La via raccolta 2016

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Raccolta “ La Via 2016”

UDIMMO PAROLE DI MISERICORDIA


Parrocchia S.Teresa Benedetta della Croce

EDITH STEIN nasce a Breslau da famiglia ebrea – 1911-13: diploma di maturità, perdita della fede, studi universitari a Breslau (germanistica, storia, psicologia) – 1913-15: studi a Göttingen sotto il prof. Edmund Husserl (filosofia) – 1915: esame di Stato, lavora come volontaria nella Croce Rossa tedesca – 1916: dottorato in filosofia «summa cum laude». – 1916-18: assistente di Husserl a Friburgo/Br. – 1922: battesimo nella Chiesa Cattolica, prima comunione, confermazione – 1923-31: insegnante presso il liceo femminile e l’istituto di formazione per insegnanti delle Domenicane di Spira – 1928-33: conferenze in patria e all’estero, attività di scrittrice, insegnante presso l’istituto tedesco per la pedagogia scientifica di Münster – 1933: ingresso nel Carmelo di Colonia con il nome di Teresa Benedetta della Croce – 1938: trasferimento al Carmelo di Echt, Olanda – 1942: arresto, deportazione, uccisa ad Auschwitz in odio alla fede cristiana (9 agosto) – 1962: inizio del processo di beatificazione e canonizzazione – 1987, 1° maggio beatificata a Colonia dal Papa Giovanni Paolo II – 1998, 11 ottobre: solennemente canonizzata a Roma dallo stesso Sommo Pontefice.


Domenica 16 dicembre 2007

prima uscita

LA VIA L’IMPORTANZA DEL NOME L’intuizione è arrivata da una constatazione immediata: Roveleto e Cadeo sono attraversati dalla via Emilia che è la croce e la delizia dei nostri paesi. Crea magari un po’ di traffico, ma garantisce la vitalità dell’ambiente e anche la funzionalità di esercizi commerciali. Evidentemente però non è questa la motivazione portante della scelta di questo nome. In realtà bisogna cercare il motivo direttamente nel Nuovo Testamento. La VIA era infatti il nome con cui era chiamata la prima comunità cristiana. Quando S. Paolo, negli Atti degli Apostoli, racconta la sua conversione, dice di aver perseguitato accanitamente ”questa nuova via” riferendosi al cristianesimo. (At 22, 4 ) I cristiani stessi erano chiamati, nel 1° secolo, “quelli della via”. Tutto questo è spiegato molto bene dal priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, nel suo libro “La differenza cristiana”. A me pare stimolante pensare che, mentre in quei secoli tutti i sistemi di pensiero o le religioni venivano chiamate “dottrine”, il cristianesimo fosse chiamato “VIA”. Essere cristiani non è infatti questione di imparare una lezione, o di usare solo la mente per idee astratte. La fede cristiana è un’esperienza di vita, un luogo dove incontrare persone, stabilire rapporti, proprio come su una via. Siamo in cammino, mai fermi, esattamente come gli angeli che Giacobbe vide salire e scendere sulla scala (Gen 33 ). Per questo il nome “la via” mi è sembrato quanto mai azzeccato: siamo anche noi come la prima comunità cristiana, entusiasti dell’incontro con Gesù e i fratelli e mai sazi, mai arrivati, mai chiusi a quelle novità che lungo la strada Dio ci farà trovare.

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”


un pensiero.... Nell’arco di questi 9 anni abbiamo lentamente riscoperto l’importanza di essere chiesa alimentata costantemente dalla Parola di Dio. L’incontro con la parola è un incontro decisivo che ci consente di guardare oltre le nostre fragilità. Di fronte ai nostri limiti e alle miserie della vita possono maturare in noi sentimenti di inadeguatezza, impotenza, rabbia o rassegnazione. La Parola di Dio al contrario dischiude il nostro cuore a quella grazia che è in grado di trasformare la nostra vita in una incredibile opportunità. Solo la Parola è in grado di farci cambiare prospettiva. Solo attraverso Essa ci rendiamo consapevoli che al di la dei nostri limiti noi possiamo collaborare per qualcosa di più grande. Proviamo a pensare alla vita come dono di Dio, proviamo per un attimo a pensare che mondo sarebbe se ognuno di noi potesse trasformare la sua vita in dono per gli altri. Forse è proprio questo il grande progetto a cui lentamente e liberamente siamo chiamati. Non fermiamoci troppo a guardare i nostri difetti, quelli degli altri e le storture che ci circondano. Non cerchiamo di nascondere i nostri limiti mascherandoli dietro ad alibi o a complicati ragionamenti. Non cerchiamo facili e puerili giustificazioni, ma cerchiamo con tutta la generosità che abbiamo e che deriva dal Vangelo di rendere felici le persone con cui viviamo e che incontriamo. Questo è il grande progetto racchiuso in questa Parola che Don Umberto e don Stefano così sapientemente ci amministrano durante le celebrazioni, buona lettura Stefano C.


Domenica 10 gennaio 2016 UNO TRA I TANTI

(Lc 3,15-16.21-22)

Inizia così il Suo cammino adulto tra noi: con una attesa del Suo turno, in fila con i peccatori. Certo, un modo tutto particolare di entrare in scena; niente enfasi ne’ effetti speciali. Niente parole roboanti ne’ miracoli eclatanti. Una coda da fare e nient’altro. Che avrà fatto Gesù mentre aspettava il Suo turno per essere battezzato da Giovanni? Avrà parlato con chi era prima di Lui? Avrà pregato per non distrarsi? Ci piace immaginarlo così, con quel tratto di assoluta normalità, anzi di nascondimento, che lo contraddistinse. Ma come possiamo parlare di nascondimento se da quel momento la sua vita diviene “pubblica”? Possiamo farlo perché il nascondimento è uno stile e non tanto la scelta di vivere in luoghi remoti. Gesù non volle per sé ne’ riconoscimenti particolari, ne’ privilegi, ne’ alcuna situazione che potesse metterlo in condizione di superiorità rispetto ad altri. Fin dal primo giorno scelse di non imporsi lasciando che fosse Dio solo a svelare la sua identità. Ai cristiani dei primi secoli l’episodio del battesimo di Gesù fu motivo di grande imbarazzo: un Messia che si confonde con i peccatori, un Messia in fila con tutti gli altri appare troppo poco autorevole. Arriveranno solo lentamente a capire che se Gesù non difese mai la propria dignità lo fece per poter accostare i peccatori con delicatezza, senza turbarli con la dimostrazione della sua potenza o del suo giudizio. Maturò così quella autorevolezza che nasce dalla condivisione. Succede anche a noi di chiederci se siamo autorevoli. Magari non proprio in questi termini, però ci interroghiamo e abbiamo bisogno che le nostre parole e i nostri gesti vengano raccolti da qualcuno e considerati degni di valore, al punto da essere ascoltati e seguiti. Se lo chiede un genitore nei confronti dei figli; una moglie col marito e viceversa; un datore di lavoro con i dipendenti o un parroco con i suoi parrocchiani; anche un educatore con i suoi ragazzi. L’esigenza di essere preziosi e degni di stima agli occhi di qualcuno è un’esigenza vitale. Ma a volte succede di gestire questa esigenza in modo maldestro, imponendo la nostra presenza. Come pure accade di negarla questa esigenza, sottraendoci così anche quando ci sarebbe bisogno di noi. Se lo trasformassimo in preghiera questo bisogno ci tornerà sicuramente utile ripensare la via della condivisione scelta da Gesù e la sua decisione di iniziare il Suo cammino tra noi mettendosi semplicemente in fila ad aspettare il suo turno. Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 17 gennaio 2016 CAPACI DI GIOIA

(Gv 2, 1-11)

Oggi assistiamo alla terza epifania di Gesù. Quale altro lineamento del volto di Dio ha rivelato il miracolo di Cana? Oggi, dopo la lettura di questa pagina di Giovanni, noi possiamo rispondere: «Dio si fa trovare a tavola, in mezzo a una festa di matrimonio». Cana ha dunque questo significato: Dio è in mezzo a gente che gode, ride, scherza, balla. Pensare che il cristianesimo mortifichi la gioia di vivere vuol dire che non si è meditato a sufficienza sulla terza epifania, quella di Cana. Dobbiamo immaginare che Gesù sia andato a Cana per appartarsi in un angolo, solo e serio, a recitare preghiere mentre gli altri si divertivano? Il Vangelo non lo dice, ma è possibile che Gesù abbia anche ballato. La terza epifania è questa: Dio gode della gioia degli uomini, approva, apprezza. Si dirà: è solo questo il senso di Cana? Il racconto, in verità, suggerisce altre riflessioni. A un certo punto viene a mancare il vino. E poiché il vino è riconosciuto come simbolo della gioia, vuol dire che quella festa rischiava di non essere più una festa. È il rischio che incombe sempre sulle nostre feste. Si può essere accorti e previdenti finché si vuole, ma è un fatto che la misura della gioia è sempre limitata. Viene il momento in cui si avverte come un esaurirsi della fonte della gioia. La compagnia di prima non soddisfa più, le parole di prima vengono a noia, l’allegria di prima prende una piega sgradevole. Se si tiene conto di questa legge (è come una legge di natura che pesa sulle nostre feste), si comprende meglio la presenza di Gesù a Cana. Gesù è presente non solo per condividere la gioia di tutti, ma anche per cogliere il venir meno della nostra gioia e convertire il vuoto in pienezza. Ecco la pienezza: il vino del miracolo è sovrabbondante e più buono di quello di prima. La gioia inaugurata da Gesù non è in contrapposizione alle altre, ma le completa e le supera. C’è un’altra osservazione da fare: il vino della gioia è frutto di collaborazione. La madre di Gesù, i servi, il maestro del banchetto a modo suo: ciascuno deve collaborare. Guai a rimanere in disparte e a non armonizzare il proprio lavoro con quello degli altri (è il discorso fatto anche da Paolo nella seconda lettura). Rimane comunque sempre da ricordare che il ruolo principale e insostituibile è quello di Gesù. Se non c’è Lui, si lavora inutilmente. È soltanto Lui che, nei momenti di tristezza, può dirci (tento una breve parafrasi del testo di Isaia): « Tu non sei più nell’ abbandono e nella desolazione. lo ti chiamo “mio compiacimento”. Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 24 gennaio 2016 OGGI, REALMENTE

(Lc 1,1-4; 4,14-21)

Chi sia questo Teofilo a cui Luca indirizza il suo Vangelo non ci è dato saperlo. A dire il vero non sappiamo se sia mai esistito o se sia invece una figura letteraria. Certo è bello il significato del suo nome: Teofilo significa “amato da Dio”. E mi viene da pensare che quindi Luca il suo Vangelo lo abbia scritto per tutti e per ciascuno. Ognuno di coloro che lo avrebbe letto nei secoli si sarebbe sentito così: amato da Dio. Dalla certezza di questo amore nasce il bisogno di conoscerlo questo Dio e di dare fondamento a ciò che si professa con la fede. Personalmente ritengo insopprimibile questa esigenza di approfondimento, soprattutto se la Scrittura illumina la nostra vita, se la orienta e la sostiene. Non ci possiamo accontentare di qualcosa di superficiale, di una semplicistica ed elementare istruzione. Forse per questo Luca è un autore che va apprezzato. Non solo per la sua empatia con i peccatori, la sua enfasi sulla misericordia, ma anche per questa sua passione che nasce nel cuore e sale fino alla mente e che lo spinge a fare ricerche accurate su Gesù. Non gli interessavano i discorsi astratti e le dispute teologiche ma le persone concrete e reali con la loro storia. Il suo Vangelo ha l’odore della quotidianità e della strada, il sapore dei sentimenti forti e delle emozioni. Pare di vederlo girare in lungo e in largo i luoghi dove era passato Gesù anche solo per chiedere piccoli particolari a chi lo aveva incontrato di persona. Con una tenacia e una forza di volontà che fanno della sua inchiesta uno squisito atto di amore. C’è una curiosità stilistica che rivela per intero l’animo di questo evangelista. Nel suo racconto ripete, simbolicamente, sette volte l’avverbio “oggi”. In tutte le tappe più importanti della vita di Gesù, come la sua presentazione nella sinagoga di Nazareth che illumina questa domenica. Un’insistenza sull’ “oggi” così evidente che lascia trasparire il bisogno di toccare con mano la forza di Gesù e delle sue parole, oltre che la gioia di sperimentarne l’efficacia e il desiderio di raccontare a tutti quanto sperimentato. Perché anche per noi, duemila anni dopo, l’ “oggi” non sia un peso ma un dono della grazia di Dio. Don Umberto

