rivista vdbd numero due

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NUMERO DUE – NOVEMBRE 2008

Viadellebelledonne

Quadrimestrale di letteratura, filosofia e arte del blog collettivo letterario Viadellebelledonne Registrata presso il Tribunale di Sassari al n. 45408 Direzione Alessandra Pigliaru (Dir. Responsabile) Antonella Pizzo (Dir. editoriale) - Morena Fanti - Sandra Palombo

Blog: http://viadellebelledonne.wordpress.com Rivista: http://www.viadellebelledonne.it redazioneviadellebelledonne@yahoo.it


Editoriale di Alessandra Pigliaru Oh, tormento del risveglio nel sogno, condizionato anch’esso dal destino, chiuso nei propri confini all’interno del sogno, tormento che persino nel riconoscersi continua ad attuarsi e tuttavia è già superamento del confine del sogno, è già separazione, poiché il cuore, una volta che abbia preso a battere, chiede che gli si apra la porta, è preparato alla realtà, e il suo palpito giunge sino ai confini e batte alla loro porta. [H. Broch, La morte di Virgilio]

La luce cristallina dell’accadimento onirico attende alla soglia del ricordo. Una filigrana sottile e vivida si accende tra le stanze che il sogno produce ogni volta. Un riparo rinnovato da moderni spazi, da densi luoghi dell’anima. La scrittura diventa così un luogo essa stessa. Un dispositivo, per altri versi, che se adoperato con cura prevede una posologia estetica di notevole impatto. Il numero due di Viadellebelledonne accoglie il tormento del risveglio scardinandone i confini. Le stanze assumono una diversa qualità e i luoghi visitati dalle parole insistenti chiedono che gli si apra la porta. Così le Strettoie sono modificate dalla cogente testimonianza di Roberto Saviano, in un’intervista curata dal giovane e brillante Alessandro Pecoraro. Inedita per il web, è da considerarsi come dichiarazione accorata di indefesso impegno letterario e civile. Francesco Pala Tabasso propone un saggio sulla lettura deleuziana di Marcel Proust, curando un percorso descrittivo originale e convincente, nel tentativo di seguirne il sentiero. Ilaria Ciancilla attraverso la lettura de La Montagna incantata di T. Mann, rimanda al potere alienante della malattia che attanaglia i protagonisti del sanatorio Berghof. I Pianerottoli si affollano di nuovi ritratti. Fernanda Ferraresso ci traghetta verso lo straordinario scenario poetico di Tadao Ando, architetto giapponese dal profilo complesso e creativo. Selma Lagerlof, la prima scrittrice premio Nobel, è invece la protagonista dell’appassionato saggio di Anna Maria Bonfiglio. Morena Fanti inaugura la rubrica Random. Racconti senza casualità, introducendo tre diversi stili di scrittura affilati e sagaci. Salvatore Jemma, Una nota di colore. Alessandro Berselli, Zipless fuck. Davide Piazzi, Un tè con Dio. Le Finestre si aprono ad importanti innesti. È il caso della rubrica curata da Sandra Palombo che si configura come spazio attento alla scrittura femminile nel Novecento, con brevi e preziosissimi profili bio-bibliografici; il ritratto che viene proposto è quello della poeta romena Maria Banuş. Salvo Zappulla recensisce il corposo romanzo di Carlo Monteforte come omaggio a Siracusa. Marta Ajò riflette intorno alla lettura-scrittura di genere attraverso Benedetta Craveri, Ritanna Armeni e Giuditta Brunelli. Gregorio Sorgonà legge il film di Darren Aronofsky, Requiem for a dream trovando uno spessore per niente scontato. Roberto Matarazzo e Iaia Gagliani, incontrati in Ponteggi, danno vita ad una sinestesia immaginifica e poetica che risuona come percorso tra Elio Vittorini e Fernanda Pivano. Un’intelaiatura equilibrata è quella di Teresa Ferri nel suo saggio sull’autobiografia come 2 VDBD – n. 2 – nov.2008


genere letterario che si fonda sulla scrittura del Sé. Ironico e tagliente è l’intervento di Francesco Di Domenico sulla scrittura umoristica. Le Balaustre si schiudono con l’intervista impossibile a Gabriele D’Annunzio a cura di Morena Fanti. Il secondo contributo è firmato da Elisabetta Bucciarelli che conversa con Paola Pioppi, corrispondente di nera e giudiziaria per Il Giorno e organizzatrice del festival La passione per il delitto. La terza è invece un’illuminante intervista di Marco Noce a Valerio Magrelli, poeta contemporaneo di altissimo spessore. Sandra Palombo dialoga con Manrico Murzi riguardo il libro di G. Caprilli Questo mare non finirà d’urlare. Anche qui si inaugura una nuova rubrica dal titolo Wonder Woman a cura di Antonella Pizzo che esordisce raccontandoci la difficile e affascinante esistenza di Maria Occhipinti. Di Camminamenti è invece ospite Maria Gisella Catuogno con una considerazione semiseria intorno alla didattica della letteratura negli istituti secondari. Il secondo contributo è quello di Nicola Amato sul giornalismo partecipativo. I Giardini del numero due sono assai frequentati. Si comincia con il contributo di Lucetta Frisa sull’occhio e le parole di Bernard Noël. Marco Scalabrino traccia un profilo del poeta dialettale Titta Abbadessa. Ottavio Rossani riflette sulla poesia di Gabriela Fantato. Francesca Pellegrino propone invece una nota critica su Diario Inverso di Lucianna Argentino. A chiudere questo secondo numero, la rubrica di poesia a cura di Francesco Marotta che anche questa volta ospita interventi illustri e di grande valore. Incontriamo Stefano Guglielmin e alcune pagine inedite del suo nuovo romanzo di imminente pubblicazione. Dello stesso Guglielmin è la lettura di Fabiano Alborghetti. Luigi Metropoli introduce l’opera poetica di Rocco Galdieri curando una consistente antologia. La lettura di Francesco Marotta si concentra su Chiusure di Gianluca D’Andrea.

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In questo numero

STRETTOIE – pag. 8 Intervista a Roberto Saviano di Alessandro Pecoraro Proust, Deleuze e l'incanto dei segni di Francesco Pala Tabasso

La Montagna incantata: un viaggio nell’inferno dove nasce la Vita di Ilaria Ciancilla

PIANEROTTOLI – pag. 29 Tadao Ando - facile troppo facile da sfuggire di Fernanda Ferraresso Selma Lagerlof, la prima scrittrice premio Nobel di Anna Maria

Bonfiglio Random - racconti senza casualità (Rubrica a cura di Morena Fanti) Salvatore Jemma Alessandro Berselli Davide Piazzi

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FINESTRE – pag. 57 Siracusa, il romanzo di una grande città del Mediterraneo di Salvo Zappulla Letture di genere di Marta Ajò Il miraggio della felicità – Requiem for a Dream di Gregorio Sorgonà Una finestra sul 900 a cura di Sandra Palombo

PONTEGGI pag. 79

Matarazzo - Gagliani - Ferraresso Autobiografia e riscrittura del Sé di Teresa Ferri Meglio umorista che commercialista di Francesco Di Domenico

BALAUSTRE pag. 93

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Intervista impossibile a Gabriele d’Annunzio di Morena Fanti Cronache di passione. Intervista a Paola Pioppi di Elisabetta Bucciarelli Intervista a Valerio Magrelli di Marco Noce Questo mare non finirà di urlare di G. Caprilli

Sandra Palombo ne parla con Manrico Murzi Wonder Woman: Maria Occhipinti (Rubrica a cura di Antonella Pizzo)

CAMMINAMENTI pag. 115 Moderna cronistoria semiseria della didattica di letteratura alle scuole superiori di Maria Gisella Catuogno Una nuova realtà nel mondo della comunicazione scritta: il giornalismo partecipativo di Nicola Amato

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GIARDINI pag. 126 Il tragitto dell’occhio: l’occhio e le parole di Bernard Noël. (traduzione e commento di Lucetta Frisa ) Titta Abbadessa di Marco Scalabrino L’IMPOSSIBILE CODICE ESISTENZIALE NELLA POESIA DI GABRIELA FANTATO di Ottavio Rossani I silenzi ostili dell’incomprensione amorosa di Francesca Pellegrino ***

GIARDINI (Rubrica a cura di Francesco Marotta) pag. 144 Senza dare nell'occhio di Stefano Guglielmin Introduzione a Rocco Galdieri a cura di Luigi Metropoli Note su Fabiano Alborghetti di Stefano Guglielmin Francesco Marotta - Nella pupilla immaginale del mondo (Una letture di Chiusure, di Gianluca D'Andrea)

Gli autori, i dialoganti, gli artisti che hanno collaborato a questo numero: Marta Ajò--Nicola Amato--Alessandro Berselli--Anna Maria Bonfiglio--Elisabetta Bucciarelli--Maria Gisella Catuogno--Ilaria Ciancilla-Francesco Di Domenico--Morena Fanti--Fernanda Ferraresso--Teresa Ferri-Lucetta Frisa--Iaia Gagliani--Stefano Guglielmin--Salvatore Jemma--Valerio Magrelli--Francesco Marotta--Roberto Matarazzo--Luigi Metropoli--Manrico Murzi--Marco Noce-- Bernard Noël--Sandra Palombo--Francesco Pala Tabasso--Alessandro Pecoraro--Francesca Pellegrino--Davide Piazzi-Alessandra Pigliaru--Paola Pioppi--Antonella Pizzo--Ottavio Rossani-Roberto Saviano--Marco Scalabrino--Gregorio Sorgonà--Salvo Zappulla 7 VDBD – n. 2 – nov.2008


(foto Paola Pluchino)

STRETTOIE

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Intervista a Roberto Saviano di Alessandro Pecoraro odora più di nulla. Questo è quel che ho voluto raccontare e far conoscere. I lettori che hanno scelto di leggere Gomorra, lo hanno scelto non come una lettura che fa evadere ma che invade e sono questi lettori che hanno permesso alla parola di tornare ad avere un potere e divenire pericolosa.

Quasi un milione e mezzo di copie vendute, più tradotto di Alessandro Manzoni, il suo libro inserito dal New York Times tra i 100 libri più importanti del 2007, ma allo stesso tempo costretto a vivere sotto scorta, senza fissa dimora a causa delle minacce del clan dei Casalesi. Roberto Saviano, una delle voci più interessanti della letteratura italiana con "Gomorra" ha conquistato il successo ma anche una vita da incubo.

Dal libro è nata anche una splendida opera teatrale ed un film premiato dalla giuria di Cannes. Qualcosa del genere è successa anche per il teatro e per il film. Persone che hanno letto il libro quando il successo era appena cominciato, lettori che si sono fatti invadere e che hanno voluto restituire con i loro specifici strumenti il senso che per loro aveva quell'invasione. L'importante è che ci sia stata questa trasmissione e che lo si riesca a percepire, perché si tratta di lavori di grande valore e questo si vede soprattutto nel fatto che sono esiti autonomi raggiunti attraverso un percorso che partiva dal mio libro.

Dalla pubblicazione di Gomorra sono passati due anni, ti aspettavi tutto questo clamore? Credo che c'è stata la voglia di conoscere attraverso il libro. Ho cercato di fornire gli strumenti per poter capire una realtà che in molte parti d'Italia non era conosciuta, perché il massimo che poteva arrivare erano fatti di cronaca e anche quelli arrivavano solo quando c'era in corso una guerra come quella di Secondigliano, con una cinquantina di morti in poche settimane. E i morti, le guerre non fanno capire. Sono solo la punta dell'iceberg, il prezzo di sangue versato perché in altri territori si produca una ricchezza che non

I Boss Bidognetti e Iovine il 13 Marzo hanno richiesto lo spostamento del processo Spartacus affidandosi a una richiesta di «legittima suspicione», accusando te, la giornalista de "il Mattino" Rosaria Capacchione e il Pm Cantone. Nell' ultimo mese c'è stata un'escalation di violenza da parte del clan dei casalesi, come ti spieghi questo atteggiamento da parte dei clan?

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I boss temono la comunicazione, erano

tiratura ha stampato 5000 copie. Come ho detto prima, sono stati i lettori a rendere questo libro pericoloso. A questo punto la reazione del clan non mi stupisce, l'attenzione è troppa, a ciò si aggiunge inoltre l'imminente sentenza d'appello del processo Spartacus e i recenti pentimenti all'interno del clan Bidognetti. Vogliono dare dei segnali di morte per trasmettere il messaggio che ci sono e che il territorio è in mano a loro. Una delle caratteristiche della tua opera è quella di offrire una visione mondiale del fenomeno camorra, mentre l'obiettivo dei clan è sempre stato quello di circoscrivere il fenomeno camorra come locale. Credere che la camorra riguardi solo il sud è un'ingenuità. La parte maggiore degli affari e degli investimenti anche produttivi che le mafie fanno sono altrove: al centro, al Nord, all'estero, praticamente in tutto il mondo- seguendo il clan di Mondragone si arriva in Scozia ad Aberdeen, seguendo il cartello di Secondigliano si arriva a Barcellona e persino in Cina, seguendo i casalesi si arriva nell'Europa dell'est dove questi investono e acquistano titoli di stato. Io ho voluto soprattutto raccontare e mostrare, ma se c'è un aspetto di denuncia in cui mi riconosco è proprio questo. Volevo dire a chi abita a Parma, Milano, Amsterdam o Francoforte: guardate che questa cosa riguarda anche voi, non si tratta solo di incomprensibili violenze di una regione remota e sottosviluppata. E volevo dire a chi sta qui: guardate che a voi arrivano solo gli ultimi spiccioli pagati col sangue e col cancro generato dai veleni sversati nella nostra terra e la ricchezza che generate anche lavorando e lavorando sodo per le imprese legate ai clan, se ne va altrove.

certi di non fare notizia, perché a livello nazionale non l'avevano mai fatta. Sai come me che non c'è stato nessun giornale nazionale, nessuna televisione al processo Spartacus. Ora le cose sono cambiate, anche se fatti gravi come quelli delle scorse settimane rientrano di nuovo nella breve notizia di cronaca che passa senza essere comprensibile e nemmeno percepita nella sua gravità. Cosa ti posso dire, non mi fa piacere che la proiezione di Gomorra a Cannes faccia più notizia dell'uccisione di un uomo innocente come Domenico Noviello. Ma l'informazione è fatta così: dalla Croisette ho cercato di dire quel che secondo me andava detto, ma più di così non posso farci neanche io. Io volevo attirare l'attenzione sul potere vero dei boss, su quello economico, ma non mi sarei mai aspettato di averne così tanta. Nessuno se lo sarebbe aspettato, nemmeno la casa editrice che come prima 10 VDBD – n. 2 – nov.2008


Alcuni ti accusano di descrivere solo il marcio, tralasciando i tanti aspetti positivi dell'agro aversano.

positivo ci sono le persone, quelle in qualche modo impegnate e quelle che semplicemente sono e continuano ad essere delle persone per bene.

Temo che questo succeda sempre, anche in territori meno difficili di questo, quando si prova a raccontare quel che non va e si viene ascoltati. E capisco pure che anche alle persone per bene di qui possa dar fastidio sapere che l'immagine di questa terra per chi sta fuori sia associata ai clan, sentire che "casalesi" diventa sinonimo di "Casalesi". Capisco che i casalesi sentano l'esigenza di dire che non sono tutti camorristi, ma gente che lavora. Perché è vero: i casalesi sono gente seria, probabilmente le migliori maestranze dell'edilizia in Italia e anche in altri campi uomini e donne che non si tirano indietro se c'è da faticare tanto e bene. Ma non ho programmato il successo di questo libro e soprattutto non ho raccontato cose non vere. Se ho scritto come dicevano alcuni "proprio nu bello romanzo", allora anche i giudici e i magistrati sono grandi romanzieri. Ho tentato di raccontare il posto dove sono nato e cresciuto e quella che era l'economia del mio tempo- e non certo solo una cosa napoletana o casalese. Non l'ho fatto con disprezzo, ma con rabbia. Una rabbia nata proprio perché mi sentivo parte di questo territorio, proprio perché ci tenevo, credevo e credo ancora che abbia le risorse per far crescere sempre di più tutto quel che c'è di positivo.

