La via raccolta 2014

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Raccolta “ La Via 2014�

Radunati dalla

Parola

S.Teresa Benedetta della Croce Parrocchia Roveleto di Cadeo Piacenza



Parrocchia S.Teresa Benedetta della Croce

EDITH STEIN nasce a Breslau da famiglia ebrea – 1911-13: diploma di maturità, perdita della fede, studi universitari a Breslau (germanistica, storia, psicologia) – 1913-15: studi a Göttingen sotto il prof. Edmund Husserl (filosofia) – 1915: esame di Stato, lavora come volontaria nella Croce Rossa tedesca – 1916: dottorato in filosofia «summa cum laude». – 1916-18: assistente di Husserl a Friburgo/Br. – 1922: battesimo nella Chiesa Cattolica, prima comunione, confermazione – 1923-31: insegnante presso il liceo femminile e l’istituto di formazione per insegnanti delle Domenicane di Spira – 1928-33: conferenze in patria e all’estero, attività di scrittrice, insegnante presso l’istituto tedesco per la pedagogia scientifica di Münster – 1933: ingresso nel Carmelo di Colonia con il nome di Teresa Benedetta della Croce – 1938: trasferimento al Carmelo di Echt, Olanda – 1942: arresto, deportazione, uccisa ad Auschwitz in odio alla fede cristiana (9 agosto) – 1962: inizio del processo di beatificazione e canonizzazione – 1987, 1° maggio beatificata a Colonia dal Papa Giovanni Paolo II – 1998, 11 ottobre: solennemente canonizzata a Roma dallo stesso Sommo Pontefice.



Domenica 16 dicembre 2007

prima uscita

LA VIA L’IMPORTANZA DEL NOME L’intuizione è arrivata da una constatazione immediata: Roveleto e Cadeo sono attraversati dalla via Emilia che è la croce e la delizia dei nostri paesi. Crea magari un po’ di traffico, ma garantisce la vitalità dell’ambiente e anche la funzionalità di esercizi commerciali. Evidentemente però non è questa la motivazione portante della scelta di questo nome. In realtà bisogna cercare il motivo direttamente nel Nuovo Testamento. La VIA era infatti il nome con cui era chiamata la prima comunità cristiana. Quando S. Paolo, negli Atti degli Apostoli, racconta la sua conversione, dice di aver perseguitato accanitamente ”questa nuova via” riferendosi al cristianesimo. (At 22, 4 ) I cristiani stessi erano chiamati, nel 1° secolo, “quelli della via”. Tutto questo è spiegato molto bene dal priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, nel suo libro “La differenza cristiana”. A me pare stimolante pensare che, mentre in quei secoli tutti i sistemi di pensiero o le religioni venivano chiamate “dottrine”, il cristianesimo fosse chiamato “VIA”. Essere cristiani non è infatti questione di imparare una lezione, o di usare solo la mente per idee astratte. La fede cristiana è un’esperienza di vita, un luogo dove incontrare persone, stabilire rapporti, proprio come su una via. Siamo in cammino, mai fermi, esattamente come gli angeli che Giacobbe vide salire e scendere sulla scala (Gen 33 ). Per questo il nome “la via” mi è sembrato quanto mai azzeccato: siamo anche noi come la prima comunità cristiana, entusiasti dell’incontro con Gesù e i fratelli e mai sazi, mai arrivati, mai chiusi a quelle novità che lungo la strada Dio ci farà trovare.

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”


un pensiero.... Nell’arco di questi 7 anni abbiamo lentamente riscoperto l’importanza di essere chiesa alimentata costantemente dalla Parola di Dio. L’incontro con la parola è un incontro decisivo che ci consente di guardare oltre le nostre fragilità. Di fronte ai nostri limiti e alle miserie della vita possono maturare in noi sentimenti di inadeguatezza, impotenza, rabbia o rassegnazione. La Parola di Dio al contrario dischiude il nostro cuore a quella grazia che è in grado di trasformare la nostra vita in una incredibile opportunità. Solo la Parola è in grado di farci cambiare prospettiva. Solo attraverso Essa ci rendiamo consapevoli che al di la dei nostri limiti noi possiamo collaborare per qualcosa di più grande. Proviamo a pensare alla vita come dono di Dio, proviamo per un attimo a pensare che mondo sarebbe se ognuno di noi potesse trasformare la sua vita in dono per gli altri. Forse è proprio questo il grande progetto a cui lentamente e liberamente siamo chiamati. Non fermiamoci troppo a guardare i nostri difetti, quelli degli altri e le storture che ci circondano. Non cerchiamo di nascondere i nostri limiti mascherandoli dietro ad alibi o a complicati ragionamenti. Non cerchiamo facili e puerili giustificazioni, ma cerchiamo con tutta la generosità che abbiamo e che deriva dal Vangelo di rendere felici le persone con cui viviamo e che incontriamo. Questo è il grande progetto racchiuso in questa Parola che Don Umberto e don Stefano così sapientemente ci amministrano durante le celebrazioni, buona lettura Stefano C.


Domenica 5 gennaio 2014 INIZI

(Gv 1, 1-18)

L

a sensazione diffusa è quella della smobilitazione. In questi giorni si respira l’aria di un periodo che si chiude, delle luci natalizie che si spengono, dei presepi che si pensa già di smontare. A dare questa sensazione contribuisce anche la liturgia: il prologo di Giovanni (testo di oggi) è lo stesso che abbiamo letto a Natale, proprio per creare una inclusione: ciò che sta all’inizio sta anche alla fine. E come ogni buona prefazione di un libro, anche il prologo è stato scritto al termine del quarto Vangelo.Domani poi sarà l’Epifania e non c’è bisogno di citare il proverbio per coglierne il sapore conclusivo delle feste.Ma se una cosa finisce è solo per lasciarne emergere un’altra. Anzi, fine ed inizio si toccano, sono quasi necessariamente l’uno il proseguo dell’altra.Allora guardiamo a questi giorni con uno spirito diverso: sono i giorni degli inizi.Non solo della ripresa della vita ordinaria o delle stesse attività.Magari all’esterno ci sembrerà proprio così: si ricomincia come sempre. E invece la fede e la liturgia ci dicono : “è l’inizio!” Ammettiamolo: una parola così ci spiazza un po’ e non sapremmo come concretizzarla. Cosa inizia oggi nella nostra vita? Può diventare frustante cercare di rispondere a questa domanda perché si rischia di non trovare risposte, quindi di girare a vuoto. Mi sembra più fecondo considerare questa affermazione come un dato di fatto, una evidenza dinnanzi alla quale il Signore ci pone, un puro dono Suo. Ti trascini stancamente nella tua vita spirituale e non riesci a liberarti dal peccato ? Sei all’inizio! Riparti da zero. Hai una relazione umana e affettiva compromessa e lacerata? Sei all’inizio! Riparti da zero.Non hai più entusiasmo nelle cose che fai, nel lavoro, nello studio? Sei all’inizio! Riparti da zero. Chi considera gli avvenimenti e le eventuali mete raggiunte sempre come se fossero un punto di partenza farà tanta strada: soprattutto nella vita spirituale. È come se fossimo sempre dei principianti, a cui Dio può rivelare la sua sapienza.Si tratta di una sapienza ordinatrice che oggi comprendiamo da una sola parola del prologo: “tutto è stato fatto per mezzo di Lui e in vista di Lui (Cristo)”.Dio opera con un progetto e questa è la ragione segreta di tutto ciò che esiste: la mia e la tua vita, la vita dell’umanità, ciò che comprendiamo e anche ciò che ancora non comprendiamo sono destinati alla luce, alla comunione con il Padre.Crederci fermamente è un buon modo di iniziare! Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 12 gennaio 2014 RINASCERE

Battesimo del Signore (Mt 3, 13-17)

L

a celebrazione del Battesimo del Signore prolunga quella del mistero dell’Epifania. Si tratta di un’unica e comune manifestazione di Gesù: la pagina dei magi riguarda la manifestazione ai popoli lontani; la pagina del Battesimo quella ad Israele; poi ci sarà la pagina delle nozze di Cana come manifestazione al gruppo dei discepoli. Il Signore rivela così, in modo completo, la sua gloria. Rivela però anche la sua umanità, di cui la festa di oggi custodisce immagini preziose. Gesù lascia Nazareth. E cosa fa? Non si dirige subito a Gerusalemme laddove si affollano sacerdoti e scribi, ma sceglie invece il Giordano e le sue rive, patria di una bizzarra schiera di peccatori, emarginati, diseredati che cercavano nel Battesimo di Giovanni il riscatto e la salvezza. Non un popolo di privilegiati quindi, ma un popolo di disprezzati. A costoro e alla loro vita Gesù si associa. Lo fa senza clamore e senza segni appariscenti. Lo fa attraverso una immersione nell’acqua che significa condivisione piena, vicinanza assoluta e non distacco Lo fa come un qualsiasi altro uomo che ha bisogno di ricercare perdono e salvezza. Non ne aveva in realtà bisogno, ma lo fece ugualmente. Proprio per dire che questa è l’umanità vera: quella che sa ricevere un dono, quella che sa farsi povera e svuotarsi perché Dio la possa riempire. A questo serve ripensare al nostro Battesimo proprio oggi; il Battesimo nessuno se lo può dare da solo, anche Gesù ebbe bisogno del Battista. Perché il Battesimo è puro dono di grazia. Si discute se battezzare da bambini o da adulti come se discriminante fosse la scelta della persona. Il Battesimo resta comunque un dono più che una scelta: Dio ci fa entrare in un cammino filiale con Lui in un legame che nessuna realtà potrà spezzare o interrompere. Se noi adulti, quando ci ripensiamo, rivediamo anche la nostra infanzia non può che farci bene: senza quella fiducia, senza quello stupore, non si entra nel Regno dei cieli. Immergerci nell’acqua e riaffiorare è come entrare nella morte e uscirne. Per questo il Battesimo è una rinascita e la fioritura in noi di un seme di vita nuova: anche quando nel nostro animo albergano sentimenti negativi e ci sentiamo bloccati in realtà impossibili e in situazioni senza via d’uscita, guardiamoci intorno con gli occhi della fede: tutto, silenziosamente, ci parlerà di Vita. don Umberto e don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 19 gennaio 2014 COMUNIONE DEI SANTI

S. Agnese

(Gv 1,19-24)

Da qualche mese siamo ormai diventati una sola parrocchia, la cui patrona è S. Teresa Benedetta della Croce. Perché allora festeggiamo ancora S. Agnese? Perché festeggiare la Vergine del Carmelo, S. Carlo e S. Biagio? Non perdono forse di significato queste feste? Non si rischia di fare dei doppioni? C’è evidentemente un motivo pastorale a motivare le nostre scelte: non vogliamo cancellare la tradizione di ogni singola comunità. Possiamo però coglierne anche un significato più profondo. Il senso della vita di un santo è di mostrare Cristo presente, di indicare Lui, di indirizzare a Lui. Così come fa il Battista nel Vangelo di oggi: egli non concentra le attenzioni su di sé, ma indica Gesù come Agnello di Dio e i discepoli lo seguono. Se nella chiesa ci sono tanti santi è perché tante sono le vie e le modalità con cui ci si può avvicinare a Cristo. Per questo vale la pena custodire e valorizzare la nostra relazione con loro. Ognuno dei santi a cui siamo devoti e di cui conosciamo vita e opere ci offre una strada unica e originale su cui provare anche noi a incamminare. Questo contatto soprannaturale si chiama “comunione dei santi”. Non c’ è quindi solo il semplice fatto di celebrarli insieme, ma anche e soprattutto questo splendido regalo: poter sentire la loro vicinanza, il loro tocco spirituale; noi poveri peccatori e loro nella gloria del Padre. Questo dono di grazia mi lascia sempre senza parole e a volte penso che se Dio avrà misericordia di me facendomi entrare in paradiso, sarà una gioia enorme poter finalmente vedere e conoscere coloro che ho invocato e pregato in vita. Resta quindi da chiederci quale sia la strada che S. Agnese ci indica. In occasione di questa festa,un amico di Fontana, Fabio, ha scritto le sue riflessioni confrontando l’esperienza di S. Agnese con quella di una amica entrata in monastero. Prendo in prestito le sue parole: “Dio operava già nel cuore di queste donne, ma esse l’hanno cercato con più ardimento, con tutta l’anima e con la grazia dello Spirito Santo l’hanno trovato. Hanno capito che quest’amore è veramente quello con la A maiuscola. Un amore libero, che non è pesante ma che si arricchisce per una vita più piena”. Sono parole vere. Dio riempie coloro che si svuotano per Lui; Dio è accessibile per tutti coloro che sinceramente lo cercano. In questa immensa schiera di santità, chiediamo di essere ammessi anche noi.

