La via raccolta 2015

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Santa Teresa benedetta della Croce Parrocchia Roveleto di Cadeo Raccolta “ La Via 2015”

L’eco del silenzio il suono della Parola

S.Teresa Benedetta della Croce Parrocchia Roveleto di Cadeo Piacenza


Domenica 16 dicembre 2007

prima uscita

LA VIA L’IMPORTANZA DEL NOME L’intuizione è arrivata da una constatazione immediata: Roveleto e Cadeo sono attraversati dalla via Emilia che è la croce e la delizia dei nostri paesi. Crea magari un po’ di traffico, ma garantisce la vitalità dell’ambiente e anche la funzionalità di esercizi commerciali. Evidentemente però non è questa la motivazione portante della scelta di questo nome. In realtà bisogna cercare il motivo direttamente nel Nuovo Testamento. La VIA era infatti il nome con cui era chiamata la prima comunità cristiana. Quando S. Paolo, negli Atti degli Apostoli, racconta la sua conversione, dice di aver perseguitato accanitamente ”questa nuova via” riferendosi al cristianesimo. (At 22, 4 ) I cristiani stessi erano chiamati, nel 1° secolo, “quelli della via”. Tutto questo è spiegato molto bene dal priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, nel suo libro “La differenza cristiana”. A me pare stimolante pensare che, mentre in quei secoli tutti i sistemi di pensiero o le religioni venivano chiamate “dottrine”, il cristianesimo fosse chiamato “VIA”. Essere cristiani non è infatti questione di imparare una lezione, o di usare solo la mente per idee astratte. La fede cristiana è un’esperienza di vita, un luogo dove incontrare persone, stabilire rapporti, proprio come su una via. Siamo in cammino, mai fermi, esattamente come gli angeli che Giacobbe vide salire e scendere sulla scala (Gen 33 ). Per questo il nome “la via” mi è sembrato quanto mai azzeccato: siamo anche noi come la prima comunità cristiana, entusiasti dell’incontro con Gesù e i fratelli e mai sazi, mai arrivati, mai chiusi a quelle novità che lungo la strada Dio ci farà trovare. don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”


Parrocchia S.Teresa Benedetta della Croce

EDITH STEIN nasce a Breslau da famiglia ebrea – 1911-13: diploma di maturità, perdita della fede, studi universitari a Breslau (germanistica, storia, psicologia) – 1913-15: studi a Göttingen sotto il prof. Edmund Husserl (filosofia) – 1915: esame di Stato, lavora come volontaria nella Croce Rossa tedesca – 1916: dottorato in filosofia «summa cum laude». – 1916-18: assistente di Husserl a Friburgo/Br. – 1922: battesimo nella Chiesa Cattolica, prima comunione, confermazione – 1923-31: insegnante presso il liceo femminile e l’istituto di formazione per insegnanti delle Domenicane di Spira – 1928-33: conferenze in patria e all’estero, attività di scrittrice, insegnante presso l’istituto tedesco per la pedagogia scientifica di Münster – 1933: ingresso nel Carmelo di Colonia con il nome di Teresa Benedetta della Croce – 1938: trasferimento al Carmelo di Echt, Olanda – 1942: arresto, deportazione, uccisa ad Auschwitz in odio alla fede cristiana (9 agosto) – 1962: inizio del processo di beatificazione e canonizzazione – 1987, 1° maggio beatificata a Colonia dal Papa Giovanni Paolo II – 1998, 11 ottobre: solennemente canonizzata a Roma dallo stesso Sommo Pontefice.


un pensiero.... Nell’arco di questi anni abbiamo lentamente riscoperto l’importanza di essere chiesa alimentata costantemente dalla Parola di Dio. L’incontro con la parola è un incontro decisivo che ci consente di guardare oltre le nostre fragilità. Di fronte ai nostri limiti e alle miserie della vita possono maturare in noi sentimenti di inadeguatezza, impotenza, rabbia o rassegnazione. La Parola di Dio al contrario dischiude il nostro cuore a quella grazia che è in grado di trasformare la nostra vita in una incredibile opportunità. Solo la Parola è in grado di farci cambiare prospettiva. Solo attraverso Essa ci rendiamo consapevoli che al di la dei nostri limiti noi possiamo collaborare per qualcosa di più grande. Proviamo a pensare alla vita come dono di Dio, proviamo per un attimo a pensare che mondo sarebbe se ognuno di noi potesse trasformare la sua vita in dono per gli altri. Forse è proprio questo il grande progetto a cui lentamente e liberamente siamo chiamati. Non fermiamoci troppo a guardare i nostri difetti, quelli degli altri e le storture che ci circondano. Non cerchiamo di nascondere i nostri limiti mascherandoli dietro ad alibi o a complicati ragionamenti. Non cerchiamo facili e puerili giustificazioni, ma cerchiamo con tutta la generosità che abbiamo e che deriva dal Vangelo di rendere felici le persone con cui viviamo e che incontriamo. Questo è il grande progetto racchiuso in questa Parola che Don Umberto e don Stefano così sapientemente ci amministrano durante le celebrazioni, buona lettura Stefano C.


Domenica 11 gennaio 2015 DOVE VAI SIGNORE?

Battesimo di Gesù

(Mc 1,7-11)

I magi li abbiamo lasciati in cammino, sulla strada del ritorno: prima guidati da una stella, poi dal volto di un bambino. E quel bambino lo ritroviamo uomo: anch’egli sulla strada, anch’egli in cammino. Così inizia la vita di Gesù per l’evangelista Marco, con uno spostamento: “Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano”. Lo so, oggi dovrei riflettere sul battesimo, ma mi insegue questa immagine di Gesù che cammina, che si sposta. Provate a leggere il Vangelo di Marco tutto d’un fiato (ci vogliono un paio d’ore). Ecco, se lo fate avrete la sensazione di uno spaesamento perché Gesù si sposta in continuazione passando dai luoghi deserti alle case, dalla via alla sinagoga, dalla riva del lago alle colline. Leggi, leggi e ti sembra di non afferrarlo mai, ti sembra che sfugga sempre e che ciò che puoi capire e dire su questo uomo di Nazareth sia sempre in ritardo rispetto a Lui. Quasi ti costringe ad essere continuamente in movimento anche tu Ti pare che se ti fermi non ne cogli il mistero, non ne assapori la vita. E alla fine, di fronte a una tomba vuota, ti chiedi dove sia e perché si sposti così di continuo. Anche grazie a queste domande il valore del suo Battesimo appare più chiaro. Perché Gesù venne alla riva polverosa del Giordano assiepata di peccatori in cerca di perdono? Per condividere la loro sorte; per stare, senza enfasi, nella loro condizione ed esprimere così la sua vicinanza. Sarà il tratto distintivo della sua vita: amico di pubblicani e di donne di strada; camminatore alla ricerca di volti. Sempre in movimento per andare dritto alla porta dell’umano. E la porta dell’umano è il volto. Per questo amava i peccatori: volti che nessuno più guardava; e quando un volto non è abituato ad essere guardato ti ascolta molto di più quando gli parli.Il suo perenne andare, senza sosta, da un villaggio all’altro aveva un segreto. Anche il suo essere così prodigo di sguardi, di parole, di gesti aveva un segreto.Fu il Battesimo il suo segreto. La certezza che c’era un volto inciso nel suo cuore: quello del Padre. A volte penso che questa paternità celeste gli abbia conservato il cuore di bambino. E nella preghiera chiedo la stessa empatia per tutto ciò che noi poveri uomini siamo in grado di vivere. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 18 gennaio 2015 UN POMERIGGIO QUALSIASI

(Gv 1, 35-42)

L’annotazione dell’ora. È così raro nel Vangelo che venga detta l’ora di un episodio che non possiamo non raccogliere il messaggio di questa scelta. Tanti anni fa, in una delle parrocchie in cui sono passato trovai un orologio da muro in una vecchia scatolone contenente materiale destinato al macero. Era fermo sulle quattro. Subito collegai quella scena all’episodio in cui si racconta la chiamata dei primi discepoli: “erano le quattro del pomeriggio”, dice il testo evangelico. Decisi che quell’orologio non meritava la discarica. Troppo preziosa la coincidenza per non raccoglierlo e tenerlo, da allora, appeso in casa.Chi lo vede, giustamente pensa che sia fermo. Forse è solo la memoria che è ferma, ferma come sempre dovrebbe essere la memoria ai momenti decisivi della vita. Per i due discepoli, Andrea e suo fratello, era un pomeriggio come tanti, un’ora qualsiasi del giorno.E si sentirono rivolgere una domanda: “che cercate?” Ci sono domande che non vuoi sentirti fare; ci sono domande che comporterebbero risposte di cui hai paura; ci sono domande in grado di mettere a soqquadro una vita intera. Certamente le puoi anche ignorare, puoi far finta di non sentirla quella voce che ti chiama. E ci sono tanti modi per non sentirla. Ci si può riempire il tempo di cose da fare con l’alibi che dobbiamo correre di qua e di là e non dipende da noi. (quando sappiamo benissimo che il tempo è in gran parte frutto delle nostre scelte) Oppure ci si può affezionare alle proprie quotidianità, alla normalità dell’esistenza, a quella tranquillità lineare a cui si è disposti a sacrificare tutto. E questa affezione diventa morbosa quando ogni piccolo cambiamento è avvertito come un pericolo. A certe condizioni è difficile accogliere il passaggio di Gesù nella vita. Le resistenze del nostro appagamento o delle nostre paure sono montagne da scalare anche per Lui. Ma non è tipo, il Signore, da darsi per vinto. Non vuole privarci della gioia di trasformare un pomeriggio qualsiasi in un’ora che resti impigliata nella nostra memoria. La voce che chiama è pur sempre viva e lo fa in modo inaspettato. Lo fa come se fosse di passaggio; o lo fa di notte come accaduto per Samuele. Lo fa, si fa sentire e se gli dai retta le cose poi non sono più come prima. Sono sempre migliori. Don Umberto Don Stefano

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Domenica 25 gennaio 2015

S. Agnese

RINUNCIARE PER SEGUIRE La Parola di oggi è centrata sulla vocazione battesimale, che per ogni cristiano implica la collaborazione con la vita di tutti i giorni alla testimonianza del Vangelo, con le parole e le opere. Nel testo del Vangelo la vocazione è sguardo del Signore sull'uomo. Nella vocazione il chiamato si sente abbracciato, nel proprio presente, passato e futuro, dallo sguardo del Signore, interpellato dalla sua promessa. Il chiamato, come Giona, accetta di lasciare entrare nella propria vita la novità di Dio e di rispondervi senza tergiversare, senza porre condizioni, senza predeterminare le prestazioni: si tratta di seguire Cristo e basta, senza sapere prima dove questo potrà portare e cosa comporterà. La vocazione cristiana, che ha la sua figura necessaria e sufficiente nel battesimo, non si colloca sul piano del fare, ma dell'essere. Dal proprio modo di essere con Cristo nascono la testimonianza e l'annuncio. La Chiesa non annuncia sé stessa, ma il regno di Dio. Predica autenticamente la Parola chi la ascolta e vi si sottomette fino a diventarne servo e testimone. I credenti, pellegrini nel tempo, proclamano la provvisorietà della propria condizione e il suo assorbimento nel Regno futuro verso cui sono incamminati. Predicare il Vangelo di Dio significa discernere il senso della vita alla luce del mistero pasquale di Gesù. L'annuncio cristiano proclama che Dio in Gesù Cristo cerca e raggiunge l'uomo nel suo quotidiano, attesta il primato dell'iniziativa e della misericordia di Dio, ma comporta anche la richiesta delle esigenze del Regno: conversione e fede. Dunque: cambiamento di vita, coraggio di riconoscere che la strada che si sta percorrendo è sbagliata e ritornare, correggere la direzione di marcia; quindi fede, adesione a Gesù Cristo, quale Signore della propria vita e della storia. La vita di S. Agnese martire è un esempio che sintetizza tutto questo. Ella si diede completamente a Cristo, vivendo con amore verso di lui ogni cosa, accadimento e relazione delle sue giornate. Questo mettere Gesù prima di tutto e in ogni cosa l'ha portata a usare le realtà del mondo come se non ne usasse pienamente. Era pienamente consapevole che tutto passa sulla scena di questo mondo e che solo l'amore di Dio resta. Da qui nascono il coraggio e la forza per affrontare il martirio, perché anche la vita nel mondo è relativa e non è preziosa come vivere nell'amore di Cristo. La comunione di vita viva e fedele con Gesù possa aiutare anche ciascuno di noi a dire con le parole e le opere che tutto nel mondo passa, solo ciò che è stato fatto per amore di Dio e verso il prossimo rimane per sempre.