Cosa vorresti dire ai tanti ragazzi che oggi vivono in terra di camorra? Sai il capitolo che mi è costato di più quando ho scritto il libro è stato quello su Don Peppino Diana. Ero un ragazzino quando lo uccisero e per me fu uno shock di quelli che ti stordiscono. Posso immaginare che fu un effetto simile a quel che provarono gli italiani quando fu trovato il cadavere di Aldo Moro. Ma allora non ero ancora nato. Io non so quel che avrei fatto se non ci fosse stato Don Peppino. Non tanto il sacrificio di Don Peppino, ma l'insegnamento che ci diede quando era in vita. La sua fiducia che la parola, la semplice parola di testimonianza, potesse avere un potere in grado di contrastare chi aveva arsenali ed eserciti, capitali e imprese enormi. Vorrei che per questo aspetto i ragazzi di qui continuassero a sentirsi vicini a Don Peppino Diana. E' importante credere a quel che lui credeva. Che hanno un valore le persone, le loro vite, e che hanno un valore le parole. Perché sanno dire la verità, sanno dire che il re è nudo. Un valore maggiore del danaro, del potere, persino del potere di uccidere. Perché altrimenti qui - ma lo stesso vale per qualsiasi altro luogo - non rimarrà che un deserto, un deserto che lui chiamò col nome biblico di Gomorra. Direi questo ai ragazzi: a me non interessa che vi fidiate di me (se non lo fate, mi dispiace, ma non posso farci nulla), però fidatevi di Don Peppino.

Cosa c'è di positivo? Di positivo c'è il lavoro dei molti gruppi e associazioni che lavorano sul territorio. Il mio sito web è aperto a segnalarne le iniziative: uno degli obiettivi futuri del sito è creare uno spazio riservato solo ed esclusivamente alle associazioni. Di

[Fresco di Stampa, Anno III, n.5, giugno 2008] 11

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Proust, Deleuze e l'incanto dei segni di Francesco Pala Tabasso

<>. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

Introduzione

La

storia del pensiero offre alcuni esempi di incontri tra romanzieri, poeti e filosofi. Non sempre il risultato del connubio è interessante. Capita spesso, infatti, che il filosofo affronti la narrazione altrui con la recondita intenzione di far emergere dalle maglie morbide del romanzo o del racconto i tratti precisi della propria visione filosofica, rendendo l’opera narrativa semplice conferma delle sue luminose intenzioni. In altri casi, lo spirito poetico afferra il filosofo e si assiste a tentativi, spesso patetici, di rivaleggiare con il letterato. In questo senso può essere abbastanza traumatica la lettura delle poesie di Martin Heidegger, impareggiabile filosofo e mediocre poeta folgorato dalla parola rilkiana. Non sempre l’esito è questo. Se il passo filosofico è tenue, straniero ma non nemico, allora può generarsi un dispositivo, raro ma non impossibile, che potremmo chiamare alleanza. In questo caso si assiste ad un vero contagio tra autori, tra opere, un’energia creativa travalica i confini, investe i paesaggi di un romanzo, cambia climi, temperature, volti. Eppure, non snatura nulla, rende attuale ciò che sempre è stato possibile. Gilles Deleuze entra con il passo appena descritto in uno degli orizzonti più ricchi e geniali della storia della letteratura: Alla ricerca del tempo perduto [1] di Marcel Proust. Ne viene fuori uno scritto, Marcel Proust e i segni [2], che fa parte a pieno titolo del cosmo proustiano, libera energie filosofiche presenti nell’opera costituendo un’alleanza espressiva e teorica decisiva per entrambi gli autori. La nostra analisi cercherà di ripercorrere il tragitto deleuziano per capire in che misura il filosofo francese rispetti la promessa implicita nelle prime righe del suo libro: configurare in alleanza con Proust un altro modo di concepire il pensiero, diverso da quello tipico della filosofia tradizionale. Vedremo anche se la proposta filosofica emersa è in qualche modo spendibile per l’oggi, per il mondo che quotidianamente calchiamo.


1) Conoscere è apprendere

Colui che conosce, dunque, può anche proclamarsi amico della verità, ma senza il contraccolpo di un segno che lo fa sobbalzare e lo trascina verso l’interpretazione, non potrebbe muovere nemmeno un passo. Il mondo dei segni non è un universo al quale si accede a partire da un precostituito desiderio di sapere, ma è una dimensione dentro la quale si cade, come la follia, senza volerlo, richiamati dall’incontro con un segno. La ragione, quella amata dai filosofi, ha certo un ruolo conoscitivo importante, però arriva sempre dopo il sistema dei segni e la loro forza contundente. I filosofi, inoltre, se possono riducono tutto ad un principio ordinatorio e quando non riescono spiegano il reale sulla base di poche varianti. Lavoro a tavolino. Il reale è un insieme di segni diversi a cui corrispondono mondi diversi. Proust nella Recherche non solo identifica la conoscenza con l’apprendimento dei segni, ma differenzia i segni in relazione ai mondi che essi esprimono. L’interprete razionale, quindi, cerca di mettere ordine nelle cose del mondo, ma arriva sempre un attimo dopo, sempre in ritardo rispetto a mondi plurali che emettono segni e irrompono nella vita degli uomini suscitando l’esigenza interpretativa che molti chiamano filosofia: <> [5].

A prima vista l’universo proustiano potrebbe avere qualche affinità con la filosofia platonica. Infatti, se si tiene conto della volontà di Proust di andare alla ricerca del tempo che si è perduto si potrebbe pensare che per l’autore francese conoscere voglia dire ricordare, attingere consocenze che ciascuno ha alle spalle, in un percorso a ritroso di sapore platoniano. Deleuze, però, smentisce subito una visione di questo tipo:<> [3]. Conoscere è apprendere, ovvero, vivere in un mondo popolato di segni da interpretare. Il mondo è percorso da gesti, persone, oggetti, che ci accolgono appena apriamo gli occhi al mattino e che abbandoniamo una volta addormentati. Conoscere non è una faccenda legata alla buona volontà di qualcuno, al tentativo filosofico di attingere la verità di qualcosa, ma ha a che fare con uno scacco, con l’effrazione che i segni di cui il reale è fatto esercitano nei nostri confronti. Siamo di fronte ad un vero capovolgimento della visione filosofica tradizionale che valorizza in maniera assoluta la volontà di conoscere, lo sforzo intenzionale che discorsivamente dovrebbe portare ad attingere il vero: << Le verità che l’intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno qualcosa di meno profondo, meno necessario di quelle che la vita ci ha comunicate, nostro malgrado, in un’impressione, materiale in quanto entrata in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare l’intimo spirito>> [4]

2)I segni e i loro mondi Vediamo, allora, quali siano nell’opera proustiana (sempre secondo l’interpretazione di Deleuze) i segni e a quali mondi rimandino, tenendo conto del fatto che Proust non ha scritto un’opera filosofica, per cui 13

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l’enumerazione dello scrittore francese non soddisferà mai l’ansia classificatoria dei filosofi di professione. Non bisogna mai dimenticare che nè Deleuze nè Proust amano guardare le cose dal centro del mondo, anche perchè molto spesso quest’ultimo coincide con l’ombelico di chi guarda.

colui che ama. Perciò i segni amorosi non sono come quelli mondani che, vuoti, fanno le veci di pensiero e azione, ma sono ingannevoli, ci si rivolgono nascondendoci la loro scaturigine, il mondo o i mondi da cui promanano e ci costringono ad un approfondimento interpretativo in virtù del loro costitutivo essere ingannevoli, della loro origine celata. Ecco, allora, la folle ragione dell’uomo geloso, protesa ad interpretare un mondo che lo esclude. Ogni facoltà razionale è tesa al limite massimo, per toccare l’inattingibile verità dell’amore. Inattingibile in quanto minata da una contraddizione di fondo: i gesti, le parole, i paesaggi interiori dell’essere amato nascono in un altrove inattingibile e proprio questa nascita ignota genera attrazione, amore.

A)Il primo mondo: la mondanità

In primo luogo nella Recherche ci sono i segni mondani: <> [6]. Nella Recherche la mondanità ha un ruolo di grande rilievo, popola contesti nei quali i cenni, i gesti hanno una forte capacità di significare, di stare in luogo di azioni e pensieri, a tal punto da diventare essi stessi azioni, da costituire un mondo espressivo nel quale tutti i protagonisti sono calati. Un mondo che richiede d’essere interpretato, decodificato: <> [7].

L’uomo che ama può anche cercare di descrivere filosoficamente le fattezze dell’amore, può percorrere le vette dell’astrazione, ma ogni suo passo ha alla base l’effrazione, il sobbalzo causato dall’apprendimento dei segni generati dalla persona amata. E’ la sfibrante e ingannevole incoercibilità di quei segni a provocare il bisogno di conoscere, razionalizzare, teorizzare. L’apprendimento viene prima della conoscenza in senso filosofico. << Non conta nulla un lavoro intrapreso per uno sforzo di volontà..ciò che dice un uomo profondo e intelligente ha valore per il suo contenuto manifesto, per il significato esplicito, oggettivo ed elaborato, ma ne trarremo ben poco, nient’altro che possibilità astratte, se non avremo raggiunto altre verità per altre vie. Tali vie sono quelle del segno. Orbene, dal momento che l’amiamo l’essere mediocre o stupido è più ricco in segni dello spirito, più profondo e

B)Il secondo mondo: l’amore Dopo l’universo mondano c’è il mondo degli amori, uno dei più fertili dal punto di vista segnico, considerato che <> [8]. L’amore viene cosi descritto come l’universo dei mondi possibili che ciascuno incarna per la persona amata e tuttavia, proprio per questo motivo ogni amante è escluso dal mondo dell’oggetto d’amore poiché tale mondo s’è formato prima che l’amore nascesse, in altre circostanza e con protagonisti diversi, sottraendosi perciò alla presa di 14 VDBD – n. 2 – nov.2008


intelligente...per questo quando crediamo di perder tempo, sia per snobismo, sia per dissipazione amorosa, spesso perseguiamo un oscuro apprendimento, fino alla rivelazione di una verità del tempo che si perde>> [9].

in precedenza. Il paese di Combray che si affaccia alla mente del protagonista della Recherche non è lo stesso paese che egli vide da bambino, ma sorge in modo assoluto, in una forma non mai vissuta, nella sua essenza, nella sua eternità. E’ questa la forza dei segni sensibili: non sono semplici associazioni di idee, ma si stagliano nel tempo come oggetti svincolati dal presente e dal passato, si muovono in una dimensione priva di tempo, come essenze, portatrici di una gioia straordinaria, pieni, affermativi, esultanti. Non sono oggettivi, in quanto non potrebbero esistere senza di noi, nè soggettivi, in quanto dotati di autonomia che li rende irriducibili alla semplice percezione di chi li ha vissuti. Anche questo genere di segni ci costringe all’interpretazione, ad una conoscenza che non è semplicemente percettiva o classificatoria, nè sistematica, ma parte dalla forza gravitazionale di un segno che ci colpisce e, a differenza dei segni mondani o amorosi, ci pone a contatto con un lembo del nostro tempo che ci ha lasciato e torna a noi circonfuso di un’aura d’eterno.

C) Il mondo delle impressioni

Il terzo mondo è quello delle impressioni o delle qualità sensibili. Gli oggetti non hanno solo il potere di imprimersi sui nostri sensi e di porci il problema di riconoscerli e inserirli in un contesto percettivo organizzato, ma spesso assumono la veste di segni e rimandano ad altro da loro, per cui la qualità non appare più come una proprietà dell’oggetto che la possiede attualmente, ma come un segno di un oggetto completamente diverso, che tentiamo di decifrare, a prezzo di uno sforzo sempre sul punto di fallire. E’ il celebre caso della memoria involontaria: le madeleine, i campanili, anche i semplici rumori, si manifestano nel presente e piombano su chi li percepisce da un momento passato, vestiti dell’attimo in cui tali visioni e suoni sono stati avvertiti per la prima volta. Sembra quasi che in un certo profumo avvertito nel presente si celi, prigioniera, un’anima che arriva dal passato, una sensazione che a contatto con noi salta fuori e attiva il nostro tentativo interpretativo volto a darci ragione di essa, situandola e dandole la veste del ricordo. Tuttavia, questo genere di segni, secondo Proust ha una valenza e un significato più importante rispetto a quelli di cui abbiamo parlato

D) I segni artistici Con la scoperta dei segni sensibili abbiamo fatto un passo decisivo per capire meglio l’universo ProustDeleuze. Abbiamo visto con più nettezza che il percorso fin’ora compiuto nell’universo dei segni e dei mondi ad esso corrispondenti non ha solo un carattere classificatorio, ma anche una spiccata tendenza ascensionale. Si tratta di un cammino che conduce in modo sempre più netto 15

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all’individuazione di elementi di realtà sempre più spirituali, smaterializzati e svincolati dalla dicotomia soggettivo/oggettivo. I segni mondani e quelli amorosi rimandano ad un senso e a mondi dotati di materialità e di un livello accentuato di soggettività. Il sapore delle madeleine, invece, è un segno che ci introduce ad una realtà immateriale, ad un’essenza spirituale che si colloca oltre il soggetto e l’oggetto. E’ il momento giusto, dunque, per arrivare in cima e trovare i segni che secondo Proust sono vere e proprie essenze eterne. Si tratta dei segni artistici che, rispetto a tutti gli altri, sono dotati di una superiorità, in quanto immateriali. Perché l’immaterialità è un pregio che rende i segni artistici superiori a tutti gli altri? Perché il senso degli altri segni è riposto in qualcosa d’altro da loro stessi, mentre il segno artistico è immateriale e ha un senso completamente spirituale. Cioè tra segno e senso c’è un rapporto di totale identità e questo rapporto rimanda immediatamente ad un’essenza spirituale che esso esprime. L’opera d’arte è un’essenza a cui ciascuno accede attraverso il segno da cui essa è espressa e il segno artistico consiste nel non rimandare a qualcosa d’altro da sé circa il senso, nell’avere in sé il senso. E’ chiaro dunque, che per Proust le espressioni artistiche vivono quasi di vita propria, sono universi immateriali, eterni, puri, più di quanto potessero esserlo il ricordo involontario e il segno offerto dall’amato o da un compagno di mondanità. Le essenze artistiche non sono creazioni soggettivistiche nè realtà oggettive. L’artista non è padrone di ciò che produce, ma l’opera è prigioniera in lui, come un’anima che attende solo d’essere liberata, di vedere la luce. Allo

stesso tempo, l’opera d’arte non è un universo sui cui sia possibile raggiungere un accordo discorsivo, attingendo l’oggettività, tipica dei discorsi filosofici. Anche nel caso dei segni artistici, l’essenza non si può raggiungere con la conoscenza razionale-filosofica, con l’intenzione, la buona volontà. Per arrivare ad essa bisogna esperire lo scacco dell’apprendimento, la violenza di un segno che in questo caso ci immette in un paesaggio eterno, da attingere interpretativamente solo dopo aver subito la violenza del segno. 3) Il tempo

C’è un ultimo aspetto da considerare: ciascun segno rimanda ad un mondo e abbiamo visto esistere mondi di fattura differente, fino ad individuare vere e proprie essenze. Però a questo bisogna aggiungere un elemento che a Proust sta molto a cuore: il tempo. Per la maggior parte degli interpreti lo scrittore francese avrebbe utilizzato circa 6000 pagine per affrontare il mistero del tempo e della memoria, in sintonia con la filosofia bergsoniana. In realtà, secondo Deleuze, la Recherche è un’opera rivolta al futuro e alla ricerca di un altro modo di concepire il tempo. Nella Recherche ciascun mondo ha il suo tempo, nel caso dei segni mondani perdiamo tempo, perchè questi segni sono vuoti e si ritrovano, intatti o identici, al termine del loro movimento di sviluppo. Nel caso del mondo amoroso, la verità viene sempre troppo tardi, il tempo dell’amore è sempre tempo perduto, perchè l’interpretazione 16

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dei segni amorosi è sempre in ritardo rispetto agli accadimenti, rispetto ai segni che sono sempre inattingibili e tali da creare uno scarto tra il momento in cui il segno si manifesta e quello in cui l’interpretazione si dispiega. Il tempo dei segni sensibili ci presenta una nuova struttura del tempo stesso: è tempo che ritroviamo in seno all’eternità. Infine, i segni artistici definiscono il tempo ritrovato: tempo primordiale assoluto, vera eternità che riunisce il segno e il senso, essenza.

non solo, anche la consuetudine con l’involontario apprendimento di tutti gli altri segni è necessaria premessa per il pieno coglimento del mondo delle essenze artistico. Tutto il percorso fatto lungo i vari mondi descritti approda alla verità artistica, e l’apprendimento dei segni è l’unica via, perchè nè la memoria volontaria, nè il pensiero volontario sono capaci di darci una verità profonda, ma nient’altro che verità possibili. Insomma, alla fine della lettura del Proust deleuziano siamo in possesso di un modo nuovo di concepire il pensiero, un modo che non sfocia nel mero relativismo soggettivista, ma approda ad una concezione del pensiero che non rinuncia alla verità e al suo attingimento, senza però rimanere vittima del procedere categorico della metafisica. <Logos ci sono soltanto geroglifici. Pensare è dunque interpretare, è dunque tradurre>> [12].