don Umberto e don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 26 gennaio 2014 CONVERTITEVI

(Mt 4, 12-23)

Convertitevi. L'annuncio è bruciante: «Convertitevi perché il regno si è fatto vicino». Sì, così scrive Matteo: è il regno a essersi avvicinato, è lui, Dio, che prende l'iniziativa; a noi di accorgerci, di girare lo sguardo (convertirsi, appunto). Gesù non esordisce nella sua missione con qualche reprimenda morale, con qualche sensato discorso teso a suscitare pentimento e cambiamento di condotta. Lui, lui per primo, si offre, si dona, rischia. Dice: «Io ti sono vicino, non te n'accorgi?». Accorgersi significa davvero mollare tutto, lasciar andare i molti affari, le molte cose, per recuperare l'essenziale, come Pietro, come Andrea, che diventano - finalmente - pescatori di uomini. Il Regno è la consapevolezza della presenza entusiasmante e sorridente di Dio. Il Regno è là dove Dio regna, dove lui è al centro. E la Chiesa, comunità di chiamati e di discepoli, appartiene al regno, anche se non lo esaurisce. Sereni! Relax, amici, relax, discepoli che prestate un difficile servizio ecclesiale con i ragazzi o con le coppie, tranquilli, amici che vi giocate nel sociale, là dove l'uomo è meno uomo e dove il dolore domina: il Regno, lui si avvicina. Non dobbiamo salvare il mondo, confratelli preti, è già salvo! È che non lo sa. E vive nella disperazione. A noi di renderlo presente, questo Regno, a noi di vivere da salvati, a noi di diventare uomini sandwich del Regno, farne pubblicità, vivere nella luce in mezzo alle tenebre che avvolgono Nèftali e Zàbulon. Capiamo allora l’energica protesta di Paolo (e poi ci lamentiamo del brutto carattere di certi cristiani!), che ammonisce le sue comunità a non diventare degli ultras da stadio... Ogni esperienza (movimento, parrocchia, spiritualità) è strumento e non esaurisce il Regno, il Regno è oltre, cominciamo a farne parte che va già bene... Lasciamo le reti che ci trattengono, i pregiudizi e le paure che ci tengono legati, le incomprensioni che c’impediscono di essere e raccontare il Regno: ci aspetta ben di meglio da fare!

Paolo Curtaz Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 2 febbraio 2014 Festa della presentazione di Gesù al tempio IL VUOTO E L’ATTESA

(Lc 2, 22-40)

Maria e Giuseppe portano il bambino Gesù al tempio. Grande, immenso era il tempio. Ma vuoto.Non perché privo di persone e di devoti, ma perché nel suo cuore, nel Santo dei Santi, in quella stanza buia e separata dal resto dello spazio sacro non c’era nulla. Due cherubini con le ali alzate che sostenevano il vuoto. Perché Dio ti sfugge, non lo puoi rappresentare, non lo puoi definire. Dio è di più.Un vuoto, ogni vuoto, reclama una presenza. L’aveva capito bene il vecchio Simeone. Il tempio, per lui, era il luogo di un appuntamento. Il suo vuoto era diventato attesa, una lunga attesa. Accanto a lui una profetessa, Anna, anche lei segnata dal vuoto. È vedova: chi può misurare il vuoto di una donna che rimane vedova? Ci vuole sempre il vuoto perché nasca l’attesa. E ci vuole l’attesa per nutrire il desiderio. E occorre il desiderio per cogliere con gli occhi del cuore ciò che nessuno altrimenti riesce a vedere. Solo gli occhi di Simeone e Anna riconoscono nel piccolo Gesù il figlio di Dio, la luce per illuminare le genti.Mi sono chiesto quanto sarà durato quell’incontro. Forse due, tre minuti? Tre minuti per riempire ottanta anni di attesa.Una vita per un battito d’ali. Eppure basta. Basta a non ritenere quell’attesa inutile, a non considerare quel vuoto una maledizione ma un’opportunità. Non ti viene allora da pregare? Quando guardi al vuoto che hai dentro, quando ti chiedi se ancora aspetti qualcosa o qualcuno , quando pensi ai tuoi desideri non senti anche tu il bisogno di occhi nuovi? Gli occhi di quel vecchio, lucidi e penetranti, illuminati dallo spirito di Dio. Coraggio Simeone, l’attesa è compiuta. Hai finito di cercare, hai finito di volare perché tutte le rondini prima o poi tornano al nido. Davanti a te un bambino e sua madre. Una Vergine Madre, ferita da una profezia, ferita da una presenza divina. Perché senza ferita non c’è amore. Il vuoto, l’attesa, la ferita. La presenza, l’incontro, l’amore. Senza gli uni non ci sono gli altri. Dio non lascia senza un raggio di luce neppure la vita più opaca. Oggi questa luce rifulge per noi. Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

don Umberto, don Stefano

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Domenica 9 febbraio 2014 UNA MARCIA IN PIÙ

S. Biagio

(Mt 5,13-16)

Domenica scorsa abbiamo celebrato la festa di Gesù luce del mondo. Oggi nel vangelo sentiamo Gesù stesso dire: “voi siete la luce del mondo”. Panico. Noi la luce? Siamo proprio sicuri? Ci verrebbe voglia di mandare indietro il nastro, tornare alla settimana passata e sentirci così più rassicurati: abbiamo tante tenebre fuori e dentro di noi e il Signore ci illuminerà … E invece no. C’è una parola di Gesù, perentoria, che non ha il carattere dell’invito o dell’esortazione ma della constatazione: “voi siete la luce del mondo”. Lo disse per i suoi discepoli che lo stavano ascoltando, incatenati da quelle parole di speranza che sarebbero passate alla storia come “il discorso della montagna”. Anche loro però non potevano certo vantare una esemplare condotta da ministri del Vangelo; anche loro, di fronte a quelle parole sentivano di essere povere persone. Insieme a loro ci verrebbe da dire: “quale mai potrebbe essere la nostra luce Signore? Siamo ai nostri stessi occhi così poco luminosi che essere luce per gli altri ci sembra veramente troppo!” Ma Gesù si fida. Si fida di quel bene che ciascuno si porta dentro, di quel barlume di luce che c’è anche nel più opaco tra gli uomini e vuole farlo uscire allo scoperto. Questa luce è Dio stesso ad averla messa dentro di noi. L’abbiamo ricevuta e grazie a Gesù, vera luce, possiamo farla risplendere. E saranno le nostre opere a testimoniarla. Leggevo in questi giorni l’intervista ad un noto personaggio dello spettacolo: un non credente. Ateo ma pronto a confessare: “devo riconoscere che chi crede ha una marcia in più rispetto a chi non crede”. Ecco, forse sarà proprio questa fiducia di Dio, questa luce interiore a dare una marcia in più. Oggi il profeta Isaia ci indica anche quale sia l’invito in cui la luce che è in noi deve risplendere: la carità. È proprio come la logica della fiamma: più si consuma, più fa luce. Se non si consuma, resta intatta ma non illumina nessuno. Così è il mistero della vita: se uno cerca di conservarla per sé, essa in fretta si corrompe e non convince nessuno. Per poter essere conservata la vita deve essere riconosciuta come un dono, e quindi offerta ad altri. A meno di essere donata, la vita invecchia in fretta e si spegne. Magari non faremo un grande falò, ma l’importante è restare accesi. don Umberto, don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 16 febbraio 2014 AL CUORE DI TUTTO

(Mt 5, 17-37)

Allora come oggi c’era in ballo una polemica. Accusavano Gesù di essere un sobillatore, un sovvertitore della legge, uno che voleva cancellare i precetti di Mosè in nome di un fantomatico “spirito” che pareva più una giustificazione, un alibi per i propri comodi che una reale presenza di Dio. L’accusa, manco a dirlo, era da parte di scribi e farisei. A volte si può lasciar correre, altre volte no. E questa volta Gesù reagisce, perché anch’egli non ha sempre pacificamente sopportato tutte le falsità dette su di lui. Ecco come si spiegano le parole di inizio “non pensiate che io sia venuto ad abolire la legge” Ed ecco pure come si spiegano le sei antitesi da lui presentate. Da una parte sta la legge di Mosè, perentoria ed intangibile; dall’altra lo stile di Gesù, radicale e liberante. Per essere più chiaro, parafraso la prima di queste antitesi: NON UCCIDERE. La legge di Mosè puntava al minimo, perché non uccidere è il minimo. Ma per Gesù uccidiamo un fratello anche con le parole, con l’insulto, con quelle frasi che lo cancellano dalla nostra vita. Per questo siamo tutti omicidi? Si capisce che Gesù va al cuore, non solo al cuore della questione, ma al cuore delle persone. Gesù con le sue parole scende laddove si prendono le decisioni vere, laddove nascono le emozioni e i sentimenti che orientano la vita. Personalmente, più incontro le persone e più mi rendo conto che tutte le questioni sono questioni affettive;persino quelli che hanno problemi di soldi, hanno in realtà problemi nel profondo del cuore. Con questa antitesi sembra quasi che Gesù dica: non puntare al minimo, ma fai il massimo! Cioè, non accontentarti del “non uccidere” ma cerca di avere il cuore buono anche nei piccoli gesti. Quando ad una persona chiediamo il minimo è perché non la stimiamo. Se chiediamo il massimo è invece segno che conosciamo tutte le sue potenzialità. Così è Gesù. Egli è colui che sa quanto valiamo veramente. Per questo non dovremmo accostarci a quanto propone come se fossero l’ennesima occasione per sentirci fuori posto. L’ennesimo dito di Dio puntato contro di noi. Esse sono invece una buona notizia: se interveniamo sul male quando i piccoli segni cominciano a manifestarsi riusciremo a vincerlo, perché è più facile sradicare una pianta quando è ancora un piccolo germoglio. Se la lasciamo crescere è più difficile, ma non impossibile. Dio ha scelto di aspettarci, perché ci ama.

don Umberto e don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 23 febbraio 2014 LA MISURA DELL’AMORE

(Mt 5, 38-48)

Ho un amico prete che a Milano ha fondato una comunità di accoglienza per giovani “difficili”, sbandati, violenti e disadattati. Una comunità dove si respira Vangelo e speranza, il cui motto è: “non esistono ragazzi difficili”. Mi piace questo motto. Lo ritengo profondamente in sintonia con il Vangelo ascoltato quest’oggi. È una pagina il cui soffio di pienezza ci invade fino a darci un po’ di fastidio; “porgi l’altra guancia”, “ama i tuoi nemici”. Che pretese! Ci vien da fare altre riflessioni: non dovremo forse attenuare questa pagina? Non dovremmo diluirla con qualcuno dei nostri ragionamenti che sanno tanto di alibi? Non la dovremmo forse innaffiare di buon senso, quel tanto affermato buon senso che serve per stare al mondo? Proviamo a non farlo, proviamo a lasciar parlare Dio, così, “sine glossa”, cioè senza commento. E proviamo a farlo non solo quando parla di divorzio e matrimonio, ma anche quando dice di amare il nemico. Sentiremo il Signore dire proprio questo: “non esistono persone cattive”. Ci sono, piuttosto, persone che rimangono cattive perché nessuno ha creduto nella loro possibile bontà. Nessuno ha creduto nella loro possibile conversione. E qual è l’unica parola che può convincere un altro a divenire da cattivo buono? È la parola del perdono e dell’amore. Dostoevskij ha un bellissimo racconto autobiografico: ormai in prigione da tempo, il grande scrittore russo era spesso tentato di disprezzare i compagni di cella, uomini rozzi e malvagi. Ad un certo punto si ricordò di quando, da bambino, fu salvato dai lupi da un contadino che tutti criticavano per la sua durezza e la sua cattiveria. Scrive Dostoevskij: “ogni volta che vedo una persona che mi sento di disprezzare mi ricordo di quell’episodio. E penso che dentro ad ogni cuore, anche il più indurito, il più inselvatichito può nascere un sentimento buono, vero, pulito. Basta dare a queste persone, forse ripetutamente, l’occasione per dimostrarlo”. Questo è l’amore che ha avuto Gesù e al quale egli ci invita. Non è fantasia, non è utopia. Tanti hanno saputo metterlo in pratica, magari non li conosciamo. O forse ne abbiamo sentito parlare. Ve li ricordate i sette monaci uccisi in Algeria? E quelle meravigliose parole del loro priore frère Christian che nel suo testamento perdona e prega per il suo futuro assassino? Quando fu scritto un libro su di loro lo titolarono “Più forti dell’odio”. Bellissimo Un’altra di quelle cose per cui cliccare “mi piace”

don Umberto, don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 2 marzo 2014 “NON AFFANNATEVI”