Don Stefano e Don Umberto

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Domenica 1 febbraio 2015 PAROLE CHE SALVANO PAROLE DA CUI SALVARSI? (Mc 1, 21-28) È il primo miracolo di Gesù. Meglio, il primo segno. Ed è accompagnato da una parola perentoria: “Taci!” Mi colpisce questo confronto fra la forza della parola del Signore e la necessità assoluta del tacere e del silenzio. L’imperativo di Gesù è rivolto allo spirito impuro ma riguarda in realtà tutte quelle voci negative che ci disturbano, ci avviliscono e ci allontanano da Dio. Sono le stesse voci che interferiscono con un ascolto vero dell’unica Parola che è in grado di salvarci. Il nostro mondo si segnala per un eccesso di parole. Parole ovunque e con ogni mezzo: parole vuote, retoriche, stanche. Oppure parole aggressive, dure, taglienti e polemiche. Pare di essere di fronte ad un diluvio di parole da cui salvarsi. E invece la parola di Gesù era detta con autorità: non “da una autorità”, ma aveva dentro una autorità. Significa che faceva sussultare, faceva pensare, faceva crescere. Noi abbiamo ridotto la parola “autorità” ad una idea di qualcosa che limita, che chiude, che vincola. Tutto il contrario dell’autorità di Gesù: nella sua parola c’è la forza di generare, di fermentare, di lievitare. Credo che non ci si interroghi mai abbastanza sulla qualità delle nostre parole e del nostro ascolto.Ad un personale esame di coscienza mi scopro essere un uomo che abusa delle parole, che ne fa uso fin troppo spesso e in modo ripetitivo, a volte retorico. Scopro che anche tante parole ascoltate non mi fanno per niente sussultare. Mi chiedo se la preziosità di una parola non dipenda anche dall’intensità di chi la ascolta, dal desiderio reale di gustare qualcosa che possa portare salvezza. E ritorno con l’immaginazione a quel remoto sabato in cui Gesù entrò nella sinagoga .La gente si stupì del suo insegnamento e delle sue parole perché le desiderava.Da troppo tempo risuonava il parlare degli scribi; un parlare vuoto, un elenco di cose da fare, un suono senza brividi. Ad alcuni, parole così vanno bene: a quelli che non vogliono fastidi, a quelli che amano il quieto vivere, a quelli che vogliono solo essere confermati in ciò che già pensano.Ma ad altri no. Altri capiscono che il gusto della vita dipende da quanto ti lasci scuotere e da quanto ti rimetti in gioco. Spero che possiamo ritrovarci in questa seconda categoria di persone. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 8 febbraio 2015

S.Biagio

SENZA FIATO MA CON AMORE

(Mc 1, 29-39)

Narra la leggenda che S. Biagio guarì un bambino a cui una lisca di pesce non permetteva più di respirare. L’analogia è un po’ forzata, lo riconosco, ma questa immagine della mancanza di fiato mi fa venire in mente la nostra giornata spesso trascorsa nell’affanno. E penso alla giornata di Gesù.Il brano evangelico di oggi proprio con questo titolo viene identificato dagli studiosi: “una giornata tipo di Gesù”. Lo leggi e hai l’impressione che per certi versi assomigli alla nostra: tanti, tantissimi impegni, molti incontri, un ritmo frenetico. E quasi ci sentiamo riconciliati con la nostra giornata strapiena, in cui andiamo di corsa con la sensazione di non arrivare mai a tutte le cose a cui dovremmo arrivare.Vediamo Gesù completamente immerso in tutti i luoghi: la sinagoga, la strada, la casa, la porta della città … Gesù non ha evitato l’immersione e per questo è giusto che anche noi la viviamo a fondo, senza sconti. Gesù si è immerso, ma non si è lasciato sequestrare. Quando la pressione era troppa, quando le richieste erano eccessive, anche lui ha detto ai suoi “andiamocene altrove”. L’”altrove” di Gesù era innanzitutto la sua preghiera, il luogo in cui lasciar risuonare la sua interiorità di Figlio a colloquio con il Padre suo. La preghiera era condizione imprescindibile per non essere prosciugato dalle urgenze e dalle necessità. Ma era anche l’ambito in cui operare una scelta: decidere che la sua immersione e le sue giornate sarebbero state piene di gente bisognosa, di una umanità dolente e sofferente. Era questa la sua immersione preferita. Anche Gesù spesso “il male di vivere ha incontrato”; spesso ha sentito risuonare parole come quelle di Giobbe nella prima lettura: “ricordati che solo un soffio è la mia vita”. Di queste parole egli si è fatto interlocutore, e di questo modo di vivere si è reso compagno di viaggio. Era la forza della sua vicinanza ad operare guarigioni. E nessuno di noi può dire che non ci sia niente da guarire nella propria vita, soprattutto dentro di noi.Guarire dalle paure che ci abitano, dall’egoismo che ci muove, dall’indifferenza dietro alla quale ci nascondiamo. Guarire per vivere davvero. Solo Gesù, maestro immerso nella vita di ogni giorno, potrà farlo per noi. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 15 febbraio 2015 OSARE

(Mc 1, 40-45)

In ogni società l' ordine è garanzia di sicurezza. E perchè ci sia ordine bisogna che ciascuno rispetti il suo ruolo e rimanga al suo posto. È così ai giorni nostri, dove le città che sembrano ordinate nascondono veri e propri ghetti, ed era così ai tempi di Gesù. I lebbrosi in particolare avevano il loro posto preciso: ai margini. Fuori dal villaggio, in luoghi deserti, senza alcuna possibilità di relazione. Troppo pericolosa la loro presenza, così pericolosa da motivare la loro esclusione con una ragione religiosa: maledetti da Dio. Giustificare le proprie paure, addirittura rinvigorirle tirando in ballo il Padreterno è un vizio che non ci siamo ancora tolti. Questa comunque era la prassi, queste le regole e guai a trasgredirle. Se non fosse che tra i tanti lebbrosi che accettavano questa umiliazione ( non bastasse già la sofferenza), ce n'era uno che osò sfidare le convenzioni, osò rompere le regole. I lebbrosi dovevano invitare gli altri a stare alla larga, a non avvicinarsi; invece il nostro va dritto da Gesù e cerca un incontro con lui. Tutto il contrario di quel che andava fatto! Mi piace pensare che anche per questo Gesù ne ebbe compassione. La compassione non è pietà, è un soffrire insieme all'altra persona anche a motivo dell'empatia che si ha con lei. E con uno che va al di là delle convenzioni Gesù non poteva non essere in sintonia. Perchè Gesù è stato un uomo dai continui sconfinamenti: dalle sue guarigioni in giorno di sabato alle sue parole, dal lasciarsi toccare da una donna peccatrice al lavare i piedi ai suoi discepoli. Sempre al di là delle regole, al di là della prudenza e del buon senso. Forse per questo l'hanno fatto fuori. E anche quel giorno fu così: per guarirlo Gesù lo toccò e non ne aveva bisogno. Normalmente bastava la sua parola a guarire. Ma stavolta no. A chi aveva osato bisognava rispondere con un gesto che osasse altrettanto, che osasse il contagio, che sfidasse la paura e le maldicenze successive della gente: Gesù è impuro! Ha toccato un lebbroso! Ma se si ama qualcuno senza rischiare niente che amore è? Sono convinto che quel giorno il lebbroso comprese che essere amato era tanto prezioso quanto l'essere guarito. Le nostre regole, le nostre convenzioni ci servono. Danno ordine alla vita, alla società, alla chiesa. Ma a volte infrangerle, osare superarle, è la via per trovare la salvezza di un amore più grande. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 22 febbraio 2015 INIZIARE DAL DESERTO

prima di Quaresima

(Mc 1, 12-15)

Nella versione di Marco il racconto della prova di Gesù nel deserto è molto breve. La sua forma stringata e laconica ci porta a dare un peso specifico importante alle singole parole. Ce n’è una tra esse che si ripete due volte e, sorprendentemente, non è la parola tentazioni ma la parola “deserto”. Non si vuole quindi offrire un insegnamento sulla tentazione per avvertire quali sono i rischi e i pericoli di cadere in essa quanto piuttosto offrire l’occasione di riflettere sul perché Gesù rimanga così a lungo nel deserto. Subito dopo il suo battesimo Gesù potrebbe iniziare la sua missione, ma in realtà occorre un passaggio fondamentale, occorre un momento cruciale da affrontare: il deserto.I padri della Chiesa dicevano che il Signore andò nel deserto perché è proprio nel deserto che abita l’uomo.Il deserto è un luogo invivibile, inospitale perché popolato di bestie selvatiche.E ciascuno di noi ha un deserto dentro di sé. Abbiamo tutti una parte della nostra vita dignitosa e presentabile, forse piacevole, se non altro non fastidiosa.Ma ne abbiamo anche un’altra un po’ meno presentabile.Abbiamo zone desertiche, popolate da quelle bestie interiori che sono i pensieri negativi; parti della nostra vita e della nostra storia ancora irrisolte e trascurate. Anche la terra diventa deserto allorché l’uomo la trascura.Ecco, proprio in quelle parti di noi vuole venire il Signore. Quei quaranta giorni furono necessari a Gesù per scegliere il suo campo d’azione, le sue priorità. Tutto ciò che nella nostra vita è presentabile, giusto, sano, decente..., tutto questo non è oggetto delle attenzioni di Gesù. Ciò che invece vorremmo nascondere Egli lo ama. Perché quando ami qualcuno in ciò che di negativo ha, lo ami davvero e per sempre. Detto così sembra facile, sembra quasi una poesia che addolcisce il cuore. In realtà è una lotta. Nessuno è disposto a lasciarsi toccare le ferite; nessuno vuole che il Signore, attraverso i fratelli, entri nelle zone buie della propria vita. Ecco perché nel deserto Gesù trova l’opposizione di Satana. Egli è colui che ostacola la salvezza cercando di tirare Gesù dalla sua parte, tenendolo così lontano dal cuore dell’uomo. La Quaresima è il tempo di questa lotta e le armi che abbiamo a disposizione sono la preghiera, la carità, il digiuno. Esse servono a smontare le nostre resistenze, a renderci malleabili, a permettere a Gesù di entrare davvero dentro di noi perché gli angeli si possano affiancare alle nostre bestie selvatiche. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 1 marzo 2015

seconda di Quaresima

CAMBIARE O TRASFIGURARE?