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Domenica 31 gennaio 2016 ESTRANEI

(Lc 4,21-30)

Alle città d’arte capita, a volte, qualcosa di strano. Capita che chi ci vive, anche chi vi è nato, non conosca così bene la città e la sua storia quanto la conoscono invece turisti e visitatori, almeno quelli che, per passione, si documentano prima di un viaggio. La loro condizione di estraneità, il loro essere forestieri scatena una curiosità, una voglia di conoscere e capire, che gli abitué del posto non riescono più ad avere. Ho ripensato a questa considerazione quando ho letto il Vangelo di oggi. Gesù, parlando di due profeti (Elia ed Eliseo) sostiene, in fondo, le stesse cose. Solo gli estranei li hanno capiti ed è per questo che solo per gli stranieri essi hanno fatto miracoli. Nei due profeti Gesù rivede se stesso e la difficoltà che sta avendo con quelli del suo paese. Niente di tutto questo invece fuori del suo paese, tra gli estranei di Cafarnao, appunto. Sembra quasi che questa condizione di estraneità sia necessaria per poter accogliere e amare più profondamente il Signore. E forse per questo Dio ci lascia, a volte, distanti da lui, nell’aridità spirituale, nel distacco. Per farci poi mettere in cammino. Per riprenderci per mano e suscitare nuovamente nel nostro cuore il desiderio di Lui. Desiderio che corre seriamente il rischio di essere spento dall’abitudine, quel morbo terribile che appestava il cuore dei cittadini di Nazareth. All’inizio entusiasti della parola e dei gesti di Gesù; ma poi , dice il testo, “TUTTI nella sinagoga si scagliarono contro di lui”. Tutti! Proprio tutti, nessuno escluso. Non c’era nessuno in quella sinagoga (metafora della comunità) che non fosse preso da questo improvviso mutamento di umore e che restasse saldo nei suoi sentimenti iniziali. Che tristezza! E cosa li portò a reagire così? La loro frequentazione assidua di Gesù, il loro averlo visto crescere, la loro intimità con lui divenuta però una stanca abitudine. L’assidua familiarità che si trasfoma in occasione per avere delle pretese su di lui: “i miracoli falli qui da noi”. Un legame così stretto che li porta a chiedere esplicitamente a Gesù di appartenere solo a loro! Salvo poi non essere pronti a ritrovarselo diverso da come lo avevano sempre pensato e ad accettare il suo cambiamento. Cosa più che naturale quando un legame diventa una gabbia. In quella sinagoga si vollero affermare i diritti degli abitué. Per fortuna Gesù non li prese minimamente sul serio. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 07 febbraio 2016 LARGHEGGIARE

(Lc 5, 1-11)

Non lo si sente pronunciare spesso, ma questo verbo esiste nella lingua italiana. Significa comportarsi con generosità, dare o concedere con larghezza. A me è venuto in mente ascoltando nuovamente l’invito che Gesù fa a Pietro “prendi il largo!” Non è del tutto pertinente lo so, eppure non posso trattenermi dal pensare che Gesù non avesse solo in mente una esortazione di tipo fisico o ambientale. Quel “largo” cui il Signore allude è uno spazio del cuore. Ripensiamo a quella scena . La Scrittura non dice molto dei sentimenti interni della gente, ce li lascia immaginare e vivere personalmente. Ora , io penso che Pietro quel giorno si sia sentito onorato , si sia quasi ringalluzzito del fatto che il Maestro aveva scelto proprio la sua barca come pulpito per parlare a tutti. Sarà stato un momento di euforia. Lui, una persona modesta e ignorante era stato scelto! Alla fine del discorso però Pietro si sente rivolgere da Gesù l’invito ad andare al largo per pescare. Lo avevano già fatto tutta la notte e quell’ora del giorno era ormai inadatta alla pesca. Pietro avrà certamente pensato alla brutta figura che avrebbero rimediato se fossero tornati con le reti ancora vuote. Lo zimbello del villaggio! È in quell’istante che si fa chiara la prospettiva di Gesù: quel “largo” di cui parla non riguarda solo le acque del lago. È la capacità di fidarsi compiendo un gesto apparentemente irrazionale; è il superamento della paura facendo un passo oltre ciò che è puramente sicuro e solido. Forse la barca è simbolo della vita, la nostra vita. Andare al largo significa non lasciarsi chiudere nei propri insuccessi, in tutto ciò che ci restringe. Dobbiamo sempre diffidare dalle parole che restringono gli orizzonti, le parole che portano al chiuso, che atrofizzano il cuore. Le parole che appesantiscono, che inchiodano alle proprie paure, non appartengono a Dio. Anche se ce le fanno passare come sue. Quando Gesù siede sulle nostre fragili e povere barche, legni oscillanti, allora gli spazi si aprono, e la navigazione della nostra vita fila via più spedita. Anche quando siamo tentati dal senso di inadeguatezza e spaventati dalla nostra fragilità. Pietro, di fronte al Signore, fissava sgomento la sua condizione di peccato, ma Gesù lo distoglie, lo distoglie da quella immagine che lo deprime, lo conduce a prendere il largo. Lasciamoci condurre anche noi. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 14 febbraio 2016

1° di Quaresima

VOI SIETE DI DIO

(Lc 4,1-13)

Mi ha particolarmente illuminato la prima lettura. Si tratta di una raccomandazione fatta da Mosè al popolo di Israele allorquando il popolo sarà arrivato nella Terra. Più che raccomandazione, direi una esplicita indicazione: offrire al Signore Dio le primizie dei frutti del suolo. Un gesto semplice e rituale ma carico di significato: un invito a confessare che tutto ciò che il popolo ha per vivere viene da Dio. Consegnando a Dio i beni della terra, quei beni vengono come privati del loro potere di avvelenare il cuore. Tutti i beni che abbiamo, materiali o spirituali, sono un dono di Dio. Se li si considerano nostra proprietà ecco che essi cominciano ad iniettare il loro veleno, veleno di possesso, di superbia, di invidia. Questa lettura apparentemente cosi innocua, ci offre invece una chiave interpretativa del digiuno: consiste appunto nel privarci di un dono per ritornare a contemplare colui che ce l’ha donato. E la Quaresima recupera così il suo vero significato: non solo tempo di penitenza o sacrifici, ma occasione opportuna per rimettere al centro Dio. È quanto vive anche Gesù nel deserto con le prove a cui è sottoposto. A me sembra emblematico che le tentazioni di Gesù siano presentate come una esplicita lotta con il diavolo. Non si tratta semplicemente di ostacoli da superare, è una battaglia aperta contro colui che si prefigge lo scopo di allontanare l’uomo da Dio, contro colui che approfitta dei beni di Dio per ingannare gli uomini e dividerli dal creatore: diavolo, appunto, è colui che divide. Entriamo quindi in questo Tempo Quaresimale con l’animo di chi guarda ogni cosa come dono di Dio. Non è il pio sforzo delle persone devote. È un modo preciso di stare al mondo: libero da inquietudini e risentimenti. La Quaresima non è un tempo difficile. Diciamocelo onestamente: non è neppure un tempo di prova. Perché le cose ce le scegliamo noi: decidiamo noi tempi e modi dei nostri sacrifici. Le prove della vita sono altre. La Quaresima però è un esercizio, quasi un allenamento. Quando la vita ci porterà alla tentazione di allontanarci da Dio, il Signore possa trovarci pronti. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 21 febbraio 2016

2° di Quaresima

LA TENTAZIONE DI ESSERE FELICI

(Lc 9,28b-36)

Il titolo l’ho copiato di sana pianta dall’ultimo libro che ho letto. L’ho copiato senza neanche pagare i diritti d’autore. Non si fa, lo so. Ma copiare è roba da persone intelligenti. L’ho trovato calzante. L’abito giusto da far indossare all’apostolo Pietro quel giorno sul monte Tabor, di fronte alla Trasfigurazione del Maestro. Se ne uscì con un “è bello per noi stare qui!” Mitico Pietro, così splendidamente in grado di rappresentarci tutti, noi che amiamo gli incanti, noi tentati sempre di fermarci dove si è felici, dove si sta bene, dimenticandoci del destino degli altri. Non ci scrolliamo mai di dosso questa sindrome del nido caldo: e via a cercarlo, chi nella famiglia, chi nel lavoro, chi nella comunità. Per poi sentire che non si appartiene mai a nessuno, soltanto si cerca sempre dove si possa essere felici. Quando siamo felici vorremmo bloccare il tempo, piantare le tende come gli apostoli. Peccato però essere discepoli di un Maestro che invece chiede di scendere a valle, a praticare la prossimità con chi soffre come insopprimibile esigenza d’amore. E a regalare la nostra eventuale felicità a quei fratelli che da troppo tempo non sanno cos’è, quasi toccandoli per fare loro forza, togliendo loro la paura. Una felicità da rimettere continuamente in gioco, che non sia fatta di uno stare fermi ma di un continuo ripartire. Per questo insieme a Pietro oggi la liturgia ci parla di Abramo. Sempre in cammino, mai fermo. Ma probabilmente un uomo felice. Non avrebbe nessun motivo per esserlo, se non la promessa di Dio. E la sua personale capacità di non accantonare il suo sogno anche quando le cose proprio non girano, o addirittura ti remano contro. Abramo è uno che ha intuito la tecnica di Dio: intervenire quando tutte le possibilità dell’uomo sono bruciate e non c’è più nulla da aspettarsi. Per questo io lo penso felice. E senza bisogno di piantare tende, di costruirsi una casa o di investire in immobili. Felice di quella felicità interiore che può essere donata senza mai diminuire, può essere condivisa senza essere perduta. A patto però di stare allo stile di Dio: l’uomo in genere è statico e ripetitivo, Dio è dinamico e sorprendente. Scappa sempre avanti, spalanca orizzonti, accelera i passi. Soprattutto quelli di chi accetta di scendere dal monte del proprio io per mescolarsi tra i volti dei fratelli. È vero, forse la felicità non è di questo mondo, ma anche all’infelicità non dobbiamo permettere di essere troppo di casa. Don Umberto

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Domenica 28 febbraio 2016

3° di Quaresima

NON BASTA RESPIRARE PER VIVERE

(Lc 13,1-9)

Siamo saturi di informazione. Eppure continuiamo ad averne. I fatti vengono catapultati nei nostri occhi, nella nostra mente con assiduità, rischiando il rigetto, se non altro l’assuefazione. È come se non ci interpellassero più. A volte ci incuriosiscono, o ci inorridiscono. Ma spesso, molto spesso, non ci riguardano. Così era, in misura minore, anche ai tempi di Gesù. Gli si avvicinano alcuni abitanti di Gerusalemme e gli riportano i fatti accaduti. Fatti tremendi. Disgrazie improvvise. E come un fulmine, le sue parole lapidarie: “Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo” Non so se qualcuno allora abbia fatto gli scongiuri. Se l’ha fatto, ha dimostrato ancora una volta di non capire. Per Gesù i fatti che accadono sono segnali, anzi appelli alla nostra conversione. Ci riguardano, anche se non capitano a noi. Viene in mente il Vangelo di domenica scorsa e la scelta di Gesù di non restare sul monte, chiusi nella torre d’avorio, ma di scendere in pianura, coinvolti nella vita, contagiati dalla storia. A volte infatti si è ciechi, si è sordi. Si è addormentati e non si coglie il vero messaggio che parla, a volte grida, dai fatti della storia e ci chiama a conversione. I fatti concreti sono abitati da questo appello, da questo richiamo. Per chi crede essi non sono semplicemente occasioni di cronaca, di dibattito o di salotto. Ci vorrebbe quella curiosità spirituale, quella capacità di lasciarsi interpellare che caratterizzavano Mosè. Bella la prima lettura che racconta il suo volere andare a vedere perché il roveto ardente non si consumava. Mosè non è fagocitato dal suo mestiere, non si fa seppellire da ciò che sarebbe urgente, ma osserva ciò che sta oltre, si interroga su ciò che vede. Si mette in cammino per capire il senso di ciò che sta avvenendo. Non registra semplicemente i fatti, gli eventi, ma cerca di interpretarli. Questa abitudine ad interrogarsi mi piace molto. Credo che sia condizione decisiva anche per interrogare Dio (e Mosè lo fa) e così uscire da quel torpore interiore che narcotizza noi stessi e le situazioni in cui viviamo. Il tempo a nostra disposizione per vivere così ci viene continuamente donato da Dio, come al fico della parabola. Occorre portare frutti. Ma per farlo è indispensabile non essere dei sedentari dello spirito. Don Umberto