4) L'immagine del pensiero

La lettura deleuziana della mirabile opera di Proust ci ha condotto lungo traiettorie che difficilmente percorre chi si affidi agli specialisti, critici letterari e filosofi. Abbiamo potuto capire che Proust <> [10] non a caso <> [11]. Il pensiero però è l’avventura dell’involontario, non è nulla senza qualcosa che ci costringa a pensare, non bisogna mai ignorare le forze oscure che ci portano a pensare, ad interpretare. Ciò che ci costringe a pensare è il segno che ci conduce in un mondo e, solo a questo punto iniziamo a pensare, a svolgere interpretazioni che conducono alla verità. E la verità a cui Proust approda è quella artistica, l’essenza spirituale e senza tempo che può raggiungersi solo dopo il contraccolpo del segno artistico. Ma

La visione deleuziana però ci indica anche un’altra cosa: esiste la possibilità di riconoscere la pluralità di cui il reale è costituito, la molteplicità dei mondi, senza per questo cadere nel prospettivismo. Esistono universi che abitano il soggetto, sono prigionieri di ciascun uomo, ma allo stesso tempo godono di una dimensione che trascende il singolo, in un tempo simile all’eternità che nulla possiede di relativo nè di oggettivo, ma è un lembo di verità.

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Conclusione

Dobbiamo, alla fine, chiederci in quale misura l’analisi appena affrontata possa avere un valenza filosofica specifica, per il mondo attuale. Senza dubbio se pensiamo al peso che i segni visivi hanno assunto nell’universo plurimediatico in cui viviamo, possiamo capire facilmente quanto possa essere astratta la prospettiva di una conoscenza che nasce “pura”, e prescinde da ogni stimolo decisivo che proviene dall’esterno. Anzi, secondo alcuni, il bombardamento di segni che ciascuno subisce da parte di media di varia natura (Tv, radio, pc) configura una vera perdita d’iniziativa da parte dell’uomo rispetto ad un universo in cui è calato e su cui non può nulla. Proust, in questo senso, è un anticipatore di una visione della conoscenza che si sarebbe affermata pienamente in seguito. Tuttavia ciò non significa che all’autore della Recherche potrebbero piacere i mondi artificiali composti dal sistema mediatico. Semplicemente riconoscerebbe in essi le stesse sembianze degli universi della Recherche. Anch’essi, infatti, si manifestano attraverso i segni e anch’essi regnano sulle terre dell’immaginario. Con una differenza di fondo, però: l’unicità. La ricchezza dei mondi che ciascuno può scoprire in sè grazie all’urto dei segni non ha nulla di seriale, commerciale, fungibile, come la realtà entro cui ci immettono i segni mediatici, ma è unica, perchè alimentata e cresciuta dentro ciascuno di noi, prigioniera liberata.

*** NOTE [1] M.Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano, 1994. [2] G.Deleuze,Marcel Proust e i segni,Einaudi,Torino,1967. [3] Ivi, pag.8 [4] M.Proust, Op. cit, vol.IV, pag.215 [5] G.Deleuze,Op. cit, pag.19. [6] Ivi, pag.9 [7] Ivi, pag.10 [8] Ibidem [9] Ivi, pag.24 [10] Ivi, pag.92 [11] Ivi, pag.93 [12] Ivi, pag.94

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La Montagna incantata: un viaggio nell’inferno dove nasce la Vita di Ilaria Ciancilla

<metamorfosi dello spirito c’è più familiare di quella che, partendo dalla simpatia per la morte, ha come conclusione la decisione di servire la vita>>

Così il germanista Marino Freschi descrive la complessa e poliedrica personalità dell’autore della Montagna Incantata. E’ notissima ormai la cifra letteraria e psicologica di Mann: le sue opposizioni polari, le contraddizioni dicotomiche e l’amore per la mediazione tra istanze apparentemente opposte sono solo alcune delle matrici che caratterizzano la vita e l’opera dello scrittore, che per primo riscontra in sé questa attitudine alla doppiezza e che cerca di giustificare facendola discendere dalle opposte caratteristiche genitoriali che lo influenzarono fin dalle prima infanzia. L’ordine, la produttività, il rigore del padre facevano da contraltare alla creatività e all’amore appassionato per l’arte e la musica della madre. In Mann queste caratteristiche non erano solo modi dell’essere, ma si manifestavano anche nelle sue scelte politiche, esistenziali e ancora di più nelle dicotomie e nelle antinomie che caratterizzavano già le tematiche e i protagonisti dei suoi romanzi. Sono questi infatti che risentono della vitalità intellettuale dello scrittore, già dalle prime opere giovanili.

(T.Mann, della Repubblica tedesca)

Chi

era Thomas Mann? << Si può affermare che il primo cinquantennio del Novecento è dominato dalla sua personalità così rappresentativa della cultura germanica, con tutte le sue contraddizioni, le lacerazioni, con il rigore morale, puntiglioso talvolta fino all’intolleranza e con la malinconica nostalgia per un diverso modo di vivere, più provocante, più libero e disordinato, con la sua educazione morale e disciplina interiore, con l’ethos produttivo e una sfrenata tentazione di emanciparsi, di trasgredire. Accanto a un forte principio costruttivistico della propria personalità e del proprio ambiente familiare, culturale e sociale agiva una smania di dissoluzione, una morbosa e morbida voglia di dimenticare e di dimenticarsi>>. [1]

E’ però la Montagna Incantata, il capolavoro dell’età matura dello scrittore 19 VDBD – n. 2 – nov.2008


ad esercitare un costante fascino già dalla sua prima pubblicazione nel ‘24. Si tratta di un monumentale romanzo scritto a cavallo tra le due guerre mondiali che ha come temi principali quelli cari allo scrittore tedesco: la vita e la morte, la malattia, il tempo, la cultura scientifica e umanistica, la formazione interiore e l’amore. Nell’opera confluiscono tutte le contraddizioni, le energie, le forze con cui Mann aveva combattuto, i suoi travagli interiori,le sue lotte politiche. Ambientato in Svizzera, in un sanatorio per tubercolotici che fa da sfondo a tutta la vicenda raccontata, il romanzo ha per protagonisti una serie di personaggi che lottano con la malattia e la morte, continuando ad amare ed anelare la vita. Al Berghof tutti sono malati, anche i medici. Tutti nel sanatorio sono vittime del potere straniante della malattia che pare esercitare un oscuro fascino morboso, rendendo l’atmosfera pesante, oziosa, barocca. I degenti del Berghof vivono in un eterno presente, dove tutto è scandito dai tempi della malattia e del suo pesante giogo, catturati da una trama temporale che segue esclusivamente le cadenze delle cure mediche e ricreative, anche se è però la vita con il suo potere risanatore ad attrarre costantemente i pazienti in modi differenti. Attraverso l’amore per una donna, il ritorno alla vita attiva della pianura per alcuni, le disquisizioni intellettuali, l’umorismo e l’attrazione erotica per altri. L’amore per la vita è anche amore di sé, che tenta di opporsi al desiderio della morte e della decadenza, ma è attraversando questa che si ha secondo Mann il trionfo della vita. Nello scritto che segue vedremo come alcuni dei personaggi più emblematici dell’opera, primo fra tutti il protagonista, Hans Castorp, affrontino la discensus ad inferos del luogo di cura tra linee d’ombra

e punti di osservazione spalancati sul futuro e la vita.

2) L’arrivo di Castorp al Berghof

«Due giornate di viaggio allontanano l’uomo (e specialmente il giovane che non ha ancora salde radici nella vita) dal suo solito mondo, da ciò che egli chiama i suoi doveri, i suoi interessi, le sue preoccupazioni e aspirazioni, lo allontanano più di quanto egli stesso abbia potuto immaginarselo» [2]. Mann esibisce da subito la plasmabilità di Hans Castorp, una duttilità profonda legata alla sua giovane età, ma non solo, infatti il protagonista del romanzo, nonostante abbia poco più di vent’anni, è già ingegnere e ha di fronte una prospettiva di lavoro definita, supportata da idee chiare circa la vita futura, in una parola: un destino. Ma, perché allora le sue radici nella vita non sono salde? Perché in questione c’è qualcosa di più profondo, Castorp è alla ricerca di un senso, di una direzione che sia frutto di scelte nette, non è radicato nel destino che la vita sembra avergli preconfezionato. Allora, è quasi normale che l’impatto con una dimensione così carica di senso quale quella di un sanatorio, abbia effetti stranianti su chi è alla ricerca di una direzione. E, l’arrivo al Berghof produce in Giovanni il dischiudersi di uno spettro di possibilità che il destino della “pianura” pareva serrare in sé. Questo effetto non si produce in maniera immediata, infatti, Castorp assume un atteggiamento di radicale ostilità verso i ritmi, le abitudini del sanatorio, ma una diffidenza simile ha i tratti estremi di ogni stato d’animo che 20

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culla in sé il suo opposto. Insomma, Castorp quando arriva al Berghof è un essere in divenire, disponibile al cambiamento. Ad accoglierlo il cugino Joachim, militare in carriera, scontento del sanatorio, assoggettato malvolentieri alle sue regole e desideroso di tornare ad un’altra disciplina, quella militare, più consona alla sua vigoria fisica e al suo desiderio di futuro. Joachim incarna nella prospettiva di Mann la scelta forte di un destino, a cui la malattia si oppone in maniera altrettanto radicale, cambiando il corso di un’energia vitale che, incanalata nella direzione della vita attiva, cerca sbocco nella lotta per la liberazione dalla malattia. Joachim è un personaggio importante, perché rappresenta la scelta quasi irriflessa, la decisione che niente può sovvertire, neanche la possibilità della morte.

donne la cui vita è condizionata dalla malattia, dalla febbre, dalle difficoltà respiratorie, ha l’aspetto di un grande albergo invernale nel quale è possibile rigenerarsi, tra incontri mondani e belle passeggiate. A testimonianza di ciò basti pensare a come, all’inizio del romanzo durante il primo approccio di Castorp al nuovo mondo, Mann descrive le prime due donne che il protagonista incontra: entrambe vivono vicende tragiche, la prima, la signora Stohr, versa in uno stadio avanzato della malattia, ma l’autore si premura di segnalare soprattutto la sua ridicolaggine dovuta al modo di storpiare ogni parola. L’altra donna è una madre salita al sanatorio per assistere il figlio malato, che si ritrova a dover prestare assistenza anche al secondo figlio, arrivato in montagna per visitare il fratello. Ma, l’aspetto più caratteristico della donna è il suo aggirarsi per il cortile del Berghof dicendo in continuazione tous le deux, frase che ormai l’ha resa celebre e quasi ridicola presso gli altri malati. Insomma, un approccio del tutto irriverente a situazioni esistenziali pervase di dolore, in un contesto ambientale che non suscita sensazioni violente nel nuovo arrivato: «A dirti il vero, non trovo il paesaggio impressionante –disse ad un tratto Hans Castorp- Dove sono i ghiacciai, le nevi eterne e i colossi montani?Quelle là non mi sembrano poi troppo alte» [3]. Il Berghof è un luogo accogliente, mondano, dove anche la morte ha un tratto leggero. Certo, è da escludersi che nella realtà la situazione fosse veramente nei termini descritti da Mann. Tomas Bernhard, per esempio, che dai diciotto ai diciannove anni dovette soggiornare in un sanatorio ne parla in questi termini: «Con quella che sul mio polmone fu detta ombra, un’ombra era di nuovo calata sulla mia esistenza. Grafenhof era una parola

Il luogo di cura è posto, come dice il titolo dell’opera, nella parte alta di una montagna, a milleseicento metri d’altezza, quindi ad una certa distanza spaziale e temporale dal mondo della “pianura”, cioè della vita attiva. Ma, il contesto che accoglie Castorp ha tratti quanto meno inusuali. Il sanatorio Berghof , infatti, pur essendo un luogo di cura per malati di tubercolosi, e pur ospitando uomini e 21 VDBD – n. 2 – nov.2008


funesta, a Grafenhof dominavano in maniera esclusiva e con perfetta immunità il primario e il suo assistente e l’assistente di quest’ultimo, nonché le condizioni, tremende per un giovane come me, di un pubblico sanatorio per tubercolotici…pur essendo arrivato in cerca d’aiuto, non ho trovato a Grafenhof che l’assenza di ogni speranza» [4]. Nelle parole di Bernhard emerge con chiarezza la drammaticità di un luogo votato alla cura di casi spesso disperati, di esseri umani che formano una comunità unita dall’essere sottoposta ad un doppio dominio, quello della malattia, e quello dei medici. Gli ospiti del sanatorio Berghof compongono una comunità di questo tipo, le cadenze della loro vita sono appese al filo della malattia e sono scandite dalle tappe quotidiane che i medici impongono. Tuttavia, come vedremo meglio dopo, questa comunità nasconde in sé un mistero, un quid capace di generare una strana attrazione. Prima di parlare di questo però è necessario fare posto all’ autentico reggitore del sanatorio e al suo sapere: il medico, lo scienziato.

sarebbe un ottimo paziente, potrei giurarlo. Lo vedo subito io, se uno ha la stoffa del paziente utile, perché per esserlo ci vuole talento…è vero che l’albero della vita è verde, ma il verde come colorito di carnagione non è precisamente quanto ci sia di migliore. Anemico all’ultimo grado naturalmente,- disse mentre senza cerimonie si avvicinava ad Hans Castorp e con l’indice e il medio gli esaminava internamente una palpebra» [5]. Berhens sa di essere la fonte di senso di una comunità che si regge sulle sue regole, sui dettami della sua scienza. La vita dei malati è scandita da vari momenti che lui ha scelto accuratamente e rispetto ai quali appare inflessibile. Nessuno al Berghof può sottrarsi alle scelte mediche, al massimo può decidere di andare via, ma all’interno della struttura non ci sono alternative. Berhens esercita il suo potere attraverso la superiorità e l’infallibilità del suo sapere di cui da notevoli prove. All’inizio, infatti, rimprovera a Castorp d’essersi definito una persona sana, sostenendo che nessuno è realmente tale, ma ognuno nasconde in sé un male. E, i fatti gli daranno ragione perché Hans, arrivato al Berghof per visitare il cugino, scoprirà poco tempo dopo d’essere malato. La prova di forza più importante però Berhens la offre occupandosi di Joachim, il quale scalpita per lasciare il sanatorio, vuole ritrovare la propria carriera militare, ha fame di vita attiva. Ebbene, Berhens condanna aspramente tale ambizione, la considera un peccato di ubris, una grave insubordinazione non tanto alle regole del sanatorio, quanto alla capacità diagnostica e prognostica della sua scienza. Il medico pensa che il paziente debba stare ancora qualche mese in montagna, una sospensione della cura gli sarebbe fatale. Joacchim cerca di riappropriarsi del senso della sua vita e va

4) La scienza medica e il suo potere simbolico L’autentico depositario del destino dei degenti è un medico di chiara fama, Behrens, che non si limita a curare le malattie, ma è dotato di inclinazioni particolari per la ricerca scientifica e ha inoltre un certo spessore culturale, che gli consente di farsi portatore di una visione del mondo di tipo scientifico, in contrasto con qualsiasi inclinazione d’ordine umanistico. Il primo incontro tra Behrens e Hans Castorp, che peraltro non è un degente, segnala subito le attitudini del medico: «lei –dice Berhens a Castorp22 VDBD – n. 2 – nov.2008


in pianura, fugge dal male, dal senso che promana dalla malattia e da chi la deve curare. È una lotta che si concluderà con il ritorno del paziente in sanatorio e con la morte di lì a breve. Un episodio di grande portata simbolica, che conferma il potere del medico, l’inderogabilità dei suoi dettami, le sue capacità predittive, fondate sulla conoscenza scientifica.