(Mc 9,2-10)

“Il suo volto cambiò di aspetto”. Così gli evangelisti descrivono l’episodio della trasfigurazione che caratterizza questa seconda domenica di Quaresima. Gli apostoli videro questo cambiamento, ma fu questione di un attimo. Poi scesero dal monte alla normalità della loro vita. Avrebbero forse voluto che le cose cambiassero, avrebbero voluto fare tre capanne e fermare per sempre quell’istante di beatitudine, ma non fu così. Capirono che non era questione di cambiare le cose ma di trasfigurarle. Viviamo in una stagione in cui sembra che si possa cambiare tutto come si vuole. C’è una grande ossessione di cambiamento. Ma, realisticamente, quante cose possiamo cambiare? Possiamo cambiare il nostro carattere? E quello degli altri? Possiamo cambiare la mentalità dominante? Possiamo cambiare la vita della Chiesa? Forse vorremmo farlo, ma non ci riusciamo. A mala pena modifichiamo qualcosa di secondario o periferico. Più ci nutriamo di ideali e più sperimentiamo uno scoraggiamento, una sorta di disillusione. C’è chi di fronte a tutto ciò sprofonda in una rassegnazione passiva, cosicché alla fine sono le cose della vita a cambiare lui e non viceversa. A noi cristiani però è offerta una alternativa: trasfigurare. Significa scorgere una traccia di luce persino nella situazione più opaca e scoprire che quella luce è solo un anticipo di tutto il bene che è nel nostro destino di figli dell’unico Padre. Gesù si trasfigurò davanti ai suoi discepoli proprio per rendere più salde le motivazioni della loro sequela in un momento di grande difficoltà. Senza motivazioni profonde è difficile infatti accettare la realtà quando è frustante, è difficile fare scelte importanti. Ma da quel giorno i discepoli seppero anche chi realmente era il loro Maestro e quale destino di gloria li attendeva. Ripresero la vita di sempre, tornarono a fare errori, ma con una luce diversa nel cuore. Ci venga data questa luce, per cambiare le cose che possiamo cambiare, trasfigurare quelle che non possiamo cambiare e saper distinguere le une dalle altre.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 8 marzo 2015

terza di Quaresima

UN DIO LIBERO PER UOMINI LIBERI

(Gv 2,13-25)

Un’ora dopo avevano già ripreso il loro posto nel tempio. I venditori e i cambiavalute intendo. Non so quanto il gesto di Gesù abbia avuto un effetto permanente. È come quando chiedi il silenzio ad un gruppo di ragazzi: dura pochi minuti e poi tutto riprende da capo. Gesù non poteva certo cambiare le abitudini del culto e nemmeno bloccare il flusso di una economia ambigua. Non poteva creare una nuova legge e forse non era nemmeno sua intenzione farlo: a lui interessavano i cuori. Per questo il suo gesto ebbe un carattere profetico: apparentemente inefficace, in grado di far sorridere gli scettici, ma in realtà capace di scuotere, di risvegliare, di mettere in moto le forze interiori che interpellano la libertà. Anche noi guardiamo Gesù e gli chiediamo: che cosa devo purificare nel mio cuore?Dalla mia persona, autentica casa di Dio, che cosa devo togliere come se fosse lievito vecchio?Io penso che da questa pagina evangelica emergano due risposte.Anzitutto l’appello a liberarci dai propri interessi personali come criterio unico e definitivo del rapporto con Dio e di conseguenza con gli altri.Se c’è un modo di rovinare tutte le relazioni è quello di viverle cercando a tutti i costi di trarne un vantaggio.È ciò che facevano i venditori nel tempio: apparentemente con il loro operato favorivano i sacrifici, quindi il culto all’Altissimo; in realtà cercavano solo di tutelare il proprio guadagno. È la reiterata e persistente ipocrisia religiosa ancora tanto viva oggi. In secondo luogo, tra le righe, il Vangelo ci invita a liberarci da una errata immagine di Dio. Se abbiamo bisogno di comprarci i favori di Dio (ieri con i sacrifici al Tempio, oggi con le devozioni e i fioretti) è perché ne abbiamo paura. E se ne abbiamo paura è perché lo consideriamo padrone, non padre. Il gesto compiuto da Gesù, così forte e provocatorio, era destinato a cancellare un rapporto con Dio vissuto da schiavi e non da uomini liberi. Anche la prima lettura di oggi incentrata sui dieci comandamenti ribadisce tutto questo.La parola più importante, quella che regge le altre nove, è la prima: “Io sono il Signore che ti ha liberato dall’Egitto, non avrai altro Dio”. Che significa “non avrai altro Dio che il tuo liberatore: non fare di me un Dio diverso dal Dio che ti libera, non mi ridurre a un Dio che ti rimette in schiavitù”.Al Signore Gesù che conosce ciò che c’è nel nostro cuore chiediamo la liberazione da inutili paure. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 15 marzo 2015

quarta di Quaresima

DALLA CROCE LA LUCE

(Gv 3,14-21)

Quando ancora era buio Gesù parlava con Dio. Ma a volte anche con gli uomini. A volte anche il Signore lasciava che le sue notti fossero occupate non dal sonno ma da parole vere, dette a chi ti sta a cuore. Fu così con Nicodemo; un colloquio notturno destinato ad entrare nella storia, ad essere trasmesso a generazioni di credenti come simbolo di quella ricerca spirituale, di quella lotta tra la luce e le tenebre che dà sapore all’esistenza. Il brano evangelico di oggi è parte di quel memorabile colloquio. Forse proprio perché avvenne di notte, grande è il risalto sul tema del vedere. Bisogna purificare lo sguardo, aguzzare la vista per vedere anche di notte. Ma bisogna anche sapere dove volgere lo sguardo. Le parole che Gesù disse a Nicodemo lo chiariscono anche a noi. Sono parole di luce.Luce dentro quando il buio è fuori. Lo sguardo bisogna rivolgerlo a colui che sarà innalzato da terra, al crocefisso. È solo lì che troveremo luce.Cosa pensiamo quando guardiamo il crocefisso? Certo la risposta è estremamente personale, ciascuno ne ha una nel profondo del cuore.Quando contemplo questo miracolo delle braccia aperte del Signore io penso a quanto sia vulnerabile l’amore. La croce ci parla di questa vulnerabilità di Dio e degli uomini. Se tu ami sei allo scoperto, puoi soffrire, anche tu sei vulnerabile. Ci sarebbe un modo sicuro, infallibile, per non soffrire, per non rimanere feriti: quello di non amare, di non esporsi facendosi una corazza. Meno male che Cristo non l’ha fatto! Ma anche altro mi affiora alla mente e mi abita il cuore se guardo Gesù in croce.Penso a quanto sia imperfetta e parziale la nostra idea di Dio, il nostro senso di onnipotenza.Gesù fu ucciso in nome di Dio, da chi pensava di essere dalla parte di Dio.Quanti danni si fanno in nome di Dio! Quanto infantile è il nostro bisogno di inquadrare Dio, di definirlo, di manipolarlo.Egli che è più grande di ogni nostro pensiero finisce chiuso nei nostri orizzonti.E la croce, per fortuna, sta lì a smentire tutto questo. Infine penso a quanta forza ci sia in quell’amore che va fino in fondo. E al bisogno che abbiamo di sapere che Dio non si tira indietro, non ci rinnega, non si allontana. Noi cristiani guardiamo uno strumento di morte e pensiamo alla vita. Guardiamo la sofferenza di Dio e pensiamo all’amore. Davvero i nostri occhi hanno trovato una luce nel buio.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 22 marzo 2015

quinta di Quaresima

SI MUORE UN PO’ PER POTER VIVERE

(Gv 12, 20-33)

Voler vedere Gesù è una richiesta legittima. Fu la richiesta dei Greci di cui ci parla il Vangelo di oggi. È la richiesta di tante persone che cercano qualcuno o qualcosa che dia senso alla loro vita, a quel che accade. Voler vedere Gesù significa voler trovare la verità, voler scoprire un tesoro prezioso, una luce che rischiari il cammino. Ma quel giorno Gesù si nascose. Non si concesse a coloro che lo volevano vedere. È come se cogliesse una ambiguità in quella richiesta. Come se fosse il frutto di una pura curiosità effimera, come quando si vuol vedere un personaggio famoso. C’era un pensiero, un presentimento nel cuore di Gesù: i Greci non avrebbero capito il messaggio centrale della sua persona. Cercavano un vincente e Gesù parla invece di seme che muore. Volevano un filosofo sapiente e Gesù narrava la follia della Croce. Ci fa effetto un Signore che si nasconde, ma in fondo anche il seme è nascosto sottoterra. Se non si nasconde, se non va a fondo non porta frutto. Ed eccola la sintesi della vita di Cristo e di ogni vita che si dica autentica: noi siamo come un seme. Più ci sacrifichiamo e più porteremo vita. Gesù interpreta le nostre diverse esperienze e offre un criterio di discernimento a partire da ciò che è stata per lui la regola d'oro per sentirsi pienamente realizzato e glorificato: « Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna». C'è un perdere che è un trovare. C'è un morire, come quello del chicco di grano sepolto nella zolla oscura, che è una nascita. E alludendo alla sua prossima fine, vede l'elevazione sulla croce come un ingresso nel mondo della gloria. Star dietro a Gesù in questa logica non è facile. Quei Greci erano in ritardo sui tempi. E dove siamo noi? Don Umberto e Don Stefano

La Via raccolta 2015


Domenica 29 marzo 2015

delle Palme

IL MESSIA SCONFITTO

(Mc 14,1-15,47)

Ci introduciamo alla Settimana Santa con la lettura della Passione secondo Marco. Ogni epoca storica, nel corso dei secoli, ha approfondito la lettura della Passione attraverso le proprie esperienze esistenziali; di volta in volta si sono spostati gli accenti, si è ricomposto il mosaico riscoprendo tesori nascosti. Mi chiedo allora che cosa si avvicini di più ai nostri tempi meditando sui gesti e sulla sofferenza di Cristo. Più si legge il Vangelo e meno ci si abitua alla fine ingloriosa del Signore. Si gustano le sue parole, ci si innamora dei suoi sguardi, si contemplano i suoi miracoli; e poi? Tutto finisce in modo fallimentare, tutti abbandonano Gesù che si ritrova sempre più solo. Che ne rimane della sua forza, cosa resta della sua capacità di salvare gli altri? Chiudi il Vangelo di Marco e hai un senso di sconfitta. Credo che proprio questo si avvicini alla nostra epoca: l’immagine del Messia sconfitto. Quante sconfitte ha conosciuto il nostro tempo? La sconfitta dell’idea di progresso, la sconfitta del miraggio del benessere economico, la sconfitta di ideologie che promettevano felicità ed uguaglianza. Persino la sconfitta della religione. Prenderne atto significa arrendersi? La sconfitta è la fine o l’unico luogo da cui si possa veramente ripartire? Gesù non ha “subìto” la sconfitta della croce, l’ha voluta, l’ha scelta. Ed è così che l’ha trasformata. E ci ha offerta la possibilità di guardare alle nostre sconfitte, a quelle del nostro tempo come luogo di rinascita. Anche noi dovremmo rivolgere a Gesù lo stesso interrogativo dei discepoli “Dove vuoi che ti prepariamo la Pasqua?” E la risposta non sarebbe un luogo fisico ed esteriore, ma spirituale ed interiore. Potremmo prepararci a lasciar entrare Gesù in quell’angolo del cuore in cui abitano l’amarezza e la sfiducia per lasciare che sia Lui a sconfiggerle.