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Domenica 6 marzo 2016 “NEMMENO L’AMORE E’ UGUALE PER TUTTI

4° di Quaresima (Lc 15,1-3.11-32)

D’istinto ti viene da metterti al posto di uno dei due figli. Più frequentemente del primo (abbiamo tutti qualcosa da farci perdonare), qualche volta anche al posto del secondo, quello maggiore, quello duro e intollerante. In fondo però, la Bibbia ci dice che noi siamo fatti ad immagine di Dio e quindi anche al posto del Padre dovremmo qualche volta metterci. Da qualsiasi angolatura la prendiamo, questa parabola ci “tira dentro”, ci interpella e ci spinge ad una identificazione. Anzitutto il figlio minore. La sua voglia di libertà, il suo bisogno di affermazione, il suo egocentrismo che lo rende cieco di fronte ad un padre inerme e impotente. Ne ha le scatole piene dell’aria di casa che è diventata per lui irrespirabile. Ci si allontana da Dio anche così. Per noia. Per bisogno di evasione, di fare altro, di provare qualcos’altro. Senza tensioni particolari. Semplicemente perché non si hanno più stimoli e ci si illude che la libertà sia una cosa vera quando non ha nessun vincolo. Dio lo permette, proprio perché sa che senza libertà non si danno quei movimenti autentici del cuore che Egli va cercando. Ma c’è un altro figlio. Il fratello Maggiore. Lui sì che avrebbe tanto da farsi perdonare: quella sua regolarità senza slanci, il suo praticare lo stile di chi non ama gli eccessi e soprattutto il suo perbenismo indisponente. Ci rispecchia nel nostro sentirci a posto, ubbidienti al Signore ma senza gioia; estremamente puliti ma nel cuore gelidi e inflessibili, avvezzi al giudicare e incapaci di amare. Chissà se si è dato pensiero qualche volta per la sorte del fratello; e chissà se qualche volta avrà abbracciato il padre affranto per aver perso un figlio. Ecco infine, il Padre, affranto e poi felice. L’aggettivo “prodigo” andrebbe associato a lui. È prodigo d’amore, largheggia nel perdono, abbonda nella comprensione. Senza un rimprovero, senza una recriminazione. Senza far sentire in colpa il figlio neppure con lo sguardo inquisitore. Di tutti i verbi che esprimono l’intensità del suo perdono mi ha sempre colpito “lo baciò”. Abbracciare è tanto. Ma baciare è molto di più. È la consegna del proprio respiro, è il dono della propria vita. Il padre riporta in vita il figlio. Quanta vita possiamo diffondere intorno a noi! Quante volte possiamo far risorgere le persone, come fa Dio! Dio ci tiene per un filo. Ad ogni errore il filo si spezza. E Dio lo riannoda. Così succede che più ci allontaniamo, più Dio ci avvicina. Eccolo, il succo del Vangelo. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 13 marzo 2016 SABBIA E AMORE

5° di Quaresima (Gv 8,1-11)

Dio ritrova il suo vero volto: è libero finalmente, libero di amare. Questa grande novità si rivela attraverso il silenzio di Gesù di fronte alla donna che gli viene presentata dai suoi accusatori. Questo silenzio è enorme e ha una immensa forza comunicativa... Gesù rimane muto e intanto traccia dei segni per terra, sulla sabbia. Si può vedere in questo gesto una sorta di delicatezza nei confronti della donna (è facile immaginare come ogni sguardo dovesse ferirla in quel momento e coprirla di vergogna), ma forse vi si può leggere un’intenzione di più largo respiro. Mentre la Legge che Mosè aveva ricevuto sul monte Sinai era incisa su tavole di pietra e le trasgressioni erano punite con una sanzione anch’essa immodificabile, Gesù ricorre al linguaggio allusivo della sabbia per suggerire il segreto della Legge nuova. Che cosa c’è di più fragile della sabbia? Basta un poco di vento o il passo, per quanto leggero, di un viandante per cancellare le impronte di prima. Non che Gesù voglia togliere valore alla Legge scritta. Piuttosto intende richiamare un principio che rimarrà fondamentale nel suo insegnamento: ciò che conta davanti a Dio è soprattutto l’interiorità perché soltanto l’amore, e l’amore è qualcosa che rimane nascosto nel cuore dell’uomo, esprime la verità di una persona nei confronti della Legge. Ecco perché Gesù non condanna in base a un codice di comportamento, ma rimanda ciascuno dei suoi ascoltatori alla verità nascosta nel proprio cuore: « Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra». È come se dicesse: « Volete sapere qual è la vostra posizione di fronte a Dio? Rientrate in voi stessi, ascoltate le interrogazioni che nascono dal profondo, misuratevi con la vostra coscienza prima di condannare le colpe altrui, abbiate il coraggio di riconoscere le vostre ». Si tratta di una lezione salutare. Quanto sarà durato questo secondo silenzio di Gesù, di cui ci ì parla il Vangelo, accompagnato ancora dal gesto di scrivere per terra? Forse pochi secondi, ma è bastato perché ciascuno prendesse coscienza della propria condizione di peccato. Il fatto che gli accusatori della donna si allontanino, uno dopo l’altro, a cominciare dalle persone più attempate, dimostra chiaramente che esiste una verità nascosta che non coincide con l’immagine che gli altri sono disposti a riconoscere per ciascuno di noi. Siamo tutti peccatori: questa è la verità che tante volte non riusciamo a interiorizzare con la necessaria umiltà. E in un certo senso siamo tutti adulteri, perché ogni nostro peccato ferisce Dio nel suo amore. Don Luigi Pozzoli Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 20 marzo 2016 VOLGERE LO SGUARDO AL CROCIFISSO

Le Palme (Lc 22,14-23,56)

È quasi un anticipo di Pasqua. Il grande racconto della Passione, così come ce lo riporta Luca ci conduce fin sotto la croce. E proprio lì dobbiamo arrivare. A fermarsi prima si rischia di non conoscere il vero volto di Gesù, si rischia il grande equivoco, il grande fraintendimento di un Dio potente ma lontano. Un Dio che ancora tanti vorrebbero: in grado di proteggerci da tutto in cambio di prestazioni devozionali. La croce invece è la grande icona del credente. È lo spettacolo da cui non si dovrebbe mai togliere lo sguardo, lo sguardo del cuore. Perché ci sono, in realtà altri sguardi. C’è lo sguardo malevolo, lo sguardo giudicante, lo sguardo disinteressato e quello solo incuriosito. Lo sguardo del cuore è quello di chi ama, di chi su di sé prende la fatica dell’altro, di chi entra nella sua passione. Si può essere feriti con lo sguardo del cuore. E mi colpisce quindi, forse mi ferisce in questo lungo racconto lucano l’incomprensione totale tra Gesù e i suoi. E la conseguente solitudine del Signore. A tavola, mentre Gesù si consegna, loro discutono su chi sia il più grande. Al Getsemani, mentre Gesù prega ed è in agonia, loro dormono. Forse cercano sollievo alla tristezza attraverso il sonno. Gesù lo fa attraverso la preghiera. E Dio lo conforta. Ma il conforto di Dio non esonera dalla passione. Libera invece dalla disperazione. E forse proprio questo è il male radicale: non la sofferenza ma la disperazione. Quella sensazione di completo abbandono, di smarrimento assoluto e totale, quel sentirsi inghiottiti dalle tenebre che toglie ogni minimo spiraglio di luce. Ma poi, all’improvviso, la consolazione di Dio appare. E noi, insieme a Gesù, grazie al nostro sguardo del cuore ci sentiamo risollevati proprio laddove non ce l’aspettavamo più. In quell’inatteso dialogo tra Gesù e il buon ladrone rifiorisce la speranza. Mi piace questa espressione “buon ladrone”. Sembra che non sia la qualità delle opere passate a condannare una persona al ruolo di buono o cattivo, ma la sua professione di fede. E la sua capacità di confessare le proprie colpe chiedendo perdono. Così all’abbandono da parte di tutti i discepoli, alla loro fuga dinnanzi alla croce fa da contrappeso la conversione di questo delinquente che accompagna Gesù in Paradiso. Sotto la croce in tanti chiedevano a Gesù di salvare se stesso. Per fortuna non l’ha fatto. Ha salvato noi. Noi che non gli chiediamo di liberarci dalle tante sofferenze e passioni della vita ma di convertirne la qualità. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 3 aprile 2016 QUANDO BASTAVA UN’OMBRA

(Gv 20,19-31)

È la prima lettura ad avermi stimolato. Forse perché racconta la bellezza della prima comunità cristiana. O forse, e soprattutto, perché parla dell’ombra di Pietro. L’ombra con cui Pietro guariva. Poveri, afflitti e disperati cercavano desiderosi che la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Vi sono tante persone che avrebbero bisogno di stare all’ombra di qualcuno perché manchevoli di tutto. Gli basterebbe l’ombra: un’ombra protettiva, un’ombra che anche solo con un segno faccia sperare che qualcuno si curvi su di loro. Dovremmo pregare per questo: pregare perché il Signore ci conceda di essere almeno l’ombra per qualcuno. Forse anche noi abbiamo bisogno dell’ombra gli uni degli altri. Che bella l’immagine dell’ombra! È forte e insieme molto discreta. Ti accarezza ma non può spostarti. Ti avvolge ma non può imprigionarti. È il simbolo di un legame che ti fa star bene senza prevaricare. Non a caso è il segno della presenza di Dio. L’ombra del ricino cresciuto sulla testa di Giona è la cifra della misericordia divina. L’ombra della potenza dell’Altissimo che si stende su Maria è il profumo della Vita che da quel momento lei porterà in grembo. Per questo l’ombra di Pietro è il segno evidente dell’ombra di Dio. Magari ci sono momenti in cui se pensiamo all’ombra ci viene in mente qualcosa che non va. “Togliti che mi fai ombra!” diciamo se abbiamo bisogno di luce. Ci sta. L’ombra è quindi anche il segno di qualcosa di oscuro, di non piacevole. Le nostre ombre interiori ci fanno paura. E se Dio si servisse anche di quelle per guarire? Nel Vangelo di oggi si racconta della poca fede dell’apostolo Tommaso. Aveva un’ombra sul cuore, è chiaro. Un’ombra di sfiducia, di scetticismo. Ma senza quell’ombra non avremmo assaporato il gesto delicato e amorevole di Cristo che lo avvicina, lo comprende, lo illumina. Forse per questo S. Gregorio Magno diceva: “A noi giovò molto di più l’incredulità di Tommaso che la fede degli altri discepoli.” Ed è vero. Ce lo sentiamo vicino, lui con la sua ombra. Diversa da quella di Pietro. Ma alla fine, preziosa pure lei. Signore concedici di trovare riparo alla tua ombra! E rendici, così come siamo, ombra per qualcuno. Don Umberto

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“La Via” raccolta 2016


Domenica 10 aprile 2016 INCONTRARE DIO

(Gv 21, 1-19)