(Mt 6, 24-34)

Sulla vita di S. Francesco sono stati girati molti film. Personalmente sono un po’ nostalgico e ricordo con piacere “Fratello sole, Sorella luna” di Zeffirelli. Fu un film criticato, anche dagli stessi francescani, per la sua inesattezza storica. Però ha una scena molto bella: quando Francesco va dal Papa Innocenzo III per l’approvazione della sua regola.Il poverello di Assisi si prostra davanti al Pontefice e poi inizia a leggere un testo in latino preparato da qualche diplomatico vaticano. Dopo poco però si inceppa, fa fatica e la sua voce diviene tremula e stentorea: infine desiste.Allora inizia a proclamare a memoria una pagina del Vangelo: proprio quella che abbiamo ascoltato nella Messa di oggi. La telecamera passa in rassegna i volti: tra gli alti prelati e i notabili facce scure e incupite, tra i compagni di Francesco volti pacificati e tranquilli. Il che mi ha sempre suggerito un pensiero: Dio non ci vuole anzitutto poveri e diseredati, ma liberi e sereni, con la sola preoccupazione di servire il Vangelo amando il prossimo. Per camminare su questa strada ci sono due indicazioni sicure: capire chi comanda nella nostra vita e in che modo noi guardiamo al futuro.La prima indicazione è essenziale.Ognuno di noi ha deciso di obbedire a qualcuno o a qualcosa nella sua vita: forse il desiderio di apparire, il mito della salute, la ricchezza, il bisogno continuo di stima … Quel che Gesù chiama “mammona” non è solo il denaro; è quella brama di possedere cose, affetti, persone che conduce pian piano all’infelicità. Non possiamo servire Dio e questi desideri.Anche la seconda indicazione è stimolante.Siamo abituati e illusi nel considerare il futuro come un territorio inesplorato che potremmo conquistare con i nostri programmi, i nostri progetti e la nostra creatività.E Gesù ci dice: “non inquietarti del domani”. Il futuro è di Dio, non nostro. È Lui che ce ne fa dono, se vuole. Non possiamo che accoglierlo dalle sue mani senza troppe pretese. E starcene in pace.La pace del cuore, la quiete interiore è possibile, non è un miraggio; è il frutto della consolazione di Dio. La settimana scorsa su questo foglio ho citato un libro, lo faccio anche oggi. Lessi anni fa “Il dono della pace”, scritto da J. Bernardin cardinale arcivescovo di Chicago.Negli ultimi tre anni della sua vita fu colpito dal cancro e contemporaneamente da un’accusa infamante, rivelatasi falsa, di pedofilia. Egli testimonia come proprio in quel tempo il Signore lo ricolmò della sua pace. Ritrovarsi così, mentre la malattia ti distrugge il corpo e gli uomini ti distruggono la reputazione è da grandi. Grande libro. Grande persona. E grande Dio. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 9 marzo 2014 CAMBIARE

1°di Quaresima (MT 4, 1-11)

In questi mesi mi è capitato spesso di ascoltare alla radio una canzone che parla di cambiamenti. È di un noto cantautore italiano, con qualche anno sulle spalle ormai; sempre anticonformista nello stile ma ora più pacato, quasi più saggio. Vado a memoria, canticchiandomela nella testa: “cambiare opinione non è difficile, cambiare partito è ancora più facile, cambiare il mondo quasi impossibile. Si può cambiare solo se stessi, ma se ci riuscissi faresti la rivoluzione”. Anche la quaresima si offre a noi cristiani come un’opportunità di cambiare, meglio un tempo propizio per convertirsi. Ma ci riusciamo? Quanti di noi potrebbero dire che le Quaresime vissute in passato hanno portato un vero cambiamento? Io farei veramente fatica a rispondere affermativamente a questa domanda. Il cambiamento non è frutto della nostra decisione, ma di ciò che accade nella vita. Sono gli eventi a cambiarci, non i nostri sforzi, ne’ tantomeno i nostri fioretti. I fioretti, le rinunce, la penitenza comportano piccolissimi cambiamenti, così piccoli che, passato il tempo ad essi destinato, noi torniamo come prima. Ma la vita, con le sue prove, i suoi lutti, le sue emozioni profonde e i suoi amori ci cambia per sempre. Nelle nostre mani resta però una risorsa: noi possiamo decidere in che modo cambieremo, possiamo cioè orientare il nostro cambiamento. Chi è stato ferito dagli altri può decidere se abbandonarsi al risentimento o crescere nell’amore e nel perdono; chi è nella prova può decidersi se sprofondare nella depressione o maturare nella fiducia; chi ha perduto una persona cara può decidere se morire anche lui, ma di tristezza, o custodire nella sua memoria il meglio della vita. In fondo, due sono le vie, ma tra le due vi è una grande differenza. Una fa sì che il nostro cambiamento ci apra a Dio, l’altra che ci chiuda su noi stessi. Che ce ne facciamo allora di questa Quaresima? Dio è come una calamita: preghiera, carità e digiuno toglieranno ciò che impedisce al nostro cuore di essere attratto da Lui. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 16 marzo 2014 VEDERE DIO IN TUTTE LE COSE

2° di Quaresima (Mt 17, 1-7)

Ottobre 2013: pernottamento sul Monte Tabor con un gruppo di pellegrini. Al mattino, al risveglio, nuvole basse ci avvolgono per alcune ore. Proprio là, nel luogo della Trasfigurazione, la stessa esperienza degli apostoli avvolti nella nube. Con una strana sensazione: tra le nuvole ma al contempo nella luce. Una luce particolare, delicata, non abbagliante, che via via si è fatta largo fino a inondare completamente il luogo. Aver vissuto fisicamente la pagina evangelica di cui parla la liturgia di oggi mi ha aiutato a penetrare più in profondità il significato di questo episodio. Conoscendo Gesù nella sua assoluta verità, nel suo splendore e nella sua gloria, i discepoli ebbero anche la rivelazione di ciò che sarebbe stato il loro destino. Fu come lo svelarsi del significato globale della loro storia. Per questo la Trasfigurazione è un episodio di cui dovremmo sempre nutrirci per allargare i nostri orizzonti, su Gesù, sul mondo, sulla storia in generale. Noi siamo spesso tentati di lasciarci frammentare dagli impegni quotidiani, dalle scadenze e necessità: facciamo una cosa, poi via subito un’altra, senza sosta. E così ci ritroviamo quasi sbriciolati dalle piccolezze quotidiane. Gesù ci invita a contemplare il significato globale, e questa sua rivelazione permette di non rimanere schiacciati dagli avvenimenti; euforici se una piccola cosa va bene, depressi se un’altra va male. Abbiamo bisogno di respiro. A favorire questa visione più sapiente della vita c’è un ulteriore significato della Trasfigurazione. Su quel monte gli apostoli videro che dietro la realtà fisica e materiale del corpo di Gesù si nascondeva la realtà spirituale e gloriosa. I loro occhi si aprirono per poter cogliere, in tutto ciò che esiste, la realtà dell’amore di Dio la sua bellezza e sapienza. Ci sono sguardi grazie ai quali si intravede l’infinito, la luce divina che pervade tutto il mondo. Noi ci siamo abituati a guardare le cose nella loro dura materialità, ne conosciamo il valore, il peso, il colore: e così un albero è solo un albero, il pane è solo pane e l’uomo è solo un uomo. La forza e la bellezza della fede consistono nel superamento di questa visione limitata, di questa triste e noiosa abitudinarietà. Anche noi possiamo tornare a vedere ciò che ora non vediamo e a sentire nuovamente ciò che non sentiamo, perché il mondo è stato trasfigurato con Gesù. Possa il Signore portarci sul Tabor e svelarci quello sguardo del cuore mediante il quale si vede Dio in tutte le cose. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 23 marzo 2014 FAR ACQUA DA TUTTE LE PARTI

3a di Quaresima

(Gv 4, 5-42)

Non è sempre vero che la luce svela e le tenebre nascondono. Almeno, non per la Samaritana. La luce di mezzogiorno (e il caldo) erano per lei l’occasione per restare nascosta. Andare a far acqua senza essere vista da nessuno. Senza incrociare volti che ti inceneriscono con un solo sguardo, parole che ti pesano e ti giudicano, gesti che ti umiliano. Ne aveva tutte le ragioni. Cinque mariti e ora un uomo che non era suo marito. Una donna di facili costumi o una donna ferita? A quel tempo in Israele solo ai maschi era concesso di divorziare. Mosè, infatti, aveva permesso solo agli uomini di dare l’atto di ripudio.(cf Mt 5, 31) Gesù è quindi di fronte ad una donna che è stata cinque volte abbandonata e rifiutata. Magari per colpa sua, ma non ci è dato saperlo. Quel che sappiamo è che aveva tutti i motivi per non volere più avere a che fare con la gente: troppe delusioni, troppe scottature. Ci stupisce persino il continuo ripetersi delle sue relazioni affettive: sempre da capo a cercare quell’amore che non trovava, a curare le sue ferite con una medicina che si rivelava poi peggiore della malattia. Come si sta davanti ad una persona così? Come le si parla? Come ci si comporta con una donna la cui vita fa acqua da tutte le parti? Gesù mette il dito nella piaga. Ma per curarla. C’è un punto debole e proprio lì si accomoda il Signore. Gesù la corteggia; ma non come intende lei. Bisogna pur accettare di essere fraintesi per arrivare a fare del bene. Cristo parla di acqua e la donna intende ciò che disseta fisicamente; poi pensa si tratti dell’amore umano; alla fine coglie che quel Giudeo è il Messia e parla della grazia interiore dello Spirito Santo. Con pazienza, ma con intelligenza penetrante. Gesù conduce questa donna a capire quale sia la sua vera sete. Forse la Samaritana, ricercando la verità, in parte la conosceva già. Ma occorreva chi la spingesse ad interrogare veramente se stessa. Finchè non si arriva a questo punto l’incontro con Gesù non produce molto frutto. Interrogarci in profondità significa uscire dalle preoccupazioni, dai significati troppo ovvi che diamo alle parole, dalle abitudini sbagliate. Mi sovvengono le parole di una vecchia pubblicità: “la sete è tutto. Ascolta la tua sete”. Quanto mai azzeccate...anche se un bel plagio evangelico, non c’è che dire. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 30 marzo 2014 SALIVA

4a di Quaresima (Gv 9, 1-41)

Fa un po’ schifo, lo so. La saliva, intendo. Bisognerebbe non parlarne, ma non posso farci nulla, leggo il Vangelo e mi colpiscono i particolari. Quando uno sputa per terra ci fa senso; la saliva non piace per niente: quella che si tramuta in catarro, quella che senti nella tosse degli anziani. Neanche quella del portiere sui guanti, anche se è scaramantica: magari poi il rigore lo para davvero. Solo per gli innamorati quando si baciano la saliva non conta nulla, anzi è quasi preziosa: ci si scambia il respiro, ci si scambia la vita. Perché può anche essere preziosa questa cosa che ci fa schifo. Preziosa come la saliva di Cristo. Uno sputo per terra, un po’ di polvere che si fa fango e poi... la luce! Normalmente ci saremmo girati dall’altra parte, ma stavolta no. Perché non può non conquistarci chi è in grado di trasformare ciò che a noi non piace in uno strumento di salvezza. Nessuno pensava che in un po’ di saliva fosse nascosta la luce. E invece è proprio così. E le cose si ribaltano, i ruoli si scambiano, la realtà si rivela per quella che è. Ciechi sono gli apostoli nel loro goffo tentativo di dare soluzioni semplicistiche al problema del dolore e della sofferenza; ciechi sono i farisei, irrigiditi nelle loro regole morali inadatte ad accogliere la complessità della vita; ciechi sono i genitori dell’uomo guarito, bloccati dal giudizio altrui e incapaci di libertà nelle scelte. Si salva solo il cieco nato, in tutti i sensi. È l’unico beato, lui che si fida di Gesù senza vederlo; “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. La religione rende ciechi e benda gli occhi, la fede permette di vedere. Ma non una vista qualsiasi: quella, invece, che viene dalla luce più profonda, quella che non fa solo osservare, ma comprendere e poi credere. Credere che quell’uomo di Nazareth non è solo un uomo ma Cristo, credere che la legge non è tutto, credere che quei genitori sono solo quelli biologici: altri saranno veri padri e madri spirituali. A questo sguardo tutto si apre, tutto si rivela, soprattutto il cielo. In fondo, a pensarci bene, la prima cosa che il cieco vide una volta guarito fu l’acqua. Era come la saliva. Ma molto più cristallina! Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto e Don Stefano