Don Umberto e Don Stefano

La Via raccolta 2015


Domenica 12 aprile 2015

seconda di Pasqua

FEDE, LIBERTA’, PRESENZA

(Gv 20,19-31)

«Venne Gesù, stette in mezzo». «Stette in mezzo», dunque non prese le distanze da quei discepoli barricati per la paura. Non li spinse a credere con metodi bruschi o violenti, inveendo contro le loro paure, contro le loro fughe nei giorni della sua passione e della sua morte. Non alzò la voce contro la loro vigliaccheria «Venne Gesù stette in mezzo, disse loro: "Pace a voi"». Non mostrò il volto abbuiato, come succede a noi. Che cosa mostrò? «Mostrò loro le mani e il fianco». Che li contemplassero! Che, ancora una volta, in quelle ferite, ferite di passione per noi, scoprissero fino a che punto arriva l'amore. Ed ecco il cammino della fede: i volti che erano un lago di paura ora si stemperano, si stemperano in un lago di gioia. Passi di un cammino. Da dove ha inizio un cammino di fede? Dal segno dei chiodi! A volte ci interroghiamo: da dove partire per il nostro cammino di fede o per quello di coloro che ci stanno a cuore? Non partire dai miracoli! Parti dal segno dei chiodi del Signore Gesù, parti dal racconto del suo amore. È per questo che Gesù è credibile, è affidabile. E dovremmo rifletterci. Riflettere anche come chiesa, perché la cosa riguarda anche noi. Ma pensate che siamo credibili per altro? Per le nostre condanne o per le nostre scenografie? Potessimo anche noi mostrare i segni dei chiodi, segni evidenti che abbiamo amato e amiamo! Forse anche per questo Tommaso stentava a credere. Che cosa vedeva sul viso dei suoi amici barricati? Se non il gesto di chiudersi per garantire se stessi, gesto di una logica vecchia e risaputa, non il gesto del loro Maestro che la vita l'aveva rischiata. A caro prezzo. A prezzo di croce. Quando allora una chiesa diventa credibile nel suo annuncio? Gesù insegna. Ecco il cammino della fede: credere che Gesù è risorto significa arrivare a pensare che Gesù è vivente ancora oggi e che ancora oggi opera in mezzo a noi. Ma vorrei aggiungere che se la fede si mette in cammino, in cammino si mette anche la libertà. Erano barricati, prigionieri delle loro paure. Certo a barricarli era il timore dei Giudei. Ma a barricarli nell'anima era anche il timore dei loro tradimenti. Penso che sia anche per questo che Gesù risorto «soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo» e lo diede «per il perdono dei peccati». Quasi dicesse loro: «Non lasciate nessuno sotto la condanna del peccato, se no lo lasciate sotto l'incubo del timore e del fallimento, come sequestrato in una prigione. Perdonate. Fate camminare, liberate. Alzati e cammina!». Don A. Casati

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Domenica 19 aprile 2015 VEDERE I FANTASMI

(Lc 24, 35-48)

“Credevamo di vedere un fantasma” Questo fu il pensiero dei discepoli nel cenacolo alla vista di Gesù risorto. Non era la prima volta che capitava. Anche quando lo videro camminare sulle acque pensavano fosse un fantasma. Un fantasma è il frutto di proiezioni fantastiche, di immaginazioni che costruiscono una realtà che non esiste. E così i discepoli quel giorno dovettero fare i conti con una domanda che non poteva non inquietarli: “Il nostro rapporto con Gesù è stato una cosa vera o il frutto delle nostre fantasie? Noi abbiamo conosciuto Gesù per quello che è veramente o abbiamo costruito con la nostra immaginazione un Maestro ideale?” Ecco che questo accenno fugace al fantasma anziché essere una semplice annotazione di cronaca, spalanca una questione decisiva. Perché tutti noi vediamo i fantasmi; non certo quelli dei film o dei cartoni animati, ma il frutto delle nostre proiezioni immaginarie su Dio e sui fratelli. Tutti ci costruiamo un Dio su misura, un Gesù ideale, una comunità ideale. Pronti ad essere puntualmente delusi quando essi non corrispondono all’ideale che ce ne siamo fatti. Al contrario dei discepoli, i nostri fantasmi, non ci fanno paura ma ci rassicurano. Sono il nostro tentativo di incasellare Dio e gli altri in uno spazio preciso e determinato di modo che non ci arrechino sorprese. Per questo la resurrezione di Gesù e le sue apparizioni in qualche modo provocano anche noi. Perché furono il tentativo da parte del Signore di educare gli apostoli ad una libertà di cuore e ad una apertura di mente che permettesse di vedere le cose con occhi nuovi. Gesù volle liberarli dalle loro fantasie, dalla loro immaginazione troppo rigida e fissa, troppo abitudinaria. Egli vuole liberare anche noi. Dio potrebbe rivelarsi diverso da come lo abbiamo sempre conosciuto; anche gli altri, chi ci è vicino, potrebbe rivelarsi diverso. Accogliere Cristo risorto significa non temere questa eventualità ma accoglierla con la certezza che essa ha in serbo un messaggio di Dio Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 26 aprile 2015 IL PASTORE “BELLO”

(Gv 10,11-18)

Di solito, con riferimento a questo testo di Giovanni, si parla del buon pastore. Ma nel testo greco c'è l'aggettivo kalos, che vuol dire bello. Si dovrebbe quindi parlare del pastore bello. Perché Gesù applica all'immagine del pastore un aggettivo che solitamente troviamo associato ad altre parole, come amicizia, volto, sorriso, poesia, paesaggio? Qui la bellezza non viene messa in relazione con l'aspetto esteriore del pastore, ma con il suo modo di comportarsi che si differenzia totalmente da quello degli altri pastori. Una nota rilevante riguarda il modo con cui il pastore bello entra in rapporto con il suo gregge. Mentre gli altri pastori vedono il gregge come una massa indifferenziata di pecore su cui esercitano il loro controllo, imperioso e coercitivo, il pastore proposto qui come modello conosce le sue pecore e viene da esse riconosciuto. A questo modo Gesù ci libera dalle immagini intollerabili di Dio, causa di nevrosi e di ateismo, e al tempo stesso ci libera da quella esperienza di solitudine e di vuoto che ci porta a esprimere talvolta questo lamento: « La mia vita è proprio insignificante: nessuno che si ricordi di me e che mi dimostri un poco di quella amicizia che fa vivere ». «C'è una presenza tenera e amante che non ti dimentica», ci dice Gesù. «Il tuo nome, Dio lo tiene scritto sul palmo della sua mano ». C'è una seconda nota che rende bella la figura del pastore: « Io offro la mia vita». Gli altri pastori si servono delle pecore per vivere, il vero pastore invece è lui che dà la vita per le sue pecore.Gesù mette l'accento sul dono della vita. Amare, per Gesù, vuol dire dare la vita. Questo è il modo con cui Dio ci ama. Non dobbiamo perciò aspettarci da Dio i segni della potenza secondo la logica umana. Noi Dio lo vorremmo diverso: come dispensatore di miracoli, come operatore di interventi forti e visibili, come signore della storia, da vincitore. E non nascondiamo la nostra delusione tanto da pensare che se Dio ha creato questo mondo avrebbe molte cose da farsi perdonare. Perché non mette un po' di ordine in questo mondo così mal riuscito? Perché non è capace di convertire i lupi in agnelli o quanto meno di togliere ai primi almeno un po' della loro spavalda sicurezza e di dare agli agnelli un po' della forza dei lupi? Gesù ci risponde: « Io offro la mia vita. Questo è il mio modo di amare, il modo di amare di Dio.Tu soffri? lo vengo e soffro con te. Ti senti "pietra scartata dai costruttori" di questo mondo i quali amano scartare le pietre inutili? Io sono pietra scartata come te, accanto a te. Ciò che posso darti è il mio amore perché tu ti senta amato e continui ad amare. La forza è tutta qui. Il vero miracolo è qui. Perché solo l'amore alla fine vince». Don Luigi Pozzoli

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Domenica 3 maggio 2015 PERFETTI?

(Gv 15, 1-8)

Mi affiorano alla mente pensieri e domande di fronte all’affermazione centrale di questo vangelo: “in questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto.” Cosa significa portare frutto? E soprattutto cosa vuol dire che Dio viene glorificato? La glorificazione di Dio è la perfezione perché Dio è perfezione. Per noi cristiani allora la perfezione consiste nel portare frutto. Ed è di fronte a queste parole di Gesù che si snodano le mie riflessioni. Per molti secoli della nostra storia la perfezione cristiana ha coinciso con l’assenza di difetti. Enormi sforzi spirituali, morali, educativi erano concentrati sul dominio completo delle passioni, sulla purezza rituale, sulla sottomissione dello Spirito e sulla mortificazione. Chiaro che tutte queste cose non hanno perso il loro valore. La perfezione però non consiste in esse, ma nella fecondità, cioè nel generare vita, non solo biologica, intorno a sé. E questo non coincide con l’assenza di difetti. Si può essere persone formalmente ineccepibili e corrette, ma totalmente aride e sterili. Si possono avere difetti, anche vistosi a volte, ma essere persone con una grande capacità di coinvolgere gli altri suscitando il bene. A volte penso che il grande conflitto dell’esistenza umana, prima ancora che cristiana, sia quello tra fecondità e sterilità. Non dobbiamo rassegnarci all’idea di non essere perfetti, perché la perfezione è raggiungibile. A patto che la concepiamo come il portare frutto. La perfezione del frumento è la spiga, non l’assenza di zizzania. Quale forma ha concretamente questo portare frutto? Un suggerimento viene dalla prima lettura, nella splendida figura di Barnaba che va in cerca di Saulo per riavvicinarlo, per farlo uscire dal suo isolamento, per valorizzarlo proprio quando tutti lo avevano scartato. La fecondità è un incontro che guarisce davvero dalla solitudine, è una parola buona detta non per dovere, è un gesto di attenzione che non chiede nulla in cambio. Nessuna morale del sacrificio vale quanto uno stile di vita fecondo; e nessuna asettica perfezione è gradita a Dio quanto un cuore amorevole.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 10 maggio 2015 RIMANERE NELL’AMORE

(Gv 15,9-96)

C’è una grande insistenza da parte di Gesù sul verbo “rimanere”. “Rimanete nel mio amore” è il suo invito. Sembra strano in verità. Se si sperimenta l’amore si può fuggire dinanzi ad esso? Si può decidere di non dimorarvi e scegliere ciò che amore non è? Forse sì; evidentemente sì, altrimenti Gesù quelle parole non le avrebbe pronunciate. Accade sempre più spesso proprio perché oggi all’amore si dà un valore quasi magico. È come una specie di fluido arcano a cui non si può resistere; se ne avverte un bisogno spasmodico ma poi basta un nulla a farlo svanire, a perderlo per strada. E più lo si invoca, più lo si cerca più si fa fatica a viverlo nella concretezza lasciandolo al puro livello del sentimento. Mai come in questo tempo l’uomo manifesta in mille modi il desiderio di essere amato, eppure mai, come in questo tempo, questo desiderio è svilito e tarpato. L’amore si esalta e si enfatizza eppure tutti percepiamo quanto il puro sentimento, che viene trattato come un’emozione da gestire a proprio uso e consumo, rischi di lasciare l’amaro in bocca. Sentiamo che siamo fatti per qualcosa di straordinariamente grande e bello, come è appunto l’amore, eppure ci sembra che ci sfugga continuamente … Su tutto questo Dio ha qualcosa da dire. Qualcosa di serio. Qualcosa di fondamentale.Anche per Dio l’amore è la cosa più importante della nostra vita. Solo dall’amore e da niente altro può essere colmato il nostro io più profondo. Spesso, anche se non vogliamo ammetterlo, viviamo elemosinando amore. Gesù lo sa bene ed è per questo che ha scelto di amarci, ha scelto di cambiare se stesso per amore, perché se un amore non ti cambia che amore è? Gesù ha incontrato questo desiderio dell’uomo e ha fatto dimorare ogni persona nel suo cuore. Egli ha fatto sì che chi lo incontrava fosse apprezzato e stimato per ciò che veramente era, e fosse avvolto da una tenerezza che fa dimenticare il dolore. Questo dinamismo d’amore continua a ripetersi, ma c’è un unico problema: accoglierlo e lasciarsi trovare dal Signore. La fuga è sempre una scelta possibile; l’incapacità di dimorare nell’amore è, purtroppo, una realtà.Presi da tante cose, sepolti dalle nostre urgenze, non ci accada di perdere la mano di Dio continuamente tesa.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 17 maggio 2015