5) L’umanista Non tutti i pazienti del Berghof sono convinti che la signoria dei medici debba estendersi tanto in profondità da coinvolgere ogni aspetto esistenziale di chi è soggetto alle loro regole. Già all’inizio del romanzo compare un personaggio, Ludovico Settembrini, che incarna in modo chiaro il sapere umanistico dell’epoca. È un letterato italiano amante dei classici e ben radicato nelle questioni politiche e culturali della sua epoca, portatore di una visione illuministica e democratica. Mann dimostra da subito una qualche insofferenza nei confronti dell’italiano, dipingendolo con una certa ironia e arrivando ad attribuire ad Hans Castorp, oggetto delle attenzioni pedagogiche dell’umanista, un senso di noia profonda al cospetto delle lunghe tirate moralistiche dell’uomo. Tuttavia Settembrini rappresenta non solo l’uomo dedito agli studi, ma anche la cura umanistica di se stessi, la tragica passione del vivere alla luce del proprio sentire nonostante malattia e cura congiurino contro. L’italiano rifiuta in ogni momento della sua permanenza in sanatorio di cedere quote di sovranità interiore al disprezzato Berhens, non accetta lezioni che possano scalfire il suo modus vivendi. E, proprio lui sarà l’unico a lasciare il Berghof sfidando la volontà medica e riuscendo a sopravvivere. L’unica cosa che Settembrini può condividere con Behrens è la staticità, l’immodificabile, granitica aderenza al proprio sentire, che non lascia spazio alcuno al cambiamento. La voce di Settembrini sarà presente ad Hans per tutto il romanzo, tuttavia appare chiaro quanto l’italiano combatta una battaglia

Beherens lungo tutto il romanzo non va soggetto ad alcuna modificazione, ad alcun divenire, e la sua fissità è sintomo della forza del senso che egli incarna. Un senso scientifico delle cose, poco incline alle opinioni e molto propenso alle certezze, per niente destinato alle fluttuazioni, ai cambi di rotta. Un senso che si impone ai malati, sia, come già detto, in modo pratico attraverso dettami concreti e quotidiani, sia in modo più profondo, in quanto Berhens è la fonte della vita, una sorta di semi-Dio in grado di donare una nuova nascita, ma anche di scorgere in anticipo gli occhi della morte nel volto del paziente. In realtà il direttore del sanatorio non muta, non si giova in alcun modo del rapporto con gli esseri umani che lo circondano, perché è impegnato in un corpo a corpo simbolico e reale con la malattia. Il male, infatti, attraverso la morte dei pazienti, cerca di continuamente di ottenere il trionfo simbolico sulla scienza, cerca di frantumare le linee di senso che i pazienti nonostante la prossimità della fine vogliono tracciare. Berehns d’altro lato vuole che tali linee portino il marchio indelebile della sua scienza, che donando scampoli di vita non ammette di non essere riconosciuta quale depositaria di ogni destino. Si tratta, dunque, di una prova di forza a cui solo lo scienziato ha titolo per partecipare, gli altri, come vedremo, sono soltanto dei comprimari. 23 VDBD – n. 2 – nov.2008


piena di dignità ma destinata alla sconfitta. Egli incarna un mondo alla fine, l’epoca del dominio umanistico che volge al termine, e, non a caso, appare molto isolato all’interno del sanatorio, un po’ per lo snobismo tipico di chi si sente di tutt’altro lignaggio, un po’ perché deve scontare la quasi incomunicabilità che differenze di pensiero e linguaggio creano rispetto agli altri ospiti del Berghof. Mann accentua volutamente l’ampollosità linguistica dell’italiano, le circonvoluzioni verbali che lo rendono straniero a quasi tutti. Castorp cede alle sue lusinghe, ma quasi esclusivamente nel primo periodo della permanenza, quando la ben nota plasmabilità del ragazzo mostra qualche cedimento alla forza pedagogica dell’italiano. Dopo un po’ di tempo, però, il giovane slitta verso altri orizzonti e questo coincide con l’abbandono del Berghof da parte dell’italiano.

percepire nettamente. Si tratta di una sorta di energia vitale che, a dispetto delle condizioni di salute dei degenti, percorre quasi tutti. Un’energia che sfocia in atteggiamenti di ilarità incontenibile, di complicità innaturale per persone di diversa estrazione esistenziale. Ogni membro di questa atipica comunità ha un’inclinazione particolare, un carattere per il quale viene riconosciuto dagli altri e in alcuni casi deriso. Tuttavia, al Berghof si può assistere a spettacoli assolutamente paradossali: giovani donne operate di pneumotorace, quindi con i polmoni pieni di gas, che lasciano andare emissioni simili a fischi, provocando lo stupore di chi è ignaro e l’ilarità di chi sa da dove il fischio provenga; uomini afflitti dalla malattia e da profondo narcisismo che pur di attirare l’attenzione simulano il suicidio, moribonde che dedicano gli ultimi istanti della vita a fragorose risate. L’intimità con la morte e la sua prossimità, genera pulsioni del tutto vitali, ebbrezze degne della vita di “pianura”. I veri segni distintivi della comunità, però, sono la pulsione sentimentale e l’attrazione sessuale che i protagonisti nutrono l’uno per l’altra. Mann avverte il lettore che la tubercolosi secondo la scienza medica avrebbe un potere quasi afrodisiaco, ma ciò non basta certo a giustificare i comportamenti dei degenti. Al Berghof, naturalmente ai meno malati, vengono attribuite vicende sessuali continue, tradimenti dei rispettivi coniugi che magari si trovano nella “pianura”, e in generale ogni ambiente comunitario è pervaso dalla febbre dell’attrazione reciproca. Tanto più la morte incombe, tanto più si assottigliano le speranze e tanto più cresce una sorta di vitalismo che ha al centro il corpo e i suoi istinti.

Settembrini non ha la forza per inserirsi nel braccio di ferro tra scienza medica e malattia, non può fare da terzo incomodo, l’offerta umanistica di senso che da lui proviene è troppo rigida, datata, nulla può dire al corpo, anzi, negando la corporeità è destinata all’indifferenza. Mann, insomma, riteneva che il modo classico di intendere l’umanesimo fosse destinato ad un futuro puramente resistenziale, pieno di dignità ma incapace di parlare agli uomini a venire.

6) La comunità del Berghof L’atmosfera nella quale Hans Castorp si trova a vivere i primi momenti della sua permanenza e dalla quale sarà assorbito progressivamente, ha alcuni tratti che il protagonista all’inizio ha difficoltà a 24 VDBD – n. 2 – nov.2008


Non è un caso che Castorp, all’inizio scettico rispetto all’ambiente sanatoriale, entri progressivamente a farvi parte attraverso la porte dell’attrazione per una donna, la signore Cauchat, malata ma non gravissima, della quale peraltro non condivide per nulla modi e atteggiamenti, ma che con l’andare dei giorni vincola sempre più il suo animo al clima del Berghof, fino a fargli vivere come una deminutio la sanità iniziale, e fino a fargli accogliere con sollievo la diagnosi di Berhens che gli attribuisce pieno titolo per stare in sanatorio.

tempo, che per Mann è intimamente legato al senso della vita in quanto teatro del dispiegarsi della vita medesima, realtà immateriale nella quale l’esistenza si muove e della quale l’uomo cerca di disporre, ebbene in sanatorio il tempo è anch’esso conteso da cura e malattia. Quest’ultima agisce frantumando le normali dinamiche temporali, che vanno a fratturarsi contro il sobbalzo prodotto dalla malattia e dal suo annuncio di morte. D’altro lato la cura medica con i suoi rituali cerca di ricostituire il fluire inconsapevole degli istanti, sostituendo alle cadenze della vita normale le tappe della lotta al male, soglie identiche da varcare quotidianamente. La scienza medica in questo modo restituisce all’uomo una dimensione temporale, in tutto simile a quella dell’abitudine, nella quale è di nuovo possibile dimenticare il tempo che passa, riabituarsi al fluire dei giorni, accettando meglio l’impossibilità di incidere sul corso temporale della propria vita. Si può dire che tra medici e pazienti avvenga una sorta di transazione, i primi offrono la ricomposizione di una trama temporale seppur minima, i secondi cedono ogni sovranità sul loro tempo e di conseguenza sul senso stesso della loro vita. Tuttavia, nella Montagna incantata anche a questo livello si percepiscono alcune particolarità. Infatti, i pazienti effettivamente cadono nella rete dello straniamento, tanto da non rendersi conto della lunghezza della permanenza in sanatorio. Però, all’interno del cerchio temporale descritto dalle abitudini mediche, nasce un vortice d’istanti, un rincorrersi di momenti, legati alle passioni, agli incontri, all’ansia del rivedersi a dispetto della malattia. La comunità benchè oppressa dalla doppia trama che la conchiude, reagisce, schizza via, trova linee di confine da percorrere, pur senza

Il quadro delineato da Mann, dunque, configura una comunità contesa dalla malattia e dalla scienza, ma quasi indifferente alla lotta che si sviluppa intorno ad essa. I membri del Berghof vivono con una sorta di lieta incoscienza, abbandonati alla quotidiana alternanza di passioni e cure, morbosamente attratti dalla sconcia vitalità che promana dai loro corpi. Di conseguenza né i dettami medici, né le sofferenze inflitte alla malattia riescono ad intercettare, condizionare, conchiudere, le inclinazioni profonde di questi malati particolari. Un’ulteriore prova di ciò, forse la più radicale, si può individuare nel rapporto degli uomini del Berghof con il tempo. Mann parla in più punti del romanzo degli effetti che una permanenza continuativa in un luogo come il sanatorio può produrre: «in fondo ci sono delle circostanze particolari in questo immedesimarsi nella vita in luoghi estranei…c’è qualcosa di inerente in modo esclusivo all’anima, è la vicenda del tempo il quale nell’ininterrotta uniformità minaccia di smarrirsi ed è così strettamente congiunto e affine al senso stesso della vita che l’uno non può subire un indebolimento senza che l’altro non ne risenta pregiudizio» [6]. Al Berghof il 25 VDBD – n. 2 – nov.2008


trasgredire mai le piccole regole, sfuggendo però, di fatto, ad ogni tentativo profondo di presa.

in modo inequivocabile, le lusinghe letterarie non hanno alcun peso rispetto alla forza del mistero che promana dai piccoli gesti della signora Cauchat. Il giovane però intraprende anche la via che conduce all’approccio scientifico, attraverso lo studio di alcuni libri di biologia e mediante le istruttive conversazioni con Berhens. Anche il versante scientifico del sanatorio, dunque, cerca di sviluppare mosse pedagogiche, ma in maniera più sottile, misurata, mosse alimentatate sottotraccia dall’imporsi della figura del medico quale depositario del destino di Castorp. Tuttavia neanche il modus scientifico riuscirà ad annoverare il giovane tra i suoi, Castorp vorrà rimanere in sanatorio anche oltre la fine della malattia, non in ossequio alle autorità mediche, ma sempre i virtù del potere attrattivo della comunità.

7) Il mutamento di Hansi Castorp Abbiamo visto quali siano le componenti che concorrono a delineare l’orizzonte del Berghof, abbiamo potuto osservare le caratteristiche degli attori principali, caratteristiche ben definite vista la fissità dei loro ruoli, almeno per ciò che riguarda Berhens e Settembrini. Ma, il vero centro del romanzo, come in tutti i romanzi di spessore, è chi muta, perché la fissità non è mai all’altezza estetica e morale delle grandi metamorfosi. Ebbene, Hans Castorp al suo arrivo in sanatorio portava con sè pochi bagagli e un gran bisogno di cambiare, di assumere un’identità più definita, e infatti il romanzo si nutre principalmente dei vari passaggi che egli compie verso una nuova forma d’esistenza. Dopo le prime diffidenze e l’iniziale tentativo di conservare una certa distanza dalle faccende del Berghof, il ragazzo prende coscienza delle particolari condizioni in cui si svolge la vita dei pazienti, arrivando ad assoggettarsi alle regole del sanatorio in maniera integrale, soprattutto dopo aver scoperto d’essere malato. Motore del tutto, come già detto, l’amore per una delle pazienti, la signora Cauchat. Ma, le possibilità di trasformazione di Hans sono molteplici e costituiscono altrettanti sentieri interrotti. All’inizio sembra che Settembrini possa avere un ruolo decisivo nella sua formazione, l’italiano fa di tutto per salvarlo dalle spire della sensualità sanatoriale offrendogli la sponda della compostezza e della cura interiore umanistica. Il tentativo dell’italiano fallisce

La vera trasformazione di Hans avviene lungo una direttrice che passa per il lato oscuro della comunità. Egli subendo il fascino della Cauchat accede al mistero del sanatorio, e soprattutto al lato misterioso che abita dentro di lui. Lungo le pagine del romanzo noi vediamo Castorp sempre più assediato dal potere attrattivo di una comunità di malati che sembra avere in sé una vita molto più intensa di quella della “pianura”, un’esistenza che corre lungo l’orlo del precipizio traendo da ciò un’ebbrezza irrefrenabile. Castorp esprime una profonda adesione a tale irrequieta vitalità. Decide di portare conforto ai moribondi, affrontando il tabù della morte che la maggior parte dei degenti cerca di fuggire. Tale ingrato compito che il giovane sceglie per sé ha certo nella solidarietà umana un forte movente, però il vero alimento del suo agire è rappresentato dalla forza misteriosa e attraente della morte, Castorp vuole 26

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accostarsi alla paradossale sorgente della vita del sanatorio, è rapito dal nobile mistero che incombendo pare vivificare i malati. Inoltre, la stessa sensualità di madame Cauchat è frutto della sua ambigua condizione di donna assediata dal male, bella esternamente ma corrotta all’interno. Prima che la donna lasci il sanatorio per tornare temporaneamente a casa, Castorp le chiede in dono la radiografia nella quale compare il bel corpo della donna insieme ai polmoni gravati dal male. La piccola radiografia rende indistinguibili i contorni della vita e della morte, sovrappone i profili, attraversati ed uniti dalla forza lucente dello strumento radiografico. Siamo di fronte ad un’immagine dal forte sapore simbolico, che evoca la comunità nel suo complesso retta dalla luce della scienza, dal suo potere indirizzante che al contempo però scatena la misteriosa alchimia di sensualità e morte, l’incontrollabile travolgimento che trascina le anime del Berghof.

L’orizzonte di senso del romanzo Thomas Mann scrisse la montagna incantata in quasi dieci anni a cavallo tra le due guerre mondiali, cercando di esprimere lo spirito dell’epoca in cui viveva, ma anche gettando lo sguardo verso il futuro. E il futuro della Germania e dei tedeschi per l’autore che scrive dopo la tragedia della sconfitta della prima guerra mondiale, corrisponde all’apertura nei confronti delle istanze democratiche e repubblicane nel tentativo di salvare la tradizione tedesca, la cultura germanica. In fondo anche la dialettica che viene messa in scena nel sanatorio, tra la morte e la sua fascinosa attrazione e la vita con la sua grandezza non è altro che la rappresentazione dell’inconciliabile ed eterna antinomia manniana tra Kultur e Zivilisation. La prima, espressione della cultura tedesca, dell’arte, dell’irrazionalismo romantico, della gerarchia, del valore del popolo tedesco, la seconda invece coincidente con la potenza omologante e massificante della società moderna e delle democrazie occidentali.