“La Via” raccolta 2014


Domenica 6 aprile 2014 PIANGERE

Quinta di Quaresima (Gv 11, 1-45)

C’è chi non lo fa mai. Il suo ultimo pianto risale a quand’era bambino. C’è invece chi ha la lacrima facile; magari pur vergognandosi, non riesce a trattenersi e spesso è travolto dalle emozioni. C’è chi piange per finta, avvezzo alle lacrime di coccodrillo. Piangiamo un po’ tutti, chi da solo, chi davanti agli altri. Piangiamo quando qualcosa è troppo più grande di noi e ci sovrasta: a volte con gioia, molto più spesso con dolore. Anche Gesù ha pianto, anche Dio ha pianto. Un pianto che fu come uno scoppio: una esplosione non controllata, una sofferenza grande quanto grande era l’amicizia per Lazzaro. Che mistero questo pianto! Non poteva Gesù salvare prima il suo amico?Anche a noi sorge la domanda dei giudei accorsi a casa di Marta e Maria. Anche noi vorremmo un Dio che ci eviti il male, che ci risolva i problemi, piuttosto che un Dio che piange insieme a noi. Troppo abituati a cercare Dio solo dove si sta bene, non sappiamo che farcene della sua fragilità, della sua scelta di condividere il nostro dolore. Gesù invece piange. Piange per dire all’uomo di sempre di guardare meglio nelle proprie sofferenze prima di lamentare l’assenza di Dio. Epiange per evitare gli equivoci. LavitadiLazzaro riprenderà, certo. Ma prima o poi, dopo qualche anno, Lazzaro tornerà a subire il dolore, lamalattia,ilpungiglionedellamorte.EGesùquestolosa.Sacheanessunuomoèrisparmiatoilpassaggiodiquestaportastretta.Forselo pensano anche coloro che assistono alla resurrezione diLazzaro: nessuna reazione di gioia tra i suoi parenti.È come se intuissero che Gesù non ha resuscitato Lazzaro per allungarg lilavita:perchéavrebbedovuto?Lohafattoperdareunsegno:EglièilSignoredellavita, diquellavitaeternachec’èdavveroecheriempiedisensolanostraesistenzaterrena. Anchenoi non riusciamo a sottrarci a questo equivoco; anche noisentiamo ripetere: “quella persona è morta giovane, perché il Signoregli ha fatto questo?” oppure: “quella persona il Signore l’hafatta vivere fino a cent’anni!”Come se l’amore del Signore dipendesse da quanto campiamo!Quel giorno, di fronte a Lazzaro uscito dalla tomba, c’era qualcunoche aveva già capito benissimo il gesto di Gesù. Gli scribi e i farisei che decisero di ucciderlo: perché chi allunga la vita degli altri è innocuo se quella vita rimane vuota; chi invece dà agli altri una nuova ragione per vivere, liberandoli dalle loro paure, lui sì è veramente pericoloso Don Umberto don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 13 aprile 2014

Le Palme

“FERMATI GESU’!” È capitato un po’ a tutti, almeno una volta di fantasticare immaginando di tornare indietro nel tempo per poter essere presenti ad alcuni episodi o avvenimenti che hanno fatto la storia. Trovarci là come spettatori consapevoli; come gente del XXI secolo, semplicemente trasportati all’indietro.Così mi immagino cosa avremmo fatto se fossimo stati tra la folla esultante che accolse Gesù al suo ingresso a Gerusalemme. Noi lo sappiamo come andò a finire. Lo sappiamo che Gerusalemme rifiuterà Gesù, che i suoi lo tradiranno, che quella folla, tra cui siamo anche noi, lunatica e volubile gli si rivolterà contro. Allora forse tenteremmo di farci largo per arrivare da lui e gridargli “fermati!”. “non andare fino in fondo Gesù! Lascia stare e torna indietro, non fidarti!” Poi mi fermo un po’ a pensare e mi chiedo se, così facendo, non saremmo come coloro che proiettano su Dio tutte le loro paure e le loro fatiche. Se non siamo noi quelli che hanno voglia di tirarsi indietro e di dire “basta, io mi fermo qui”.“Basta col darsi da fare per un mondo e una società che non cambiano mai; basta con una vita sfrenata , sempre di corsa e non si sa bene perché; Basta con il pensare agli altri e non a se stessi!” La voglia di fermarsi è tanta. Poi vedi Gesù.Lui non ha detto “mi fermo”, ha detto, invece, “eccomi, ci sono”. Ha varcato la soglia della città, è andato fino in fondo nel dono di sé, nella scelta di amore fino alla fine. E conquistati da Lui altri hanno detto “eccomi”La Veronica che si è fatta avanti con il suo tenerissimo gesto; il Cireneo che, forse controvoglia, si è sobbarcato un peso non suo; il centurione che ha proclamato la sua fede a dispetto del suo essere un pagano. Di fronte a queste disponibilità semplici e umili sta la durezza e la meschinità di chi ha detto “mi fermo qui, basta con questo Gesù!”:è la paura degli apostoli, il cinismo di Caifa, l’ambiguità di Pilato.Davanti a questo gesto del Signore sentiamo nascere in noi una commozione, uno slancio, ma anche una paura: la paura di ritrovarci spenti e aridi perché incapaci di dire il nostro “eccomi”. Ci soccorra il Signore perché non sia così. Don Umberto e don Stefano Vedo ora che nella notte triste, imparo, so che l’inferno s’apre sulla terra su misura di quanto alla purezza della Tua passione. Giuseppe Ungaretti Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 27 aprile 2014 INCREDULI O CREDULONI?

(Gv 20, 19-31)

Mi viene in mente il momento della rinnovazione delle promesse battesimali. Quando il sacerdote fa una serie di domande alle quali si risponde tre volte “rinuncio” e tre volte “credo”. La maggior parte delle volte sono risposte un po’ automatiche e scontate, quasi meccaniche. Come tante altre cose nella Chiesa, anche qui prevale una certa abitudine nel fare le cose, senza pensarci su con attenzione. Quando diciamo “credo” occorrerebbe aver coscienza di ciò che si dice. Perché questa coscienza maturi bisogna fare un cammino, bisogna sentire se stessi come persone in ricerca. In fondo anche quello dell’apostolo Tommaso è stato un percorso. Gesù lo ha condotto ad una fede vera e autentica. Ho già detto altre volte come non mi convince affatto l’idea che S. Tommaso sia catalogato nella lista degli increduli. Direi anzi che all’inizio del suo rapporto con Gesù egli fu un credulone. Tutto lo convinceva, anzi lo entusiasmava. Tutto gli sembrava possibile, persino andare a morire con il Signore. Poi qualcosa ha cominciato ad incrinarsi e il suo entusiasmo è venuto meno; la morte in croce del Maestro lo ha scandalizzato e forse anche deluso. L’apparizione agli altri discepoli, senza di lui che stava cominciando ad allontanarsi dal gruppo, lo aveva ulteriormente ferito: perché gli altri sì e lui no? Ci sono pensieri che sono in grado di generare amarezza, di spegnere gli ardori e favorire lo scetticismo e il disincanto pessimista. Tommaso li aveva. E aveva bisogno di recuperare la fede, ma non quella dei creduloni ingenui, quella di chi parla dicendo sempre che tutto è fantastico, bellissimo, straordinario. Aveva bisogno della fede matura: quella fede senza facili entusiasmi ma con la certezza della croce; quella fede paziente che sa restare fedele anche nell’aridità; quella fede che ti guida anche quando sei negli inferi e non vedi più nulla. Aveva bisogno di tutto ciò che unicamente si può chiamare “fede”. Tutto il resto è ricerca di emozioni e gratificazioni, legittime, ma fragili di fronte al vaglio della prova e della sofferenza. Forse di questo cammino abbiamo bisogno anche noi. Non per niente Tommaso era detto “didimo”. Significa gemello. Il nostro gemello. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 4 maggio 2014 ARIA DI FALLIMENTO

(Lc 24, 13-35)

Da Gerusalemme ad Emmaus. Circa undici chilometri. Come ve l’immaginate il passo dei due discepoli in cammino? Il passo frettoloso di chi sta fuggendo? O il passo rapido e deciso di chi ha chiara la meta? O forse il passo stanco e demotivato di chi ha l’animo appesantito? Ci è facile pensare che sia stato proprio quest’ultimo l’incedere di Cleopa e del suo anonimo compagno.Un passo che tradiva la sensazione di sconforto e l’aria di fallimento che la morte di Gesù aveva trasmesso loro.Ci sono segnali che rivelano in modo inequivocabile la tristezza dell’anima. Uno di questi è l’uso che si fa della memoria.Per i due di Emmaus il ricordo ha la forma della nostalgia, del dolore per un ritorno impossibile delle cose di prima.È una forma scadente di memoria perché ti paralizza, ti intristisce e ti fa fuggire il presente che sembra impossibile da affrontare. Un altro segnale rivelatore è il modo in cui si parla. Come parlano i due di Emmaus? Quali parole affiorano alle loro labbra? È sorprendente notare che sono le parole dell’annuncio della salvezza! Le stesse parole che oggi sentiamo dall’apostolo Pietro nella prima lettura! Però qui la situazione è quasi comica. Una comicità che rivela il dramma profondo di questi due.Annunciano il messaggio ma lo fanno con il cuore triste. Parlano, ma in modo meccanico, senza una vera convinzione. E così, qualsiasi interlocutore che fosse in ascolto non sarebbe per niente persuaso da loro, ma sarebbe tentato di andarsene per non scoraggiarsi anche lui!E Gesù, di fronte a questa contraddizione evidente cosa fa? Accoglie le parole di amarezza, di delusione e rassegnazione per curare i cuori da cui questi sentimenti scaturiscono.Succede forse anche a noi di incontrare persone oppresse da situazioni pesanti, con la mente ossessionata dai problemi di cui continuano a parlare; oppure situazioni di famiglie disastrate o di persone che non riescono ad uscire da certi drammi o vizi. Magari siamo noi stessi in una di queste situazioni.Allora ci ripetiamo frasi un po’ scontate, quasi retoriche. Come i due di Emmaus parliamo in positivo ma senza cuore, senza crederci fino in fondo, come se lasciassimo a metà l’annuncio della salvezza. Gesù invece ha anzitutto curato la memoria troppo nostalgica dei due discepoli; poi li ha scossi, li ha rimproverati con parole forti; infine li ha accompagnati con una presenza che ha toccato il loro cuore, restituendo loro proprio quel calore, quella fiducia e quella speranza che si erano spente. Ci aiuti il Signore a passare dal Vangelo sulle labbra all’interiorizza- zione del Vangelo nel cuore. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 11 maggio 2014 BUTTARE DENTRO

(Gv 20, 19-31)

“Ho buttato dentro”. È un’espressione che non avevo mai sentito prima di arrivare qui nel Piacentino. Mi ha incuriosito questo modo di dire e mi pare di aver compreso che significhi stancarsi di qualcosa, abbandonare un cammino intrapreso, magari per stanchezza, pigrizia o demotivazione. Probabilmente è una fase da cui siamo passati un po’ tutti. C’è passato anche l’apostolo Tommaso, anzi, il Vangelo di oggi ce lo presenta nel bel mezzo di questa fase. Si era fidato di Gesù, lo aveva seguito e le cose non erano andate bene. Ora basta. Non ce la faceva più. Fidarsi ancora, tanto più di un fantasma, proprio no. La questione non era quella di avere le prove, perché Tommaso non era uno sprovveduto. Lo sapeva che fede ed evidenza non vanno d’accordo. Se una cosa la vedi, la vedi e basta, non c’è bisogno della fede. La fede si fonda invece sull’affidamento. In verità Tommaso non era più disposto a nulla: era chiuso, pur stando fuori dal cenacolo. E come lui, anche tutti gli altri apostoli. Gesù venne da loro, ma ci venne a porte chiuse. Non poteva infatti contare sulle loro attese, sul loro desiderio di vederlo ne’ tanto meno sulla loro disponibilità all’incontro e all’accoglienza. Chiuse erano le porte, chiusi gli orecchi, chiuso il cuore e non più pronto a lasciarsi scaldare. A queste condizioni, tutt’altro che favorevoli, Gesù si presentò in mezzo a loro. Queste porte chiuse, invece che farci fantasticare sulla realtà del corpo risorto di Cristo, potrebbero suggerirci interrogativi sulle nostre ingiustizie, sulle nostre paure, sui nostri pregiudizi. Niente ferma la forza del Risorto, non ha bisogno di nostre particolari credenziali per manifestarsi, la sua presenza è un dono, puro, gratuito e inaspettato. Un dono che si rivela credibile non per la fisicità del suo corpo, ma per i segni dei chiodi. Sarà sempre così anche per la Chiesa, anche per la nostra testimonianza: crederanno in noi non per la potenza dei nostri mezzi ma per il segno dei chiodi. Perché solo l’amore è credibile. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 18 maggio TIENIMI IL POSTO, GESU’!