Ascensione del Signore

UN TEMPO CHE FINISCE, UN TEMPO CHE RIMANE

(Mc 16,15-20)

Un gruppetto di undici persone che stanno lì a fissare il cielo. Questo ha lasciato Gesù andandosene. I suoi tre anni si sono chiusi con un bilancio che noi diremmo fallimentare. Undici uomini impauriti e con le idee poco chiare, che sino alla fine gli pongono domande che denotano la loro durezza di comprensione: “è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” L’ambiguità, l’equivocità di questa domanda non sta nella sua natura politica ma nel pensiero che Gesù sia venuto a restaurare qualcosa di passato piuttosto che ad inaugurare una realtà nuova. C’è un sapore nostalgico in queste parole, quasi una sorta di insicurezza e di bisogno di avere di nuovo a disposizione dei punti di appoggio su cui si era precedentemente basata la propria vita. Con una leggera forzatura è come dire che i discepoli non riescono ad elaborare un lutto. E forse proprio in questo chiave occorre leggere la festa dell’Ascensione. Essa è una cesura tra il tempo che finisce e il tempo che rimane. Il tempo che finisce è quello della vita terrena di Gesù, della vita che Egli ha condiviso con tutti i nati di donna. E il tempo che rimane è quello della sua presenza, ogni giorno, nei loro cuori. Senza la vita terrena non sarebbe stato possibile neppure questa nuova presenza.Anche noi ci troviamo spesso a che fare con l’idea del tempo che finisce. Probabilmente l’affanno che tanto facilmente caratterizza il nostro modo di vivere è il riflesso di questa segreta convinzione, che il tempo sia sempre scarso e destinato a finire prima che possiamo portare a termine la nostra opera. Accettiamo con fatica questa finitudine e a volte la fuggiamo con la nostalgia dei tempi in cui siamo stati meglio o con il desiderio di bloccare come in un fotogramma gli attimi di felicità. Anche per noi però esiste un tempo che non finisce, un tempo che rimane. È Gesù che ce lo ha regalato. Lo ha regalato anzitutto ai suoi discepoli rendendoli capaci di compiere gesti che arginassero le forze del male, anzi che le sconfiggessero: guarire i malati, parlare lingue nuove, neutralizzare i veleni, … Questi gesti erano in realtà segni, segni di una speranza capace di andare oltre ogni ostacolo, segni di un futuro in cui splenderà radiosa la luce. Ogni gesto della nostra vita fatto per contrastare il male è destinato a rimanere nel cuore degli uomini e in quello di Dio. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 24 maggio 2015

Pentecoste

CREDENTI, NON CREDENTI, INCREDIBILI

(Gv 15,26-27; 16,12-15)

Spesso mi sono ritrovato a fantasticare immaginandomi la folla che era presente quel giorno di Pentecoste ad ascoltare le parole degli Apostoli. Ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua! Di questa folla si dice la provenienza geografica, varia e multiforme, quasi un anticipo di globalizzazione. Nulla si dice circa la loro situazione di fede, la loro vicinanza o lontananza da Dio, i loro problemi, la loro condizione … Eppure ciò che gli apostoli dicono è compreso da tutti. È una scena che ha dell’incredibile, ma che al contempo ci lascia intuire quale forza sprigioni lo Spirito Santo e quando possiamo capire che egli è all’opera. Comunicare tra noi non è facile. Finchè si tratta di dare informazioni tutti ne siamo capaci. Ma quando il parlare si fa più vero, più profondo, quando riguarda quelle cose che nella vita contano sul serio, allora la comunicazione è un momento delicatissimo.Quel giorno di Pentecoste gli apostoli parlarono di Dio, della vita che è più forte della morte e lo fecero con una persuasività che toccava l’anima senza passare per la testa e anche coloro che erano oppressi dalla confusione interiore capivano, capivano benissimo e le parole degli apostoli risuonavano in loro come un balsamo capace di risanare anche vecchie ferite. Lo Spirito Santo operava, e ancora opera, non solo in chi parla, ma anche in chi ascolta e così genera comunione, quell’intesa profonda che può essere solo opera divina, non semplicemente umana. Non so se a voi succede, a me sì e regolarmente, di pronunciare parole di cui non comprendo appieno il significato, non solo nei colloqui ma anche nella preghiera. Il senso profondo mi sfugge, forse per superficialità o forse per la fretta di dover comunicare Dello Spirito Santo Gesù dice che “ci guiderà alla verità tutta intera”. Certo si riferisce alla possibilità di conoscere sempre meglio il mistero di Dio, che cresce via via con gli anni proporzionatamente alla nostra capacità di abbandono e di resa. Ma forse (e mi piace pensarla così l’opera dello Spirito)intende anche riferirsi al nostro comunicare. E a quella indispensabile virtù di chi sa guardare le cose, ascoltando con pazienza anche da un punto di vista diverso dal proprio, da una angolatura che solo la sapienza dello spirito lascia intravedere. Per misurare le proprie parole mentre si interiorizzano quelle degli altri.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 31 maggio 2015

S.S.Trinità

TUTTI I GIORNI

(Mt 28,16-20)

Non sempre ci pensi a quello che dici mentre dipingi il segno della croce sul tuo corpo: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Ed eccola qui la Trinità. Semplice, quotidiana, ordinaria. Perché un segno della croce, almeno uno, quando inizia il giorno, te lo fai sempre. E oggi accogli anche un invito: far festa per la Trinità, far festa per questo segno così abitudinario da passare quasi inosservato. Ci vorrebbe più spesso questa capacità di non dare le cose per scontate, di rendere straordinario e festoso ciò che è diventato normale, troppo normale. È una festa, quella di oggi, che anzitutto insegna ad uscire da quel quotidiano mortifero e asfissiante che ti fa chiudere gli occhi su ciò che è meraviglioso a forza di continuare a guardarlo senza più amore. Tutti i giorni ci lasciamo abbracciare dalla Trinità e tutti i giorni Gesù ha promesso di essere con noi. È una presenza, la sua, senza condizioni. Gesù non ha promesso di esserci solo per i bravi e i buoni. Non ha promesso di esserci solo quando le cose funzionano. Ha legato se stesso a noi sino alla fine del mondo. I giorni che mancano verso la fine del mondo sono giorni in cui il bene e il male si mescolano, giorni di confusione e di crescita insieme, giorni di chiaroscuro e ambiguità. Così li presenta il Vangelo quando parla di essi. Proprio in questa esperienza il Signore è con noi. In questa stagione in cui non tutto è chiaro e non tutte le risposte sono già pronte. E’ il tempo della fatica a comprendere chi siamo noi, chi sia Dio e verso dove va la storia. Il tempo della libertà che insieme affascina e fa paura. E ogni volta che ripeti il segno della Croce allora, non farlo per scaramanzia, ma per sentire la compagnia del Signore che è con te in mezzo al guado della vita. Il rischio di affogare è sempre dietro l’angolo: affogare nelle proprie paure e nelle proprie illusioni. Affogare nell’ingenuità di essere sempre all’altezza di ciò che ci chiedono; affogare nella tristezza o nel rancore. Uscire dal vortice si può. Grazie a Dio.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 7 giugno 2015 DIO CHE TI NASCONDI

Corpus Domini

(Mc 14,12-16.22-26)

Sarà la formazione ricevuta in seminario ma quando si avvicina la festa del Corpus Domini mi viene sempre in mente l’antico inno latino dell’”Adoro Te Devote”. Sono parole di S. Tommaso d’Aquino il quale ad un certo punto parla di “latens deitas”, cioè “divinità nascosta, latente”. In questi giorni di dolore ho pensato spesso a Dio che si nasconde. La perdita di Mattia ci ha toccato tutti nel profondo, in parte ci ha tramortito. Abbiamo invocato tanto Dio durante la sua malattia, ma niente. Sembrava, appunto, essersi nascosto. E che senso ha avuto tutto ciò? E perché nascondersi agli occhi di chi lo invoca? Quando S. Tommaso parlava di questo nascondimento aveva davanti agli occhi l’Eucarestia. E forse il suo pensiero era assorbito dall’idea di come Dio così grande possa celarsi dentro due realtà così semplici e fragili come il pane e il vino. C’è qualcosa di così normale, di così ordinario nel pane da non credere possibile che proprio lì ci sia Dio, la sua presenza. Come considerare allora la sua assenza? Proprio di assenza si tratta o sono i nostri occhi che non lo vedono se non laddove noi vorremmo che sia? Di fronte alla morte e al dolore è difficilissimo non desiderare altro che non sia la guarigione o la salvezza. Ma spesso purtroppo essi non sono possibili. E in quei casi, forse, Dio non è nascosto, ma presente in tutti quei piccoli e semplicissimi gesti che hanno testimoniato l’amore, la cura, la forza d’animo. Soprattutto quest’ultima. La forza interiore. È per essa che ci viene dato il nutrimento spirituale, il pane eucaristico. L’eucarestia che celebriamo, veneriamo e riceviamo è come il pane per il viaggio. Ne abbiamo bisogno come Israele ebbe bisogno della manna nella sua peregrinazione nel deserto. Perché noi siamo uomini e donne del viaggio, un viaggio mai concluso. Non ci possiamo fermare, pena il perdere qualcosa di bello che Dio ha in serbo per noi. A volte viviamo come se fossimo in un approdo; come se avessimo davanti una ideale collina che chiude l’orizzonte facendoci da schermo. Ma se quella collina la salissimo scopriremmo panorami che non eravamo capaci di immaginare prima. Ecco, il pane eucaristico ci è dato per salire su quella collina scrollandoci di dosso pigrizia, neghittosità, paura. Ogni altro scopo rischia di rendere l’Eucarestia un puro oggetto di devozione. E forse non è il caso. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 13 settembre 2015 “ERA ORA!”

(Mc 8, 27-35)

Proprio con questa esclamazione qualche amico ha accolto le mie parole quando ho detto che avrei ricominciato a scrivere LA VIA. Non so se queste righe siano poi così attese e desiderate; mi piace pensare di sì; è un fattore automotivante. Certo che un po’ di tempo sabbatico ci voleva: da una parte perché per scrivere occorre avere qualcosa da dire, dall’altra perché la ripetitività e la scontatezza sono le cose peggiori. Quindi, riprendiamo. E lo facciamo con una pagina del Vangelo di Marco nella quale Gesù interroga i suoi: “e voi chi dite che io sia?” Attraverso quale portale di ingresso entriamo in questa domanda di Gesù? Le intenzioni dell’evangelista? Il pensiero del Signore stesso? Il cuore dei discepoli che si sentono rivolgere queste parole? Da tutte e tre, una ad una. L’intenzione dell’evangelista è semplice: tutto il Vangelo di Marco è scritto per presentare Gesù come Figlio di Dio, nella sua vera identità. E questa domanda (che sta al centro esatto del Vangelo) costituisce la chiave di volta dell’intera narrazione. Poi c’è il pensiero del Signore. Si può entrare nella mente di Gesù o non è troppo pretenzioso? Forse sì, ma è anche affascinante. È come un viaggio mai concluso. Certamente il Signore pose questo interrogativo perchè i discepoli chiarissero a se stessi il motivo della loro sequela. Ma non penso di essere in errore se immagino che anche Gesù, nella sua umanità abbia sentito la necessità di capire se coloro che gli erano vicini lo conoscessero davvero. Perché la sensazione di non essere conosciuti da coloro che dicono di amarci, da coloro che camminano al nostro fianco giorno dopo giorno, è un dolore che genera solitudine. Ed è umano volerlo evitare. Infine ci resta l’ultima l’ultima parte, il cuore dei discepoli. Infinite volte si saranno chiesti chi era davvero quell’uomo che stavano seguendo, chi era colui al quale avevano affidato la loro vita. E la loro risposta è andata via via modificandosi, anche attraverso la crisi. La crisi del Getsemani ad esempio allorchè abbandonandolo, dichiararono implicitamente di non fidarsi

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Domenica 13 settembre 2015 “ERA ORA!”