Tutto era cominciato lì; proprio dal lago il Signore li aveva raccolti. E anche quel giorno i discepoli non lo riconobbero fino a che il Signore non fece un gesto con cui loro potessero riconoscerlo. Sembrano quasi strutturati così i racconti di resurrezione, con uno schema preciso: la Maddalena riconosce Gesù perché sente pronunciare il suo nome in un certo modo; i discepoli di Emmaus perché spezza il pane come nell’ultima cena; e stavolta gli apostoli lo capiscono dalla pesca miracolosa, già vissuta in passato con lui. Sempre si ripete qualcosa di già capitato e allora, come una illuminazione, lo riconoscono e fremono per la sua presenza. Anche per noi forse c’è questa nostalgia. C’è il desiderio che il Signore si faccia riconoscere nella nostra vita e non solo nella nostra mente. Vorremmo avere di nuovo l’impressione di sfiorarlo come forse qualche volta ci è capitato. Penso a quei momenti in cui hai una particolare sensazione: quando ogni sguardo che rivolgi al cielo se è limpido, ogni scintilla di luce che incontri tra gli alberi alla sera, ogni panorama che contempli dai colli che ci circondano ti riempiono della profonda e incrollabile consapevolezza della presenza di Dio. Sono momenti speciali. È LA SENSAZIONE per eccellenza. Così bella che a volte si ha paura, almeno per me, di non riuscire a provarla più. Poi però, il Signore, che è buono, non ci priva di questa consolazione. Sono questi i momenti che fanno la differenza, sia a livello personale che comunitario. Sono i momenti in cui si capisce l’abisso che c’è tra le cose ripetitive, consuete, banali e logoranti e la percezione profonda di una Presenza che allarga il cuore. Attimi che il Signore regala. Ma forse non sono solo un puro dono. Pasteur, che era un chimico e un biologo (e non so quanto credente) diceva che il caso aiuta solo una mente ben preparata. E credo non avesse torto. Dio fa il dono delle sue consolazioni soprattutto a chi coltiva la familiarità con Lui. Se non preghi, se non continui a fare il bene anche se vieni criticato, se assecondi la negatività, va a finire che non ti arriva più LA SENSAZIONE. E questa sì che sarebbe una sventura. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 17 aprile 2016 UNITI A CRISTO

(Gv 10,27-30)

Ascoltare. Conoscere. Seguire. Sono verbi che esprimono intimità. Parole che generano comunione, che lasciano in bocca il buon sapore di un legame vero, solido. Sembra, a sentire il Vangelo di oggi, che si crei un quadro idilliaco, quasi dolce mentre queste parole Gesù le pronunciò in un contesto di tensione, in un drammatico diverbio con i capi religiosi avvenuto proprio dentro il Tempio. Gesù era contestato da coloro che presumevano di detenere l’ortodossia della fede. A costoro uno come Gesù, che difende la libertà, che mangia con i peccatori, che smantella le pretese gerarchiche, non può certo andare bene. Ma agli ultimi, ai poveri, ai peccatori, a coloro che sono in cerca di una speranza autentica, Gesù tocca i cuori. A me pare che il solco divisorio tra questi due gruppi di persone esista ancora oggi. È anzitutto interno a ciascuno di noi. C’è una parte di noi attratta irresistibilmente da Gesù, una parte che accetta, anzi vuole ascoltarlo, conoscerlo, seguirlo. Ma c’è anche una zona d’ombra, una resistenza interiore che non diventa aperta opposizione, ma più semplicemente opera una specie di cernita, passando al setaccio ciò che di Gesù vuole prendere e ciò che vuole rifiutare. Pertanto, non manca certo “l’ascoltare”; in fondo quella di Gesù è sempre una buona parola che può consolarci. Ma quando si comincia a fare i conti con “il conoscere” ecco che già sorgono le prime difficoltà: non c’è tempo per dedicarsi ad una lettura approfondita del Vangelo o per pregare con calma. Al momento del “seguire” le cose poi si complicano terribilmente: troppo difficile comportarsi come Gesù, amando in modo gratuito e offrendo la propria vita. Abbiamo veramente bisogno di sanare questa scissione interiore, perché la comunione di vita è, sì più faticosa, ma molto più appagante che la semplice comunione delle idee. Vale per il rapporto con il Signore, ma vale anche per i legami con chi ci è vicino. Gesù, in trent’anni di silenzio a Nazareth, ha imparato la differenza tra parlare e chiacchierare, tra essere saggi ed essere saccenti, tra innamorarsi ed amare. Per questo vale la pena ascoltarlo, conoscerlo, seguirlo. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 24 aprile 2016 ““AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI”

(Gv 13,31-33a.34-35)

Il comandamento che Gesù dona alla sua comunità (Gv 13,34-35) si esprime al singolare («un comandamento»). I molti comandamenti non sono che la manifestazione dell’unico comandamento che è l’amore. Il comandamento dell’amore è considerato da Giovanni un dono (il verbo «dare» è troppo debole, meglio tradurre «donare»). Che un comandamento sia un dono può sembrare para¬dossale, ma è conforme a tutta la tradizione biblica: la legge di Dio è un dono, perché il suo dettato corrisponde alla nostra vocazione più profonda. L’amore scambievole è per l’uomo movimento, vita, uscire dal chiuso, dall’odio, dall’egoismo e dall’indifferenza per respirare a pieni polmoni. Si legge nella Prima lettera di Giovanni: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (3,14). Amare i fratelli è la prova decisiva che si è vivi. L’amore reciproco trova in Gesù il modello e la fonte: «Come io ho amato voi». «Come» dice la norma e la misura. Ma dice anche la ragione: se possiamo amarci fra noi è perché lui per primo ci ha amati. «Come io ho amato voi», dice Gesù. Noi ci aspetteremmo: «Così anche voi amate me». Invece no: «Gli uni gli altri». C’è dunque nell’amore di Gesù una dimensione di gratuità che anche il nostro amore deve avere. L’amore di Gesù non accaparra il discepolo. Al contrario, è un dinamismo che lo spinge verso gli altri. È amando i fratelli che si ricambia quello di Gesù. L’amore tra i discepoli è un amore che tende alla reciprocità: «Amatevi gli uni gli altri» è ripetuto più volte. Ma se vuole somigliare a quello di Cristo, deve nascere da una gratuità. E deve trattarsi di una reciprocità che si apre all’universalità. «Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli». Un’affermazione, questa, che taglia corto su ogni eventuale tentazione della comunità di rinchiudersi in se stessa. L’amore cristiano - proprio quando se ne sottolinea la reciprocità non cessa di essere aperto. Il comando dell’amore fraterno è da Gesù definito «nuovo». Non si tratta di una novità cronologica, ma di una novità qualitativa. Il comando dell’amore è nuovo come è nuovo Gesù. Nuovo perché dischiude un mondo che appare nuovo e rinnovato, che sempre sorprende: nuovo a tal punto da essere il segno prefiguratore dei «nuovi cieli e della nuova terra». Nuovo anche perché è il segno e il frutto del mondo nuovo che la venuta di Cristo ha instaurato. La svolta è avvenuta e l’amore che ora i cristiani possono vivere appartiene già al mondo rinnovato. L’amore fraterno è la novità della vita di Dio che irrompe nel nostro vecchio mondo, rigenerandolo. Ed è l’anticipo della vita futura a cui aspiriamo. (Don Bruno Maggioni) Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 1 maggio 2016 UN DONO PER TUTTI

(Gv 14,23-29)

Oggi il Vangelo ci regala parole tratte da un lungo discorso di Gesù pronunziato prima della sua passione. Un discorso dal sapore di testamento spirituale. E pare quasi di cogliere lo stato d’animo del Maestro in quel momento: come una sorta di lacerazione interiore. Da una parte il desiderio di tornare al Padre, di ricostituire quel legame di intimità profonda modificata dall’Incarnazione; dall’altra il suo dispiacere a lasciare i suoi discepoli dopo aver vissuto con loro l’avventura dell’annuncio del Vangelo. Una lacerazione così potrebbe procurare sofferenza e tristezza; invece Gesù parla di pace. Dice addirittura che è questa pace il dono che lui fa ai suoi. Ma una pace diversa da quella che dà il mondo. La pace che il mondo suggerisce di cercare passa sempre attraverso il taglio di qualcosa. È fondata sull’idea di togliere. Togliere un legame con qualcuno se ti turba, togliere un impegno se ti affanna, togliere una contrarietà se ti inquieta, e così via, l’elenco sarebbe lungo. Più rimuovi e più stai in pace, in un quieto vivi e lascia vivere. Non così è la pace che Gesù promette: essa sta dentro le tribolazioni, accompagna gli affanni, si occupa dei fratelli, senza rimuovere nulla di tutto questo. È una pace fondata sull’idea di aggiungere anziché togliere. È la pace degli inquieti, che detto così sembra una contraddizione, ma in realtà esiste. Essa si accompagna ad un altro dono di Gesù: lo Spirito. Egli “ci insegnerà ogni cosa.” Insegnare significa lasciare un segno dentro qualcuno, segnare interiormente. L’opera dello Spirito non è quindi semplicemente una istruzione su cose che noi non sappiamo né conosciamo. È la facoltà concessa ai discepoli di ogni tempo di gustare interiormente le cose, di passare attraverso la vita e le sue dinamiche con il cuore attento e docile a lasciarsi plasmare. È l’esatto contrario di quella leggerezza un po’ superficiale grazie alla quale non ci si lascia toccare mai da nulla. Sorridenti e imperturbabili. Ma con quale vita interiore? Il dono della pace e il dono dello Spirito che Gesù ci fa ci consentono di dare sostanza e fondamento al nostro sorridere alla vita. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 8 maggio 2016 NESSUN GRADO DI SEPARAZIONE

Ascensione del Signore (Lc 24,46-53)

Titolo preso in prestito come altre volte. Ma se c’è una canzone che piace, magari è anche permesso prenderne spunto. Nel raccontare l’Ascensione di Gesù l’evangelista Luca sottolinea il fatto che sia avvenuta 40 giorni dopo la Pasqua. Noi sappiamo che cosa significhi nella Bibbia il numero 40. Indica un tempo compiuto, un periodo in cui si è raggiunta la propria meta, si è realizzato il proprio scopo. Con l’Ascensione si compie il cammino di Gesù ed Egli giunge finalmente alla sua meta: scavalcare quella distanza che pareva incolmabile, quella distanza tra cielo e terra, tra le cose di Dio e quelle degli uomini. Gesù colma questa distanza e lo fa in modo paradossale: scompare alla vista dei suoi discepoli, ma è in realtà ancora più presente. Per questo possiamo parlare di nessuna separazione: egli inizia ad operare con loro, conferma le loro parole con i prodigi che le accompagnano. Non esiste solo una possibilità fisica di colmare la distanza; esiste soprattutto una modalità spirituale. Direi anzi che è la più vera. Certo per entrare in questa logica di comunione spirituale, in questa realtà in cui si è vicinissimi pur essendo lontani occorre fare un cammino. Ecco allora il secondo significato dei 40 giorni di cui ci parla l’evangelista. Per quarant’anni i padri di Israele camminarono nel deserto. Per quaranta giorni i discepoli di Gesù hanno compiuto un nuovo Esodo. Apparendo loro, il Signore li ha condotti in una nuova terra, una terra del cuore dove si gode di luce anche tra le tenebre, dove ci si sente accompagnati anche se si è apparentemente soli. Questi quaranta giorni furono come una scuola per convertire il dolore del primo distacco in gioia per la sua presenza, per la sua Signoria sul mondo. E i discepoli ne uscirono trasformati. Anche loro vivevano in una scatola, quella del cenacolo. Anche loro guardavano il mondo da una porta mai completamente aperta. E poi il Signore risorto accese qualcosa nei cuori. Ed affrontarono la vita, senza più separazione. Don Umberto

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Domenica 15 maggio 2016 MATURAZIONE

Pentecoste (Gv 14,15-16.23b-26)

