacità di attendere. L’agricoltore attende che la terra faccia fiorire il seme piantato, il pescatore attende immobile che i pesci abbocchino, il pastore, pure lui fermo, vigila il suo gregge. Sembra quasi un ozio, invece è accogliere dei tempi di Dio, che non sono i nostri. In barba a tutti coloro che misurano il valore delle persone solo in base a ciò che esse producono. La vita spirituale ha tempi e ritmi completamente diversi da quelli a cui ci siamo abituati:l’esigenza frettolosa di vedere frutti non le è stata mai troppo amica. Volgere lo sguardo sul seme che cresce lentamente, non è accontentarsi di La Via

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Domenica 17 Giugno SU CHI VOLGERO’ LO SGUARDO?

(Mc 4, 26-34)

poco, non è semplice rassegnazione ma fiducia nell’opera di Dio, è lotta contro il nostro delirio di onnipotenza, perché un cristianesimo ossessionato dalla propria riuscita è come una pianta che pensa di poter vivere senza radici.

Don Umberto

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Domenica 24 giugno CHI SIAMO NOI?

(Lc 1,57-66.80)

Ci deve essere un motivo davvero importante per decidere di festeggiare S. Giovanni Battista anche se è domenica. Personalmente, da buon ambrosiano, ho sempre fatto un po’ di fatica a digerire questa scelta di posporre il giorno del Signore ad alcune solennità o feste di Santi. Per antichissima tradizione, il rito ambrosiano considera la domenica liturgicamente più rilevante di qualsiasi altra festa. Mi sono chiesto quindi che cosa realmente festeggiamo oggi. Nel darmi risposta ho pensato che le feste dei Santi, e dei martiri in specie, si celebrano nel giorno della loro morte e non in quello della loro nascita. L’eccezione fatta per Giovanni è da riferire a quanto si dice nel profeta Isaia, perfettamente applicabile al Battista: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome”. (Is 49, 1) Ciascuno di noi ha un nome; i nostri genitori l’hanno scelto per noi, forse a partire dai loro gusti, forse per motivi affettivi. Ma per ciascuno c’è anche un altro nome, scelto da Dio per noi. Sono affermazioni da intendere in modo spirituale, ovviamente. Nel parlare di “nome” non intendo un insieme di lettere, ma l’identità complessiva che ciascuna persona si vede assegnata alla sua nascita. È una identità fornita dalla carne e dal sangue, cioè dalla natura, ma non è l’identità più vera: c’è un’altra identità a noi assegnata dallo spirito stesso di Dio. Questa identità divina non è immediatamente percepibile: il nome che Dio ci ha dato è nascosto, scoprirlo è il cammino di tutta una vita. Non di rado capita che il nome datoci dagli altri sia piuttosto distante da quello che Dio ci assegna: percepiamo, quasi con fastidio, che gli altri non colgano la nostra vera e più profonda identità, anzi, che tentino di darcene una a partire dai loro giudizi o dalle precise attese che essi nutrono nei nostri confronti. Viene prima o poi il tempo di sottrarsi a queste attese, perché non così noi veniamo a conoscenza del nostro vero nome. Esso è “scritto nei cieli” come disse Gesù ai suoi; il mutismo di Zaccaria, padre di Giovanni, è segno evidente dell’impossibilità di dire in termini solo naturali l’identità La Via

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Domenica 24 giugno CHI SIAMO NOI?

(Lc 1,57-66.80)

di quel figlio. Chi siamo noi veramente lo può dire solo Dio; ce lo sussurra con voce di Padre se restiamo uniti a lui e alla sua Parola così efficace come nell’Apocalisse:“al vincitore darò una pietra bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve” (Ap 2,17).

Don Umberto

La Via

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Domenica 9 settembre PER COMUNICARE NON BASTA PARLARE (Mt 7, 31-37) In questi anni, per scrivere La Via ho cercato di darmi un metodo. La scrivo, quasi di getto, il lunedì mattina, per poter avere la possibilità di correggere il tiro nei giorni successivi, ma anche perché le riflessioni scaturite dalla Parola di Dio mi accompagnino lungo la settimana, dando luce ai pensieri e criterio alle scelte da compiere. Stavolta il mio lunedì è stato interamente dedicato al card. Martini, al suo funerale, alle emozioni da esso suscitate, ai ricordi e ai progetti legati al suo passaggio tra noi. Se dicessi che ho la mente libera per scrivere queste righe mentirei. Mi è difficile pensare ad altro, dedicarmi appieno alle occupazioni pastorali, tenere il cuore fisso su ciò che devo fare e le persone che devo incontrare. Forse con queste mie ingombranti emozioni annoio qualcuno e ne chiedo scusa. Soprattutto a coloro che hanno perduto persone amate molto più vicine a loro e in modo molto più doloroso. Di fatto però è la memoria del Cardinale che mi ha orientato nella preghiera sul brano evangelico che tratta della guarigione del sordomuto (Mc 7, 31-37). Questo brano fu per Martini l’icona evangelica di riferimento per la lettera pastorale del 1990 che si intitolava appunto “EFFATA-APRITI”. Era una lettera sul tema della comunicazione: la comunicazione interpersonale, quella ecclesiale e quella sociale, legata soprattutto ai mass media. A Milano generò un grande fermento culturale e un grandissimo interesse di giornali e TV che sentirono di avere nel cardinale un prezioso interlocutore. In una società che ha la brama di comunicare c’è qualcosa che blocca la comunicazione vera. Cosa? Prendo le parole direttamente dal Cardinale: “C’è una ragione di fondo a cui si possono riportare molti insuccessi e fallimenti nella comunicazione. Si tratta di una falsa idea del comunicare umano che sottostà a tanti tentativi falliti di entrare in comunicazione con l’altro. Tale falsa visione non è sbagliata per difetto, cioè per una carente visione dell’ideale comunicativo. E’ sbagliata piuttosto per eccesso: vuole troppo, vuole ciò che il comuLa Via