(Mc 8, 27-35)

più di Lui, di aver sbagliato a consegnare la vita ad un uomo così. Quel giorno a Cafarnao, Gesù le domande le fece Lui, in modo diretto e spiazzante; come spiazzanti sono quelle domande che fanno emergere ciò che da sempre ti porti dentro ma non trovi la forza di dire. Anche a noi è posta oggi questa domanda affinchè possiamo giungere, per grazia di Dio e se Lui lo vuole, alla nostra professione di fede. A noi tocca avere il coraggio di fuggire le risposte preconfezionate, gli stereotipi su Gesù che ci hanno benevolmente consegnato. Rispondere a certe domande richiede lealtà, onestà e in fin dei conti anche libertà. Richiede quel coraggio di rimettersi in gioco che hanno coloro che cercano di non essere troppo d’accordo con se stessi. Ne potrebbe derivare un allontanamento che comunque è parte di ogni cammino di fede. E se anche ci sembrasse di abbandonare il Signore, Lui però non ci abbandona. Don Umberto

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Domenica 20 settembre 2015 UN MONDO CAPOVOLTO

(Mc 9, 30-37)

Gesù predicava il Regno. Predicava e viveva nello stile del Regno Una vita in cui tutti i valori del mondo sono totalmente capovolti. Dove non conta imporsi e aver successo ma servire.Dove gli ultimi sono i primi e gli invitati a nozze sono i miserabili. Le beatitudini furono il manifesto, la magna carta di questo Regno. Ma altre volte Gesù lasciò intendere quali fossero le sue caratteristiche; spesso lo fece con i suoi discepoli, sempre piuttosto confusi, distratti, sedotti da altre logiche che non erano proprio quelle del loro Maestro. Al centro i deboli e non i forti. Davanti a loro un Dio che non punisce ma si lascia crocifiggere. E nel cuore la forza di sfuggire a quella paura di perdere se stessi che avvelena ogni gesto e ogni parola. Per comprenderlo questo Regno bisogna accoglierlo come bambini. Non solo per comprenderlo, ma per entrarvi. Fiumi di inchiostro si versano ancora oggi sullo spirito d’infanzia. Si parla del fanciullo che è dentro di noi o della sindrome di Peter Pan. Certo è che Gesù lo ha indicato come stile necessario. Necessaria è la fiducia, necessario lo stupore, necessarie le domande. La fiducia di un bambino è totale, ti mette quasi in imbarazzo. Non dubita della parola di un adulto se appena appena inizia a conoscerlo. Siamo noi adulti che la roviniamo questa fiducia. Facciamo uno sfregio ad un’opera d’arte. Per poi averne nostalgia perché capiamo che senza fiducia tutti i rapporti umani si corrompono. Persino il Regno di Dio. Anche lo stupore dei bambini è straordinario. La capacità di meravigliarsi delle cose, di ciò che la vita offre o dona, di come è fatto il mondo. Quando un bambino perde lo stupore sprofonda rapidamente nella noia. Ma se un adulto conserva questa grazia allora si apre per lui la via delle realtà spirituali. Lo stupore è la porta di accesso alla realtà del Regno, a quel mondo capovolto che Gesù ha testimoniato. E infine le domande. Le domande che i bambini ti fanno sono semplici e radicali. Perché non hanno niente da perdere e non temono le risposte. Poi si diventa adulti e pian piano ci si pone solo le domande che comportino risposte poco compromettenti o che non ci portino a rimettere in gioco quella sicurezza che abbiamo con fatica raggiunto. Ma il Signore non si stanca di bussare al nostro cuore e, se non lo ha già fatto, prima o poi ci donerà di sentire cosa sia il Regno, e magari di entrarvi.

Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 27 settembre 2015 CHI SONO I NOSTRI?

(Mc 9,38-43.45.47-48)

Alla domanda si possono fornire diverse risposte: i nostri sono i famigliari più stretti, oppure gli amici di vecchia data, oppure ancora quelli del nostro gruppo o del partito. Per alcuni sono quelli del proprio paese. Questo bisogno di appartenenza è legittimo: percepire di non essere di nessuno è una sensazione di smarrimento e di solitudine. Esistono forse persone per cui non c’è nessun’altra Itaca se non quella interiore, ma è una condizione molto difficile. Gesù non stigmatizza questa categoria dei “nostri”. Sa che ne abbiamo bisogno. Ma corregge il tiro dell’apostolo Giovanni allorché quest’ultimo finisce nelle secche di un ragionamento che ha il sapore della chiusura e del settarismo. “Solo dai nostri può venire il bene!” Si scivola facilmente su questo crinale, quasi senza accorgersene. “Solo la tua famiglia ti capisce veramente!” “Solo gli amici di infanzia sono quelli veri!” “Solo la tua comunità ti può aiutare!” E se vogliamo mettiamoci pure la chicca “ vacche e buoi dei paesi tuoi” Sono frasi che affiorano a volte alle labbra e di cui non avvertiamo la povertà e l’implicito invito a considerare ciò che è fuori dai nostri confini mentali e affettivi come qualcosa di negativo. Veramente manca l’aria in queste ristrette vedute. C’è un clima asfittico e pesante in questi circoscritti ambiti e in questi ripetuti clichés dove trova sicurezza solo chi si è ormai seduto e non è in cerca di nient’altro. Io mi chiedo che cosa ne abbiamo fatto, come credenti, di questo invito ad allargare la visione e a non restringere la salvezza nei nostri confini. Forse abbiamo sostituito la categoria di “appartenenza” a quella dello “Spirito”. Così, se qualcuno parla, ci chiediamo subito a che cosa egli appartenga e non quale spirito lo muova. E la libertà interiore di Gesù appare sempre più un miraggio. Lo spirito di Dio invece opera prima di noi e molto più in là di noi. Esistono persone che sanno scorgerne i segni, uomini e donne che aspirano al bene e alla felicità ovunque si trovi. Magari tra queste persone ci siamo anche noi. Se ci accorgiamo che questo bene emerge fuori dalla nostra ristretta cerchia di frequentazioni, io non esiterei ad interpretare tutto ciò come un invito del Signore a metterci in moto.

Don Umberto e Don Stefano

La Via raccolta 2015


Domenica 11 ottobre 2015 UNA TRISTEZZA EVITABILE

(Mc 10,17-30)

Dentro quella corsa c’è tutto il suo desiderio. “Corse da Gesù” dice il Vangelo. E nessuno corre se non ha timore di perdersi qualcosa di importante, di unico, di decisivo. E poi quel gettarsi ai suoi piedi, quasi adorandolo, riconoscendo nell’uomo di Nazareth una persona speciale, diversa da tutte le altre, semplicemente Divina. I presupposti c’erano tutti perché sia noi che leggiamo, sia coloro che assistettero alla scena, potessero vedere una scelta autenticamente cristiana. E invece no. Ad un certo punto le cose presero un’altra piega. E il finale si rivelò opposto alle premesse. Nessuna vocazione, nessuna sequela, nessun desiderio profondo che si realizza ma un deprimente alone di tristezza. Un uomo incontra Gesù e se ne va triste; incontra la luce e ne esce oscurato in volto. Ma come è possibile? Cos’è in grado di provocare tutto ciò? Cosa spegne anche in noi le nostre aspirazioni più belle, i nostri desideri più grandi? Nel caso di quell’uomo che corre da Gesù il motivo erano le sue ricchezze. Più in profondità le sue paure. Perché tutto ciò che temiamo di perdere alla lunga diventa il nostro tiranno. Finiamo col vivere con un’illusione, ma meglio sarebbe chiamarla inganno. Quello di credere che tutto ciò che ci rende ricchi, sotto ogni punto di vista, possa darci la felicità che tanto cerchiamo. Eppure sappiamo che le cose non stanno proprio così; sappiamo che se quel tale se ne andò triste nonostante avesse conservato tutte le ricchezze, tutto il suo status sociale, tutta la sua perfetta immagine, significa che la felicità sta altrove. Lo sappiamo. Lo sa anche il nostro cuore. Lo sa anche Gesù che quel giorno invitò il suo interlocutore a non rivolgersi ad un “maestro buono” ma a Dio stesso, cioè alla propria anima. Lì sta la risposta alla nostra domanda di felicità. È lì che ha dimora quell’essenziale che supera tutti i particolari di cui è ingolfata la nostra vita. Questa vita che amiamo è un capitale che ci è stato messo tra le mani. Non la possiamo trattenere. Occorre donarla. Se non la offriamo a Dio la offriremo comunque a qualcos’ altro. Ma niente è così fecondo come donarla all’Unico che ce la restituirà in pienezza. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 18 ottobre 2015 LOGICHE EVANGELICHE

(Mc 10,35-45)

Già qualche domenica fa, abbiamo trovato un Gesù che, dopo l'annuncio della sua passione, invece di ricevere ascolto e comprensione da parte dei suoi, si trova di fronte al silenzio imbarazzato dei discepoli che, dimostrando un'immensa insensibilità, sono piuttosto intenti a descrivere i propri meriti. Oggi Marco, e quindi Pietro, torna sul tema. (Amo Pietro, teneramente. Si sente la lacerante ferita che gli è rimasta nel cuore. Non ha paura, ancora e ancora, ora che sa, di dire che non aveva capito nulla). I protagonisti oggi sono Giovanni e Giacomo. Giovanni il perfetto, il mistico, l'aquila, il profondo, chiede a Gesù una raccomandazione, chiede di sedere alla destra di Gesù nel momento in cui si fosse instaurato il regno dei cieli, concepito come un regno politico e immediato. Non basta avere avuto grandi doni mistici e segni della presenza di Dio nella preghiera per evitare di commettere errori madornali: anche i fratelli e le sorelle che, in mezzo a noi, hanno scelto la strada della con­templazione devono sempre vegliare sul rischio della gloria mondana voluta e cercata... Gesù è sconcertato, nuovamente. Sa che il suo Regno è servizio, sa che questa sua posizione gli costerà del sangue e questi parlano di privilegi e di cariche, di bonus e di benefit. Gli altri apostoli, scocciati, se la prendono con i due fratelli di Cafarnao. Perché gli hanno soffiato l'idea! Gesù insegna, ancora: il loro ruolo non è quello di comandare, ma di amare e servire, come lui, l'unico Maestro, ha saputo fare. Possiamo interrogarci evangelicamente, con franchezza, sul nostro modo di concepire la Chiesa. Penso, in particolare, a quanti hanno compiti e responsabilità all'interno della comunità: vescovi, sacerdoti, ma anche catechisti e animatori. E penso che dobbiamo ancora fare tanta strada, stare attenti a non cadere nell'inganno della mondanità, guardare sempre e solo al Maestro, che ha amato, senza attendersi dei risultati e ottenendoli proprio dando il meglio di sé, in assoluta umiltà e mitezza. La comunità è chiamata a dare una testimonianza di misericordia e di perdono, a partire dal proprio interno. Ma prima anche noi dobbiamo passare nel torchio della croce, sperimentando la nostra povertà per abbracciare ogni uomo con quello sguardo di tenerezza e di misericordia che Dio posa su di me. Potere da gestire come servizio alla felicità dell'altro. Potere che può e deve