(Gv 14, 1-12)

“Tienimi il posto!” Non so chi non l’abbia detto, almeno una volta. Magari prima di salire sul pullman per una gita, o magari prima di mettersi a tavola con un gruppo. Mille esempi: al cinema o alla partita; alla Messa o ad un concerto. Sembra una parola da niente e invece quante cose contiene! “Tienimi il posto” lo diciamo quando ci sta a cuore qualcosa o qualcuno, quando c’è di mezzo una realtà così preziosa e importante che non vogliamo barattarla con nient’altro. “Tienimi il posto” significa: voglio stare vicino a te e non altrove; voglio condividere proprio con te, e non con altri, questo momento. “Tienimi il posto” è un modo di dire: ti voglio bene e ci tengo a te! Ma c’è un’altra espressione, ancora più bella forse, perché ci sorprende giocando d’anticipo: è quando qualcuno ci dice “ti tengo il posto”: Che meraviglia! Un conto è chiedere, un conto è ricevere un dono inaspettato, e accorgerci che c’è qualcuno che pensa proprio a te e che ritiene che con te vicino le cose saranno più belle. È proprio la frase che Gesù pronuncia oggi nel Vangelo. “Vado a tenervi un posto”. Per il Signore, l’avventura dell’eternità sarà più bella con noi al suo fianco. Ma solo l’eternità? Quel posto di cui Gesù parla riguarda solo il paradiso? Noi, un posto lo occupiamo già in questa vita. È proprio quello che abbiamo sempre voluto? Oggi le letture contengono una frase folgorante “anche voi venite impiegati come pietre vive” dice l’apostolo Pietro. È bello sapere che c’è Qualcuno che mi impiega; Qualcuno che mi dice quale posto devo occupare senza che io debba deciderlo da solo. Mi dà un senso di libertà saperlo. Proprio la libertà della pietra, a cui non spetta decidere lei il posto in cui deve andare, ma bensì al Costruttore. Capisco che a tanti questa prospettiva possa infastidire: non si accetta di essere strumenti nelle mani di qualcuno; si pensa che libertà sia decidere da sé della propria vita. Salvo poi capire che tante volte la vita va per conto suo e che l’alternativa è una sola: o vivere nel continuo affanno per la realizzazione dei propri progetti, o lasciarci usare dal Signore. Anche Cristo fu una pietra, pietra d’inciampo, ma scelta e preziosa davanti a Dio. Per questo il nostro posto è accanto a Lui. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 25 maggio UNO SPIRITO CHE ATTRAE

(Gv 14,15-21)

“Non vi lascerò orfani” Questo dice il Signore ai suoi discepoli.In fondo è ciò che dice anche a noi. La sensazione di essere orfani infatti non è legata solo alla perdita fisica dei genitori, ma anche a quel senso di smarrimento che ci prende quando non abbiamo più i nostri abituali punti di riferimento, quando svaniscono le tracce sicure per il cammino, quando vengono meno presenze che erano indispensabili a garantire il carattere affidabile del mondo e la sicurezza della vita. Di fronte a ciò Gesù dice che sarà lo Spirito Santo che egli invierà a non farci sentire orfani, cioè a restituirci quella fiducia nella vita, quella sensazione di essere accompagnati che permette di stare al mondo in modo positivo. E lo Spirito viene donato nell’osservanza dei comandamenti. Così stando le cose, più si pratica il cristianesimo, più il mondo dovrebbe apparire come una realtà affidabile e non minacciosa, frequentabile e non piena di pericoli. È vero? A volte, come cristiani ci rifugiamo nella religione proprio per fuggire il mondo, quasi per evadere dalla vita, per metterci al riparo da frustrazioni, tentazioni, delusioni. Quando succede, allora mi chiedo: “come facciamo noi cristiani a risultare interessanti agli occhi del mondo?” Forse se lo chiedeva anche S. Pietro che, nella seconda lettura di oggi, ha quelle profetiche parole “sappiate rendere ragione, a chi ve lo domanda, della speranza che è in voi”. Abbiamo davvero questa speranza in noi? Abbiamo scoperto la bellezza del Dio di Gesù Cristo? Se è così, allora si vede.Magari la cosa non è capita dagli altri, ma si vede. Ho conosciuto, a Parigi, uno scrittore e produttore televisivo, Thierry Bizot, la cui storia è scritta in un bel libro: “Cattolico anonimo”. È la storia di una conversione.E al contempo delle difficoltà da parte dei suoi famigliari, dei suoi colleghi di lavoro a comprendere quel cambiamento positivo, quel buonumore diffuso, quel senso di positività che aveva un solo motivo: essersi accorto che Dio c’è, e non ti lascia orfano. Una vita in cui tutto è cambiato senza che niente sia mutato. Le cose di prima, ma sotto un’altra prospettiva. Può succedere. Può verificarsi la grazia di diventare testimoni senza fare crociate e senza slogan, semplicemente con lo stile. Non inteso come arredo e decoro, ma come sostanza. Anche il cristianesimo, in fondo, è una questione di stile. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 1 giugno CONTRAPPUNTO

Ascensione del Signore

(Mt 28,16-20)

Festa dell’Ascensione, festa della sproporzione. Se considerassimo con attenzione le parole di Gesù nel Vangelo di oggi c’è da rimanere sconcertati tra l’immensità delle sue promesse, del compito affidato ai discepoli e la modestia di cornice esteriore in cui tutto questo avviene. Io sono stato più volte nel luogo che la tradizione indica come quello in cui potrebbe essere accaduto l’episodio. Un punto scosceso di una piccola collina sul lago di Tiberiade. Pensando che da lì Gesù inviò i discepoli a tutte le genti e in tutto il mondo, effettivamente si avverte una sproporzione. Se poi si aggiunge che anche dal punto di vista interiore la situazione non era ottimale (alcuni di loro infatti dubitavano), allora sembra proprio tutto assurdo: le parole sono solenni, il Signore è il Risorto e vivente, ma tutto il resto è ben poca cosa. Forse proprio questa è la grande sfida del Vangelo: la fiducia che Gesù ripone in noi anche quando siamo noi i primi a non credere in noi stessi. Di fronte alla Parola del Signore, al suo invito, a volte sentiamo affiorare il nostro peso, il nostro dubbio, le nostre perplessità: da queste situazioni non possiamo uscire con un ragionamento, ma solo fidandoci e risottomettendoci alla potenza di Dio. Questa modestia esteriore ci rivela tra l’altro lo stile di Dio: lì ci sono solo pochi discepoli, poveri, perseguitati, non troppo amalgamati tra loro. Una cornice così semplice conferma la scelta di Gesù di rivelarsi ai piccoli e di nascondersi ai sapienti. Solo il Signore infatti ha grandezza d’animo di occuparsi di persone poco interessanti e di trasformarle dall’interno, rendendole intrepide, libere e convincenti. La promessa di essere con noi sino alla fine del mondo non lasciamola scivolare nei recessi della memoria. Sentire di avere il Signore con sé, infatti, è una grazia enorme per affrontare qualsiasi sfida e difficoltà.

Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 8 giugno 2014 CONSOLATORE PERFETTO

Solennità di Pentecoste (Gv 20,19-23)

Durante la S. Messa del giorno di Pentecoste si recita una bellissima preghiera di invocazione allo Spirito Santo. Essa elenca le caratteristiche dello Spirito attraverso le sue azioni. È in questa preghiera che si trova la definizione “consolatore perfetto”. Se penso a come vorrei invocare lo Spirito in questi tempi lo penso proprio così. Trovo sempre più bisogno di consolazione tra la gente: paure, sofferenze, solitudini, incomprensioni, non solo chiedono, ma quasi urlano, il loro bisogno di consolazione. Non ci è facile comprendere in profondità questa parola: se parliamo di consolazione ci viene in mente il tentativo imbarazzato e goffo di aiutare chi è nel dolore o le parole retoriche che si pronunciano durante i funerali. La consolazione, in realtà, è ben altra cosa. È una esperienza interiore che solo Dio concede, magari attraverso i fratelli, a volte anche quando non ce l’aspettiamo o non abbiamo fatto nulla per generarla.Quando S. Ignazio ne parla, così la descrive “chiamo consolazione ogni gioia interiore che chiama e attrae.alle cose di Dio, quietando e pacificando l’anima nel suo Signore” (Ess 306). Quando ciò accade, è inequivocabilmente segno della presenza dello Spirito Santo.Mentre altri doni dello spirito potrebbero essere scambiati per semplici qualità umane, il dono della consolazione no. Ricevendo questo dono si sente una pace e una chiarezza d’animo così bella e profonda che le circostanze esteriori non riescono a cancellarla. A volte è legata alla gratificazione per qualche episodio: un sorriso di una persona, un ringraziamento ricevuto, un progetto che va a buon fine … Ma tutte queste cose diventano consolazione quando ci si accorge che pace e gioia permangono, che vanno più a fondo, che non scompaiono quando scompare la gratificazione.Un’esperienza del genere, normalmente è la fonte della creatività. Quando siamo consolati (in questo senso!) ci vengono le idee migliori, i pensieri più positivi, lo sguardo più ottimista sul mondo e sulla vita. Se questa consolazione è un dono, noi che possiamo fare? Mi viene in aiuto l’immagine del brano della Pentecoste: “il vento impetuoso riempì tutta la casa dove si trovavano”.Tutta la casa … Non c’era più un angolo nascosto, un pertugio in cui ripararsi, uno spazio in cui lo Spirito non potesse giungere.Lo spirito si era preso tutto, perché i discepoli erano disposti a dare tutto.I frutti dello Spirito e la consolazione anzitutto, si sperimentano quando non si tiene più nulla per sé, ma tutto si mette nelle mani di Dio.Almeno proviamoci. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 7 settembre OMISSIONE

(Mt 18,15-20)

Tocchiamo un tasto dolente. Il Vangelo odierno e la prima lettura ci parlano della correzione fraterna. È un tasto dolente perché non ci è facile esprimere la cura per gli altri attraverso la correzione dei loro comportamenti sbagliati. A dire il vero, non ci è facile neppure accettare una correzione. Per questo, spesso ci capita di omettere un comportamento che pure il Signore ci chiede come una precisa responsabilità. Nel testo di Ezechiele dice addirittura che se non correggiamo il fratello che sbaglia saremo coinvolti nel suo stesso errore. Che cosa ci frena o ci blocca? A volte una specie di onestà con noi stessi: noi non siamo migliori degli altri e questo ci trattiene dall’intervenire. Altre volte la paura di offendere, o di perdere un’amicizia. Altre volte ancora il nostro carattere: se siamo persone impulsive sappiamo che il tentativo di correggere qualcuno non sortirà buoni effetti … Tutto questo naturalmente vale anche quando siamo noi a ricevere una correzione: le parole dei fratelli ci appaiono come un attacco personale, un biasimo, una aggressione e perdiamo lucidità. Poi arrivano pagine bibliche come quella di oggi. Vorremmo lasciarle cadere ma non possiamo; e ci chiediamo come fare. C’è una cornice entro cui è inquadrato il brano odierno e le cornici non sono mai secondarie. Da una parte la parabola della pecorella smarrita, dall’altra la promessa di Gesù di essere presente quando due o più sono riuniti nel suo nome. Ecco, senza lo spirito di cura e dedizione, senza il riferimento alla persona di Cristo presente nella comunità, ogni correzione fraterna è destinata ad arrecare più danni che altro. Se una persona non è disposta spiritualmente a sentirsi dire la verità è inutile dirgliela. Si racconta un episodio della vita di Raoul Follerau, l’apostolo dei malati di lebbra. Un giorno si presentò ad un campo di lebbrosi senza niente da offrire loro; ne’ medicine, ne’ soldi, niente. Si scusò , un po’ impacciato. Ma il capo villaggio gli chiese di stringere la mano a ciascuno dei malati. Lo fece. Mani corrose, sporche, fetide e devastate dal male. Tornò a casa pensando che non avrebbe potuto fare regalo più bello. Ecco, incontriamo tante esistenze contagiate dall’errore e forse anche la nostra lo è. Ma ogni correzione non dovrebbe mai perdere il carattere di una mano tesa. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 14 settembre UN DOPPIONE?