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Domenica 9 settembre PER COMUNICARE NON BASTA PARLARE

(Mt 7, 31-37)

nicare umano non può dare, vuole tutto subito, vuole in fondo il dominio e il possesso dell’altro. Per questo è profondamente sbagliata, pur sembrando a prima vista grandiosa e affascinante. Che cosa c’è infatti di più bello di una fusione totale di cuori e di spiriti? che cosa di più dolce di una comunicazione trasparente, in perfetta reciprocità senza ombre e senza veli? Ma proprio in tale ideale si cela una bramosia e una concupiscenza di «possedere» l’altro, quasi fosse una cosa nelle nostre mani da smontare e rimontare a piacere, che tradisce la voglia oscura del dominio”. Guarendo il sordomuto Gesù lo rende capace di comunicare, anzi di comunicare correttamente. Mi piace pensare che dietro a questo avverbio si celi una comunicazione profonda, figlia del silenzio e dell’ascolto, progressiva e rispettosa dei tempi. La stessa che Dio ha fatto di sé nel suo figlio Gesù Cristo.

Don Umberto

La Via

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Domenica 16 settembre A BRUCIAPELO (Mc 8, 27-35)

Le domande a bruciapelo sono quelle domande improvvise, completamente inaspettate che sovente ci spiazzano, ci mettono in difficoltà non solo per la loro immediatezza, ma anche per la loro franchezza e profondità. Di questo tipo deve essere stata la domanda che Gesù rivolse ai suoi discepoli: “e voi chi dite che io sia?” È un interrogativo che mi suscita ricordi personali perché proprio questa domanda è stata la parola-guida del pellegrinaggio in Terrasanta per famiglie che abbiamo compiuto quest’estate. Sono ricordi che si tingono di gratitudine, sono immagini ancora fresche che coinvolgono ciascuno dei partecipanti perché ad ognuno di loro il Signore ha rivelato un tratto inedito del suo volto. Ma non solo a loro è destinata questa rivelazione, bensì ad ogni credente, a ciascuno di noi. Tutti dobbiamo infatti confrontarci seriamente con la domanda che Gesù ci rivolge: “ma io chi sono per te?” Fa parte di quelle domande decisive, dalla cui risposta dipende lo stile di vita che una persona vorrà avere e le decisioni che prenderà. Personalmente mi convinco anzi sempre più che dalla conoscenza intima del Signore Gesù deriva la vera conoscenza di noi stessi. Per molte persone Gesù è solo un simbolo, quasi un passante casuale; lo collocano in posizione periferica proprio perché non vogliono cambiare nulla della loro vita, ma al massimo prendere da lui qualche stimolo devoto o qualche supporto morale. Accade quasi inconsapevolmente che si viva di fatti religiosi, si vada a Messa, si preghi, si facciano elemosine senza che questo metta in moto alcun tipo di cammino, senza che generi domande feconde, con conseguenti, vitali, risposte. Invece tutto lo scopo della pastorale è di portare a questa domanda decisiva, a lasciarsi interrogare da Gesù: “tu cosa dici di me?” La Via

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Domenica 16 settembre A BRUCIAPELO (Mc 8, 27-35)

La risposta di Pietro, quel giorno, fu straordinaria: “Tu sei il Cristo”. Ma Pietro lo disse solo con la bocca: c’era qualcosa di astratto, di non determinato in quella risposta. In realtà egli non aveva ancora compreso Gesù, non lo aveva accolto concretamente, non voleva accogliere la croce. Anche noi facciamo fatica ad accettare Gesù nella sua umiltà, nella povertà della nostra vita quotidiana con le sue fatiche, le sue ansie e i suoi problemi. Come Pietro pensiamo sempre che Gesù ci darà altro, che ci prometta altro, che sia altro: invece Egli è qui, nei fatti della vita che abbiamo già tra le mani. Ci sia dato di conoscerlo, e nella sua misericordia, di conoscere noi stessi. Don Umberto


Domenica 29 settembre NON ESISTONO DIRITTI D’AUTORE

(Mc 9, 38-48)

“Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito perché non era dei nostri”. Così dichiara a Gesù Giovanni, quello che diventerà il discepolo prediletto. Sì, proprio Lui che ormai stava prendendoci gusto a quella singolare relazione con il maestro si lascia andare ad una esternazione che tradisce l’orgoglio e rivela la gelosia. Come se quel rapporto privilegiato con il Signore fosse una cosa solo sua e lui si sentisse il paladino chiamato a difendere l’operato di Gesù. In qualche modo Giovanni suppone che il Maestro sia geloso della sua attività e ne rivendichi l’esclusiva, dimostrando così di non conoscerlo affatto, o di conoscerlo solo superficialmente. Non era affatto chiara a Giovanni l’assoluta allergia di Gesù per i diritti d’autore, per quella forma di possesso gelosa delle proprie cose, dei propri gesti, dei propri pensieri. La libertà interiore del Signore fu sempre mal digerita dai discepoli che non riuscivano ad entrare in sintonia con questa disponibilità a mettere in gioco tutto, a non sentire come tesoro personale quel che Egli aveva. Questo modo di pensare dei discepoli è quello comune a tutti noi: non possiamo sopportare che di opere nostre, azioni pratiche o pensieri, si approprino altri. Ci è difficilissimo capire che c’è una sola logica che governa il mondo dello spirito: quella della restituzione. Ci impegniamo invece a difendere in modo accanito le nostre cose, i nostri affetti, le nostre idee senza discernere che proprio questa difesa gelosa rivela la precarietà di queste cose, la loro debolezza e inconsistenza. Il valore di tutto ciò che abbiamo, di tutto ciò che facciamo è al sicuro solo quando è accompagnato dalla volontà di poterlo rendere un dono per tutti. Non ne verremmo certo impoveriti, ma arricchiti di quei tesori interiori che davvero non hanno prezzo, altro che diritti d’autore! Dalla gelosia nascono gli scandali di cui parla il vangelo; da essa fiorisce La Via