Appare dunque evidente quanto la trasformazione di Hans Castorp assuma traiettorie che nulla hanno a che vedere con il tradizionale umanesimo, né con l’adesione all’ideologia scientifica (gli stessi interessi del nostro per la biologia sono legati all’attrazione corporea per madame Cauchat), ma si delinei lungo una via, che pur non perdendo il contatto con i modi e i tratti del vivere razionale (sia chiaro non siamo al cospetto di una prospettiva irrazionalista) sa fare spazio alle forze del desiderio, del corpo, coltivate nella solidale appartenenza al destino di una comunità di uomini apparentemente soggetti a vari tipi d’imperio, ma profondamente liberi.

D’altro canto lo scrittore viveva il contemporaneo declino dell’umanesimo tradizionale, incapace di tenere il ritmo di tempi sempre più svincolati dalle dinamiche della razionalità moderna. Egli volle ipotizzare una terza via, trovare una mediazione che fosse in grado di offrire istanze di senso capaci di resistere al monopolio scientifico, e capaci allo stesso tempo di costituire su basi nuove il rapporto tra razionalità e corporeità, lasciando che le ragioni del corpo, del desiderio, della solidarietà nel dolore e nella passione fluidificassero la graniticità della razionalità umanistica, senza per questo cadere nell’irrazionalismo 27

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nichilistico. La comunità del Berghof non si fonda sul sapere, sulla contemplazione e la comunanza spirituale, ma sulla quotidiana costruzione di un senso fondato sull’appartenenza ad una comunità di individui sprovvisti di senso e votati alla ricerca di esso. Una ricerca che nasce all’interno di un orizzonte dominato dalla morte, la cui prossimità reale, non teorica, moltiplica le risorse dell’agire. E l’agire stesso è dotato di una priorità assoluta, quale risorsa primaria e paradossale in un mondo di uomini che corrono verso l’annientamento, ma che non rinunciano a costruire rapporti, contatti reciproci. Forse allora la lezione di Thomas Mann potrebbe essere utile, perchè dal senso di precarietà, di fine imminente, di effimero, che caratterizza ogni gesto degli uomini d’oggi potrebbe scaturire il bisogno di sentirsi nuovamente comunità e di agire per la ricostruzione di un senso: «Da questa festa mondiale della morte, da questo delirio che incendia intorno a noi la

notte piovosa, sorgerà un giorno l’amore?» [7]. *** NOTE:

[1] Marino Freschi, Thomas Mann, Il Mulino, Bologna,pag. 7 [2] Thomas Mann, La montagna incantata, Corbaccio, Milano, 1935, p. 10 [3] Thomas Mann, Op. cit., p.16 [4] Thomas Bernhard, Il freddo, Adelphi, Milano, 1991, p.9 [5] Thomas Mann, Op. cit., p. 61 [6] Thomas Mann, Op. cit., p.131 [7] Thomas Mann, Op. cit., p.868

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(foto di Paola Pluchino)

PIANEROTTOLI

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TADAO ANDO FACILE TROPPO FACILE DA SFUGGIRE di Fernanda Ferraresso “Poiché la creazione artistica qualunque essa sia in ogni caso è un fatto spirituale, intellettuale, la scienza dell’arte deve essere psicologia. Può essere anche qualcosa d’altro, ma psicologia è in ogni caso.”- Max J. Friedlander- Il conoscitore d’arte. Tadao Ando: prima di tutto un uomo storico. vie e quartieri, alla scala macroscopica dell’essere permanente, in cui ognuno non abbisogna di un indirizzo o di un nome per riconoscersi. La proiezione avviene smaterializzando ciò che si tocca con mano e conferendo un corpo vivo a tutto ciò che sembra escluso, chiuso fuori. Ando costruisce un insieme in cui si sente attraverso tutti i sensi, letteralmente spaesando i nostri di occidentali, ma anche quelli degli orientali contemporanei, indicando l’impermanenza di tutti i sentimenti che ci radicano al suolo. Musica astratta, come astratte sono le “porte regali” della pittura: un astrattismo che procede non tramite la smaterializzazione geometrica dell’immagine ma semplificandone la consistenza sino a farne un punto di passaggio, una “porta” verso ciò che non si può raffigurare: esperienza dell’attraversamento e della porta aperta senza chiave. Per T.A. l’opera architettonica è come l’opera poetica: ha ed è un valore collettivo ma si può vivere solo in uno spazio di intimità continuo, non frazionato dall’astrazione della geometria o del pensiero. Lo spazio non si manifesta attraverso la sua fisicità (lo spazio non è ciò che resta racchiuso tra le pareti, o fuori

Per leggere le opere di T.A. bisognerebbe prima scorporare dai nostri occhi e dal nostro pensiero una modalità prospettica per cui ciò che vediamo e teorizziamo è frutto di regole matematiche ed economiche concorrenziali. Le costruzioni di Ando si es-pongono, pongono plasticamente fuori e dentro, in tempo assoluto,chi le abita, non nella mente, ma nella percezione contemporanea. Nell’attimo preciso in cui accetta il blocco e l’eliminazione di tutto quanto è “un più” invalidante la percezione e il partecipare, in una parola ripulita la scena, in una distanza ospitante, l’uomo che vive le costruzioni di Ando può essere realmente dentro tutto ciò che sembra fuori. Le sue costruzioni non lavorano per giunzioni, contrapposizioni,funzioni, come accade in occidente. Ando utilizza un porsi preciso, abbatte la giunzione meccanica quale si intende nell’architettura cui siamo abituati. Egli non scandisce gli spazi per ambiti ma come presenza di spaziotempo indissolubile dalle forme in cui si manifesta (spazi foto tropici). Le sue costruzioni chiudono fuori il mondo dall’intimo dell’universo. Si tratta di passare dalla scala urbana, all’interno di 30 VDBD – n. 2 – nov.2008


dalle pareti, ma si esprime attraverso la tipologia dei materiali e l’assemblaggio). All’interno delle fortezze di cemento armato di Ando, chiuse sui fronti al mondo caotico e congestionato delle città, l’universo accede senza bisogno di altra chiave se non la luce e l’ombra, che si esibiscono s/materializzando il supporto su cui pro-cedono il loro dia-logare nella ciclicità del tempo. Esiste una ritualità

cercare negli ambiti della tradizione, a studiare le sue elaborazioni formali in cui la ripetitività delle componenti del rito offrano la sicurezza sufficiente per poter asserire una presenza, anche se solo contingente, non permanente. Le sue costruzioni evidenziano l’elemento fondamentale e fondante della cultura giapponese: la lotta, intrapresa però senza speranza e i cui esiti vanno sostenuti fino alle estreme conseguenze. Citando M. Yourcenar:- La vita per ogni uomo è una sconfitta accettata- E’ forse così che riusciremmo ad accettare la condizione in cui si pone Ando: tra verità e inganni, in cui la vita ci posiziona tutti. Questa percezione dolorosa della vita porta l’architetto giapponese verso lo studio della tradizione per cogliere da questa la posizione in cui innestare la sua lotta senza quartiere con il mondo, con il caos quotidiano e con le ideologie: dirompenti e dilaganti, turbinanti, sismiche. Il trauma maggiore per il Giappone, e anche per Ando, che si riflette nell’angoscia che domina anche la letteratura nazionale del paese, è il tempo dopo lo sgancio delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Nell’architettura metabolista (anni 5060) le mirabolanti costruzioni che si sollevano da terra e sembrano fluttuare in aria, galleggiare senza radici, sono il frutto dell’angoscia prodotta dalla visione del vuoto. La visione “brutalista” che le si oppone tenta invece di collegarsi all’architettura contemporanea europea occidentale senza filtri inibitori e schermi tradizionalisti protettivi e scarica volumi potenti in aggetti pericolosi,trabeazioni vorticose assoggettabili a standard minimi e ossessivamente ripetitivi nel loro intersecarsi, allontanarsi, sollevarsi.

negli ambiti-abiti di Ando in cui la religiosità è l’atto della comunione con il tempo e il suo manifestarsi nella natura. Una monotona ciclicità si configura come ripetizione di stasi e im-mobilismo negli spazi di Ando, anche quando, da autodidatta si dispone all’apprendimento di un maestro che usa le vie guida della tradizione e della storia. Suo preferito è Piranesi, soprattutto le Carceri, attraverso cui cerca l’avvicinamento alle zone d’ombra e indaga il lato oscuro della mente. E’ la percezione della precarietà della vita che induce Ando a rivolgersi alla tradizione per ritracciare da lì la relazione pacificata con l’abitare nel mondo. La perdita- la distanza- l’insolvibilità delle domande fondamentali lo spingono a 31 VDBD – n. 2 – nov.2008


una sostanza comune: il continuo dello spazio nell’attraversarsi del tempo, un continuo farsi e disfarsi l’un l’altro, l’uno con l’altro in una inscindibile so/stanza.

Nasce in questo conflitto la produzione di Ando, che rende la lezione brutalista scevra da esasperazioni e la rimodella con raffinata sensibilità e una profondità che attinge gli elementi guida dalla tradizione. Gli architetti occidentali da cui Ando trae lezioni di costruzione sono essenzialmente due: Luois Kahn e Le Courbisier. Attraverso i progetti del primo studia la scatola muraria e ne apprende come l’esterno rilevi l’interno, l’andamento lineare degli spazi interni, la collocazione dei vani collegati da un elemento sospeso ( la passerella che poi resterà caratteristica di Ando e lo ricollegheranno a quei metabolismi che sospendevano da terra l’involucro abitativo. T.A. solleva la parte delle stanze, l’ambito più privato della casa e le mette in comunicazione con tutto il resto attraverso un passaggio sopraelevato.) Da Le Courbisier impara l’uso del cemento armato. Il rigoroso uso di questo materiale, per la cui messa in opera Ando richiede squadre di maestranze preparate , determina la coincidenza dell’apparenza sia interna che esterna, che altresì si percepiscono nel diverso modo di reagire alla luce. La levigatezza dei pannelli, e la loro posa in opera secondo controllate fughe di giunzione e di sconnessioni lievi, permette, nel momento in cui la luce colpisce le pareti stese delle costruzioni, di visualizzare una presenza altrimenti sfuggente. La presenza del tempo inteso come continuum. La parete si s/fa della materia di cui è costituita, cemento armato, per mostrarsi nel suo elemento costituente, sabbie quarzifere e silicee in cui sembra sgranarsi per stendere nel verticale una spiaggia velata da un film d’acqua. Depositi di silicio sul fondo di una spiaggia in riva alla luce. A filo d’acqua e raso terra la spiaggia non è metafora di qualcosa ma dis/velamento di

“I Greci dicevano che la meraviglia è l’inizio del sapere e allorché cessiamo di meravigliarci corriamo il rischio di cessare di sapere”-Ernst H. Gombrich. Prima di iniziare il percorso, prima di consumare il cibo di questa pietra che è l’abitare, vorrei dare una traccia secondo cui la freccia della lettura di ogni opera d’arte, attraverso rapide sintetiche etichettature di comodo, si spezzi. Uso infatti una chiave per aprire la porta che non c’è, una definizione,coniata dagli esperti per dire altro. Proprio qui, tra questa piccole pietre scalpellate a parola, sta la sentinella del progetto, di ogni progetto che abbia come movente e come ospite l’umano. Ogni architettura, per questa prima posa della soglia, è organica: organizzata attorno o contro l’uomo, organica-mente intessuta di sensi e senso, di assenso, di spazio e di tempo,di sogni,di fame di sete di sesso di sonno di pianto… di scavi di letti di letterature letture dilettevoli inganni di scene di specchi di vetri di pieni e di vuoti di strade e di caverne di buio di vero e del falso di parole che non bastano mai, in percorsi fatti a labirinto dentro l’abito abitato, abitante di se stesso. Niente punti, solo ap-punti, nel vivo dell’albero che ancora fruttifica in una scatola magica che si chiama archi-tettonica a zolle: insomma terre-moti continui. *Nota: secondo la definizione standard, reperibile nei testi di storia dell’architettura,, ARCHITETTURA ORGANICA è quella che si sviluppa come un organismo da un 32

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nucleo centrale, senza schemi geometrici preordinati, vivendo liberamente nel proprio ambiente,anzi connaturandosi ad esso. E’ l’architettura per l’uomo, progettata su misura per lui, nata intorno a lui e che cresce con lui come se fosse il suo corpo. Non è forse in questo modo che anche i Greci e prima gli Egizi, i Babilonesi e i Sumeri e tutti gli altri, che hanno deposto pietre l’una sull’altra alla costruzione della casa del dio (o dell’uomo dio) o per il viaggio nell’ultraterreno, o per relazionarsi con i propri simili e con se stessi, hanno generato quelle organizzazioni che chiamiamo città? Città e cittadine hanno una lunga storia, sebbene ci siano diverse opinioni riguardo ai casi in cui un certo particolare insediamento antico possa essere considerato una città. Le prime vere città sono a volte indicate come grandi insediamenti nei quali gli abitanti non si limitavano coltivare le terre circostanti, ma cominciavano ad avere occupazioni specializzate, e nelle quali il commercio, l’immagazzinamento dei cibi e il potere erano centralizzati. Le società basate sulla vita nelle città vengono spesso chiamate civiltà. Le città hanno geografie diverse, spesso sono sulla costa e hanno un porto, o sono situate nei pressi di un fiume, ottenendone un vantaggio economico. I trasporti mercantili su fiumi e mari erano,e spesso ancora sono, più economici e più efficienti del trasporto su strada su lunghe distanze. I nuclei delle vecchie città europee, che sono stati massicciamente ricostruiti,tendono ad avere centri cittadini dove le strade sono disposte in ordine sparso, senza un apparente piano strutturale. Questa è una eredità di sviluppi organici e non pianificati. Oggi questa struttura viene tipicamente percepita dai turisti come curiosa o pittoresca. La pianificazione delle città

moderne ha visto molti schemi differenti su come l’agglomerato urbano debba apparire. La struttura più comune è quella a griglia, quasi una regola in parti degli Stati Uniti ed utilizzata per centinaia di anni in Cina e dai nostri Romani. Elementi del programma di Tadao Ando. L’opera architettonica equivale ad un’opera poetica : ha ed è un valore collettivo, non solo bene commerciale, ogni progetto è una relazione etica con il tutto e con l’intimità del singolo. Ogni architettura è dunque un progetto di interferenza nella sfera del sociale da cui deriva e di cui si nutre l’involucro, luogo che separa l’interno dalla società utilizzando un con-fine comune, attraverso cui viene immesso di nuovo, secondo tempi e modalità diverse, l’esterno ripulito dal sovrappiù. Anche la società è comunque un luogo dentro cui l’opera architettonica si pone con il suo luogo. Diventa fondamentale per Ando l’elemento parete, funge da barriera esterna, blocca il caotico susseguirsi dell’informe prodursi dell’urbanesimo. All’interno si dissolve attraverso la luce che rade, come una rasatura, la superficie dei pannelli in c.a. le cui discontinuità e i difetti assumono la sembianza di un fondo sabbioso ondulato,come già detto, introducendo all’interno delle stanze qualcosa che è lontanissimo, impastando l’ambiente di spazio e s-formandolo. La parete tagliata con precisione chirurgica, attraverso la proiezione dell’ombra riesce a farsi meridiana interna di una sorgente che, da fuori, entra per collegarsi al sole e all’ombra interiore di chi abita lì dentro, fino a raggiungerlo, ancora più in profondità, nell’ombra dello 33

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sguardo, proiettato da un dentro verso fuori realizzando l’esatto riciclo della proiezione. Parete su parete Ando si addentra in una successione a labirinto, sempre più dentro fino alla dissoluzione di quel dentro, in una unità precisa e senza limite, attraverso la soglia imposta, il muro, spesso, duro,necessario per poter accedere a quella lettura mai distratta delle superfici non superficiali. Le griglie quadrate, di cui Ando fa larghissimo uso anche nella formulazione dei solidi (cubi) cavi, servono all’architetto per modificare la percezione tempo-spazio allacciando una relazione continua con la luce. Non ci si può avvicinare ad un’opera di Ando distrattamente poiché la percezione chiama alla dilatazione di sé all’interno di spazi voluta-mente, apparentemente, angusti, claustrofobici. Per abitarci bisogna liberarsi di quanto è in esubero. Le dissolvenze, le ombre che si s/tendono sulle lastre di cemento armato danno tensione agli ambienti caricandoli di geometrie impensabili, in cui soluzioni luminose si fanno progettiste di nuovi elementi. Ando ci offre di guardare il filmato che ci sfugge ogni giorno, del giorno che viene direttamente dentro casa, lasciando il caos fuori, all’esterno di quella spessa parete che è la stessa che separa e unisce. Anche nei cortili interni l’architetto gioca con le proiezioni, “orto-gon-ando” scherzi molto simili a quelli musicali: un albero crea se stesso sulla parete al suo fianco, e il giardino si moltiplica e si sposta, a seconda del moto della luce e della nostra relazione con essa. Non è architetto semplice, contrariamente a ciò che ci da a vedere con le sue scatole, poiché sono più complesse di scatole cinesi, contengono così tanto entro ogni

parete e noi siamo dentro, non fuori, nel medesimo indissolubile legante: una fitta mag(l)ia che si articola di ombre e sequenze per perdersi, per perdere ciò che ha peso e volume e ricostruisce ciò che non è, non ha gravità, in uno o più corpi, estesi in superfici che mutano sotto i nostri occhi. La lontananza è ciò che rende intimamente prossimi i fenomeni che si percepiscono nei giardini della tradizione Zen, che implicano una estrema astrazione e un’attenzione spasmodica per l’essenzialità. L’astrazione ci consente di partecipare alla perfezione (di cui solo il tutto è l’espressione) e ci permette di accogliere i fenomeni naturali in cui il tempo si materializza come fonte di conoscenza. E’ questo lo Shintai di cui Ando parla, a cui attinge mostrando come nessuna forma artistica possa inter-ferire con lo stato di perfetta astrazione in cui esso viene a trovarsi, travasandosi attraverso dettagli minuziosamente progettati ad accoglierlo. Il vento ci fornisce una presenza attraverso i ritagli, i frammenti preziosi che conduce sino agli schermi delle pareti di casa, occhi aperti là dove sono ciechi, e si lasciano toccare, abitare (architettura sukiya: la casa del tè). Non ci sono colori negli spazi di Ando poiché potrebbero turbare l’intimità della quiete che è il fine che si vuole raggiungere nel progetto. Progettare per Ando è un atto critico, un gesto di resistenza e le sue opere sono schieramenti in cui l’architetto si pone in relazione ma anche in scontro aperto con questioni di ordine sociale, economico, legale, politico. L’architettura, cioè, non è un atto puro ma un porsi aperto.