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Domenica 18 ottobre 2015 LOGICHE EVANGELICHE

(Mc 10,35-45)

diventare gioia di suscitare nell'altro potenzialità e risorse a lui stesso sconosciute. Possano le nostre comunità, marchiate dalla croce, mettersi a servizio dell'umanità, diventare missionarie di misericordia, di tenerezza, di servizio. Gratuità, sorriso, piena umanità che, ricevute da Cristo, contagiano i nostri quartieri, le nostre famiglie, le nostre scuole. Passiamo dalla logica del sospetto a quella della fiducia, dalla logica dell'accaparramento a quella della condivisione. Fra noi sia così, fra noi è così, se ci accosteremo al distributore di grazia, come suggerisce la lettera agli Ebrei, il Signore Gesù. Lui, l'amico degli uomini, l'Amante senza misura, la sorgente della tenerezza, che ci chiama a diventare suoi testimoni. Don Paolo Curtaz

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Domenica 25 ottobre 2015 CHI SI ACCONTENTA MUORE

(Mc 10, 46-62)

Sul bordo della strada c’è un uomo che grida. E c’è chi lo invita a restare dov’è, ad adattarsi alla sua condizione di mendicanza e di cecità. E ad accettare, accontentandosi, quella sopravvivenza ai margini, fatta di elemosine sicure, di piccole garanzie che la fame non l’avrebbe provata mai. Ogni grido, da qualunque parte provenga, infastidisce sempre. Se non altro preoccupa. Anche quando esce dal fondo della nostra anima qualcosa dentro di noi vuole metterlo a tacere. E così, la scena che il Vangelo ci presenta è una eloquente fotografia di quella lotta interiore che si scatena nel cuore di ciascuno di noi. Lotta tra il desiderio di qualcosa di grande, di vivo, di vero e la tranquillità monotona dei giorni che scorrono uguali. Pieni di cose, e spesso vuoti di senso. Quell’uomo sul bordo della strada aveva già sperimentato cosa significa vedere; aveva già assaporato la bellezza della luce. Egli grida a Gesù “Rabbì che io veda di nuovo”. Perché quando la pienezza della vita la sperimenti non la dimentichi più. Magari la rimuovi e così ti illudi di essertene liberato, ma essa torna, bussa, irrompe. E ti fa gridare. Questo grido è la preghiera. Perché spesso, tanto spesso, nel Vangelo la preghiera è una richiesta. E non a caso la Chiesa d’oriente ha considerato questo episodio del cieco Bartimeo come una grande catechesi sulla preghiera. Ognuno deve pescare nel fondo della propria angoscia per pregare; ognuno deve cercare nelle sue povertà, nelle sue miserie, in quel luogo dove avvertiamo che ci manca la pienezza. È da quel punto profondo che sgorga la preghiera. Se a quel fondo non si arriva , la preghiera resta sempre in superficie, diventa una “navigazione” ma non una relazione. Occorre essere dentro il proprio grido, sapendo quel che si vuole e quel che si chiede. Se non si ha il coraggio e la forza di chiedere è perché una cosa non la si vuole veramente. Così è per la preghiera. Il nostro cieco è un battistrada: dopo di lui veniamo noi. Se non si implora, se non si grida per avere il dono della luce significa che ci riteniamo già capaci di capire. A noi che con le nostre luci artificiali siamo arrivati al punto di oscurare il cielo delle nostre città, il Signore faccia la grazia di tornare a vedere. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 1 novembre 2015 VIVENDO, E SOLO IN PARTE VIVENDO

Solennità tutti i Santi (Mt 5,1-12a)

Tanti anni fa, lessi per la prima volta quel bellissimo testo teatrale che è “Assassinio nella cattedrale” di Thomas Eliot. Erano gli anni che precedevano l’ordinazione sacerdotale e facevo l’educatore ai seminaristi più giovani, di 18 e 19 anni. Scegliemmo insieme di mettere in scena quel teatro e fu un’esperienza importante per la loro crescita. Una frase tra le tante ancor oggi ricordo con precisione; il ritornello delle donne del coro della Cattedrale: “vi fu contro di noi ingiustizia, vi fu abbondanza e vi fu carenza”. Però nel vivere siamo andate avanti, vivendo, e solo in parte vivendo”. Erano parole ripetute spesso, come efficace espressione della fuga delle donne di Canterbury dalle situazioni estreme. Di fronte a loro l’arcivescovo Tommaso Beckett si preparava invece al gesto del martirio, questo sì estremo. Oggi, festa di tutti i Santi, quel ritornello mi è tornato in mente. Perché proprio la fuga dalle situazioni estreme rende, troppo spesso, la santità una cosa non attuale. Ci sembra che non riguardi noi. Che sia prerogativa di alcuni prescelti, pochi a dire il vero. A noi spetterebbe un destino più normale e una vita tutto sommato mediocre. Abbiamo la segreta convinzione che la santità ci sia estranea perché troppo difficile e così pure estranea ci sia la delinquenza perché troppo aberrante. Lì, nel mezzo tra le due, sta il nostro posto. La nostra è una tacita resa al non essere né caldi né freddi. E forse per questo la vita ogni tanto ci fa assaporare la tristezza. Senza lo slancio verso qualcosa di grande, di spiritualmente elevato, che gusto ha infatti quel che facciamo? Nonostante questo ci viene istintivo mirare allo spazio medio. Dio però ci soffia sul collo affinché non ci accontentiamo di una fede e di una pratica cristiana da piccolo cabotaggio. L’aspirazione alla santità è in fondo l’aspirazione alla qualità della vita. Non quella che ci offre la pubblicità, ma quella che ci dona Dio. Non quella dovuta solo all’aria che respiriamo, al verde pubblico e all’assenza di stress, ma quella offerta dalle parole di Gesù che chiama beati uomini e donne semplici, pacifici e misericordiosi. La grandezza di una vita in fondo non si misura dal luogo in cui si è svolta o dal ruolo sociale che si è occupato, ma dalla pienezza raggiunta. E aspirare alla santità è la via per ottenerla.

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Don Umberto


Domenica 8 novembre 2015 DARE TUTTO

(Mc 12,38-44)

Anche quest’anno ci ritroviamo a Saliceto per festeggiare S. Carlo Borromeo, figura di grande pastore d’anime che a cinquecento anni di distanza continua a parlare alla Chiesa con il suo stile di fedele cristiano e di vescovo. Le letture di questa domenica dell’anno liturgico ci mettono di fronte le figure di due povere vedove, le vedove e gli orfani nelle Scritture sono i più poveri tra i poveri. La vedova di Sarepta nella sua estrema povertà accoglie il profeta Elia, credendo alla promessa del Signore; la vedova del Vangelo butta il suo unico soldo nel tesoro del Tempio, affidandosi con fiducia totale a Dio. Questi episodi evangelici mettono in luce un tratto particolare della vita di S. Carlo Borromeo: la sua grande povertà. Carlo era nato in una famiglia ricca e nobile, ancor oggi i Borromeo vengono citati sui giornali e rotocalchi, cresciuto negli agi, nipote di un papa in un epoca in cui i papi erano anche sovrani, destinato ad una vita di successo, potere e ricchezza. Quanti uomini di oggi vorrebbero essere stati nei suoi panni! San Carlo invece rinunciò alla ricchezza e alle prospettive di potere e successo. Come arcivescovo di Milano lavorava come un forzato, dormiva quattro ore per notte e riposava nelle ore dedicate alla preghiera. Soprattutto nell’imponente palazzo arcivescovile conduceva una vita frugalissima: pane, acqua, legumi e un poco di carne nelle feste; sotto i solenni abiti cardinalizi vestiva come un pezzente, con abiti logori e pieni di toppe, che il segretario gli doveva cambiare di nascosto quando erano troppo logori. Perché le due povere vedove rinunciano al poco che possedevano? Perché S. Carlo rinuncia alle sue fortune per vivere come un pezzente e lavorare come uno schiavo? Simili condotte sono incomprensibili per il mondo in cui viviamo. La risposta si può dare in poche parole, ma esse hanno bisogno di essere meditate e lasciate penetrare nel profondo dell’anima per comprendere. Le vedove e San Carlo rinunciano a tutto perché hanno capito che la vita è dono e solo donandola essa si arricchisce. Le due povere donne con il dono delle loro poche cose, San Carlo con il dono delle sue grandi ricchezze donano tutto di sé stessi a Dio, non il superfluo, ciò a cui si può rinunciare, conservando delle sicurezze, ma si mettono completamente nelle mani di Dio. Hanno capito una verità importante della vita: le cose del mondo non ci sottraggono alla morte, possono solo distrarci piacevolmente nella sua attesa, ma quando essa arriva inghiotte tutto, come la piena di un fiume. C’è un solo modo per vincerla, e cioè sfidarla con il dono di sé. Chi si dona e mette tutto in gioco si espone al rischio della morte, perché rinuncia alle sicurezze, ma così facendo genera una vita più grande, esattamente come il chicco di grano che morendo genera la spiga piena di chicchi. La vedova di Sarepta dando le sue poche

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Domenica 8 novembre 2015 DARE TUTTO

(Mc 12,38-44)

provviste fu salvata fino alla fine della carestia, San Carlo Borromeo dando le sue ricchezze e il suo lavoro ha portato vita, gioia, speranza e consolazione al popolo della sua diocesi. Ci testimoniano che il dono di sÊ è sempre la forma di investimento piÚ fruttuosa, che non porta solo beni che passano, ma la vita eterna. Il grande esempio di San Carlo Borromeo ci sproni a non avere paura delle scelte radicali e impegnative, delle rinunce piccole o grandi, quando ci mettiamo nelle mani di Dio non verremo delusi e riceveremo, come dice lo stesso Signore, il centuplo di quello a cui abbiamo rinunciato.