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Domenica 29 settembre NON ESISTONO DIRITTI D’AUTORE

(Mc 9, 38-48)

l’ingiustizia così plasticamente descritta dalla seconda lettura. Perché la gelosia rende ciechi. Il Signore ci apra gli occhi perchè possiamo riconoscere questo veleno ed espellerlo prontamente dai nostri cuori.

Don Umberto

La Via

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Domenica 7 ottobre ALL’INIZIO NON FU COSI’

(Mc 10, 2-16)

La parola di Dio oggi ci mette di fronte a un tema caldo e fatico- so, che mette in difficoltà me che rifletto e voi che ascoltate. Parliamo del fallimento dell'amore di coppia, il più doloroso e sanguinante, il più drammatico e diffuso, tema appesantito dal- la posizione ufficiale della Chiesa nei confronti delle persone di- vorziate e risposate o conviventi; posizione che pochi, anche fra i discepoli, capiscono e che i fratelli e le sorelle, che portano sulla propria pelle le stigmate del fallimento coniugale, speri- mentano come un'immensa ingiustizia e un giudizio sulla loro vita, versando sale sulle loro ferite. Invoco lo Spirito e balbetto qualcosa, allora, lasciando che sia la Parola a parlare. Divorzi maschilisti. AI tempo di Gesù il divorzio era un fatto consolidato, addirittura attribuito a Mosè, quindi intangibile. Co- me accade ancora oggi nella cultura islamica, però, era un di- vorzio maschilista: solo l'uomo, stancatosi della moglie, poteva rimandarla a casa con un libello di ripudio. Nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione una norma così favorevole ai maschi: la domanda che viene posta a Gesù è retorica, tutti si aspettano che, ovviamente, Gesù benedica questa norma. O forse no: la domanda viene posta proprio come un tranello, per far diventare Gesù improvvisamente antipatico alla folla che l'ha così presto elevato al rango di profeta. (Sai che novità! Tutti seguiamo il guru di turno, finché questi non ci dice qualcosa di sgradevole...). La risposta di Gesù è una rasoiata: voi fate così, ma Dio non la pensa così, Dìo crede nell'amore come unico, crede nella possibilità di vivere insieme a una persona per tutta la vita. Senza sopportarsi, senza sentirsi in gabbia, senza massacrarsi: l'obiettivo della vita di coppia non è vivere in- sieme per sempre, ma amarsi per sempre! Silenzio imbarazzato, sguardi sorridenti e complici: «Ma che, scherziamo?».Gli apostoli, preso da parte Gesù, insistono: «Non parlavi sul serio, vero?». Matteo, nel brano parallelo, giunge ad annotare la sconsolata affer- maLa Via

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Domenica 7 ottobre ALL’INIZIO NON FU COSI’

(Mc 10, 2-16)

zione dei Dodici: «Allora è meglio non sposarsi!» (19,10). Sogno l'amore. Che forza! Gesù dice che è possibile amarsi per tutta la vita, che Dio l'ha pensata così l'avventura del matrimonio, che davvero la fedeltà a un sogno non è utopia adolescenziale ma benedizione di Dio! Quando due giovani vengono a chiedermi di sposarsi e gli parlo dell'indissolubili- tà del matrimonio, non sto chiedendo loro una cosa impos- sibile, il retaggio anacronistico di una struttura reazionaria che propone un modello superato: sto parlando loro del so- gno di Dio. A partire da qui, con fatica, con tenacia, i discepoli hanno scoperto la ricchezza del matrimonio cristiano. Da prima di Cristo ci s'incontra e ci s'innamori», si vive insieme e si hanno dei figli. Farlo nel Signore, mettere Gesù nel mezzo, fa comprendere delle cose straordinarie, nuove, sconcertanti su di sé e sulla coppia. In questi anni, frequentando molte coppie, pregando e vivendo con loro, abbiamo scoperto e riassunto la no- vità del matrimonio nel Signore. Preghiamo il Signore perché l’esperienza del suo Amore ci renda capaci di amarci tra noi e di rendere visibile nell’amore dell’uomo e della donna il mistero stesso di Dio.