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Selma Lagerlöf, oil portrait by Carl Larsson (1908)

Selma Lagerlof, la prima scrittrice premio Nobel di Anna Maria Bonfiglio

Nel 1909 l’Accademia di Svezia assegnava il Premio Nobel per la letteratura alla scrittrice svedese Selma Lagerlof con la seguente motivazione: « Per l'elevato idealismo, la vivida immaginazione e la percezione spirituale che caratterizzano le sue opere ». Era la prima donna della letteratura a ricevere l’ambito riconoscimento e la seconda in assoluto, dopo Marie Curie. Nel 1914 sarà la prima donna a diventare membro della stessa Accademia. Selma Ottilia Lovisa Lagerlöf nasce il 20 novembre del 1858, a Mårbacka, un podere della regione svedese del Varmaland di proprietà della nonna paterna. Colpita nella prima età dalla paralisi infantile, perde per due anni l’uso delle gambe ma miracolosamente alla fine torna a camminare riportando una forma di zoppia. La malattia e il dissesto finanziario causato dal padre alcolizzato le procurano una forte depressione. La prende sotto la sua protezione la scrittrice Anne Frysell che con un prestito l’aiuta a finanziare la sua istruzione. Dopo un anno di scuola preparatoria Selma entra in un College di Stoccolma dove si diploma e inizia l’insegnamento. Durante i suoi studi legge molti autori dell’Ottocento, ma fondamentale per la sua formazione culturale è il clima che ha respirato nella sua casa, intriso di tradizioni favolistiche popolari e di saghe della letteratura romantica. Intanto ha cominciato a scrivere e con i primi capitoli di quello che sarebbe diventato un romanzo partecipa ad un concorso letterario e lo vince, ottiene così un contratto per la pubblicazione e nel 1891 esce La saga di Gosta Berling, libro che le darà notorietà e fama e che verrà considerato uno dei capolavori della letteratura europea del XIX secolo. Il romanzo si ispira ai valori della tradizione ma allo stesso tempo propone un impianto nel quale il bene ed il 35 VDBD – n. 2 – nov.2008


male sono rappresentati da metafore che evocano un suggestivo realismo magico. Gli eventi in cui è articolata la trama non permettono di esaurirla in poche righe, possiamo in breve dire che il protagonista è Gosta, un prete alcolizzato che ha lasciato l’ufficio sacerdotale e che, sull’orlo del suicidio, viene accolto dalla signora di Ekeby, una vedova proprietaria di sette fucine che in un’ala del suo palazzo ospita singolari figure di avventurieri e di artisti più o meno falliti. In questa dimora, amorevolmente assistiti dalla padrona di casa, gli ospiti vivono come in una dimensione sospesa, fra feste, giochi ed avventure, con l’obiettivo di sconfiggere il grigiore della vita quotidiana. La notte di Natale stringono un patto con il “diavolo” Sintram che li convince a cacciare via la signora e a governare da soli il suo territorio per un anno intero, agendo da veri cavalieri di avventura. L’anno trascorre tra balli, alcol e amori, Gosta intreccia legami sentimentali con tre donne contemporaneamente, ma l’economia della comunità va in malora, le fucine non producono più nulla e così, fra fallimenti e dolori, i cavalieri assumono la consapevolezza che Sintram li ha ingannati e che per ristabilire l’ordine occorre che ritorni la signora di Ekeby. Il personaggio di Margareta, la signora che si è circondata di una corte di uomini smarriti nella loro stessa esistenza, incarna la capacità di tolleranza verso l’umanità diseredata e suggerisce di riflettere sui valori etici dell’esistenza. E Gosta, nella sua natura di balordo e nel suo fascino di avventuriero, simbolizza la possibilità di far convivere la parte ludica della realtà con la responsabilità morale nei confronti della vita. Nella narrazione epica di Selma Lagerlof realtà e fantasia convivono in una parabola che punta all’intento di creare uno spartiacque fra il bene ed il male. In ultimo, è l’amore che prevale, in un’accezione evangelica non dogmatica ma attraversata dal percorso del peccato, dell’espiazione e della redenzione finale. Il romanzo, che al suo apparire viene considerato fuori dai canoni culturali contemporanei, dominati allora dagli stilemi del naturalismo, nonostante il successo di pubblico trova ostilità da parte della critica di matrice positivista. Ma una recensione molto lusinghiera del critico Georg Brandes aggiusta il tiro ed apre il passo alla giovane scrittrice che comincia a riscuotere riconoscimenti e consensi. Nel 1894 Selma Lagerlof incontra la scrittrice Sophie Elkan che diviene sua grande amica e compagna di vita. Con lei, lasciato l’insegnamento, e sulla scia delle esperienze di Frederika Bremer, antesignana svedese del suffragismo che si spinse fin negli Stati Uniti per sensibilizzare la società dell’epoca ai problemi dell’uguaglianza e della libertà individuale, Selma inizia a visitare i Paesi stranieri e arriva anche in Italia. Il soggiorno in Sicilia le ispira il romanzo I miracoli dell’Anticristo, nel quale riflette sia sul senso fortemente religioso del luogo sia sui cambiamenti generati dai primi movimenti del socialismo, prefigurando una sorta di rappacificazione fra i sentimenti evangelici e il desiderio di riscatto attraverso i valori socialisti. In una doppia prospettiva è strutturato l’altro suo grande romanzo, Gerusalemme, che include il legame con la terra d’origine (la Svezia) e il distacco da essa per raggiungere la Terra Promessa. Nella prima parte della narrazione viene rappresentata la vita di una comunità agreste che vive tramandando di padre in figlio i valori della solidarietà e del lavoro. Nel secondo segmento vengono narrate le vicissitudini di un gruppo di questa comunità che decide di trasferirsi in Palestina. Due dimensioni geo-sociali che si contrappongono ma che alla fine ricostruiscono una propria identità, in una parabola che attraversa errori, sacrifici, colpe e redenzione. 36 VDBD – n. 2 – nov.2008


Molte sono le opere scritte da Lagerlof, oltre ai romanzi citati ricordiamo Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson, La casa di Liljecrona, la trilogia L'anello dei Löwensköld, Il carretto fantasma, L’imperatore di Portugallia; Mårbacka, Ricordi d’infanzia, Diario, di matrice autobiografica, e inoltre numerosi racconti e due testi teatrali. Parallelamente al suo lavoro di scrittrice e ai suoi impegni in favore delle questioni che le stavano a cuore, la pace, le problematiche femministe, la politica, Selma ricostruisce e manda avanti l’azienda agricola che la sua famiglia aveva perso a causa dei dissesti finanziari. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si adopera per trovare vie di fuga agli intellettuali perseguitati dal nazismo e, poco prima della morte, avvenuta il 16 marzo del 1940 per un attacco cardiaco, dona la medaglia d’oro del Nobel per raccogliere fondi a favore dei finlandesi impegnati nel conflitto russo-finnico noto come Guerra d’Inverno. Selma Lagerlof è una donna colta e progressista, impegnata a sostenere le istanze delle parti deboli della società, ma nella scrittura riesce a coniugare questo aspetto con la perpetuazione dei valori e delle tradizioni della civiltà del suo paese e con i precetti dell’etica e dei buoni sentimenti. Nella ricorrenza dei centocinquant’anni della nascita e dei cento dell’assegnazione del Nobel, a Stoccolma è stata allestita la mostra “Selma Lagerlof e tutto il suo carteggio” che raccoglie tutte le lettere, scritte e ricevute, della scrittrice, della quale la Biblioteca Reale conserva più di quarantamila missive. Anna Maria Bonfiglio

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Random - racconti senza casualità a cura di Morena Fanti

Tre voci contemporanee e ben definite, ad accoglierci e ad inaugurare questa nuova rubrica di racconti inediti. Tre voci dissimili ma che svolgono un filo letterario comune: la modernità dei temi trattati e la cesura del linguaggio, seppure in chiavi e modalità diverse. Sal è uno dei tanti che popolano le nostre città e spesso le nostre vite. Un andare e andare, un ripetersi in varie coniugazioni che denunciano una spersonalizzazione del corpo e dell’anima: “si alzò alzava alza, eh sì, ’sta confusione verbale, difficile eh? che stia nella precisione del narrare, vero? epperò raga, stan così le cose, che Sal appunto si alzò alza alzava, ché nell’arco di anni ripeteva la storia del levarsi sorgere dal sonno come dopo la morte”, giorno dopo giorno fino al nulla in fondo alla via che dobbiamo comunque percorrere. Una nota di colore di Salvatore Jemma, è la storia di una non-storia, una giornata uguale alle altre, in cui Sal sente la voce fuoricampo e intuisce che fuori c’è la vita, ci sono cose di cui dovrà deve dovrebbe occuparsi ma sono, appunto, voci fuori, dal campo e da Sal. L’unica nota di colore è il sottofondo della musica che scandisce e dà ha dato darà il tempo ai passi insensati della giornata: “ Sal guarda l’orologio, quello che porta al polso e quello che è appeso al muro, passa mai ‘sto tempo diobono, mai che passi meno male che c’è musica; e dunque dunque Sal guarda il suo orologio e quello appeso al muro, poi la finestra che è un finestrone e la musica va esce dalla radio che è piccola minuta, manda note dolci ma anche dure, roba pesa e roba zuccherina, musica comunque, ah sì, ci fosse mica ‘sta musica sai il peso, sai la tortura, […] Sal scende esce dall’usato trabaco e va dove deve e starà per le ore restanti della sera, la giornata adesso vuota ma che s’era riempita sì di musica, musica raga, ché senza si vive mica”. Anche nella prosa, come fa da sempre nella sua poesia, Jemma non dimentica di inserire la voce delle nostre città, il rumore di fondo di una società sempre più estranea e indefinita, che si rincorre e si avvita avvitava avvitò su se stessa. In Zipless fuck Alessandro Berselli analizza i pensieri del protagonista senza nome, marito di Valentina e capo area di una grande azienda, identificandosi con la voce narrante e trascinandoci in una “radiografia mentale”, dal linguaggio crudo e vero, senza parole superflue, fino ad esaminare e scendere nelle profondità di un uomo che si sta appiattendo nella superficialità della vita. Estraniato da tutto fuorché dal proprio corpo, che è sempre molto presente nelle sue manifestazioni, e dai pensieri che scorrono tra il niente, le giornate di lavoro e Vale che ora vuole un figlio, la nostra voce narrante si ferma finalmente e chiude gli occhi su un pensiero che sa di futuro: “Appoggio il giornale, chiudo gli occhi. Penso a mio figlio, o a mia figlia, DarioTeresaAndrè o quel che sarà. Vedo il Natale, la Comunione, la prima volta che fumerà una sigaretta e un pomeriggio d’inverno in cui andremo allo stadio. Vedo i suoi occhi, la sua bocca, la sua piccola mano stretta nella mia mentre camminiamo sotto i portici. Sarà bello, sarà brutto, non lo so. Ma sarà sempre meglio che restarsene qui, in mezzo al niente, ad aspettare che questo treno riparta”. Berselli non tradisce la sua capacità di entrare nella mente di chi osserva: tra outlet, condominio e spesa del sabato, la coppia è esaminata, rivoltata, sezionata dalla sua penna sempre più affilata. Ci riporta sulla terra, per quanto su una terra con sembianze di Cielo, Davide Piazzi con il suo Un tè con Dio, un racconto dal sapore fantascientifico che tratta uno dei grandi temi della vita: l’esistenza di Dio. Ma com’è Dio? domanda Soitok ad Iagain: “E… com’era? Voglio dire, è come lo abbiamo sempre visto dipinto? Sai, barba lunga, sguardo austero, occhi penetranti”. 38 VDBD – n. 2 – nov.2008


E cosa voleva Dio da Iagain? Ci troviamo così di fronte ad un Dio che corre ai ripari e si fa aiutare da un esperto di marketing per ridare splendore al suo nome e rimpinguare le fila dei suoi seguaci: “Per cominciare, gli ho detto che a mio avviso doveva abbandonare da subito la strada dei miracoli, delle apparizioni e degli altri effetti mirabolanti. Roba superata, non attacca più. C’è bisogno di qualcosa di nuovo, di moderno. Qualcosa di forte ma allo stesso tempo chiaro e facile da comprendere. Un messaggio alla portata di tutti, che possa catturare l’attenzione e l‘interesse soprattutto dei giovani. “Bisogna avere pazienza e investire oggi per il futuro”. Questo gli ho detto”. Ma Dio ha un asso nella manica e la scrittura di Piazzi ci conduce per mano tra sembianze divine in forma di passato di verdura e strategie per richiamare fedeli. Una scrittura deliziosa e accattivante in cui Piazzi si mostra, come fa anche nei suoi noir, un narratore acuto e sorprendente che sa coniugare personaggi e vicende.