Esaltazione della Croce (Gv 3, 13-17)

Ci sorprende un po’ una festa liturgica dedicata appositamente alla Croce di Gesù. Non abbiamo già il venerdì santo, con i suoi momenti così intensi e solenni? Non facciamo già al venerdì santo un rito di adorazione ed esaltazione della Croce? Perché allora questo doppione? A guardarle bene, le due feste non sono proprio uguali. L’una ricorda la morte di Gesù; l’altra il giorno in cui, secondo la leggenda, la croce fu ritrovata a Gerusalemme. Il venerdì santo noi celebriamo quel fatto storico e preciso in cui si è compiuta la nostra salvezza; nella ricorrenza odierna noi celebriamo la croce come simbolo delle vicende umane. Ed è proprio sul livello simbolico che dobbiamo muoverci. Anche e soprattutto accostando la prima lettura, misteriosa ma eloquente. Il popolo di Dio è in viaggio attraverso il deserto. Un viaggio che rappresenta la vita, con le sue tappe. Nel deserto tutto è essenziale, austero, quasi rarefatto e dopo un po’ le cose cominciano a farsi difficili. Dio certo sostiene il popolo, ma il popolo non sopporta il viaggio. Non ne tollera la lunghezza, cioè il fatto di non vedere il frutto delle proprie fatiche. Non ne capisce la prova, le asprezze, il senso di precarietà: vorrebbe continuamente qualcosa di più sicuro. E tutto questo genera pensieri negativi, diffonde una specie di veleno che tocca il cuore e poi pian piano contagia anche le relazioni. Eccolo il veleno dei serpenti velenosi di cui parla la lettura! Anch’essi sono un simbolo: esprimono quei sentimenti che rendono la vita amara, l’occhio sospettoso, il lamento interminabile. In mezzo a questo veleno cosa fa Mosè? Innalza un serpente di bronzo. Ancora un simbolo: la miseria di quella vita così insopportabile per il popolo (e per noi) ha in realtà un altro senso. Ma per riconoscerlo bisogna volgere gli occhi in alto. Spesso per vedere con chiarezza la realtà della vita bisogna guardare in alto. Solo lì i nostri occhi possono incrociare quelli di Cristo crocifisso. E accogliere le parole che lui pronunziò per noi: la nostra vita in ogni caso sfugge, ma la salveremo solo donandola. Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 21 settembre PROVOCAZIONI

(Mt 20, 1-16)

Mi sarebbe tanto piaciuto sentire parlare Gesù dal vivo, sentire il tono della sua voce. Credo che nessun personaggio della storia abbia comunicato come lui, con una capacità così grande di suscitare emozioni diverse: ammirazione, commozione, affetto, soggezione. E tra queste emozioni ci metto pure l’irritazione. Sì, a volte Gesù parlava e irritava. Come per la parabola di oggi: quelli che lavorano un’ora soltanto vengono pagati come quelli che hanno lavorato otto ore. E chi non si irrita di fronte ad una cosa così? Si irritano coloro che ascoltano la parabola e si irritano, nella parabola stessa, gli operai della prima ora, sentendosi trattati ingiustamente. Quando noi ci arrabbiamo abbiamo sempre la possibilità, oltre allo sfogo, di fermarci un attimo e chiederci da dove nasce la nostra rabbia, che cosa rivela di noi, cosa ci insegna e come potremmo canalizzarla. Forse per questo Gesù provoca: per far emergere le verità delle persone, quello che si portano dentro. Cosa c’è quindi nel cuore di quegli operai chiamati al lavoro da subito? Cosa rivela la provocazione del padrone che li lascia per ultimi a ricevere il salario? Anzitutto la loro ambiguità, anzi direi meglio la loro ipocrisia: essi si appellano alla giustizia solo perché sentono di essere loro stessi defraudati di qualcosa. Nascondono sotto il velo di un nobile ideale i loro interessi personali.In questa situazione tutto viene visto solo nell’ottica del rapporto economico, della situazione salariale. Per il resto è come se fossero ciechi: a loro non interessa la bontà del padrone, ma solo quanto stipendio percepiranno. Si dice che la bontà di Dio porta alla conversione. Ma quando i beneficiari di questa bontà sono gli altri e non noi? Lo sguardo sugli operai dell’ultima ora, e la considerazione del trattamento ricevuto dal padrone li porta alla mormorazione, all’invidia, alla infelicità. La felicità percepita e sperimentata per essere stati assunti subito al mattino, svanisce ed evapora come niente quando cominciano a fare i paragoni tra sé e gli altri. Basterebbero queste semplici considerazioni a farmi riflettere e dovrei fermarmi qui. Ma sento risuonare forte la domanda di Gesù “perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?” Noi abbiamo sempre molte cose da fare, sempre le giornate sembrano non bastare tanto siamo indaffarati. Ma se ciò che facciamo non è occasione di incontro con Dio allora è l’anima a rimanere oziosa. Ci svegli il Signore, magari anche all’ultima ora. Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto e Don Stefano

“La Via” raccolta 2014


Domenica 28 settembre

Apertura anno pastorale

FACCIATA E SOSTANZA

(Mt 21, 28-32)

Gesù racconta di quei due figli che cambiano idea: uno dice “si” ma non fa, l’altro dice “no” ma ci ripensa e fa. L’accento è chiaramente posto sul fare, perché è l’agire concreto che rivela la sostanza della persona; le parole spesso, sono solo facciata. È una parabola che invita ad astenersi da giudizi affrettati, dal catalogare le persone e dall’idealizzare la coerenza. Nessuno dei due infatti è coerente con ciò che dice. In questo sono simili; ma tra loro c’è una differenza. Consiste nel tipo di attenzione che i due figli danno ai piccoli segnali di allarme. Che cosa sarà infatti successo nel tempo che passa tra le parole pronunciate e i comportamenti contrari a quanto avevano detto di fare? Sarà successo che la vita (o Dio) avrà mandato piccoli segnali. Per il primo che aveva detto sì i segnali erano piccole negligenze, poca voglia, dimenticanze o distrazioni del pensiero del lavoro. Forse piccoli tradimenti della fiducia riposta in lui. Ma a questi segnali egli non fa attenzione, li lascia andare e così diventano modi di pensare consolidati, blocchi della volontà. E alla fine non va nella vigna. Per il secondo che aveva detto no i segnali erano invece brevi attimi di rimorso di coscienza, piccoli squarci di pace nel cuore al pensiero di obbedire al padre, lievi sussurri che lavorare nella vigna non sarebbe stato poi così gravoso. E a questi segnali egli, a differenza del primo, pone davvero attenzione. Così si ritrova a fare ciò che il padre gli aveva chiesto. Non è vero quindi che Dio sta sempre in silenzio. Egli spesso ci mette in guardia o ci esorta a fare il bene; ma con il suo stile. Uno stile sobrio, non urlato, senza imposizioni. È la nostra capacità di cogliere i segnali, di farsi aiutare a capirli e di renderli poi concreti, a fare la differenza. Oggi iniziamo un nuovo anno pastorale. Generalmente all’inizio siamo anche noi come i due figli della parabola: qualcuno dirà “si” alle proposte fatte, qualcun altro dirà invece “no”. Dio però non mancherà di mandarci i suoi segnali; forse la grazia da chiedere sarà proprio quella di ascoltarli. Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto Don Stefano

“La Via” raccolta 2014


Domenica 5 ottobre DI CHI E’ LA VIGNA?

(Mt 21, 33-43)

Ancora la vigna. Per la terza domenica consecutiva. Sembra che questi vangeli siano stati scelti apposta in questo mese di settembre, tempo di vendemmia e di filari che si spogliano. Ma sembra anche che ci venga sussurato un pensiero: il lavoro, quello quotidiano, è una metafora della vita spirituale. Lavorare, è una benedizione (e ce ne rendiamo conto oggi in modo drammatico) non solo per ciò che guadagni, ma anche per quel rapporto con il creatore che puoi stabilire con il lavoro ben fatto. Per questo, una società che si impegna a migliorare, senza demagogia, il mondo del lavoro non migliora solo il benessere dei cittadini, ma anche la loro situazione morale. La parabola di oggi parla ancora agli scribi e farisei del popolo di Israele. Gesù vuole tenacemente condurli a comprendere la verità, per questo insiste tanto con loro. Lo fa con un linguaggio simbolico, senza attaccarli direttamente. Sempre però il linguaggio delle parabole può scivolare via senza effetto. Parla solo a chi è disposto a lasciarsi provocare. E non pare proprio che scribi e farisei si aprano alle provocazioni di Gesù … C’è una storia che parla da sola, sotto i loro occhi: gente lontana, straniera, emarginata viene coinvolta dal Signore nel disegno di salvezza. A loro sarà data la vigna, cioè l’opera di Dio. Ma quando si è ciechi è difficile vedere come stanno le cose e soprattutto pensare a come potrebbero essere in futuro. Da questo punto di vista questa parabola è una bella rilettura sapienziale della nostra storia: la vecchia cristianità europea che deve accogliere popoli nuovi come strumenti dell’opera di salvezza di Dio. Insopportabile pensiero? Troppo facile a dirsi? Tra le regole sacrosante e la disciplina necessaria, tra l’invocato rigore e i confini da chiudere, vorremmo che questa chiave di lettura avesse almeno il diritto di cittadinanza.Forse ci aiuterebbe a non incappare nella stessa cecità di scribi e farisei; ancor meglio ci aiuterebbe a non pensare, come quei vignaioli, che la vigna ci appartenga, che ciò la terra sia nostra, le città siano nostre, la vita sia nostra. Nulla è nostro. O meglio “tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio.” (1 cor 3, 22-23) Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 12 ottobre AGENDE PIENE

(Mt 22,1-14)