Paolo Curtaz

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Domenica 14 ottobre LA VERA INQUIETUDINE (Mc 10, 17-22) Personalmente non ho mai nutrito una gran simpatia per l’uomo ricco (forse giovane) che va incontro a Gesù, di cui parla il Vangelo oggi. Anzitutto per il suo presentarsi improvviso, correndo incontro a Gesù con gesti fin troppo vistosi ed enfatici. Poi non mi convince il suo tono quasi adulatorio, quella genuflessione fuori luogo e quell’appellativo “buono” ripetuto a Gesù che ha molto il sapore della lode con un doppio fine. Gesù saggiamente lo rifiuta, non si appropria di quell’aggettivo e lo respinge bruscamente: solo Dio è buono. Ma anche le inquietudini che quest’uomo prova, oggi come oggi, mi paiono un lusso: siamo infatti inquieti per la fragilità dei nostri legami affettivi, per la mancanza di lavoro e di risorse, per il futuro che si fa incerto; per il pensiero della morte. Ma le inquietudini tutte spirituali di quest’uomo sembrano un’esagerazione, quasi un privilegio da circolo letterario. L’apice della sua ambiguità è raggiunto però con l’interrogativo “cosa devo fare per avere la vita eterna?” Ogni pio ebreo conosceva la risposta: osserva la legge di Mosè! Retorica chiama retorica e infatti Gesù risponde elencando i comandamenti. Ovviamente l’uomo li osserva già, lo ha sempre fatto. Siamo al dunque, manca solo la lode da parte di Gesù e il bisogno di conferma che quest’uomo ha, ne sarebbe soddisfatto. E invece no. Qual è infatti la sua vera inquietudine: entrare in Paradiso o essere stimato, apprezzato, amato? Lo sguardo che Gesù rivolse a quest’uomo fu capace di andare in profondità, di far risuonare le corde più intime e personali, essendo uno sguardo carico di amore. Quell’uomo non destava simpatia, ma lo sguardo di Gesù non si posa su ciò che è già amabile, ma rende amabile ciò su cui si posa. Il Signore offre proprio ciò che la persona cerca, ma occorre un supplemento di fiducia per sperimentare che l’appagamento non nasce da un sapere o da un fare, da un avere o da un possedere, bensì da un ricevere La Via

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Domenica 14 ottobre LA VERA INQUIETUDINE (Mc 10, 17-22) che è tanto più pieno quanto più ci si è svuotati, impoveriti, azzerati. Capisco anch’io che possa far paura: è la paura di spe rimentare il proprio nulla. Ma è lì che bisogna arrivare perché dal proprio nulla non ci si può salvare da soli, ma si viene salvati. L’uomo del Vangelo rifiutò, se ne andò con quell’amaroin bocca che lascia tristi coloro che pur avendo tante cose sentono di non avere niente. Don Umberto

La Via

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Domenica 21 ottobre NON IL POTERE, MA IL SERVIZIO

(Mc 10, 35-45)

La richiesta che i due fratelli Giacomo e Giovanni fanno a Gesù, di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nella gloria del suo regno, risulta quanto meno impertinente. Non solo impertinente, ma a tratti, anche irritante. Certo non intendono il regno dei cieli, il regno spirituale, ma un regno tutto terreno, un regno politico che essi imLa loro quindi è la richiesta di una poltrona! Una poltrona importante e ben salda sotto di loro, che soddisfi l’ambizione, la vanità,la superba vanagloria di cui sono affetti. Un umanissimo desiderio di potere e di onore che cresce come un bacillo, ammorbando e appestando la gran parte dell’odierna classe politica italiana e un certo numero di ecclesiastici carrieristi, tanto da lasciarci sconcertati e di- sorientati. Ma che ci fa pure sorgere la domanda: “se il potere l’avessimo noi, come lo gestiremmo? Avremmo davvero il maginano il Signore avrebbe realizzato di lì a poco. cuore libero e immune dal suo fascino e dalla sua seduzione?” Gesù quel giorno rimproverò i suoi due discepoli; non lo fe- ce con durezza però, ma con quello stile con cui una madre corregge un bambino. Li richiamò al servizio, allo stile di chi “si mette sotto e non sopra”, alla forza della dedizione disinteressata . Non lo fece perché è più etico servire, ma perché il servizio è il senso della vita per un cristiano. Noi siamo stati creati per servire Dio attraverso le creature. Il servizio di Dio diventa cosa concreta nei tanti servizi quo- tidiani a cui siamo chiamati e, se queste chiamate non ci sono, attraverso le decisioni che ciascuno prende in coscienza pura, nell’attesa che Dio le confermi come servizi resi a Lui. Oggi, nel celebrare la giornata missionaria mondiale, preghiamo che la missione sia sempre un servizio e non una colonizzazione attraverso il bene di qualcuno che riteniamo sia inferiore a noi. In senso lato non esistono paesi poveri. La Via

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Domenica 21 ottobre NON IL POTERE, MA IL SERVIZIO

(Mc 10, 35-45)

Ogni paese ha la sua povertà e questa è la base comune, la piattaforma da cui partire perché la missione sia un recipro- co arricchimento oltre che il doveroso servizio allo sviluppo integrale della donna e dell’uomo in ogni angolo della terra. Questo fu lo stile di Gesù: e solo abbracciando il suo stile noi renderemo presente la sua persona nel mondo.

Don Umberto

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Domenica 28 ottobre BARTIMEO VERO DISCEPOLO

(Mc 10, 46-52)