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Una nota di colore di Salvatore Jemma

Dunque, si alzò Sal si alza si alzava presto la mattina, presto vuol dire un tempo freddo e uggioso, possibilmente buio, autunno inverno ché d’estate è mai presto e la luce è luce forte violenta, e il caldo? be’, lo sapete no? caldo bestia e via così; si alzò alzava alza, eh sì, ’sta confusione verbale, difficile eh? che stia nella precisione del narrare, vero? epperò raga, stan così le cose, che Sal appunto si alzò alza alzava, ché nell’arco di anni ripeteva la storia del levarsi sorgere dal sonno come dopo la morte, resuscitare da ’na tomba buia oscura che era per lui dormire, ci sarò domani? boh, dormiamoci sopra, si diceva si disse si dice; allora per non stare mica qui a smenarcela di brutto, Sal si alzò eccetera e si diresse con piccole onde occhi semichiusi che sfregava spalancando la bocca in sbadigli grattandosi e cose così, insomma quello che di solito, dal sonno ancora presi catturati, si ondeggia si sente si faceva ondeggiò eccetera, oh, diamo tutti ’sti tempi per già detti sennò si finisce mai; Sal è lì, in piedi inscimunito a farsi bersi qualcosa mangiando qualcos’altro di dolce intinto nel liquido odoroso fumante, accende la radio ché la mattina, vero? le notizie dal mondo e poi sì che ne sai ne fai ne dici ne senti; insomma, beve mangia ondeggia sente ma ascolta mica il flusso di voce e voci che scorrono da lì a là e pervadono la stanza cucina dove effettivamente Sal sta e ondeggia mangia eccettera; così Sal sente ma mica ascolta le parole spranghe, assalto, pericolo, nero, sporcano, scritte sui muri, sdegno, poi cambio voce, non possiamo, non dobbiamo, rifiutiamo che, non è vero ma, questi vengono e vanno, poi cambio di voce, regole da, nessuno ha, cinese, sicuro che siamo insicuri, poi cambio di voci, lo stile di vita che cambia, carica la tua giornata, infilalo per bene, tutto il piacere, vivilo con noi, più valore a questo e quello; Sal spegne la radio beve l’ultimo sorso mastica l’ultimo boccone si rade fa la doccia si veste esce, così ecco che lo vediamo bel bello uscire per strada e via all’usato 40 VDBD – n. 2 – nov.2008


trabaco, via che va come il vento va s’invola cerca, con l’affanno del mattino che gli pesa, di cogliere il bus che vede sta arrivando arriva arrivava arrivò; è una giornata autunnale che dà sull’inverno, e quindi freddo umido con selezione di colori smunti grigi; ahi la primavera e i suoi miti colori ché tutto rinasce e giaggià, che ti prende quel languore, ahi l’estate sui lidi eccetera, nel sole nell’acqua nelle passeggiate per i monti, le capitali del mondo, l’isole assolate e risplendenti, sabbia bianca azzurro cielo e robe del genere; così il bus stride e sballonzola, fisso murato di gente che va e viene, il mattino fisso murato di gente che sta e ristà, all’usato trabaco che va; lì che è arrivato al bus, Sal sale e poi scenderà, va dove deve e starà per varie ore, la giornata semipiena mattina pomeriggio uscita che ci si vede più, landa deserta e via così; Sal che era salito ora scende con varie persone che lì vanno come lui va e salgono scale ascensori prendono corridoi entrano in stanze siedono scranne bevono caffè digitano parlano accendono radio ascoltano musica e poi cambio voce: Parma, Castel Volturno, sette, il clan dei, poi cambio di voce, Roma, cinese, sporco negro, spranghe, il sangue, sì è mio figlio, sì è mio marito, sì siamo qui da, no non è, non è vero che è, Napoli, Roma, questi non fanno, questi fanno, quelli con quelle ci vanno, questi da quelli la comprano, ma quelli sono bestie, puzzano, sporcano, ci rubano questo e quelle, poi cambio di voci, musica musica musica musica musica; Sal naviga e digita guarda fuori dalla finestra, sai adesso star fuori a far quel cazzo che mi pare, sai che sballo goduria a camminare per fatti miei, mica star qui a rompermi il culo e musica musica musica musica musica, sai andarsene sì andare via, qui si muore, in ’st’ufficio dimmerda, lavoro dimmerda, ognigiorno ognisempre per poca baiocca e poi a sera stremato a casa, fai cosa a casa? e alla radio sempre musica musica musica musica musica, poi cambio voce, lavori pagati niente, come bestie, incidenti, si muore, come bestie, bestiame trattano così, poi cambio di voce, siamo o no questo e quello? il sondaggio dice, non si può definire, ma forse se guardassimo, ci sono mille modi, analizziamo meglio le cose, qui quelli non ci dovevano, qui questi non ci potevano, qui loro non, ’sti qui non sono, per ore nuda all’aeroporto, il sondaggio è, l’inchiesta ci dice, lei cosa ne pensa? allarme questo e quello; e Sal digita e guarda fuori dalla finestra che è poi un finestrone che dà su una landa desolata e percorsa da uno stradone dove macchine corrono e corrono e vanno filano via verso destini e destini; Sal guarda perso nel fittume della nebbia che s’è alzata ed è fitta, si vede più niente, ah scomparire nella nebbia, perdersi sperdersi, cagarsi via da qui; e Sal digita e ascolta musica eccetera, sto mica a ripetere che la musica si ripete, già detto, no? insomma, dài e dài si fa l’ora del pranzo che rifocilla e Sal balza su e va verso il bar o mensa oppure luogo dato al rifocillamento del corpo; e mentre si rifocilla nel bar o mensa o luogo eccetera, ma stavolta è il bar, Sal guarda sente la tele ma ascolta niente, ché parla ride scazza con altri che parlano ridono scazzano con lui; sai cosa sai come, dove sei andato? ah già lo stronzo, poi vieni e poi vai, comunque sì d’accordo, eppoi il mare sì quello, non sai l’azzurro, i monti questi sì, non sai il panorama, il silenzio, la vita, lo slego, cazzo raga non vedo l’ora, abbiamo mangiato da dio e speso un cazzo, sì quello stronzo del capo, evvai dài cazzo tira tira dài ma come giochi? poi cambio voce e musica musica eccetera; ultimo sorso ultimo boccone e via che si torna all’usato trabaco e Sal sale e va dove deve e starà per le ore che restano, pomeriggio e poi uscita che ci si vede più, landa deserta e così andare; Sal che sale con varie persone che lì vanno dove lui va e salgono scale ascensori prendono corridoi entrano in stanze siedono scranne bevono caffé digitano parlano accendono radio ascoltano musica e poi cambio voce: c’è un’emergenza, non c’è nessuna emergenza, i dati dicono, c’era sangue dappertutto, i morti 41 VDBD – n. 2 – nov.2008


sono sette, ennesimo incidente sul, l’impalcatura era, il processo, gli avvocati dicono, ci sarà il ricorso, il processo è sospeso si sospende verrà sospeso, il colore non c’entra, il colore c’entra, questo è un Paese che, poi cambio di voce e musica musica eccetera; Sal guarda l’orologio, quello che porta al polso e quello che è appeso al muro, passa mai ‘sto tempo diobono, mai che passi meno male che c’è musica; e dunque dunque Sal guarda il suo orologio e quello appeso al muro, poi la finestra che è un finestrone e la musica va esce dalla radio che è piccola minuta, manda note dolci ma anche dure, roba pesa e roba zuccherina, musica comunque, ah sì, ci fosse mica ‘sta musica sai il peso, sai la tortura, dice pensa Sal; poi la musica si spegne, dài che è ora dài che si va dài che è finita anche oggi e bona lé; Sal scende esce dall’usato trabaco e va dove deve e starà per le ore restanti della sera, la giornata adesso vuota ma che s’era riempita sì di musica, musica raga, ché senza si vive mica; e adesso c’è l’uscita dove ci si vede più, landa deserta e Sal che era sceso ora sale con altri sul bus per andare dove tutti vanno, come lui a salire scale ascensori entrare in corridoi entrare in stanze sedersi su scranne bere qualcosa digitare sul cell parlare alla chat accendere radio e tele ascoltare musica vedere cose, e poi cambio voce: si offendono le forze del, erano lì per fare, c’entra niente il colore, sono pochi episodi, il fatto è che loro non dovevano esserci, il fatto è che loro qui non ci devono stare, il fatto è che ci vuole una stretta, il fatto è che ci vuole più, il fatto è che la gente ci chiede, il fatto è che tutti si sentono, il fatto è che la crisi, poi cambio di voce e Sal mangia la cena sì parca frugale, beve quel che deve e mangia quel che sa, poi cambio di voci e musica musica eccetera. Salvatore Jemma

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Zipless fuck di Alessandro Berselli

Trentasette e due. Non è febbre, ma non sto nemmeno bene. E’ comunque una variazione della temperatura corporea, un’alterazione dei parametri, una risposta del sistema immunitario ad aggressioni di origine batterica, o peggio, virale. Per questo chiamo in ufficio. Per questo avviso Liuba. Per dirle che rimango a casa, che preferisco restarmene a riguardo, e che se non si tratta di nulla di grave in un paio di giorni sarò di nuovo pronto per tornarmene a lavorare. Mi piace avere la febbre. Soprattutto il momento in cui decido che ci sono i presupposti per considerarla come tale. Quando decido di non vestirmi, e di non lavarmi, perché se stai male non ce n’è mica bisogno. Ci sei solo tu, il letto, le medicine, qualche cosa da leggere, un the caldo, le caramelle balsamiche. Il termometro. Dopo venti minuti me la riprovo, ed ho la conferma che ho fatto bene a fare quella telefonata. Trentasette e sette, quindi la febbre c’è, eccome se c’è. Tra un po’ mi toccherà anche prendere la tachipirina, ma non prima dei trentotto, come mi dice sempre il medico: usa il paracetamolo solo quando non puoi proprio più farne a meno, come tutti i farmaci d’altronde. Ho trentadue anni e sono sposato da quattro. Mia moglie è molto bella e si chiama Valentina, un nome raro e che generalmente si accompagna a donne more. Solo che mia 43 VDBD – n. 2 – nov.2008


moglie è bionda, fa la web producer e passa tutto il suo tempo a fare cose che io non capisco. Non nel senso che non le condivido, ma proprio in quello che non le comprendo. Lei ci prova a spiegarmele, o meglio ci provava. Adesso ci rinuncia, ha capito che non serve. O che non mi interessa, il che è la stessa cosa. Tra me e Valentina le cose vanno bene. Ci vediamo poco e scopiamo tanto. Lei parte il lunedì e torna il venerdì. Nel fine settimana alterniamo cene in ristoranti costosi a cinema e scopate. Scopiamo dappertutto. Ieri sera l’abbiamo fatto in macchina, per esempio. Come due ragazzini. Lei sopra, io sotto. Ci ho messo poco a venire, ci metto sempre a poco a venire. Ma poi ricominciamo. E la seconda volta è bella e lunga. Dopo Liuba è a lei che telefono. Le dico che sto male. Che la febbre sale e che ho il raffreddore. Che abbiamo preso freddo in quel cazzo di spiaggia. Non si va al mare in inverno, non quando tira vento perlomeno. Abbiamo scopato anche lì, in una cabina. Ne avevamo voglia e ci siamo chiusi dentro. L’ho appoggiata al muro, e gliel’ho messo in mezzo alle gambe. Siamo venuti insieme in meno di un minuto. Non l’abbiamo fatta la seconda, se gode anche lei non ce n’è bisogno. "Vale, ho la febbre". Vale è in macchina, in un punto imprecisato della A14. Ha passato Ancona ed è tra Porto Recanati e Civitanova. Destinazione Pescara, a fare cosa non lo so, non glielo chiedo mica sempre. Come vi ho detto non mi interessa. "Mio Dio amore, mi dispiace" Sento la radio in sottofondo, una vecchia canzone di non mi ricordo nemmeno chi. "I blame you for the moonlit sky, And the dream that died, with the Eagle's flight ". Mi viene in mente. SLEEPING SATELLITE di Tasmin Archer. Anni novanta o giù di lì. "Ho telefonato in ufficio. Non ci vado a lavorare" La canzone continua. "Have we got what it takes to advance? Did we peak too soon? If the world is so green, Then why does it scream under a blue moon?". Sì, sì, è proprio quella. Tasmin Archer, e chi se la ricordava più. Chissà che fine ha fatto. "Ti telefono più tardi, così sento come stai". Si, va bene. Telefona più tardi. Vattene pure a Pescara. Ma che ci va a fare una a Pescara? La prossima volta glielo chiedo, per vedere che cosa risponde. "I blame you for the moonlit sky, And the dream that died, with the Eagle's flight ". La signora che abita nel palazzo di fronte è una che vedo solo ogni tanto, quando fuma in balcone, o la incrocio per strada. Avrà una cinquantina d’anni, e di certo non è bella. Indossa una vestaglia che quando si piega le fa vedere un po’ le tette. Per questo a volte tengo le tapparelle abbassate e guardo tra le fessure. Per vederle le tette. Perché mi piace guardare la gente senza che gli altri se ne accorgano. 44 VDBD – n. 2 – nov.2008


Non fraintendetemi, non sono un guardone. Non passo le giornate a spiare le persone. Lo faccio solo con la signora di fronte. Quando si piega le guardo le tette, quando cammina le guardo le gambe. Abita un piano sopra il mio. Se si ferma a raccogliere qualcosa le vedo le mutande, e l’elastico delle calze. Intimo da poco, di quello che si usa per stare in casa. Mi piace quell’intimo, lo trovo eccitante. Mercoledì. Sto già meglio, torno a lavorare. Mi lavo, mi pettino, mi faccio la barba. Indosso la camicia, la giacca, la cravatta. Torno a fare quello per cui sono pagato. Il responsabile di area, un lavoro che non è un lavoro, perché non fai nulla se non coordinare il lavoro degli altri. Loro lavorano, tu coordini. Vent’anni fa un lavoro del genere manco esisteva, non se ne sentiva nemmeno la necessità. Non la si sente neppure adesso, a dire il vero, però è il mio lavoro, mi pagano per farlo e quindi va bene così. Scendo per strada, vado verso la macchina. Vicino al bidone c’è la signora di fronte, due sacchetti di pattume e la solita vestaglia. Vederla così me lo fa diventare duro. Penso a come sarebbe arrivarle da dietro e infilarglielo dentro. Così, nel parcheggio. Abbassandole quelle mutande comperate all’Oviesse senza che lei opponga nessuna resistenza. Perché le piace farsi scopare, suo marito non lo fa più da anni. Abbandonarsi al piacere con un uomo che potrebbe essere suo figlio e la fa sentire quello che oramai da troppo tempo non si sente più. Una donna. Desiderata, voluta, scopata. La saluto. Non l’ho mai fatto prima, ma stamattina sì. Le dico buongiorno. Me lo dice anche lei, ma nemmeno mi sorride. Butta i sacchetti, chiude il bidone, e se ne va verso la porta. Avrei voglia di seguirla. Di entrare con lei in ascensore. Ma non lo faccio. Mi tengo il cazzo duro e vado a lavorare. Nel mio lavoro ci sono troppi casini. Non ci dovrebbero essere, perché il mio lavoro, come vi ho detto, non esiste. Però ci sono. Ci sono perché qualcuno mi ha messo qui, e ha detto a quei coglioni della rete commerciale che se hanno un casino è me che devono chiamare, non se lo devono risolvere da soli come si faceva una volta. E quindi mi telefonano. Mi dicono che le ordinazioni non arrivano, che comunicare con l’amministrazione è impossibile, che le scadenze sono troppo strette, che la loro moglie è una troia, che l’ufficio vendite non sa fare il suo lavoro, e blah blah blah, blah blah blah, blah blah blah. In ufficio le segretarie non sono un granché. Non me ne farei nessuna, questo voglio dire. Milena quando mi porta le carte appoggia le sue gambe contro il mio braccio. No, ci sto girando intorno: non appoggia le gambe, ci mette proprio la sua passera contro quell’accidenti di braccio. Ho sempre pensato che se una donna ti si appoggia contro è perché ti vuole fare. Se Milena mi vuole fare però è un problema suo. Io Milena non me la faccio. Il suo compito è portare le carte, mica farsi il capo. Non mi piace Milena e non mi piace la sua passera. Che se la vada ad appoggiare da un’altra parte la sua dannata passera, quella cagna in calore.