Don Stefano e Don Umberto

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Domenica 15 novembre 2015 DISINCANTO

(Mc 13, 24-32)

Mi chiedo che periodo stesse attraversando la comunità a cui Marco scrive le pagine di cui oggi abbiamo ascoltato gli inizi. Si tratta, infatti, di pagine che delineano catastrofi, smarrimento, paura e angoscia. Pagine cupe, almeno in parte. E mi rispondo che, forse, quella comunità viveva il tempo del disincanto. Cioè la sensazione che le cose passano e non rimangono, che si sbriciolano come case sulla sabbia, perché la vita stessa si sbriciola; è il disincanto della fragilità e della precarietà che connotano le cose di questo mondo. Precari si rivelano i nostri progetti e i nostri sogni. Precarie le promesse fatte e ricevute; precario persino il nostro amore. Di fronte a tutto ciò arriva prima o poi la fase del disincanto. Non so dire se sia un momento di crescita. Certamente non è una bella fase. Molto meglio la rabbia: è certamente una manifestazione errata, ma nasconde il desiderio di fare qualcosa, la passione per ciò che si vive, la speranza di poter cambiare. Ma il disincanto no: con esso si smarriscono i propri punti di riferimento quasi senza reagire. Si finisce con l’accettare le situazioni passivamente o peggio ancora si pensa che la vita, l’amore, i valori veri non esistano in realtà. Ecco, ad una comunità disincantata l’evangelista Marco scrive queste pagine. Usa immagini forti, parla del sole e della luna che non danno più luce. Il sole e la luna erano il grande orologio degli antichi: essi indicavano lo scorrere del tempo, di giorno e di notte. Il loro oscurarsi corrisponde alla perdita del senso del tempo e del suo valore. Come chi sente che le giornate scivolano via, senza slanci e senza vita: in modo disincantato appunto.Proprio in questa situazione, dice il Vangelo, Dio si prepara a rivelarsi.Dio non lascia che il nostro disincanto ci uccida l’anima, ma sostituisce al nostro modo di concepire il tempo il suo modo di concepirlo. E allora proprio grazie alla crisi e alla perdita di quei punti di riferimento abituali, Dio ci conduce ad un’altra qualità di vita e di relazione con gli altri e con le cose.E ciò che prima appariva importantissimo ora magari non lo sarà più e ciò che prima facevamo con fretta ora lo faremo con il tempo che merita. Alla fine c’è qualcosa che dura e di fronte al quale anche il nostro disincanto va in frantumi: se il cielo e la terra passeranno, le parole di Cristo non passeranno. Egli è alla porta; non come uno spione ma come uno che attende solo che noi andiamo ad aprire. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 22 novembre 2015 VENGA IL TUO REGNO

Cristo Re (Gv 18, 33b-37)

Forse Pilato voleva veramente capire. E forse per questo Gesù, che ha taciuto davanti alle autorità del Sinedrio, qui con Pilato parla. Parla quasi gli riconoscesse quel desiderio di capire; mentre a coloro che si rivolgono a te pieni di pregiudizi, con le loro idee già preconfezionate e immutabili, è piuttosto inutile parlare. Pilato no; voleva davvero comprendere di che regno e di che re si trattasse. Perché i conti non gli tornavano. Avevano parlato di Gesù come di un gran re, ma quello straccione che gli stava davanti non aveva proprio l’aria di esserlo. Poteva prenderlo in giro, poteva allontanarlo subito senza perdere tempo con uno così. E invece no. Vuole capire: “dunque tu sei re?” Dovremmo porla anche noi al Signore questa domanda. Dovremmo porla per raccogliere tutto il paradosso della risposta: “il mio regno non è di questo mondo”. Ma se non è di questo mondo perché lo invochiamo tutti i giorni? Se questo regno non è della terra, ma dell’al di là , del cielo, perché preghiamo “venga il tuo regno”? Me lo chiedo. Ma più profondamente mi chiedo cosa intendo dire quando invoco questo regno. E se sono onesto nell’invocarlo o non lo rivesto piuttosto di tutte le mie aspettative. Perché dire “venga il tuo regno” significa credere che il mondo potrà davvero cambiare e che il fine della storia sarà felice. Dire “venga il tuo regno” significa essere disposti a rimetterci di persona piuttosto che un fratello o una sorella venga danneggiato. Dire “venga il tuo regno” significa la cura e la vicinanza a tutto ciò che di più povero e vulnerabile c’è nel mondo o in se stessi. Dire “venga il tuo regno” significa perdonare anche chi ti sta uccidendo. Anche il fanatico. Tutto questo è il regno. Un pugno nello stomaco. È come la festa organizzata per il ritorno del figlio scialacquatore, quel poco di buono senza cervello.E allora mi chiedo, qualora questo regno venisse, se io, se noi, saremmo disposti ad entrarvi. Non saprei. Personalmente avrei bisogno di una spinta. Don Umberto

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Domenica 29 novembre 2015 UN ENNESIMO AVVENTO?

1a di avvento (Lc 21,25-28.34-36)

Mi ha sempre inquietato la frase ascoltata nel Vangelo di oggi: “gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla Terra”. Mi inquieta non per il pensiero alla morte ma per quanto lascia intuire della terribile presa che la paura ha su di noi. Si può veramente morire di paura: non di una morte biologica, ma spirituale, esistenziale. Si può morire per l’attesa di ciò che dovrà accadere, si può morire in anticipo quando ci si lascia paralizzare dalla negatività. E di questi tempi ne assorbiamo tanta. Come quella dai corpi di innocenti stesi a terra o coperti da un sudario nel cuore dell’Europa; o quelle (meno frequenti) di case sventrate dai bombardamenti. E dietro ogni bombardamento, che non è mai intelligente, ci sono vite spezzate, grandi e bambini dilaniati. Danni collaterali, li chiamano. Così inizia un ennesimo Avvento. A che serve iniziarlo, mi chiedo, se poi nella storia le cose si ripetono senza mai uscire da questa morte infinita? A che serve dire, ribadire il messaggio evangelico se anche la venuta di Cristo, la sua presenza sembra non essere servita a niente? Per questo con alcune righe della Parola di oggi avvertiamo una profonda sintonia. Luca descrive il dissolvimento della creazione percorrendo a ritroso il racconto della Genesi. Se ai primordi Dio aveva operato dal caos all’ordine, ora sembra che lasci andare le cose in senso opposto, dall’ordine al caos. Può Dio pentirsi di ciò che ha fatto? Può tornare sui suoi passi? O queste scene di de-creazione (mi viene in mente il padiglione vaticano all’Expo) dipendono dalla libertà degli uomini, dalle creature così tenebrosamente capaci di allontanarsi dal creatore? A noi in fondo sembra di non c’entrare nulla con le tragedie che oggi affliggono l’umanità.Ma in qualche modo anche la nostra libertà ne è coinvolta e la nostra volontà interpellata. Anche noi possiamo rendere il mondo migliore o trasformarlo in un inferno. Vigilare, che è la parola d’ordine del tempo d’Avvento, è possibile a tutti. Vigilare sulla qualità delle nostre scelte economiche, che tutelino la giustizia. Vigilare sulla qualità delle nostre relazioni, che salvaguardino l’amore e la pace. Vigilare sulla qualità del nostro tempo, che sia occasione di crescita spirituale anziché di dissipazione. Noi possiamo fare la nostra parte perchè il mondo non precipiti nel caos ma tra le braccia di Dio. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 6 dicembre 2015 IMPREVEDIBILE DIO

2a di Avvento (Lc 3, 1-6)

Il Vangelo non è una favola. Il Vangelo è storia. Con qualche forzatura, ma mi piace immaginarlo così l’evangelista Luca mentre prende la parola in qualche discorso ai pagani. Credo che avesse l’ossessione per la verità storica del Vangelo. Non una ossessione dannosa, ma una di quelle ossessioni che nascono per amore della verità, per una passione incontenibile. Ed ecco spiegato l’inizio del brano che abbiamo ascoltato oggi: un elenco di nomi, i potenti di allora, messo lì per far capire che le cose sono successe veramente e in quel preciso periodo. Ma anche per far capire che, come sempre, Dio ci spiazza. Perché non sui potenti della Terra scende la Parola di Dio, ma su un outsider, uno che se ne sta defilato. Uno di quelli che vivendo nel deserto non è certo sotto i riflettori. Perché Dio non è nei luoghi scontati. Allora come oggi. Dovesse rivelarsi seriamente alla nostra vita ci sorprenderebbe di nuovo. Dio lo aspetti davanti a te e Lui ti tocca da dietro su una spalla. Oggi per noi è scontato che sia nel silenzio di una chiesa. E perché non nell’affollamento di una metropolitana? È scontato che si riveli in un monastero. E perché non in un ingorgo pazzesco di traffico stradale? È scontato che sia nel cuore di uomini religiosi, e perché non in quello di una prostituta? D’altronde, secoli fa, un certo Gesù ci aveva già dato un preavviso. Ma come tante altre sue parole, noi le abbiamo congelate. Scegliendo Giovanni il Battista Dio ha scelto uno fuori dal coro. “Normalità” è una parola a cui Dio è piuttosto allergico. “Scontatezza” è una parola che Egli non saprebbe nemmeno pronunciare. “Indifferenza” gli susciterebbe nient’altro che ripulsa. Ma che parola risuona allora alle orecchie di Dio? Disponibilità. Se Dio trova un cuore disponibile non guarda più in faccia a nessuno. Bello o brutto. Santo o peccatore. Piccolo o grande. Tutte le immagini che il Battista usa riprendendole dai profeti, esprimono il desiderio di questa disponibilità: burroni riempiti, sentieri raddrizzati, colline spianate. Dicevamo all’inizio che a Luca stava a cuore la verità storica del Vangelo. La affermava con forza anche per poter dire che la disponibilità è possibile; che non è una favola vivere così, ma, nella logica del Regno, è la cosa più reale che ci sia. Don Umberto e Don Stefano

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Domenica 13 dicembre 2015 GIOIA NEL DARE

3a di avvento in “Laetare” (Lc 3,10-18)

C’è un invito pressante alla gioia nelle letture di questa domenica. Una ripetizione, quasi ossessiva, tale da farci pensare che la gioia non la si possa certo avvertire così, a comando, o perché qualcuno ce lo dice. La gioia, quella vera, ha radici profonde. Non è certo l’euforia di un momento o la felicità temporanea di un episodio. Stando ai testi profetici è la vicinanza di Dio a generare la gioia nel cuore dell’uomo. Ma stando al testo evangelico di oggi c’è un altro elemento a farla nascere. È Giovanni Battista a farsene portavoce, magari a sua insaputa. Dopo i suoi insistenti appelli a preparare la venuta del Messia la gente che lo ascolta gli chiede “che cosa dobbiamo fare?” “Chi ha due vesti ne dia una a chi non ce l’ha” è la sua risposta. E anche “chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha”. Nell’ingranaggio inceppato del mondo Giovanni introduce un verbo forte, DARE. Il primo verbo di un futuro nuovo. In tutto il Vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare; perché questa è la legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare. Mi ha sempre incuriosito il fatto che la prima parola di Gesù che fu scritta è la frase “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Non è scritta nei Vangeli, ma nelle lettere di S. Paolo. Anteriori ai Vangeli appunto. Per anni questa frase costituì l’identikit dell’uomo Gesù di Nazareth. Il segreto della sua vita. La sua prima, grande, eredità spirituale. Noi oggi, dopo duemila anni, la raccogliamo volentieri quell’eredità, perché di gioia vera abbiamo bisogno. La gioia finta infatti, la gioia di plastica, non ci convince più. La piccola emozione o l’appagamento di corto respiro, lungo quanto un battito d’ali, non ci danno quel che cerchiamo. Abbiamo bisogno che la gioia ci nasca dal cuore e ci allieti l’animo. Per questo invochiamo la vicinanza di Dio e scegliamo una vita all’insegna del dono: per toccare con mano ciò che è essenziale e che nessuno ci potrà togliere. E per ricominciare, a partire da noi, a tessere il tessuto buono del mondo. Don Umberto e Don Stefano

La Via raccolta 2015


PREGHIERA: Dio dei nostri padri, riempici della Scienza della Croce, di cui hai mirabilmente arricchito Santa Teresa Benedetta nell’ora del martirio, e per sua intercessione concedi a noi di cercare sempre te, somma Verità , e di rimanere fedeli fino alla morte all’allenza eterna di amore, sigillata dal tuo Figlio con il suo sangue per la salvezza di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore. Amen. S. Teresa Benedetta della Croce Patrona della nostra parrocchia

PREGA PER NOI

Roveleto di Cadeo Piacenza


Bibliografia: Raccolta 2008

“ Lungo la Via del Vangelo “

Raccolta 2009

“ In Cammino con la Parola “

Raccolta 2010

“ Tracce di un cammino “

Raccolta 2011

“ La parola che apre alle parole “

Raccolta 2012

“ Ascoltate e vivrete “

Raccolta 2013

“ Una parola ha detto Dio, due ne ho udite”

Raccolta 2014

“ Radunati dalla Parola”

Raccolta 2015

“ L’eco del silenzio il suono della Parola”

tutte le raccolte sono consultabili su sito al seguente indirizzo : www.parrocchiaroveleto.it


grafica C. & C.


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