Questa è la storia di un miracolo. Non solo,come potrebbe sembrare, il dono della vista ad un cieco, ma anche e soprattutto il miracolo della sequela. Bartimeo è il simbolo di tutti coloro che si mettono a “seguire Gesù lungo la strada”. Ecco perché il prodigio di oggi è un segno, un messaggio ai discepoli: a loro che discutevano sui primi posti , a loro che erano sconcertati alla prospettiva di lasciare quanto possedevano; proprio a loro è rivolto l’appello “imparate da Bartimeo!”. Cosa c’è da imparare? Proviamo ad immaginare la scena: questo cieco è un rifiuto della società, un uomo scartato, ai margini della strada, uno a cui non si fa nemmeno caso. Come tutti i mendicanti delle grandi città, si preferirebbe non ci fosse: sempre vorremmo rimuovere i poveri; essi ci infastidiscono, ci richiamano l’ingiustizia di cui siamo anche noi partecipi. Per questo la folla tenta di soffocarne il grido di aiuto: me- glio non sentirlo, guardare avanti e passare oltre. Solo Gesù sente questo grido. Il Signore ode e si china su quell’uomo perché Cristo si mette in sintonia con ciò che di più profondo e rimosso c’è nel cuore di ciascuno di noi. Tutti i momenti della vita in cui le nostre grida sofferte rimangono inespresse reclamano e ottengono un angolo nascosto del nostro cuore. È in quel preciso angolo che Gesù ci incontra. È quella la sorgente nascosta del discepolato. Quando non si scende a questa profondità anche la più devota vita religiosa rischia l’aridità. Avere il coraggio di dire a se stessi ciò che veramente si vuole è il primo e fondamentale passo della sequela: anzi è l’essenziale. È ciò che il cieco vedeva benissimo, nonostante la sua infermità. Egli non chiese subito a Gesù di essere guarito, ma di ottenere pietà, cioè di essere oggetto d’amore, restituito alla sua dignità di persona. La pietà infatti è la parte dell’amore che non chiede nulla in cambio, è l’amore puro e gratuito. La Via

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Domenica 28 ottobre BARTIMEO VERO DISCEPOLO

(Mc 10, 46-52)

Dio ci conceda di sperimentarlo per sciogliere le vele e deciderci per lui. E renda la Chiesa libera dal desiderio del potere ma capace di ascoltare il grido che sale dalla sofferenza dei pi첫 deboli per non tradire lo stile del Maestro.

Don Umberto

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Domenica 4 novembre

Speciale la VIA

“Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Nell’anno della fede apertosi lo scorso mese la Chiesa, anche attraverso la riscoperta dei docu menti del Concilio Ecumenico Vaticano II, è invitata a riscoprire i fondamenti della sua fede. Il fondamento della nostra fede è Cristo risorto, il rapporto con lui si esprime anche con articoli di fede, che guidano il nostro agire e vivere nel mondo, vita e azione in cui realizziamo la nostra comunione col Signore e la partecipazione alla edificazione del Suo Regno. Oggi la Parola del Vangelo, nella domanda dello scriba, ci offre un articolo fondamentale della fede in Gesù. “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. La risposta del Signore è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore, amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12, 29-31). Questi comandamenti che Gesù ci dà come sintesi della Rivelazione di Dio lui è stato il primo a viverli. I vangeli infatti ci descrivono la profonda unione di Gesù al Padre. La sua giornata iniziava nel silenzio e nella solitudine (Mc 1,35), per stare in intimità col Padre, e la trascorreva nel docile abbandono alla sua volontà. Gesù coltivava la comunione con il Padre con ogni fibra del suo essere. Perché è così importante questo? Nella comu nione spirituale col Padre Gesù sentiva lo sconfinato amore, cura e dedizione del Padre per lui; nella luce di questo amore capiva la sua volontà e trovava la forza per compierla. Per Gesù compiere la volontà del Padre è fare ciò che ha visto fare da lui (Gv 5,19): amare con fedele dedizione gli uomini. Il senso dei due comandamenti dunque è questo: se non c’è amore per Dio non ci può essere amore per gli uomini. L’amore umano è fragile, le difficoltà e le tribolazioni possono spegnerlo; è imitato, tendiamo ad amare solo quelli che ci vogliono bene. Solo l’amore di Dio, la carità, può sollevare il nostro debole amore all’altezza del suo, dandoci la forza: nei momenti difficili e di tribolazione per perseverare; per passare oltre le offese e perdonare chi ci ha fatto del male; per fare del bene a chi non lo merita o a chi ci è estraneo. Solo quando ci sentiamo nel caldo abbraccio dell’amore di Dio riusciamo a vedere tutti gli altri come fratelli da amare. Solo nella comunione con Dio possiamo capire come fare per voler bene alle persone anche a quelle antipatiche e che non sono amabili. Gesù ha potuto amare i peccatori fino al sacrificio La Via

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Domenica 4 novembre

Speciale la VIA

“Qual è il primo di tutti i comandamenti?” della croce solo perché tutto il suo cuore, la sua anima e la sua mente erano per il Padre. Gesù quindi anche a noi dice “Ascolta popolo mio, io sono il tuo solo Signore”, il nostro essere, con ogni fibra deve essere attaccato a lui, non alle sicurezze del mondo. Siamo perciò invitati a nutrirci con costanza e fedeltà sia della sua Parola che del suo Corpo e Sangue, a tenere viva la comunione con lui ogni giorno con la preghiera. Solo questo ci permette di comprendere e compiere la sua volontà. Facciamo nostre le parole della cantata 147 di J. S. Bach: “Gesù è la mia gioia la consolazione e la linfa del mio cuore, Gesù difende da tutti i dolori è la forza della mia vita, il desiderio e la luce dei miei occhi la ricchezza e la felicità della mia anima, per questo io non lascio che Gesù abbandoni il mio cuore e il mio volto”. Don Stefano

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Domenica 11 novembre DONACI, O DIO, LA SAPIENZA DEL CUORE

(Mc 12, 38-44)