Il vangelo di Matteo ha una ventina di parabole. Esse non sono narrate tutte insieme ma sono distribuite e raccolte in quattro gruppi. Se le leggiamo tutte di fila abbiamo la sensazione di un lento passaggio dal racconto di cose quotidiane e ordinarie alla narrazione del grande disegno di Dio sulla storia. E insieme a questa anche la percezione di un progressivo disincanto, quasi una delusione che Gesù avverte in fondo al cuore. La parabola di oggi si colloca quasi alla fine di questo itinerario. Gesù la pronuncia negli ultimi giorni di vita a Gerusalemme. Egli aveva tanto desiderato l’incontro con la città santa; l’aveva pregustato a lungo come un evento destinato a realizzare la visita di Dio al suo popolo: per questo usa l’immagine delle nozze. Era la più esplicita, la più adatta. Nozze tra Dio e l’umanità: alleanza d’amore sancita per sempre. E invece … E invece il rifiuto, la non accoglienza e la disattenzione.Di queste parla la parabola. E parla a noi. Racconta dei continui inviti che Dio ci fa a vivere in intimità con lui e delle ripetute risposte negative tanto simili a quelle della gente al tempo di Gesù.Agende troppo piene per poter dire di “sì” all’invito a stare con lui che Dio ci rivolge. È una razza in aumento quella delle persone dall’agenda piena. Ne facciamo parte in tanti: incapaci a dire di no e forse inconsciamente illusi che la vita vale se si hanno tante cose da fare. Per poi ritrovarsi vuoti, troppo indaffarati per vivere davvero. Ci vuole così poco a riempirsi l’agenda per le ragioni più futili! Ma tutte ci sembrano importanti, tutte urgenti e nulla pensiamo circa l’incredibile miseria dell’uomo che si pone in modo disattento e superficiale - stupidamente superficiale - di fronte alla grandiosità dell’invito di Dio. È solo il rapporto con lui a render la vita degna di questo nome. Anche chi questo invito lo accoglie corre però un rischio: quello di pensare che il suo carattere gratuito escluda la necessità di una conversione laboriosa e faticosa.E così si entra alla sala del banchetto senza avere l’abito nuziale, che non è un abito fatto di opere o di attività di stampo religioso, ma l’abito interiore di chi trova spazio e tempo perché Dio venga ad abitare in lui. Noi vogliamo bene al Signore (non solo lui a noi); e come per ogni persona a cui si vuole bene, vorremmo togliergli quel fondo di delusione che oggi, in questa parabola, ci sembra di avvertire in Lui. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 19 ottobre PAOLO VI Oggi è la giornata missionaria mondiale e la liturgia ci offre anche un vangelo stimolante. Ma io vorrei dedicare queste poche righe a Paolo VI. Oggi verrà beatificato, finalmente. Ce n’è voluto di tempo a confronto con altri pontefici il cui iter di canonizzazione è stato più spedito.Forse perché non era così mediatico e popolare. Ma spero non si tratti solo di quello: sarebbe cosa triste misurare la santità a partire da quanto si è simpatici alle folle. Per quelli che hanno la mia età Paolo VI è stato il Papa della nostra infanzia: sentivamo il suo nome nella Messa e io ricordo nitidamente mia mamma che mi chiama dal balcone per farmi salire in casa e dirmi “è morto Paolo VI!” Era il 6 agosto del 1978. Succede, a volte, che le cose e le persone che ti si imprimono dentro da ragazzi non vengano trascurate con il passare degli anni, ma quasi valorizzate. Così è stato per me Papa Montini.Crescevo e leggevo, crescevo e rubavo in tv le immagini di repertorio, ascoltavo avidamente i racconti di chi l’aveva conosciuto quando era arcivescovo di Milano. Per ritrovarmi ogni volta sempre più attratto da quel carattere schivo e riservato per il quale era quasi un sacrificio parlare in pubblico; oppure scoprire la ricchezza del suo pensiero quando mi lasciavo quasi prendere per mano da un periodare articolato ma ricco, ricchissimo. Ho imparato ad apprezzare quella apparente incertezza che talvolta sembrava trasmettere: era il segno della sua grande intelligenza, della sua capacità di cogliere la verità del suo pensiero e al contempo la parte di verità contenuta nel pensiero contrario. Come di uno che vede contemporaneamente le due facce di una medaglia. Così appariva come insicuro, fragile; anche la sua voce in taluni frangenti pareva tremare.Forse per questo la qualità della sua fede, tranquilla e abbandonata a Dio, mi ha sempre dato molta luce.Alla giusta visione di sé (“guardo la mia misera storia intessuta di azioni imperfette, insipienti, ridicole”) fece da contrappunto un cuore innamorato del Signore (“l’incontro con Cristo: questo è il criterio di valutazione di ogni cosa riguardante l’umana esistenza”). Come Gesù nel vangelo di oggi anch’egli si trovò di fronte a questioni spinose, a domande le cui risposte avrebbero provocato comunque un malcontento.Pertanto mi dico: chi siamo noi per giudicare?Ho riletto qualcosa di suo in questi giorni e ho avvertito le stesse sensazioni di chi si abbevera ad acqua fresca di sorgente.Ancora più stimolano le sue riflessioni, con quella straordinaria capacità di penetrare nei cuori degli uomini, anche increduli, per aprirli al mistero. Mi ritrovo a ringraziare Dio perché mi ha dato dei grandi maestri e non smette mai di ricordarmi l’importanza di frequentarli. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 26 ottobre EGLI MORI’ D’AMORE

(Mt 22,34-40)

L’amore è una cosa meravigliosa. L’amore è una passione travolgente. L’amore non ha regole. Al cuor non si comanda. Amore libero. Amore tossico. L’amore è eterno (finchè dura). L’amore vero non esiste. E chi più ne ha, più ne metta. Non esiste parola tanto inflazionata, abusata e ambigua quanto la parola “amore”. Ne fece uso anche Gesù. Lo interrogarono un giorno sul più grande dei comandamenti e lui parlò d’amore, per Dio e per il prossimo. E per se stessi. Ma poi, nel vangelo noi non troviamo una definizione dell’amore. Troviamo una incarnazione dell’amore. Gesù ha detto cos’è l’amore con la sua vita più che con le sue parole. Bisogna guardare ai suoi gesti, alle sue scelte, alla sua croce per capire cosa fosse, per lui, l’amore. Erano i gesti che infastidivano i farisei perché troppo forti, troppo esagerati nell’amore. Per questo tentano di incastrarlo con le parole, quelle parole così ambigue quando devono descrivere cosa vuol dire amare. Ai farisei le parole servivano per polemizzare, per sedurre forse. Ma non bastavano le parole a dire la verità del cuore. Anche oggi, le parole viaggiano leggere per l’etere, staccate dalla persona di chi le pronunzia, dalla sua testimonianza pratica. Viviamo di parole a cui non associamo volti. Viviamo di parole che viaggiano veloci. E così rischiamo di dare velocità pure ai sentimenti . L’amore va veloce? Mi torna in mente un libro di un teologo giapponese,Kosuke Koyama dal titolo curioso, “Dio a tre miglia all’ora”: “L’amore ha la sua velocità. Si tratta di una velocità spirituale. Non è quella tecnologica a cui siamo abituati”. L’amore va avanti nella profondità della nostra vita, a tre miglia all’ora che è la velocità a cui una persona cammina …”. Sempre ci vuole più tempo ad agire che a parlare: ecco perché sono i gesti a dire l’amore. Gesù fu un ribelle dell’amore, un testimone inascoltato e rifiutato. Troppo radicale per essere imitato? Troppo esagerato per essere messo in pratica il suo modo d’amare? Quando pensiamo queste cose proviamo a pensare che l’indurimento del cuore, non può condurre a nessuna serenità. L’unica possibilità che abbiamo è quella di raccoglierci in noi stessi per distruggere quei sentimenti negativi che ci portano ad eliminare gli altri anche solo col pensiero. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 2 novembre

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

UN’ EREDITA’ SPIRITUALE Il due novembre riaffiorano immagini antiche, gesti che si perpetuano nel tempo: i fiori, le persone che si incontrano nei vialetti, il silenzio che avvolge le cose, la memoria dei propri cari. E l’impossibilità di sfuggire al pensiero della morte. Anche se la strisciante e ingenua logica del “meglio non pensarci” sembra contagiare anche giorni importanti come questo. Chi è giovane e pieno di forza guarda con sufficienza ai riti di oggi, come fossero cose che non lo riguardano. Chi invece ha qualche anno in più e magari è stato toccato dalla perdita di una persona amata avverte oggi che quel sordo dolore si rinnova e che la solitudine rimossa torna a bussare. Magari per dirti che quella vita fatta di abitudini consolidate, di gesti ripetuti ma carichi di affetto non ci sarà mai più. E allora ti prende lo sconforto. Ma anche la voglia di non lasciarti schiacciare. Ti chiedi cosa puoi fare ancora per le persone amate che non ci sono più. A lungo abbiamo considerato la loro compagnia assolutamente irrinunciabile alla nostra vita; esse hanno contribuito a fare di noi quello che siamo. È come se avessimo un debito. Potremo mai ripagarlo? Quasi inconsciamente i gesti del due novembre rispondono a questa domanda. È il modo di tener vivo un legame; è l’esigenza di non arrendersi al fatto che la nostra vita sia possibile senza di loro, perché sarebbe come un tradimento, una smentita di tante promesse fatte, magari senza parole, quando essi erano in vita. Sono pensieri giusti, sentimenti nobili. Ma c’è qualcosa in più, qualcosa di diverso. La fede cristiana opera un cambio di prospettiva. E se fossero loro a fare qualcosa per noi? Certo il dono che vorremmo sarebbe il loro ritorno, la loro presenza. Ma può tornare indietro la storia? Abbiamo un cammino ancora da compiere, e lo compiremo con ciò che essi ci hanno dato e che ora, da risorti, continuano a darci: la forza, nutrita dalla fede, di non arrendersi a quella voce che parla della vanità inesorabile del vivere; il coraggio di fare il bene; la speranza di vita eterna. In questi giorni mi hanno regalato una frase di Italo Calvino. Sono le parole con cui si chiude il bel libro “ Le città invisibili ”. L’ho letto due volte, ma non avevo evidenziato questa frase. Ci vuole sempre qualcuno che ti apra gli occhi; d’altronde a questo servono gli amici: “… l’inferno lo abitiamo tutti i giorni … Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”Ecco abbiamo ricevuto un compito.Di generazione in generazione. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 9 novembre SAN CARLO E NOI La prima lettura, tratta dal Libro del profeta Ezechiele, ci parla di una visione del profeta, in cui contempla un nuovo splendido tempio. Dalla soglia di questo tempio sgorga un’acqua che scorre verso oriente, all’inizio è poca, ma poi diventa un fiume. Il profeta spiega che quest’acqua risana: “Queste acque...sfociate nel mare, ne risanano le acque”. Si tratta del Mar Morto, la cui acqua troppo salmastra non permette la vita. È un simbolo del peccato, che porta dappertutto la morte. Invece l’acqua di cui parla Ezechiele risana le acque salmastre e vivifica: “Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo”. Inoltre, lungo il torrente l’acqua comunica la fertilità: fa crescere ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie sono utili come medicina. È un simbolo meraviglioso, che suscita in noi stima profonda per il Tempio del Signore, la sua Chiesa. Essa è l’edificio in cui i fedeli ricevono l’acqua che risana e vivifica, anzi santifica: ricevono l’acqua della grazia, attraverso i sacramenti e le celebrazioni. La seconda lettura vuole renderci consapevoli della nostra responsabilità, perché dice che noi dobbiamo costruire il santuario di Dio. Dobbiamo ciò essere conformi al dono che abbiamo ricevuto nei sacramenti che ci hanno reso tempio di Dio. Paolo ammonisce: “Ciascuno stia attento a come costruisce”. Il fondamento è sempre lo stesso, Gesù Cristo; ma sopra di esso noi costruiamo con la nostra capacità, con le nostre attività, e per questo dobbiamo fare molta attenzione, per costruire noi stessi spiritualmente, in conformità alla nostra dignità di tempio di Dio. Nel Vangelo Gesù purifica l’atrio del tempio, che da luogo di preghiera per i pagani che cercano Dio e lo vogliono pregare, è stato trasformato in luogo per commerci. Questo intervento di Gesù ci dà un insegnamento molto importante: quando entriamo nella chiesa dobbiamo rispettare la santità del luogo, perché è fatto per la nostra relazione con Dio, non per i nostri interessi materiali. Siamo chiamati a un comportamento degno, privo di chiacchiere e pensieri mondani che non sono degni della nostra relazione con Dio. Oggi la nostra comunità celebra S. Carlo Borromeo, grande pastore che ha saputo essere tempio del Signore e ha fatto diventare tempio di Dio il popolo a lui affidato. San Carlo nella sua vita è stato un lavoratore straordinario e infaticabile. Il grande lavoro che ha svolto come vescovo nasceva da una preghiera profonda: molto tempo dedicato al rapporto con Cristo; questo ha reso efficace e proficuo il suo lavoro. Lo stesso ha insegnato ai suoi fedeli: amare Cristo per non costruire invano. Anche noi sul suo esempio siamo chiamati ad essere tempio accogliente dei doni spirituali di Cristo, affinché ogni nostra attività abbia da Lui il suo inizio e trovi in Lui il suo compimento. Solo così non faticheremo invano, ma costruiremo qualcosa che renda migliori le nostre vite, che duri nel tempo e porti frutti di vita eterna. Don Stefano e Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 16 novembre UNA PARABOLA MORTIFICATA

(Mt 25, 14-30)

Diciamo “talenti” e subito pensiamo alle nostre capacità. Leggiamo “parabola dei talenti” e istintivamente voliamo alla morale del racconto: bisogna mettere a frutto le nostre potenzialità, pena il fatto che Dio si arrabbi con noi. Sarà per abitudine, o sarà conseguenza della formazione ricevuta, non lo so. Ogni tanto però è necessario uscire da certi “clichés”. Il rischio infatti è quello di mortificare la parabola, di indebolirne la portata e l’effetto sorpresa, direi la provocazione, che Gesù intendeva arrecare. Pensiamo anzitutto alla quantità dei beni lasciati dal padrone: cinque talenti erano equivalenti a circa 170 chili d’oro! Ma chi mai farebbe una cosa del genere? E per tanto tempo poi, perché quel padrone tornò “molto tempo dopo”. Ma anche l’atteggiamento dei primi due servi: chi ha chiesto loro di far fruttare i talenti? Non certo il padrone. E se le loro spericolate operazioni non fossero andate a buon fine? Così pure il comportamento del terzo servo: era una legge biblica a prescrivere di sotterrare un pegno ricevuto. Nell’intento di custodirlo e preservarlo. Cosa ha fatto quest’uomo di male? Non ha rubato ne’ smarrito niente. Perché trattarlo così, come un delinquente? E poi questo padrone, ma vogliamo dirne qualcosa? Lo associamo sempre, e con disinvolta abitudine, a Dio stesso. Ma uno che punisce in quel modo, che “miete dove non ha seminato”, cosa c’entra con il Padre Misericordioso predicato da Gesù? Perché questa prevaricazione? Si capisce quindi che la parabola non vuole solo offrire una morale, ma essa vive delle continue reazioni di chi la ascolta. La parabola scombina i pensieri, rimette in gioco le consuetudini e ti lascia con domande irrisolte. Chiaro che per noi che predichiamo è molto più semplice dire “Ecco, quali talenti ti ha dato il Signore? Mettili a frutto!”. Però è anche noioso. Almeno, io mi annoio. Più stimolante (e più giusto) dire che i talenti sono l’annuncio del Regno fatto da Gesù, i suoi miracoli, le sue azioni, le sue parole, il suo modo di rivelare il Padre. A tutti è consegnato questo volto di Dio paterno e compassionevole. Così grande e libero che se ne va lontano, cioè non ti sta col fiato sul collo, non ti assilla di continuo come il padrone di una azienda che decide di ogni minima quisquiglia. Se questo volto lo accogli, se entri nel Regno e te ne senti parte allora porterai frutto. Se te ne approfitti, se nascondi sotto terra questo Volto che ti provoca di continuo e resti ancorato al volto del Dio giudice e legislatore (molto più comodo) allora Dio ti tratta alla pari: con la stessa misura con cui tu l’hai misurato nella vita anch’egli ti misurerà. Se la religione del sospetto e della paura genera la scelta dell’egoismo e dell’inerzia, meglio abbandonarla in fretta. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2014