Pentecoste e pensiamo subito allo Spirito Santo. Ma qualcos’altro festeggiavano al tempo di Gesù. Era la festa del dono della legge sul Sinai. E prima ancora la festa delle messi mature. La festa di un seme diventato germoglio, da germoglio si era fatto stelo, poi spiga matura, poi grano. La festa di una maturazione. Anche la nostra Pentecoste vorrei pensarla così, come un punto di arrivo, un approdo. L’approdo del cammino dei discepoli, l’approdo del nostro cammino di fede, la nostra maturazione appunto. E che sapore potrebbe avere questa nostra maturazione? Che aria si dovrebbe respirare nell’approdo di ogni cammino spirituale? Anzitutto la reciproca comprensione. Perché ciò accadde quel giorno nella piazza di Gerusalemme. Parlavano e si capivano. Mentre ogni volta che diamo fiato alle incomprensioni noi facciamo opera contraria allo Spirito. E poi il coraggio. Mi piace particolarmente questo approdo del cammino di fede, questa forma di maturazione. Gli apostoli uscirono dalla muffa del cenacolo perché non potevano più nutrire le loro anime con le loro paure. Ogni volta che noi ad esse obbediamo facciamo anche qui opera contraria allo Spirito E poi l’universalità. Che non è solo il gusto culturale un po’ snob di conoscere gli altri paesi o genti straniere. Ma la capacità di trovare bellezza e verità ad ogni latitudine. Ogni volta che percorriamo strade che ci rendono astiosi ed accigliati, ogni volta che attingiamo al peggio di noi stessi e degli altri, noi facciamo opera contraria allo Spirito. Eccolo l’approdo. Forse ci pare lontano. Ma c’è da chiederci se siamo in viaggio. Soprattutto se abbiamo le vele spiegate. Se le teniamo arrotolate e strette all’albero, il vento dello Spirito potrà soffiare finché vuole ma non ci muoveremo di un centimetro. Apriamo le vele. Allora andremo al largo. Allo spirito basta poco per realizzare ciò che è il bene di tutti. Il bene che Dio sogna per noi. Don Umberto

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Domenica 22 maggio 2016 COMUNICAZIONE E COMUNIONE

SS. Trinità (Gv 16,12-15)

Gesù non ha detto tutto quello che aveva da dire. Nemmeno ai suoi, nemmeno a quelli che gli erano più intimi. Non avrebbero saputo portarne il peso, dice il testo evangelico di oggi. Ci sono stati, quindi, anche i silenzi e le cose non dette, nel modo di comunicare di Gesù. Pare di ritrovare, in Lui, ancora una volta, una delle costanti della vita: non si può pigiare nella mente degli altri la verità a furia di moltiplicare le parole. Le cose più importanti hanno bisogno di silenzio, di spazi e tempo vuoti, dove agisce lo Spirito. Solo Lui può istruire i cuori su ciò che gli altri, anche vicini, non ci dicono. Oggi invece pare che sia necessario parlare, urlare, e farlo sempre, anche a vanvera. Un amico questa settimana mi ha regalato un libro. In apertura una frase lapidaria di p. David Maria Turoldo: “il nostro è un tempo senza silenzio, e quindi senza scampo”. Se c’è troppo pessimismo non so; certamente c’è verità. Forse tra le cose che Gesù non disse ci fu il mistero della Trinità. Troppo complesso portarne il peso per la mente dei discepoli. Anche per noi, a dire il vero, che restiamo sempre tentennanti il giorno di questa festa. Procediamo cautamente di fronte a questo mistero. Una cautela che però non ci impedisce di raccogliere una preziosa riflessione sul legame che intercorre tra Padre, Figlio e Spirito Santo. È un legame d’amore, un reciproco donarsi completamente. Ciascuno offre se stesso all’altro,ciascuno si espropria di sé ma non smarrisce la sua identità. Questo è il grande segno della Trinità. L’amore, l’offerta di tutto ciò che siamo non ci fa perdere noi stessi, ma addirittura ci rinsalda, ci rinvigorisce. Forse proprio su questo scoglio si arenano tante dinamiche affettive e tante scelte di volontariato: pare che, a far dono di sé, si perda la propria libertà, la propria personalità, il proprio mondo. Ma nella vita spirituale non è così Le leggi dello Spirito sono contrarie alle leggi della materia. Nella vita dello Spirito ci si arricchisce donando e povero è colui che non fa dono di sé Nelle realtà materiali quasi sempre è il contrario. Ci conceda, la Santissima Trinità, di entrare in quest’ottica di vita. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 29 maggio 2016

Corpus Domini

PANE DI VITA

(Lc 9,11b-17)

L’Eucarestia non cessa di stupire e di svelare la sua bellezza, la forza della presenza reale di Cristo. A volte penso che noi occidentali abbiamo imparato dall’eucarestia il vero valore del cibo e dei pasti. Mangiare non è solo nutrirsi. Mangiare è condividere, mangiare è gustare l’amore di chi ha preparato il cibo. Mangiare ha sempre un significato spirituale. E quando noi prendiamo quel pezzo di pane senza lievito, sappiamo che è Altro che prendiamo: il corpo del Signore, il suo amore che si dona. E da lì capiamo che tutte le realtà hanno una dimensione più profonda, spirituale, invisibile agli occhi, che le precede e che permette loro di esistere. C’è altro che però mi colpisce se penso all’Eucarestia. Il mistero del Corpo e Sangue del Signore ha un legame stretto con il momento della sera. Tutti i momenti eucaristici Gesù li ha vissuti di sera. E la sera è un simbolo. Simbolo di ciò che finisce; simbolo di quel che non siamo riusciti ad ottenere; simbolo di un buio che prende non solo il corpo ma anche il cuore. In quest’ora della sera il Signore si fa presente. E l’Eucarestia parla. Parla di ciò che rimane per sempre, di ciò che dura, di ciò che resiste. Come vorremmo fossero tutte le cose che facciamo per amore. Don Umberto

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Domenica 5 giugno 2016 LA FORZA DELLA VITA

(Lc 7,11-17)

La corrispondenza, voluta e consueta, che la liturgia propone tra la prima lettura e il Vangelo, oggi è particolarmente chiara. I due episodi sembrano quasi il calco l’uno dell’altro: due vedove, due figli unici,due morti, due resurrezioni. Ma è nelle differenze, pur presenti, che dobbiamo cogliere il messaggio. La prima lettura non lesina particolari che fanno emergere la drammaticità del momento. La madre di quel ragazzo morto grida il suo dolore: lo fa con parole audaci, probabilmente inappropriate. Si scaglia contro il profeta, quasi gli rovescia addosso la sua rabbia. Sono parole sbagliate, certo. È però quasi indispensabile pronunciare parole sbagliate, molte parole sbagliate, prima di trovare quelle giuste, quelle adatte e capaci di dare figura ad un sentimento profondo o ad un dolore. La donna del Vangelo invece porta suo figlio alla sepoltura ma tace, piange sì, ma tace. Un silenzio assordante perché oppresso dal dolore. Molti sentimenti confusi spesso stanno all’origine delle lacrime. Bisogna lasciarle scorrere copiosamente prima che questi sentimenti emergano, affiorino e possano così essere curati. Quando escono incontrollate, come un fiume in piena, inondano le labbra di chi parla e fanno dire ciò che forse non si pensa. Così, tornando alla donna della prima lettura ecco esondare anche parole amare parole che cercano un motivo al dolore nel senso di colpa. La madre di fronte al male suo e del figlio è oppressa dal sentimento oscuro che c’entri la propria colpa. E forse non solo per quella madre è così. Il profeta Elia che ridona vita al ragazzo vuole guarirla anche da questo male profondo, che si annida nell’animo e ha radici antiche: Dio guardiano implacabile e punitivo. Anche Gesù ripulisce questa immagine. Anche Gesù fa risorgere il figlio unico di una madre vedova. Ma i suoi gesti sono al contempo, più delicati e più autorevoli di quelli del profeta. Senza che la donna parli Gesù comprende il suo dolore e i suoi sentimenti; con la sola forza della parola ridà vita al figlio; tocca la bara senza paura di rendersi impuro. La scomparsa delle persone che amiamo distilla nella vita di ciascuno, poco o tanto, un veleno mortale. Ed è proprio questo veleno che Gesù vuole rendere inoffensivo. Nel trionfo della vita, trionfa la speranza. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 12 giugno 2016 NEL CUORE

(Lc 7,36-50)

Cosa c’è nel cuore della più corrotta prostituta? Non so se è la domanda giusta da farsi, ma di fronte a questa bellissima pagina evangelica, me la sono proprio posta. Me la pongo ancora perché mi pare che dalla risposta a questa domanda dipende la differenza di trattamento tra Gesù e Simone il fariseo nei confronti di quella donna che, entrando all’improvviso in sala, si mise ai piedi del Signore. Dallo sguardo dipende tutto. E c’è uno sguardo che si ferma ai fatti, si limita a registrarli; e un altro tipo di sguardo che oltre ai fatti cerca il cuore. Mi delude sempre il primo tipo di sguardo. Come per Simone il fariseo caratterizza coloro che stanno sulla superficie delle cose, quelli che amano stare a galla in ogni situazione cioè sempre in equilibrio, senza compromettersi mai. A volte la necessità della vita ci chiede di fare così, ci chiede questo stare nel mezzo. Ma quanta mediocrità! La persona che vive così, in realtà non vive: il personaggio di oggi invita Gesù a casa sua, ma poi lo tratta con distacco. Gesù va di moda, averlo in casa fa rumore, ma guai a schierarsi proprio totalmente con lui. Mentre lo sguardo di Gesù mi commuove, mi conquista. Forse perché vorrei, vorremmo essere guardati così. Il suo sguardo legge le ragioni del cuore, gli itinerari del cuore e le sue svolte improvvise. È come se non registrasse il negativo, come se non leggesse le contraddizioni di questa donna con la legge. Gli occhi del Signore si posano sulle sue intime esigenze, sulla spinta interna. Magari questa spinta l’ha portata a sbagliare, ad essere in contrasto con la legge, ma mirava ad altro. È uno sguardo d’amore che coglie questo bisogno profondo, che si fa largo attraverso il groviglio di obiettive violazioni morali per fissarsi sul punto sorgivo che, invece, è buono. E il miracolo di Gesù consiste nel trovare in ciascuno questo punto sorgivo e farlo diventare il principio di un nuovo modo di vivere. Mi chiedo, per ciascuno di noi, con che sguardo ci siamo abituati a convivere. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 19 giugno 2016 NON BASTA SAPERE

(Lc 9,18-24)

Alla domanda di Gesù “chi sono io?” Pietro risponde con prontezza. E risponde bene. Ha le idee chiare; lo Spirito lo ha illuminato e ha messo sulle sue labbra parole vere. Le cose le sa. Ma è sufficiente? Appena si profila l’esigenza di seguire il Signore su un cammino difficile, ecco che tutto il suo sapere si rivela debole, inconsistente, teorico. La conoscenza non basta ad imprimere alla volontà un assenso reale e concreto. Questo stallo dell’Apostolo ci fa pensare. Oggi disponiamo di tantissime informazioni; il sapere si è allargato, diffuso ad una base sempre più popolare. Bastano pochi secondi per arrivare a conoscere ciò che non sapevamo. Ma forse questo flusso continuo di informazioni ci ha illuso che basti sapere una cosa per essere davvero partecipi o per conoscerla profondamente. Quando Gesù intuisce che i suoi discepoli sanno chi Lui sia, chiede loro di non dirlo a nessuno. È come se stoppasse questo ricircolo di informazioni, questo bisogno di far sapere, affinché si dia spazio e tempo per stare con Lui da vicino, toccandolo, amandolo e seguendolo. In fondo anche l’amore umano, l’amore tra noi è così; non basta sapere chi sia l’altra persona. Ci vuole il cammino fatto insieme. Perché ci sia questa condivisione, occorre rinnegare se stessi. Proprio questo chiede Gesù. Quando sento risuonare questo appello, così forte, così assoluto, io mi faccio una domanda. Forse nasce dal mio vizio incallito di guardare le cose anche da un’altra prospettiva; ma mi chiedo se rinnegare se stessi non voglia dire rinnegare pure tutti i limiti che ci portiamo appresso, tutti i nostri pensieri limitanti, tutte le nostre paure e i nostri scoraggiamenti. Penso che anche questo voglia dire rinnegare se stessi. Continuare a tormentarsi non è certo un atto religioso! Noi abbiamo paura di perderla la nostra vita … ma val la pena tenerla così tiepida e limitata? Forse la nostra paura non deve essere quella di perderla la vita, ma di non arrivare ad avere quella piena, quella vera che solo Dio ci da. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 4 settembre 2016 ESIGENZE DELL’AMORE

(Lc 14,25-33)