La pericope evangelica di oggi ci ha già fatto compagnia altre volte. Abbiamo avuto modo di sostare sull’assoluta gratuità e magnanimità della povera vedova oppure sull’ipocrisia dei ricchi, con il loro sciocco, quanto vano, desiderio di essere onorati. Ci ha negativamente colpito la bramosia di questi scribi che fanno finta di essere amici di anziane vedove solo per carpirne l’eredità post-mortem. Oggi però ci cattura lo sguardo di Gesù, o meglio, la sua esplicita decisione di mettersi ad osservare cosa succedeva attorno ai forzieri con le offerte destinate al Tempio. Osservava con gli occhi il Signore, e osservava con il cuore. A questo sguardo interiore non sfugge il gesto di una povera donna che si muove nell’ombra, silenziosa e poco ap- pariscente ma grandissima. I discepoli infatti non l’avevano notata; hanno bisogno del richiamo del Maestro, di quelle parole che interpretano il senso di ciò che gli occhi vedono. Il gesto della vedova è inaudito: privarsi di ciò che aveva per vivere con coraggio e fiducia. Un gesto divino, un gesto che rende presente Dio senza imporlo. Così come lo splendore dei gigli del campo o l’armonia del volo degli uccelli del cielo. Altre volte infatti Gesù aveva scorto in piccole cose il segno della bontà del Padre. La vita è piena di questi segni, ma gli occhi distratti non li possono vedere. Quelli del cuore sì, quelli educati alla logica di Dio, sem- plice e discreta, per nulla opprimente o rumorosa. Nella spiritualità cristiana questa capacità è chiamata SAPIENZA DEL CUORE. Non è semplicemente la contemplazione delle grandi meraviglie di Dio (i mari, la montagna ecc…) bensì di quelle piccole e quotidiane meraviglie che costellano la nostra vita e che rivelano la Sua bontà, la Sua misericordia, la Sua infinita pazienza. Attraverso questa capacità il cuore si addolcisce e diviene sempre più recettivo al bene. La Via

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Domenica 11 novembre DONACI, O DIO, LA SAPIENZA DEL CUORE

(Mc 12, 38-44)

Il contrario di questa sapienza è l’aridità del cuore: è come un accecamento che avvelena tutta la vita rendendo- la amara, scettica, faticosa e pesante. Forse è il peccato più grande della nostra civiltà contemporanea. Mi sento di dire che gli altri peccati sono quasi una conseguenza di questa aridità che spegne gli entusiasmi e genera anche una lontananza da Dio, perché si secca la radice più preziosa della religiosità che è il nostro cuore. Dio invece opera sempre, nell’animo di una povera e na- scosta vedova, nelle pieghe remote della nostra esistenza. Ci conceda di sentirlo. Don Umberto

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Domenica 18 novembre L’ANSIA DI CIO’ CHE FINISCE

(Mc 13,24-32)

Se si oscurano il sole e la luna, che altro rimarrà per gli uomini? Se cadono le stelle del cielo, cosa mai rimarrà fer- mo nella nostra vita? Assolutamente nulla. Proprio a questo mirano le parole di Gesù nel Vangelo di oggi:renderci consapevoli che proprio nulla di ciò che ci sembra certo, chiaro e convincente rimarrà stabile; niente di ciò che consideriamo una sicura base d’appoggio rimarrà fermo. Potremmo forse obiettare che sole, luna e stelle non ci in- teressano, che le previsioni catastrofiche e apocalittiche della fine del mondo ci fanno un po’ sorridere. Fanno sorridere anche me. Sorrido un po’ meno quando però capisco e comprendo il linguaggio simbolico del Vangelo: anche le nostre certezze esistenziali finiranno, anche le nostre sicurezze non saran- no più un punto d’appoggio. Così per un figlio cesserà d’essere una certezza tranquilla la presenza dei genitori; per un marito quella della moglie e viceversa. Finirà, anzi già finisce, la sicurezza del lavoro; cesserà d’essere una tranquilla certezza la presenza di una Chiesa, di un prete, dei sacramenti. Quando affiorano questi pensieri, vengono a galla pure i sentimenti d’ansia che li accompagnano. Nessuno accetta l’ansia come compagna di vita e così si tenta di sfuggire alla sua morsa gettandosi sul presente, sull’immediato senza pensare ad altro, oppure controllando il futuro, pianificando giorni, mesi, anni,quasi conoscendo anticipatamente ciò che dovrà accadere. Ma quand’anche il mondo intero, al quale ci siamo incautamente appoggiati, ci sembrasse sottrarsi alle nostre attese, c’è pur sempre il Vangelo, la parola di Gesù ad offrirci un’altra visuale. È una visuale più spaziosa,più ampia e capace di allargare il fiato: nella precarietà del tutto, nella transitorietà del vivere c’è il segno che siamo chiamati ad attendere il ritorno del Signore e che il nostro cuore è destinato all’eternità di Dio . È questa la sfida della vigilanza, che è un atteggiamento spirituale che porta a riferire al Signore che viene le vicende umane della storia e della nostra vita. La Via

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Domenica 18 novembre L’ANSIA DI CIO’ CHE FINISCE

(Mc 13,24-32)

Questo orientamento totale del cuore a Dio colma la persona di gioia e pace, come quella di chi vive le beatitudini. Non è mai una cosa astratta perché la vigilanza è la base dell’etica, cioè di quel comportamento responsabile che sa distinguere il fine ultimo dai fini penultimi esoprattutto perché si nutre della concretezza della preghiera e della liturgia. Esse sono le grandi opportunitàperchè il nostro tempo sia penetrato dal tempo di Dio. Don Umberto

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Domenica 25 novembre

Festa di Cristo Re

INTERROGARE O INTERROGARSI?