Domenica 23 novembre ASSOPITI O SALVATI

Cristo Re (Mt 25,31-46)

Ancora il giudizio universale. La scena si ripete: poche settimane orsono l’abbiamo meditato nella liturgia della commemorazione dei defunti. ”Repetita juvant” dice il proverbio latino, le cose ripetute giovano. Ci giova tornare su questa pagina perché sul tema del giudizio siamo come addormentati. Il sonno di chi non pensa e non riflette; il sonno di chi non vigila e non pondera la qualità dei gesti che compie. Non so voi, ma io mi reputo un sonnolento, uno che sta lì, sempre sulla soglia dell’assopimento spirituale. Ci vuole un attimo a sprofondare: dipende da noi, ma anche dallo stile di Dio. È scritto infatti nel Vangelo di oggi “Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua gloria …” E il verbo è al futuro: “verrà”. Non “viene oggi” il Signore nella sua gloria. La sua gloria oggi è nascosta. Dio non ha manifestazioni evidenti, chiare e gloriose. Forse sarà questo a farci appisolare: Gesù non lo vedi, la sua gloria non la vedi. E nemmeno il tuo futuro vedi. Non vedi, non tocchi con mano il momento del giudizio. E così credi che in fondo non sia reale. Altre cose sembrano reali e ci assorbono completamente: provvedere alla nostra vita, sfuggire alla morte e ai suoi simboli, conservare se stessi. Sappiamo che è illusorio, eppure lo facciamo. Sappiamo che nessuno, per quanto si dia da fare, potrà riscattare la propria vita dallo strapotere della morte. Se ci fosse qualcuno che ci strappasse da questo potere! Qualcuno c’è. Qualcuno che ha detto che a certe condizioni la morte è solo un passaggio; qualcuno che ci strappa dalla sua tirannia per farci entrare nella condivisione di un regno. “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere …”. Eccole le condizioni, ecco le opportunità per guadagnarsi la vita! Ogni giorno noi sperimentiamo la regalità di Cristo, perchè ogni giorno ci viene offerta la salvezza. Quando infatti aiutiamo chi è nel bisogno chi si salva in realtà? Chi sperimenta la salvezza, colui che riceve il beneficio o colui che lo opera? Avremmo bisogno di farli più spesso questi pensieri per uscire dalla sonnolenza. Avremmo bisogno di considerare attentamente l’esito finale della nostra vita terrena.Magari per scoprire che anche la gloria di Dio non è poi così nascosta: è nel corpo dei malati, è nel cuore di coloro che sono soli, è nella vita di quelli che non hanno niente. Don Umberto e Don Stefano

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 30 novembre

1a di avvento

SCEGLIERE L’ATTESA

(Mc 13, 33-37)

“Vegliate!” Possiamo dire di interpretare fedelmente queste parole che Cristo ci ha lasciato? Vegliare è un modo di esercitare l’attenzione. A cosa? Consideriamo la nostra vita: a cosa siamo attenti? Certamente alla nostra salute; a cosa mangiamo e beviamo, a coprirci se fa freddo, a non esporci a inutili pericoli. Poi siamo attenti al nostro denaro, a come lo usiamo, a non sperperarlo, a capire se ci basterà. Poi ancora siamo attenti alle persone care, ai figli soprattutto, o ai genitori se sono anziani. Ciascuno sa, in cuor suo, a cosa è attento e quali sono le sue priorità. Ma se dicessi (e in fondo è il Vangelo a dirlo): “poniamo attenzione ai segni della presenza di Dio”, la cosa diventerebbe un po’ più complessa. Ci sentiremmo quasi smarriti perché l’invito sembra un tantino retorico e astratto. Eppure proprio questo è il messaggio dell’Avvento: è un tempo che ci ricorda che il cristiano è il contrario di chi non aspetta più niente dalla vita, l’opposto di chi non volge più il suo cuore a niente e a nessuno. E la pagina evangelica di oggi sembra offrirci anche il contesto adatto a vivere questa attesa: ci paragona infatti a dei servi che hanno ricevuto ciascuno il proprio compito. È un’immagine che richiama la quotidianità, gli impegni di ogni giorno, le cose che facciamo abitualmente perché sono l’ordinario della nostra vita. Queste sono le situazioni in cui essere attenti alla presenza di Dio. Succede spesso di sentirsi troppo presi dalle cose da fare; succede di smarrire la direzione a forza di correre e di non riflettere più sul senso di quel che facciamo. Ecco allora che la veglia a cui Gesù ci richiama ha il sapore di una riscoperta di senso; ha il tono sapienziale di chi si fa le domande giuste, non necessariamente insistenti, ma ogni tanto ripetute, perché dalle risposte a queste domande dipende tutta la nostra vita. “Nella notte o Dio noi veglieremo” dicono le parole di un canto. Certo, nella notte dell’affanno per gli impegni quotidiani, nella notte della vita che ci scorre addosso, noi veglieremo chiedendoci dove stiamo andando e troveremo risposta nella Parola del Signore, meditata nella preghiera e celebrata nella liturgia. Non subiamo l’Avvento. Scegliamolo.

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto e Don Stefano

“La Via” raccolta 2014


Domenica 7 dicembre AL CONTRARIO

2a di Avvento (Mc 1, 1-8)

C’è qualcosa di insolito nelle parole e nei gesti del Battista. Per ascoltarlo, per vederlo, bisogna andare nel deserto; precisamente bisogna uscire dalle città o dai giardini ed andare verso il deserto. Questo cammino è esattamente il contrario di quello compiuto dal popolo di Israele che invece attraversò il deserto per giungere alla Terra promessa e stabilirsi nella città. Sembra un invito a ripercorrere il cammino all’indietro, un invito a tornare alle radici. Ma perché Giovanni sta nel deserto? Non sarebbe meglio parlare in quei luoghi dove la gente vive, dove si dipanano le vicende quotidiane delle persone? Niente da fare: il Battista si ferma nel deserto. Forse si era convinto che la Terra della promessa non era quella già raggiunta; era infatti troppo simile a qualunque altra terra abitata dagli uomini. Ci voleva un’altra terra, dove davvero fosse possibile vivere in compagnia di Dio e praticare la giustizia. E per raggiungere quella terra occorreva curare i cuori, non solo il terreno. Occorreva conoscere la qualità dei pensieri e dei desideri e così maturare attese diverse da quelle della maggioranza della gente. Anche questo era il contenuto del suo pressante invito alla conversione: cambiare gli atteggiamenti non serve se non cambia il cuore. Le città, la Terra promessa, correvano troppo il rischio di appagare le persone, di appesantire lo stile di vita, di portare a pensare il superfluo come necessario. C’è davvero il bisogno di un ritorno al deserto. E per noi oggi? Riappropriarsi dello spirito del deserto e non lasciarcelo portare via significa tutelare le priorità di ciò che è essenziale, contemplando ancora una volta il Battista e i suoi gesti esagerati.Come quello dell’acqua. Nel deserto è la cosa più preziosa. Eppure lui la usa per battezzare. Sembra uno sciupìo fuori luogo, una cosa insensata. C’è un bisogno primario, la sete, e quest’uomo si preoccupa di battezzare! Forse abbiamo normalizzato troppo questa prassi del Battista; con distratta abitudine ne abbiamo smarrito il carattere di segno forte. Esistono necessità meno evidenti ma più profonde, nascoste nel cuore dell’uomo: per queste egli usava l’acqua. Per rilanciare, con il perdono dei peccati, il desiderio di Dio; che questa immagine ci interroghi sulle priorità che stiamo dando in questo tempo d’Avvento è cosa evidente e sotto gli occhi di tutti. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 14 dicembre “PER FORZA DI LEVARE”

3a di avvento (Gv 1, 6-8-19-28)

Tu chi sei? La logica del mondo dice: sei ciò che produci, sei il tuo conto in banca, sei ciò che appari, sei ciò che guadagni, sei ciò che guidi, sei ciò che gli altri considerano di te. E’ una corsa ad aggiungere sempre più qualcosa che ci qualifichi. Anche nella Chiesa. Se hai i titoli ti ascoltano, se no non sei nessuno. Sembriamo persone “addizionali” cioè bisognose di sempre maggiori riconoscimenti, di sempre maggiori gratificazioni: andare più su,sempre più su. E poi, se sei cristiano, ti ritrovi di fronte Giovanni Battista che, quando gli hanno chiesto “tu chi sei” ha cominciato a sottrarre. Ha risposto dicendo tutto ciò che lui non era. Ha tolto da sé tutto il possibile, tutte le inutili definizioni, tutte le ambigue caratteristiche, tutto ciò che la gente si aspettava. Per dire l’essenziale. E basta. Viene in mente l’arte di Michelangelo il quale non amava per niente quegli artisti che realizzano le loro opere per sovrapposizione di materia. “Io - diceva - intendo scultura quella che si fa per forza di levare, per togliere il superfluo dalla materia”. Viene in mente (in questo periodo di tanti funerali) la logica inesorabile del tempo: ogni giorno non aumenta, ma diminuisce l’estensione della nostra vita. Sembra proprio che la verità delle cose, la verità di sé, la si raggiunga solo per sottrazione. Cosa resta allora del Battista? Egli è solo una voce. Non parola, ma voce. La Parola appartiene ad un Altro. La voce è solo uno strumento, prestato, messo a disposizione della Parola. Così fu, per Giovanni, la sua breve vita. Un tempo nel quale indicare la direzione in cui guardare, un tempo per incarnare un messaggio che andava ben al di là di lui. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di relativismo nella Chiesa. Relativismo dei pensieri e dei comportamenti. Ma siamo noi stessi ad essere relativi; relativi al mistero di Dio più grande di noi e del quale noi siamo strumenti prestati alla vita di altri. Le vicende del Battista, la sua logica di sottrazione ci parla e ci dice che non siamo al centro. Non siamo al centro della vita degli altri, del nostro coniuge, dei nostri figli, dei nostri genitori, della società o della parrocchia. Al centro c’è Lui. Anche se tornerà a nascere in una periferia remota proprio per ricordarcelo.

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto e Don Stefano

“La Via” raccolta 2014


PREGHIERA: Dio dei nostri padri, riempici della Scienza della Croce, di cui hai mirabilmente arricchito Santa Teresa Benedetta nell’ora del martirio, e per sua intercessione concedi a noi di cercare sempre te, somma Verità , e di rimanere fedeli fino alla morte all’allenza eterna di amore, sigillata dal tuo Figlio con il suo sangue per la salvezza di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore. Amen. S. Teresa Benedetta della Croce Patrona della nostra parrocchia

PREGA PER NOI

Roveleto di Cadeo Piacenza


Bibliografia: Raccolta 2008

“ Lungo la Via del Vangelo “

Raccolta 2009

“ In Cammino con la Parola “

Raccolta 2010

“ Tracce di un cammino “

Raccolta 2011

“ La parola che apre alle parole “

Raccolta 2012

“ Ascoltate e vivrete “

Raccolta 2013

“ Una parola ha detto Dio, due ne ho udite”

tutte le raccolte sono consultabili su sito al seguente indirizzo : www.parrocchiaroveleto.it


grafica C. & C.


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