Un vangelo peggiore per ricominciare a scrivere La Via non mi poteva capitare. Le parole di Gesù oggi suonano sorprendentemente dure, quasi impossibili da essere ascoltate e capite. Chi tra noi è in grado di rinunciare a tutti i suoi averi per seguire Gesù? E chi, in cuor suo, può dire di amarlo sopra ogni cosa? Sono domande che hanno il potere di farci sentire fuori dalle dinamiche della sequela. Ci vien da dire che non fa per noi. Ma perché Gesù è così esigente? Era allergico ai facili entusiasmi, lo sappiamo. Quando la gente che era con lui aumentava di numero invece che rallegrarsene faceva di tutto per scoraggiarla. Allontanava le persone con un linguaggio duro, magari dopo averle avvicinate con parole di misericordia. E questo mi ha sempre fatto riflettere. Anche in questo brano accade. L’episodio infatti segue di poco la parabola degli invitati al banchetto, nella quale Gesù dice che l’invito è aperto a tutti, soprattutto a coloro che non possono offrire particolari credenziali. Un discorso così non può non entusiasmare, non può non far pensare ad un Gesù buono, dolce, comprensivo e accondiscendente. E invece, subito dopo, ecco la sua durezza, la sua intransigente richiesta di assoluto. Come mai? Le parole di Gesù non sono in contraddizione: l’invito al banchetto, i suoi doni, il suo amore sono gratuiti. Ma il fatto che siano gratuiti non esclude affatto che siano anche molto impegnativi. Se ci pensiamo un po’, accade così anche nelle nostre relazioni; nei rapporti umani succede che i vincoli più impegnativi siano proprio quelli generati da comportamenti gratuiti: niente lega tanto quanto un dono. Il duro parlare di Gesù allora è un modo per scuotere la coscienza di chi non ha colto la preziosità del dono, di chi non è disposto a legarsi al donatore. Forse questa è la vera condizione che impedisce di essere discepoli: non accettare di essere debitori, di dovere qualcosa all’amore di Dio che ci tiene in vita. Il dono ricevuto un prezzo ce l’ha. E’ proprio questo che ne esprime il valore. Per una volta funziona come la logica mondana: se una cosa te la tirano dietro gratuitamente significa che non vale. Invece le realtà dello Spirito valgono. Per questo hanno un prezzo altissimo. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 11 settembre 2016 PERDUTI

(Lc 15,1-32)

Luca raccoglie le tre parabole della misericordia in un solo capitolo. Le unifica come ad intensificare il messaggio, come a ripetere insistentemente l’assoluta grandezza e gratuità dell’amore di Dio. C’è un aggettivo che possiamo considerare il minimo comune denominatore di queste parabole; è l’aggettivo “perduto”. Si parla di pecorella perduta, di moneta perduta, di figlio perduto. L’esperienza di perdersi è bruttissima. Non so a chi sia mai capitato. E non intendo il perdersi metaforico, interiore o spirituale. Ma il perdersi fisico, lo smarrire la strada, il non riuscire più a tornare a casa o a raggiungere la meta prefissata. Se succede (come al sottoscritto) quando si è bambini, è veramente un dramma. Si è assaliti da uno smarrimento totale, da una disperazione che porta al pianto, al panico più completo. Quasi sempre in queste situazioni si viene trovati da qualcuno o da qualcosa. Casualmente o provvidenzialmente una strada già nota ci compare davanti o una persona conosciuta ci riporta a casa. Non si esce da quello smarrimento con le proprie forze o capacità, ma per un intervento di altri. Così è anche nella realtà dello Spirito. Colui che cerca chi si è perduto è Dio. Non solo lo cerca ma affronta le critiche per stare dalla parte di chi è perduto. Non solo rischia ma prova anche una grande gioia per il ritrovamento del perduto. E si interessa anche di una sola persona; non c’è bisogno dei grandi numeri. Al tempo di Gesù, la rivelazione di questo volto di Dio fu qualcosa di sconvolgente. Oggi per noi è diventata una cosa normale. Normale solo nel pensiero e sulle labbra però. Perché se la Chiesa si mette seriamente dalla parte dei perduti allora le cose si complicano un po’ e si arriccia il naso di fronte a chi prende le parti di stranieri, immigrati, pubblici peccatori, ecc … Sono tutte persone frequentando le quali ci si sporca, ci si contamina. Sembra che i tempi non siano cambiati. Un giorno ci siamo perduti anche noi e qualcuno ci ha trovato. Oggi altri hanno bisogno di essere trovati. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

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Domenica 18 settembre 2016 ELEMOSINA

(Lc 16,1-13)

Nel leggere questa pagina di Vangelo mi è venuta in mente la parola “elemosina”. Forse oggi ne abbiamo un po’ ridotto il significato: la associamo agli spiccioli che ci capita di dare ai mendicanti che troviamo per strada. Anche nel Vangelo si parla di capacità di far dono dei propri soldi, anzi di procurarsi amici (i poveri) con i propri soldi. A me pare comunque che l’elemosina non abbia un significato solo materiale e che ciò che con essa intendiamo vada inteso anche spiritualmente. Elemosina è ogni gesto di dono che in qualche modo ci espropria perché ciò che doniamo non è più nostro. Per questo è decisamente più facile l’elemosina agli estranei che quella a coloro che ci sono vicini. L’estraneo infatti molto spesso si allontana e quello che noi gli abbiamo dato non ci impegna per il domani. Mentre quando si tratta di chi ci è familiare il gesto di oggi diventa una implicita promessa per il domani. Ai nostri cari non possiamo donare in modo forfettario. Il dono a chi ci è vicino è per sempre. È quotidiano. Ed è per questo che è un grande investimento: il dono, l’elemosina che ci impegna per il domani, garantisce del carattere non emotivo o transitorio del nostro amore, ma della sua stabilità. Ed è anche per questo che l’unico senso che hanno le cose che abbiamo (il tempo, il denaro, il sapere) è quello di essere donate. Ciò che non è donato è posseduto ingiustamente e alla fine andrà perduto. Lo intuisce anche il personaggio della parabola che a noi, francamente, imbarazza. Un amministratore corrotto fino al midollo che non esita a falsificare i bilanci pur di conservare la poltrona. Ma usa quel denaro “sporco” per farne dono. Gesù non loda queste falsità, questi imbrogli, questo denaro ingiusto. Ma la scaltrezza dell’amministratore, la sua capacità di cogliere al volo la situazione e la conseguente acutezza nell’affrontarla con genialità. Ci vorrebbe che noi discepoli del Signore mettessimo la stessa prontezza, la stessa fantasia, la stessa lucidità per cogliere le occasioni di bene, per scovare le situazioni in cui far dono di ciò che siamo e così farci amici che ci accolgano nelle dimore eterne. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 25 settembre 2016 LEGGEREZZA

(Lc 16, 19-31)

Istintivamente ci viene da associare a questa parola solo connotazioni positive. Oggi la leggerezza la cercano un po’ tutti e in tutti i campi. Vogliamo mangiare cibi leggeri; se facciamo sport cerchiamo scarpe comode e leggere; amiamo sentirci leggeri … Se poi ci addentrassimo in ambiti più importanti scopriremmo che anche il Papa ha parlato di leggerezza del cristiano. Nella sua “Evangeli Gaudium” ha raccomandato ai cristiani di essere leggeri, cioè non contorti nei pensieri, non legati alle strutture o a logore abitudini. A me viene da pensare anche alla letteratura e alle splendide “Lezioni americane” di Italo Calvino. Una di esse era appunto dedicata alla leggerezza; la leggerezza nello stile di scrittura certo. Ma quelle lezioni furono così profetiche da poter essere applicate anche in altri settori. Sempre più quindi il termine “leggero” significa “positivo” E il suo contrario evidentemente è negativo. Tant’è che alla parola “pesante” noi associamo un altrettanto istintivo fastidio. Oggi anche il Vangelo ci parla di leggerezza. Anche se apparentemente non sembra così. È la nota parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro. Abituati come siamo a considerare il ricco nella sua insensibilità e nella sua durezza di cuore, ci sfugge, a volte, il cuore stesso della parabola. Cioè l’incredibile sordità del ricco alla voce di Dio che pure in vita gli ha continuamente parlato attraverso Mosè e i profeti. Eccola la leggerezza, che il profeta Amos nella prima lettura chiama in un altro modo: spensieratezza. Esiste quindi un’altra accezione della leggerezza, quando essa significa superficialità, banalità, intontimento. Comporta l’incapacità o la non volontà di prendere sul serio le cose importanti, solo perché non sono urgenti o forse meno appaganti. Ed è una cosa contro cui il Signore si scaglia in modo irrevocabile. E le conseguenze negative di questo stile spensierato sono senza appello. Come sempre quindi la parola di Dio ci consegna domande (e anche risposte a dire il vero!): quando la leggerezza è un bene e quando è un male? Quando è virtuosa e quando viziosa? Quando lo stile spensierato è una grazia per la nostra vita e quando è un danno? Lasciamoci interpellare nella preghiera di questa settimana. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 9 ottobre 2016 NOVE a UNO

(Lc 17,11-19)

Più di altre volte mi piace oggi il rincorrersi tematico tra la prima lettura e il Vangelo. Forse perché la prima lettura è la conclusione di un episodio tra i più memorabili dell’Antico Testamento: la guarigione dello spietato generale siriano Naaman. O forse perché il tema trattato è quello della gratitudine che ritengo essere uno degli ingredienti necessari per avere una vita piena, una vita felice fin dove è possibile. Lo scambio di battute della prima lettura tra il lebbroso guarito e il profeta Eliseo che ha compiuto la guarigione è carico di significato. Il profeta non accetta i doni del generale perché non vuole qualcosa che gli ricordi il bene compiuto: chi fa il bene lo dimentica per non vantarsene e per non correre il rischio di rivendicazioni. Chi è stato guarito invece porta con sé un po’ di terra di Israele perché lui sì che deve ricordare. Ricordare e ringraziare Dio. Ogni giorno. È la stessa gratitudine di un altro lebbroso, quello del Vangelo, che torna indietro a dire grazie a colui che lo ha salvato. Peccato che insieme a lui ce n’erano altri nove i quali non tornano indietro e se ne vanno ciascuno per la sua strada. “E gli altri nove dove sono?” chiede Gesù, e queste sue parole hanno il sapore della delusione, quasi dell’amarezza. Ma non si tratta del risentimento personale di chi si sente offeso per non essere stato ringraziato di un favore. Credo proprio che il Signore fosse assolutamente libero da certe povertà psichiche da cui, invece, noi siamo fortemente intaccati. Gesù resta deluso per il bene che voleva a quei lebbrosi guariti; ci rimase male per loro e non per lui. Perché chi impara a ringraziare impara a vivere. Ma perché non lo fecero? Possiamo solo immaginarlo e confrontare con loro la nostra vita. A volte non si ringrazia perché si da per scontato che le cose ci siano; altre volte perché si è troppo presi dai propri pensieri; altre ancora perché per ringraziare ci vuole umiltà e non solo buona educazione. Ma proprio qui sta la virtù e il segreto della gratitudine. Essa non è pura cortesia, è un modo di pensare se stessi e di pensare la vita. Noi non ci siamo fatti da soli; senza il dono di Colui che tutto ha creato noi non saremmo niente. E niente saremmo anche senza il dono degli altri. Per questo occorre praticare la gratitudine come stile: per scongiurare che i benefici di Dio avviliscano in fretta. Perché solo a queste condizioni, il rendimento di grazie, il miracolo della vita evita di invecchiare e di appassire rapidamente. Don Umberto Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 16 ottobre 2016 UN DIO CHE FA GIUSTIZIA