(Gv 18, 33-37)

La festa di Cristo Re coincide con la fine dell’anno liturgico. Sembra quasi che si voglia suggerire, con questa coincidenza, un finale in gloria, un finale vincente, un happy end nel quale l’universo intero riconosce la regalità di Gesù, la sua signoria sugli uomini di ogni tempo. Noi però ci guardiamo intorno e le cose non sembrano proprio andare così. Ci pare, anzi, che si vada verso un declino della cristianità: cala in modo impressionante il numero dei praticanti, dilaga l’indifferenza, si riduce al lumicino il numero di coloro che fanno del Vangelo la loro ragione di vita. E allora? Ci vien voglia di rispondere che si tratta di una festa dal tono escatologico, cioè di una festa che parla della fine dei tempi: non parla quindi del presente ma del futuro, dell’eternità. Ma questa risposta non ci basta. Non ci basta perché Gesù ci ha detto che il Regno di Dio è già qui in mezzo a noi e vorremmo vederne i segni tangibili. Dov’è? Esso non viene in modo da attirare l’attenzione, ma quindi come? Oggi l’evangelista Giovanni ci offre una risposta mettendo in scena il capolavoro di dialogo tra Gesù e Pilato. Da una parte un uomo di potere, dall’altra un uomo povero e umiliato; da una parte un re secondo la logica del mondo, dall’altra un re secondo la logica di Dio. Pilato durante tutto il colloquio pone solo domande. Non si interroga: interroga. E non ascolta le risposte. I suoi interrogatori, tra l’ironia e il saccente, sono l’arma di un uomo chiuso in se stesso, che non può e non vuole mettersi in gioco. Uno scrittore italiano del ‘900, Luigi Santucci, ha immaginato un “diario ai posteri” di Ponzio Pilato. L’ha anche scritto: bello, stimolante e coinvolgente. Ha lasciato trapelare quasi una crisi di coscienza del governatore romano, ma poi si è fermato lì. Pilato non interrogò mai se stesso e così mai accolse la regalità di Gesù. Per scovare i segni del Regno bisogna infatti guardarsi La Via

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Domenica 25 novembre INTERROGARE O INTERROGARSI?

Festa di Cristo Re (Gv 18, 33-37)

dentro: se ci accorgiamo di non poter sopportare nei nostri atteg giamenti ombre di dominio, manipolazione e arroganza; se ci capita di accogliere con pace la nostra povertà spirituale; se troviamo in noi la libertà dal danaro, dalla casa, dai beni materiali senza temere la povertà; se ci scopriamo indifferenti alle critiche e alle malignità quando esse nascono a motivo del nostro essere cristiani, allora è Dio che regna in noi, è il Signore che continua ad esercitare la sua regalità. Don Umberto

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Domenica 2 dicembre

1° di Avvento

QUINQUENNIO (Lc 21, 25-28.34-36) Mi pare importante non ridurre l’Avvento alla pura preparazione o attesa del Natale. Esso è, anche e soprattutto, un tempo propizio offertoci da Dio per crescere nell’attitudine alla vigilanza. Vigilare in senso cristiano non consiste solo nel fare attenzione ai pericoli ma pure a quell’orientamento fondamentale del cuore verso Dio che permette di cogliere il senso della Sua presenza nella nostra vita, attraverso i segni che egli ci dà e i passi che ci fa compiere. Mi viene naturale, oggi, connotare questa vigilanza nei termini di un bilancio. Esattamente cinque anni fa, infatti, domenica 2 dicembre 2007 ho fatto il mio ingresso nelle parrocchie di Roveleto e Cadeo e tre anni dopo mi è stata affidata anche quella di Fontana. Cinque anni sono un tempo congruo per la presenza di un prete in una comunità e altrettanto lo sono per iniziare a porsi qualche domanda. A questo riguardo forse la parola “bilancio” non è la più adatta: dà il senso di qualcosa che finisce e non è mia intenzione farlo. Soprattutto i bilanci sono pericolosi: rischiano di far inorgoglire se le cose sono andate bene o di gettare nello sconforto se ci si ritrova a mani vuote. Molto meglio parlare di “verifica” e farlo in termini squisitamente spirituali. Tutto dipende dalle domande che ci si pone. Allora mi chiedo: come ci ha condotto il Signore in questi cinque anni? Verso dove ci sta portando? Che volto di Chiesa stiamo realizzando? E ciascuno di noi come è stato plasmato in questo quinquennio? Non posso ri spondere per ciascuno ma mi piacerebbe che ogni parrocchiano queste domande se le ponesse. Esse sembrano retoriche e astratte, ma è solo un’apparenza. Sono in realtà le più vere perché misurano chi siamo e non cosa facciamo. Per sapere cosa abbiamo fatto basta scorrere gli archivi: innumerevoli attività aggregative, caritative, formative e spirituali accompagnate da altrettanti numerosi interventi tecnico-strutturali. Ma cosa lasciano se non plasmano ciascuno di noi ad essere discepolo del Signore? La Via

raccolta 2012


Domenica 2 dicembre QUINQUENNIO

1° di Avvento (Lc 21, 25-28.34-36)

A cosa servono se non delineano quel volto di Chiesa che fu la chiesa degli Apostoli? Risuonano chiare le parole del Vangelo di oggi “State at tenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni …” ma anche “la nostra liberazione è vicina”. Questa liberazione consiste anche nella chiarezza interiore che Dio opera in noi quando comprendiamo, verificandoci, verso dove siamo diretti. Il Signore sta accompagnando i nostri giorni, li ha ac compagnati e ancora lo farà. C’è un futuro buono da accogliere dalle sue mani e fare la nostra parte per realizzarlo. Ma nulla si costruisce se non si fa memoria di ciò che Egli ha già operato per noi. Don Umberto