Lc 18, 1-8

Se si legge la parabola con attenzione ci si accorge che essa insiste non tanto sulla perseveranza della preghiera quanto sul comportamento del giudice: non come pregare, ma la prontezza di Dio nel far giustizia ai suoi eletti, questo è il centro della parabola. La figura principale non è la vedova, che con la sua preghiera ostinata induce il giudice a fare giustizia, ma è il giudice stesso. Il punto culminante della parabola è la certezza dell’esaudimento. Se un uomo cattivo come quel giudice («che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno») si lascia, alla fine, indurre a fare giustizia dalla preghiera di una povera vedova, quanto più Dio, Padre buono ed esatto contrario di quel giudice, esaudirà le implorazioni dei suoi fedeli. Tanto più che non si tratta di una preghiera qualsiasi, di una domanda meschina, ma di una domanda evangelica, importante: «Fammi giustizia». L’espressione «fare giustizia» ricorre quattro volte nel brano e può essere presa come parola chiave per la sua interpretazione. E difatti la sete di giustizia costituisce l’atmosfera dell’intera parabola. Nella Bibbia la vedova è il simbolo della persona indifesa, debole, povera, maltrattata. E così comprendiamo che qui la vedova rappresenta i poveri che domandano giustizia, i buoni che vengono oppressi e trattati come se fossero dalla parte del torto. La parabola intende rispondere al disagio dei buoni che, a volte, hanno l’impressione che Dio ritardi a fare giustizia. È un disagio che non si rifà a un momento preciso della storia, ma accompagna la storia di ogni tempo. Se è così, allora, l’orizzonte della parabola si allarga molto. Non è più soltanto il problema della preghiera e della sua efficacia, bensì il problema della giustizia di Dio che sembra, molte volte, messa in discussione. Nell’insistenza della povera vedova è racchiuso tutto il disagio dei buoni e degli onesti, che hanno l’impressione che Dio, anziché intervenire, lasci andare le cose come vanno. Se Dio è un padre amorevole, perché le disgrazie? Se è giusto, perché l’ingiustizia trionfa nel mondo? Ebbene - risponde la parabola - continuate a pregare con insistenza e con fiducia, l’intervento di Dio è certo. Non soltanto certo, ma pronto: «Vi dico che farà giustizia prontamente». Il vero problema però - conclude sorprendentemente Luca (v. 8) - non è che Dio faccia giustizia sulla terra, perché questo è certo. Il vero problema è un altro: quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora fede sulla terra? Don Bruno Maggioni

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 23 ottobre 2016 A CONFRONTO

(Lc 18,9-14)

Mi dispiace per il fariseo. Una vita di santità rovinata, azzerata direi, da un episodio così. Uno zelo, un impegno costante, una fedeltà alle regole completamente ignorate dalla storia e dai posteri che hanno sempre simpatizzato per il pubblicano. E certo, ci viene da schierarci dalla parte di quest’ultimo; ci piace la sua onestà di fondo, il suo umiliarsi, il suo riconoscersi peccatore stando in fondo al Tempio. Ma obbiettivamente la vita del fariseo era migliore. Tanto migliore. Pregava, digiunava più di quanto richiesto, pagava le decime cioè faceva il suo dovere per aiutare i poveri. L’altro invece era notoriamente un furfante; una vita di ricatti, imbrogli, furberie. Eppure il fariseo, così integerrimo, così santo manda tutto a rotoli per la sua fragilità, non per la sua arroganza. Ed è per questo che mi dispiace. Mi intristisce il suo bisogno di confronto, la sua necessità di paragonarsi agli altri, la sua modalità di abbassare la reputazione del pubblicano per innalzare la propria. È l’emblema di chi è affetto da questa smania di confrontarsi con gli altri per cercare mediante il confronto con loro le ragioni per ritrovare la stima di sé. Come se mancasse qualcosa alla propria vita. Certo, a tutte le vite manca qualcosa. Ma a lui, così giusto, così a posto, apparentemente non mancava nulla per sentire nel suo cuore l’unica stima che conta davvero, cioè quella di Dio. Non a caso è la preghiera il luogo in cui si svela l’autenticità dei sentimenti profondi dell’anima. È mentre prega, (o tenta di farlo) che emerge questa sua fragilità, questo suo bisogno di sentirsi “stimato”. Il Vangelo usa la parola “giustificato”: cioè sentire che la propria vita vale, è sensata, serve a qualcosa. Ora, io penso davvero che la nostra vita la possa giustificare solo il Signore. Così come è l’unico che la possa giudicare. Resta l’amaro in bocca a pensare che forse il fariseo non abbia mai compiuto il bene per sentirsi vicino a Dio, ma solo per sentirsi migliore degli altri; e che abbia cercato un compenso, una gratificazione nella considerazione altrui, invece che godere del bene compiuto. Peccato. Lo ripeto, anche se la storia ha simpatizzato per il pubblicano, a me dispiace per il fariseo. E faccio il tifo per lui.

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

Don Umberto

“La Via” raccolta 2016


Domenica 30 ottobre 2016 DISORDINE DIVINO

(Lc 19,1-10)

Se leggendo questo famoso brano evangelico noi volessimo fare come il protagonista Zaccheo, allora dovremmo sgombrare il campo dalle distrazioni per concentrarci unicamente su Gesù. C’è grande folla attorno a Lui; c’è consenso, approvazione in parte curiosità. Ma questa folla, che pure era venuta per applaudirlo, all’improvviso cambia umore e comincia a mormorare. “Tutti mormoravano” dice il testo, nessuno escluso. Che l’idea di folla esprima generalmente le qualità più basse dell’animo umano lo sappiamo; ma un cambiamento così repentino dovrà pur avere una forte spiegazione. Qual è la causa della contrarietà della folla? Quale il motivo della sua irritazione? Il fatto che Gesù fosse andato ad alloggiare da un peccatore. Un gesto così scompagina l’ordine delle cose, scompiglia la verità più sicure su cui la vita di molti si appoggiava. Era un ordine che supponeva una divisione netta in buoni e cattivi. Il mondo diviso in bianco e nero. Tra persone per bene e persone non affidabili. Gesù si sottrae a questa logica evadendo le aspettative che la folla ha su di lui. E lo fa da persona pubblica, da maestro (rabbi). Egli dovrebbe confermare l’ordine stabilito e non sovvertirlo. E invece no. Niente di tutto ciò. Gesù ama la libertà come il vero e supremo bene anche di fronte alle attese di tutti. Ama la sua libertà, il suo bene, o quello di Zaccheo? Infrange l’ordine stabilito per un capriccio, per testardaggine o perché quello è l’unico modo per salvare Zaccheo? La risposta ciascuno di noi può darla. Ci sono situazioni in cui è necessario deludere le aspettative, sottrarsi alle attese, persino creare malumori: quando c’è in ballo un bene più grande che altrimenti andrebbe perduto. Probabilmente anche Zaccheo fu contagiato dalla vita di Gesù. O forse, più semplicemente, era già abituato alle critiche e alle mormorazioni su di sé. Tanti avranno pensato che se davvero rispettava Gesù non avrebbe dovuto metterlo così a disagio, non avrebbe dovuto esporlo ad una situazione così incresciosa. Ma troppo grande era l’occasione di poter stare con il maestro e di poterlo accogliere in casa sua. Mi immagino allora Zaccheo reagire con l’unica risposta adeguata: una bella alzata di spalle. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 6 novembre 2016 SADDUCEI ODIERNI

(Lc 20,27-38)

Storia di una madre che consegna ai figli il tesoro più prezioso: la fede. È la vicenda di cui parla la prima lettura, oggi un po’ decurtata dalla liturgia ma custodita nei suoi passaggi essenziali. Storia di una madre che univa la tenerezza femminile alla forza virile e al coraggio. E per questo dice al proprio figlio di non temere neppure la morte, continuando a credere nella vita eterna. Su questo argomento si sofferma anche la pagina del Vangelo. Ci sono i Sadducei che vogliono imprigionare Gesù in una controversia. E come di solito fa in queste occasioni Gesù sfugge. Perché le controversie sono sempre operazioni di corto respiro. E Gesù in qualche modo ne è insofferente, è come se volesse uscire dall’accerchiamento e respirare all’aria aperta dilatando l’orizzonte. E lo fa anche riguardo alla resurrezione della carne, lasciando capire che la vita futura non potrà essere ridotta alla semplice trasposizione felice di ciò che facciamo qui in terra, quasi si trattasse di una rianimazione di cadaveri. La resurrezione sarà molto di più: non sarà una ripetizione ma una trasfigurazione perché la morte per un cristiano non distrugge ma trasforma. Significativo il fatto che un modo così semplicistico e materiale di leggere la resurrezione venisse da un gruppo, i Sadducei, che nella resurrezione non credevano affatto. Essi avevano costruito un intero sistema religioso, ben compaginato e ineccepibile. Ma senza fede nella resurrezione. Esistono anche oggi i Sadducei. Non quel preciso gruppo ovviamente; ma tutte quella forme di vita cristiana senza resurrezione. Quelle forme diffuse che riducono il cristianesimo a pura opera sociale, a una pura trasmissione di valori. E rendono Gesù semplicemente un grande uomo. Come se soccorrere i poveri e gli sventurati fosse il fine del cristianesimo e non uno dei suoi mezzi per un fine più grande: il Paradiso. Dio ha in mente per noi orizzonti grandissimi. Ha in mente per noi una terra e situazioni che non osiamo immaginare. Non mortifichiamolo con le nostre vedute. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 13 novembre 2016 LIMES

(Lc 21, 5-19)

La parola è latina e significa “confine”. Per gli antichi romani non era solo il modo di limitare uno spazio. Limes era un concetto forte: una soglia da non oltrepassare. Oltre c’era l’ignoto, il pericolo e lo svantaggio di una condizione in cui l’impero non poteva più proteggerti. Non conveniva davvero andare oltre il limes. Oggi nel Vangelo Gesù parla di catastrofi, di guerre, di pestilenze e carestie. Un linguaggio duro, apocalittico. E chi lo ascolta vuole conoscere il limes. Vuole sapere quali saranno i segni che quelle cose stanno per compiersi. Vuole una anticipazione almeno verbale di quella soglia, oltre la quale il pericolo sarà concreto e reale. Forse per scongiurarlo, per allontanarlo il più possibile, o per eliminarlo del tutto. C’è qualcosa di contemporaneo, di attuale in quelle domande. Il sentire comune di oggi, il polso della società mi sembra che non batta più al ritmo del verbo “consumare” ma del verbo “durare”. Si prende sempre più coscienza che la terra non potrà essere consumata all’infinito ma che occorre farla durare; così il proprio corpo, le proprie relazioni, le proprie cose. Gesù sembra non soffermarsi su questo aspetto. Per Lui le catastrofi sono in qualche modo inevitabili. Decisivo è salvarsi o perire in esse. E per salvarsi Gesù raccomanda la perseveranza. Essa è la fedeltà alle piccole cose quotidiane, alle scelte, alle decisioni, allo stile di vita cristiano. La perseveranza richiede ripetitività di gesti, di scelte e di pensieri che quelle scelte hanno prodotto. Ed ecco allora che cosa mi chiedo. Esiste un limes anche nella perseveranza? Esiste cioè un confine che è pericoloso attraversare perché una volta oltrepassato la perseveranza diventa noia, routine e stanca abitudine? O peggio ancora diventa scelta di comodo e cattiva volontà? Sentiamo spesso dire che la perseveranza è un atteggiamento generalmente buono. Ma a volte ci viene altresì detto che Dio è perenne novità, che chiama a scelte diverse e più coinvolgenti. Cosa dobbiamo fare allora? Come conoscere anche noi i segni “che ciò sta per compiersi”, cioè che la catastrofe sta avvenendo dentro di noi prima che nel mondo? Sono domande che invitano alla vigilanza; e l’eco di questa parola si sente già da questa domenica, perché l’avvento è alle porte. Prenderne coscienza è importante. Per non correre il rischio di oltrepassare quel limes al di là del quale i nostri giorni, inevitabilmente ripetitivi, potrebbero ucciderci l’anima. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 20 novembre 2016 CRISTO RE, DIO VICINO

Cristo Re (Lc 23,35-43)

Forse c’è ancora qualche nostalgico della monarchia. Mio papà, ad esempio lo è. Per questo mi ha chiamato Umberto. Mi sono chiesto (e non gliel’ho mai chiesto)che cosa lo attragga di questa forma di governo. Cosa ci trovi nella figura del Re. Non è semplicemente attrazione per l’uomo forte. Oggi tanti sono attratti dagli uomini forti, da quelli che promettono di risolvere i problemi con la forza, con un colpo di spugna. Seducono coloro che vendono l’illusione di avere soluzioni semplici a problemi complessi. Il Re, nella testa di coloro che lo rimpiangono è qualcos’altro. C’è quasi un processo di identificazione. E allora quando leggo la prima lettura di oggi, mi si chiariscono un po’ le idee. La gente d’Israele dice a Davide. “regna su di noi perché noi ci consideriamo tue ossa e tua carne” Le stesse parole che Adamo dice di Eva nei giorni della creazione! E Davide, ufficialmente, istituzionalmente, non era ancora re. Il re era Saul. Ma moralmente, affettivamente, lo era. Ed è questo che scatenava quel senso di appartenenza che il popolo gli attribuiva. Appartenenza e vicinanza. Con le stesse qualità possiamo identificare la regalità di Cristo. Non so se questa festa odierna ci comunichi vicinanza o lontananza. Certo dipende da tante cose: la nostra sensibilità, il linguaggio liturgico, la storia passata. Ma se stiamo al Vangelo, se ci ancoriamo a questa Parola come appiglio sicuro in tempestoso mare, allora “Cristo Re” equivale a “Dio vicino”. Perché il luogo di questa regalità è la croce, che non può mai mettere in soggezione. Gesù regna dal legno della croce, cioè dentro quelle sofferenze che prima o poi toccano la vita di ciascuno. Gesù regna come un uomo che potendo salvare se stesso decide di non farlo, ma di salvare gli altri. Gesù regna perché è al servizio, non ha in mano il bastone del comando. Forse è proprio per questo che anche noi vorremmo dirgli “siamo tue ossa e tua carne!” E certamente, è solo per questo che anche noi potremmo simpatizzare per il Re!

Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 27 novembre 2016 NOTTE

1° di Avvento (Mt 24, 37-44)

La Bibbia parla spesso di una atmosfera notturna nella quale siamo invitati a stare attenti a quel che succede. Perché di notte accadono cose decisive: di notte si apre il Mar Rosso affinché Israele lo attraversi; di notte lo sposo del Cantico va a bussare alla porta dell’amata; di notte il nemico semina zizzania in mezzo al grano buono. Ci lascia perplessi questa considerazione, in quanto per lo più la notte è fatta per dormire. Di notte sopraggiunge il sonno, quell’agognato riposo dalle nostre fatiche e anche dalle nostre inquietudini. La notte quindi ci libera dei molti pesi, anche se a volte ce li portiamo con noi e allora non si riesce a dormire e il tempo notturno è come una tortura. Resta il fatto che per lo più di notte si dorme. Si fa qualcosa di ordinario, naturale, biologico. Ma anche ciò che faceva la generazione del tempo di Noè (di cui parla il Vangelo) aveva queste caratteristiche: mangiavano, bevevano, prendevano moglie e prendevano marito. E Gesù in questo testo non a caso ci paragona a quella generazione; essa viene additata non per un peccato di immoralità ma per un atteggiamento superficiale di fronte alla vita. A furia di fare le cose ordinarie, le faccende che ti occupano la normalità dell’esistenza, essi non si accorsero di nulla. Mi chiedo: a cosa avrebbero dovuto fare caso ? Avrebbero dovuto guardare i segni intorno a loro o dentro di loro? Avrebbero dovuto essere vigilanti, questo sì. Ma come? E riguardo a cosa? Quando mi facevano studiare filosofia ricordo che c’era un gruppo di filosofi antichi, gli stoici, che insistevano molto su questo tema della vigilanza. Uno di loro, Epitteto; diceva “sorveglia te stesso come un nemico in agguato”. Credo che l’ammonimento valga anche per noi cristiani. C’è una vigilanza da esercitare sulla nostra interiorità, sui nostri pensieri, sulle nostre emozioni. L’essere assorbiti dalle cose da fare non ci aiuta di certo a viverla questo tipo di vigilanza. E poi c’è una vigilanza sugli stili di vita, su scelte sociali condivise dai più, su slogan culturali che affermano nuovi dogmatismi laici che anche un cristiano rischia ormai di dare per scontati. A volte anche ciò che non è apertamente male rischia di farci perdere l’occasione dell’appuntamento con il Signore. Egli viene per incontrarci. Mi chiedo cosa troverà quando busserà alla porta di questa casa che è la nostra vita. Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 4 dicembre 2016 AL CONTRARIO

2° di Avvento (Mc 1, 1-8)

C’è qualcosa di insolito nelle parole e nei gesti del Battista. Per ascoltarlo, per vederlo, bisogna andare nel deserto; precisamente bisogna uscire dalle città o dai giardini ed andare verso il deserto. Questo cammino è esattamente il contrario di quello compiuto dal popolo di Israele che invece attraversò il deserto per giungere alla Terra promessa e stabilirsi nella città. Sembra un invito a ripercorrere il cammino all’indietro, un invito a tornare alle radici. Ma perché Giovanni sta nel deserto? Non sarebbe meglio parlare in quei luoghi dove la gente vive, dove si dipanano le vicende quotidiane delle persone? Niente da fare: il Battista si ferma nel deserto. Forse si era convinto che la Terra della promessa non era quella già raggiunta; era infatti troppo simile a qualunque altra terra abitata dagli uomini. Ci voleva un’altra terra, dove davvero fosse possibile vivere in compagnia di Dio e praticare la giustizia. E per raggiungere quella terra occorreva curare i cuori, non solo il terreno. Occorreva conoscere la qualità dei pensieri e dei desideri e così maturare attese diverse da quelle della maggioranza della gente. Anche questo era il contenuto del suo pressante invito alla conversione: cambiare gli atteggiamenti non serve se non cambia il cuore. Le città, la Terra promessa, correvano troppo il rischio di appagare le persone, di appesantire lo stile di vita, di portare a pensare il superfluo come necessario. C’è davvero il bisogno di un ritorno al deserto. E per noi oggi? Riappropriarsi dello spirito del deserto e non lasciarcelo portare via significa tutelare le priorità di ciò che è essenziale, contemplando ancora una volta il Battista e i suoi gesti esagerati.Come quello dell’acqua. Nel deserto è la cosa più preziosa. Eppure lui la usa per battezzare. Sembra uno sciupìo fuori luogo, una cosa insensata. C’è un bisogno primario, la sete, e quest’uomo si preoccupa di battezzare! Forse abbiamo normalizzato troppo questa prassi del Battista; con distratta abitudine ne abbiamo smarrito il carattere di segno forte. Esistono necessità meno evidenti ma più profonde, nascoste nel cuore dell’uomo: per queste egli usava l’acqua. Per rilanciare, con il perdono dei peccati, il desiderio di Dio; che questa immagine ci interroghi sulle priorità che stiamo dando in questo tempo d’Avvento è cosa evidente e sotto gli occhi di tutti. Don Umberto e Don Stefano Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 11 dicembre 2016 RIPENSAMENTI

3° di Avvento (Mt 11,2-11)

Un uomo che non cambia mai idea è un uomo che tiene più a se stesso che alla verità. Anche Giovanni Battista si trovò un giorno di fronte a questo dilemma. E forse il suo tormento interiore, la sua inquietudine, non durarono un giorno ma molto di più. L’occasione di un ripensamento fu la sua prigionia: forse il buio della cella, forse la fine ormai vicina lo spinsero a chiedersi se Gesù era veramente il Messia da tutti atteso. Il dubbio, l’incertezza, si erano fatti strada perché quel maestro di Nazareth non corrispondeva affatto alle descrizioni fatte da Giovanni, ne’ tanto meno alle aspettative da lui suscitate. Anche il Battista probabilmente, come ciascuno di noi, aveva i suoi schemi mentali. Abbiamo imparato dalla psicologia che questi schemi li abbiamo nella testa: essi ci aiutano a sopravvivere, ma a volte ci fanno vedere cose che non ci sono. Altre volte diventano molto rigidi e così non siamo più disposti a farci sorprendere dalla novità. Giovanni dovette far fronte ai suoi schemi mentali, lasciarseli smontare e capire che le cose possono anche essere diverse da come le crediamo o ce le aspettiamo. Ed è proprio lì, in quel freddo carcere, che Giovanni diventa figura del discepolo che sa accogliere una crisi come benefica, in quanto lascia spazio all’agire inedito di Dio. Anche Abramo, sulle cui vicende stiamo pregando in questo Avvento, ha vissuto le medesime prove. E noi in fondo non ne siamo immuni: può apparire leggermente diverso il nostro dubbio, ma nella sostanza è il medesimo. Capita infatti di chiederci se quel Gesù che stiamo seguendo, se la Chiesa di cui siamo membri, se i valori del Vangelo in cui crediamo, siano davvero una risposta esauriente alle nostre inquietudini. Ci guardiamo intorno e vediamo un mondo che pensa e agisce diversamente da noi. E ci sorge l’interrogativo: stanno sbagliando loro o stiamo sbagliando noi? Avere un dubbio è una cosa salutare, vivere di dubbi è disastroso. C’è il Natale alle porte: forse anche Dio avrebbe potuto dubitare di noi. Ma non lo ha fatto. Personalmente mi basta questo a farmi sentire sicuro della scelta di fede compiuta.

Don Umberto

Parrocchia “S.Teresa Benedetta della Croce”

“La Via” raccolta 2016


Domenica 18 dicembre 2016 ANGELI E SOGNI

IV ° di Avvento (Mt 1,18-24)

Se Giuseppe avesse fatto così, Maria sarebbe stata lapidata. Ma non lo fece. Era un giusto, ma non cercò di seguire ciecamente la legge. Aveva una giustizia del cuore che gli permise di unire alla legge la misericordia. Congedare in segreto la sua futura sposa era il modo per salvarla e fare comunque ciò che dalla legge era permesso. Ma fu nel bel mezzo di queste riflessioni umane che le cose presero un’altra piega. Grazie ad un angelo e grazie ad un sogno. E mi piace pensare che il risveglio di Giuseppe fu uno di quei risvegli che ti cambiano la vita, perché hai deciso di fare una cosa e poi, improvvisamente, ne fai un’altra, diversa, strana e mai immaginata. Sì perché senza l’angelo e senza il sogno l’intelletto di Giuseppe, da solo, non avrebbe mai compreso ciò che era accaduto. Occorrono momenti così per sbloccare le cose. Occorrono momenti in cui per Grazia ci viene offerta una interpretazione delle cose più profonda, inedita ma persuasiva. Non siamo più abituati a pensare che questi momenti siano i nostri sogni. Ma per Giuseppe fu così. In verità il sogno è una dimensione molto presente in tutta la Bibbia. È un luogo privilegiato dell’incontro con Dio perché indica lo spazio dell’interiorità. È il luogo dove le nostre difese sono abbassate e dove riusciamo ad essere più veri, senza superficialità di incombenze quotidiane. Riprodurre la condizione del sogno mentre si è desti e vigili è molto difficile; ma abbassare le proprie difese di fronte al Dio che viene possiamo farlo. Possiamo anche noi fidarci della voce dell’angelo buono che ci parla. Ci ispira le cose migliori, le azioni giuste, le parole efficaci. Gli angeli non sono cose da bambini. Dice la Bibbia che cielo e terra furono portati a compimento insieme. Ad ogni realtà terrena ne è associata una celeste. Noi siamo uniti indissolubilmente ad una realtà divina e spirituale, ad una presenza celeste che è il nostro angelo. In qualche modo comunica: forse un sogno, un pensiero, una situazione. È probabile che questa settimana ci suggerisca di trovare il tempo di prepararci spiritualmente a questo Santo Natale.

Don Umberto


Bibliografia: Raccolta 2008

“ Lungo la Via del Vangelo “

Raccolta 2009

“ In Cammino con la Parola “

Raccolta 2010

“ Tracce di un cammino “

Raccolta 2011

“ La parola che apre alle parole “

Raccolta 2012

“ Ascoltate e vivrete “

Raccolta 2013

“ Una parola ha detto Dio, due ne ho udite”

Raccolta 2014

“Radunati dalla Parola”

Raccolta 2015

“L’eco del silenzio. Il suono della Parola ”

Raccolta 2016

“ Udimmo parole di misricordia”

tutte le raccolte sono consultabili su sito al seguente indirizzo : www.parrocchiaroveleto.it


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