La Via

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Domenica 9 dicembre ANDATA E RITORNO

2° di Avvento

(Lc 3, 1-6)

C’è un movimento di andata e ritorno, quasi a fisarmonica, che contraddistingue il testo evangelico di oggi. La scena si apre con un quadro storico grandioso, quello dell’impero romano e finisce a descrivere Giovanni nel deserto; e poi, da questo particolare, risale all’universale perché proclama “ogni uomo vedrà la Salvezza di Dio”. E così l’invito del Battista a preparare la strada al Signore è quasi un movimento di ritorno rispetto a quanto dice il profeta Baruc nella prima lettura: qui la strada serve al popolo di Israele per tornare a Dio, là è percorsa da Dio per venire verso il popolo. In entrambi i casi si tratta di un percorso lineare, immediato e senza inciampi. È tale perché gli ostacoli vengono rimossi: i burroni vengono riempiti, i colli abbassati, le vie tortuose raddrizzate. Mi sembra significativo proporre una lettura simbolica di queste immagini. Il luogo per eccellenza dell’incontro tra Dio e la persona è il cuore, l’interiorità, i pensieri. Quindi occorre capire a quali pensieri ci riferiamo, su quali sentimenti dobbiamo lavorare per togliere gli ostacoli a questo incontro. I colli da spianare corrispondono a quei pensieri di esaltazione e di orgoglio coi quali riteniamo di aver sempre ragione, di essere migliori degli altri e di poterli così giudicare: sono pensieri che generano superbia e vanagloria, tanto più quando non conducono a comportamenti espliciti di vanteria. I burroni da colmare corrispondono invece a quei pensieri cupi di sfiducia, pessimismo e rassegnazione che generano tristezza interiore, mancanza di entusiasmo e convinzione, a volte sfociano nella depressione. Le vie tortuose infine corrispondono ai pensieri intricati, complicati e senza un minimo di linearità; pensieri che lavorano con la fantasia creando situazioni inesistenti e attribuendo agli altri sentimenti non reali: sono questi pensieri a generare l’invidia e la gelosia. Come togliere questi ostacoli? Come creare la strada diritta di cui parla La Via

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Domenica 9 dicembre

2° di Avvento

ANDATA E RITORNO (Lc 3, 1-6) il Battista? Combattendo queste suggestioni con pensieri che siano all’opposto, suggeriti dalla Parola di Dio e ripetendosi continuamente le frasi della Bibbia. Se si hanno pensieri di superbia: “Signore, non si inorgoglisce il mio cuore” (Sal 131). Se vengono pensieri di tristezza: “non abbandonarti alla tristezza, la gioia del cuore è la vita dell’uomo” (Sir 30,21-22). Se andiamo dietro a pensieri contorti: ”i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi” (Sal 19). A volte la vita spirituale è fatta di gesti elementari, ma efficaci. Se ripetuti ci educheranno ad una disciplina dei pensieri che favorirà l’incontro con Dio. Don Umberto

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Domenica 16 dicembre

3° di Avvento

QUOTIDIANITA’ (Lc 3,10-18) La predicazione di Giovanni Battista è al tempo stesso l'annuncio di una lieta notizia e una minaccia del giudizio. «Viene colui che è più forte di me, e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco»: questa è la lieta notizia. Ma è anche un giudizio: «Ha in mano la pala per pulire la sua aia». Di fronte al giudizio imminente nasce l'interrogativo: «Che cosa dobbiamo fare?». Per Luca questo interrogativo è di perenne attualità. Infatti l'imminenza del giudizio non è caratteristica della fine dei tempi, ma di ogni momento della nostra storia: con Gesù inizia una storia densa di significato salvi fi co e ricca di possibilità dalle conseguenze incalcolabili. Riprendiamo l'interrogativo: che cosa dobbiamo fare per accogliere il Cristo che viene e sfuggire al giudizio incombente? La risposta di Luca, di grande semplicità, spinge verso il concreto e il quotidiano. Il precedente invito del Battista (vangelo della scorsa domenica) era globale, di stampo profetico: convertitevi. Ora il suo invito è didattico, concretizza la conversione, la esemplifica, la introduce nel quotidiano e la applica alle situazioni particolari delle diverse categorie di persone. È questo uno sforzo che ogni lettore del vangelo deve saper fare se vuole che la Parola tocchi veramente e concretamente la sua vita. Giovanni Battista non impone separazioni o fughe dal mondo, non invita a seguirlo nel deserto. Alle folle raccomanda, scendendo al pratico, l’amore fraterno e la condivisione: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Agli esattori delle tasse - lavoro comunemente ritenuto impuro non dice di cambiare mestiere, ma più semplicemente raccomanda di non lasciarsi corrompere e di non approfittare della loro posizione: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». E ai soldati raccomanda di non abusare della loro forza, di non fare rapine e violenze, ma di accontentarsi della loro paga. Accorgendosi poi che la gente si chiede se non sia proprio lui il Messia, il Battista distoglie immediatamente l’attenzione da sé per dirigerla verso un Altro: il più forte, che battezzerà nello Spirito e nel fuoco. Presentare la figura del Battista come una freccia in direzione di Cristo, è un dato costante di tutti i van geli. La sua funzione è di aprire la strada al Cristo: una volta che egli è giunto, Giovanni non ha più nulla da dire. Don Bruno Maggioni La Via

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La Via

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grafica C. & C.

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in cammino con la Parola LUNGO LA VIA DEL VANGELO

Un anno in cammino con le ComunitĂ di Roveleto e Cadeo

Raccolta 2008

Raccolta 2009

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