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Spendo troppo. Faccio shopping tutti i giorni, e compro roba che non mi serve. Ieri ho guardato nell’armadio: troppe giacche, troppe maglie, troppo tutto. Sono un consumista bulimico. Entro e compro. Lo faccio per noia e perché mi piacciono le commesse. Mi piace spogliarmi nei camerini e provarmi le cose. A volte ci resto dentro troppo tempo. Ieri al Fashion Outlet me lo sono anche tirato fuori. Prima mi sono masturbato, poi mi sono pulito con un cardigan di Dolce & Gabbana. Alla fine l’ho restituito alla tipa del reparto. Lei non si è accorta di nulla. Mi ha salutato e mi ha sorriso. "A presto", mi ha detto. Sì, sì. A presto. Valentina torna a casa domani. Stasera sono ancora da solo. Luci spente, tapparelle abbassate. La puttana è in balcone, pronta a farsi guardare. Ha una scopa in mano, e non ha la vestaglia. Indossa un accappatoio, di quelli di spugna. Avrà fatto la doccia, e non si è nemmeno rivestita. Non ha le calze, e dire che fuori è freddo. Se non ha le calze non ha nemmeno le mutande. E se non ha le mutande e raccoglie qualcosa le vedo la fica. Chissà com’è, non gliel’ho mai vista. Mi piacerebbe vederla, anche solo per poco. Resto a guardarla per quasi un’ora. In un paio di occasioni mi illudo che la sua schiena si piegherà di un’angolazione che mi consentirà di vedergliela, la fica. Ma purtroppo non succede. Arrivo al ginocchio, alla coscia. Per un attimo sono sicuro di vederla, ma poi mi rendo conto che non è così. Rientra in casa alle otto. Devo andare a lavorare. Ho sempre il cazzo duro. Valentina parla poco del suo lavoro e come vi ho detto io non le faccio domande. Il venerdì sera di solito prendiamo un aperitivo e la conversazione è quasi sempre brillante. Ci piacciamo io e mia moglie, e questo dispensarci a piccole dosi rende vivo il nostro rapporto. Abbiamo interessi comuni e un sacco di cose di cui ci piace ridere. Amo Valentina, non potrei mai vivere senza di lei. Camminiamo abbracciati e guardiamo le vetrine. Entriamo in un negozio, lo stesso dove mi sono masturbato. La commessa mi vede e mi saluta, ma questo non vuole dire nulla. Magari non se ne è nemmeno accorta del cardigan, o magari sì. Magari le è piaciuto. "Volevo vedere quella gonna". Entra nel camerino. Se la prova. La commessa sorride ma non alza mai lo sguardo. Allora se ne è accorta, allora lo sa che mi sono masturbato. Troia. Fa l’imbarazzata che ammicca, il grado più basso nella gerarchia delle puttane. Mi avvicino e le chiedo quanto costa. Sto parlando ancora della gonna. "Un attimo che guardo". Manco se lo ricorda. E dire che se sei una commessa non dimenticarti i prezzi è l’unica cosa che devi sapere fare."Centoventi e settanta". Mica poco per una gonna. Valentina esce dal camerino e mi chiede come sta. "Benissimo, è perfetta". Lei sorride, io sorrido. "La prendiamo, pago io". Ieri notte non ho dormito. Mi era venuta la fissa di quella che abita di fronte, avevo voglia di vederla. Sono andato sul balcone e ho aspettato, ma in casa sua era tutto buio. Alle quattro e venti si è accesa la luce, era quella del bagno. Ha aperto la finestra e mi ha visto lì, che la 46 VDBD – n. 2 – nov.2008


fissavo. Indossava un brutto maglione di un colore assurdo, per questo pensavo a come doveva essere fatta sotto. Due tette cadenti, roba che non serve più a nessuno, né per il sesso che per altre cose. D’altronde a cosa servono le tette? Sono complementi d’arredo a una scopata, nient’altro che optional. Eppure nessuno dei due distoglieva lo sguardo. Era freddo, ma siamo rimasti così, a dividere quella notte, per un tempo che mi è sembrato eterno. E invece è stata solo una manciata di secondi. Poi è rientrata, e l’ho sentita pisciare e tirare giù l’acqua. L’ho vista abbassarsi e rialzarsi, sfilarsi le mutande e poi lasciarle sulla finestra. Le ha messe lì per me. Sembra strano ma è così. L’agenzia di Bari è quella che mi dà più problemi. Non rispetta le scadenze e anche i risultati sono al di sotto della media. Per questo devo partire. Per questo devo andare a Bari. Per parlare con questa gente. Per dire loro che devono mettersi in riga. Che non è mica così che si fanno le cose. E che perdere un mandato è questione di un secondo. Fatturato ed efficienza. Ecco cosa vuole la Hyper Tronic. Raggiungimento del budget e consegne nei tempi debiti. Che tanto il resto sono solo stronzate. Adoro le camere d’albergo. Questa dimensione fuori dal tempo e dagli spazi, vicina a tutto e lontana da tutto. Quando sei in albergo non sai mai dove sei. Amsterdam è uguale a Palermo se la guardi da un albergo. Tutte le città del mondo sono uguali a tutte le città del mondo se le guardi da un albergo. Una volta sono stato a Calcutta, in un albergo a quattro stelle con piscina. Se restavo lì dentro non ero mica in India. Non ho mai sentito il tanfo del Gange da quella camera d’albergo. E inoltre adoro farmi delle seghe nelle vasche ad idromassaggio e noleggiare film porno su SKY. Quando la mattina faccio check out spero sempre che ci sia una donna. Lei lo sa cosa mi sono guardato, e sa anche che un uomo non guarda mai un film porno senza tirarsi poi una sega. In quello di stanotte c’era una che si faceva leccare la fica. La receptionist del Majesty si chiama Gisella. Mi addebita il film e una bottiglia d’acqua, e ha la faccia di una che la fica non se l’è fatta leccare mai. Vorrei essere il primo, ma preferisco non dirglielo. So ancora controllarmi, e questo, per adesso, è un bene. "Allora, com’è andata con i pugliesi?". Il treno va veloce, ancora un’ora e sarò a casa, "E’andata bene, sanno che è la loro ultima occasione". Sono stato duro, non ho fatto sconti. Ho preso i tabulati e ho detto chiaro quel che dovevo dire: "Signori e signore, così non va!". Quando sono in treno penso sempre al libro di Erica Jong, PAURA DI VOLARE. C’è un capitolo che si chiama Zipless Fuck, SCOPATA SENZA CERNIERA. Parla di due sconosciuti che in treno si guardano e si scopano, senza nemmeno dirsi CIAO. Istinto allo stato puro, assecondamento del desiderio senza passare dal via. E’ perfetto il sesso così. Irrazionale, senza spiegazioni, fisico com’è giusto che sia. E’ così che la vorrei la mia vita. Senza cerniera. Senza problemi, senza domande. Quel che voglio faccio e vaffanculo a tutto il resto.

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Valentina vuole avere un figlio. E’ disposta a rinunciare al suo lavoro, ma vuole avere un figlio. Anch’io vorrei avere un figlio. Un qualcuno a cui insegnare com’è la vita. Per vedere se lui la capisce. Io di certo non ne sono capace. Stamattina mi sono svegliato presto, volevo andare a correre. Faceva un freddo della madonna, e quella di fronte era già sveglia da un bel po’, a preparare chissà cosa. Ho tirato su la tapparella e ho aspettato che arrivasse sul balcone. Poi quando sono stato sicuro che mi stesse guardando ho spento la luce e mi sono tolto il pigiama. Non so cosa si vedesse dal di fuori con le luci spente, poco probabilmente. Alle sei era ancora buio, ma qualcosa avrà pur visto. Il mio cazzo duro, o semplicemente un’ombra. Mi ha fissato per tutto il tempo in cui si è fumata la sigaretta. Poi è rientrata e io mi sono rivestito. Non mi sono toccato, ma il cazzo mi è rimasto duro. Non ho corso bene con il cazzo duro. E così avremo un bambino. Oramai è deciso, bisogna solo che rimanga incinta. Sono contento di questa cosa. Lo chiameremo Dario, o Teresa, o Andrè. Come nomi mi fanno cagare, ma Valentina ha voluto così. Gli uomini non decidono mai nulla. Vedo sempre meno spesso i miei genitori. Un po’ perché abitano lontano, un po’ perché non ho tempo, un po’ perché non ne ho voglia. Forse più la terza. Ne ho sempre meno voglia. Mia mamma è insegnante, mio padre ingegnere. Nulla in comune, ma opposti che si attraggono. Visti da fuori sembrano felici. Visti da dentro non me lo sono mai chiesto. Uno non se li vede mica i propri genitori, da dentro. Non se li immagina scopare, non se li immagina baciarsi. Creature asessuate che stanno lì solo perché era necessario concepirti. Macchine da riproduzione, prive di una qualsiasi valenza erotica. Figurati se uno va a pensare alla propria madre che prende in mano l’uccello del proprio padre. Io non ce la faccio. Mi dispiace, ma stavolta passo. Un giorno anche DarioTeresaAndrè mi vedrà così. Come uno a cui Valentina il cazzo in mano non lo prende mai. E io diventerò solo quello che un giorno l’ha messa incinta, non provando nemmeno piacere, perché se uno pensa alla scopata del suo concepimento la vede come una cosa prestabilita scientificamente non per provare piacere ma per raggiungere l’obiettivo. E’ una introduzione di spermatozoi nell’ovulo la scopata del concepimento. Guai a goderne. Stasera sono rientrato tardi. Erano le undici, e la signora di fronte era giù dai bidoni. Sembrava che mi aspettasse. Buttava il pattume, però mi aspettava. Quando sono sceso dalla macchina si è voltata dalla mia parte. Si è chiusa la vestaglia, il maglione e il cappotto. Faceva freddo, merda, quanto faceva freddo! Ha cominciato a camminare. Piano, un invito a seguirla. Per darmi il tempo di pensare, se avessi avuto dei dubbi. Solo che io non li avevo, dei dubbi. Io volevo seguirla. E quindi l’ho fatto. A pochi passi di distanza. Lei entra, io entro. Lei scende, io scendo. Nelle cantine, 48 VDBD – n. 2 – nov.2008


dove non c’è nessuno. La sua è in fondo al corridoio. L’ultima a sinistra, dopo c’è solo la lavanderia. E’ buio, in quell’angolo, non si vede nulla, in quell’angolo. La signora si ferma. Io le arrivo da dietro. La giro dalla mia parte, ma non le dico nulla. Le apro il cappotto, il maglione, la vestaglia. Mi abbasso i pantaloni e le infilo il cazzo dentro. La sento respirare, e il suo alito mi fa schifo. Sa di fumo, sa di vecchio, sa di cibo che non mi piace. Eppure me lo vado a cercare con la lingua, quell’alito, gliela metto dritta nella gola, per trovarlo. Ne ho bisogno di quell’alito. Lei non si muove, si tiene il mio cazzo senza fare nulla. Quindi faccio tutto io. Ci devo mettere poco perché già non ne ho più voglia. Fatto sta che l’uccello è duro da morire. Pochi respiri e le vengo dentro, la mia lingua sempre lì, in quel cazzo di bocca orrenda. Non è sesso da fare con precauzione questo, è solo sperma che cola in mezzo alle gambe e tristezza di una vita da cacciare via. Poi mi rivesto, e non le dico nulla. Vado via e lei resta lì. Piange? Ride? Non lo so. Non me ne frega niente. La signora viene sempre meno sul balcone, e quando lo fa non guarda mai nella mia direzione. Tra di noi è finita, o non è mai cominciata, o forse se ne sta lì, sospesa nel mezzo. Nel frattempo Vale è rimasta incinta. Non ci ha messo molto, onestamente speravo di più. E non perché non ne abbia voglia di avere un figlio, solo che volevo aver più tempo per abituarmi all’idea. Oggi devo tornare a Bari. I pugliesi non hanno capito niente, per cui adesso si va a chiudere i giochi. Finito il tempo delle trattative, adesso possono andare a farsi fottere. Quando torno mi fermo dai miei. Voglio dire a mia mamma che aspettiamo un bambino, e che la mia vita è esattamente come lei aveva sempre desiderato. Una serie di tasselli tutti al loro posto, perfetti ed invidiabili. Il treno è fermo adesso. Si fermano spesso, i treni e nessuno sa il perché. Non te lo dicono perché lo fanno, si fermano e basta. Appoggio il giornale, chiudo gli occhi. Penso a mio figlio, o a mia figlia, DarioTeresaAndrè o quel che sarà. Vedo il Natale, la Comunione, la prima volta che fumerà una sigaretta e un pomeriggio d’inverno in cui andremo allo stadio. Vedo i suoi occhi, la sua bocca, la sua piccola mano stretta nella mia mentre camminiamo sotto i portici. Sarà bello, sarà brutto, non lo so. Ma sarà sempre meglio che restarsene qui, in mezzo al niente, ad aspettare che questo treno riparta. Alessandro Berselli

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Un tè con Dio di Davide Piazzi

Era una fresca serata del terzo giorno, quarto periodo, dell’anno 3025, e Soitok Resthari aveva appena terminato di ascoltare quella storia strampalata per la terza volta nel giro di circa un’ora. Iagain Zobodan gli aveva ripetuto tutto parola per parola, con le medesime pause e gli stessi eccessi di enfasi nei passaggi che reputava più importanti. Soitok aveva lasciato che l’amico ripartisse da capo con il suo racconto, sperando di cogliere una falla, un punto debole. Niente da fare, l’altro non perdeva un colpo e sembrava davvero serio, assolutamente convinto di dire la verità. Soitok ritenne che l’amico fosse talmente convincente, che alla terza replica aveva cominciato a pensare che ciò che aveva ascoltato potesse essere accaduto realmente. Si versò un’altra tazza di liquido caldo e riempì anche quella dell’altro, che aveva appena terminato di parlare e ora sembrava piuttosto affannato, come se fino a quel momento non avesse mai preso fiato. Aveva il volto stanco. Sembrava provato, «Quindi, mi stai dicendo che ti sei ritrovato faccia a faccia con Dio». Quasi non credeva di essere riuscito pronunciare quelle parole senza ridere. L’altro non sorrise affatto. «Esatto, caro Soitok». Sorseggiò il liquido caldo. «E… com’era? Voglio dire, è come lo abbiamo sempre visto dipinto? Sai, barba lunga, sguardo austero, occhi penetranti». Iagain lo guardò in tralice, intuendo che l’altro si stava facendo beffe di lui. «Quelle sono le raffigurazioni con le quali gli uomini hanno sempre cercato di rappresentarlo, nel corso della storia. Commettendo l’errore imperdonabile di volere renderlo simili a loro stessi». «Vorresti dire che non ha sembianze umane?». Posò la tazza sul tavolo e con un gesto nervoso incrociò le dita delle mani. «Voglio dire che non ha proprio alcun tipo di sembianza. Non è un uomo. Non è nessun tipo di essere. Insomma, è Dio, e non ha certo bisogno di costringersi dentro a un involucro di carne». Si stupì di come l’amico, così colto e intelligente, non fosse arrivato da solo a quella deduzione. 50 VDBD – n. 2 – nov.2008


«Sì, capisco, ma non ti ci vedo a colloquio con il nulla. Pensavo pertanto che egli si fosse manifestato a te in una forma riconoscibile». «In effetti lo era, visibile, ma non per questo aveva forme e sembianze definite». Vide l’espressione perplessa dell’altro e cercò di spiegarsi in modo più chiaro. «Vedi, Soitok, io ero lì, e davanti a me avevo una sorta di nuvola densa di colore verde scuro». «Una nuvola?». «Beh, non esattamente una nuvola», si corresse. «Era qualcosa di più denso. Almeno così sembrava». Cercò un esempio giusto per fare capire all’amico cosa avesse visto esattamente. «Ecco, sì… hai presente il preparato Skupp?». Soitok lo guardò basito. «Quello per fare la zuppa di verdura?». «Sì, esatto! Sai, tiri fuori dalla busta il cubetto pressato e lo metti dentro alla macchina reidratante, poi, quando è diventato fluido, lo passi nel forno a convenzione ionica finché il composto non si addensa e diventa cremoso». Si interruppe un istante per deglutire. «A me piace lasciarlo piuttosto liquido. A te?». «Io invece lo preferisco molto denso. Ma non capisco cosa c’entri il preparato Skupp con la tua storia». «Non mi hai forse chiesto che aspetto avesse Dio?». «Sì, infatti, appunto per questo non capisco l’esempio che hai… Aspetta un momento, non vorrai dirmi che Dio avrebbe le sembianze di una minestrina riscaldata?». «No. Beh… non esattamente, perlomeno». Guardò l’altro che se ne stava a bocca aperta. «Senti, non voglio dire che Lui somigli a un passato di verdure, però, sì, insomma, il colore era piuttosto simile, e probabilmente, e sottolineo pro-ba-bil-men-te, lo era anche la consistenza. Sai, non l’ho mica toccato. Dico io, quella è una celebrità, mica uno dei soliti agenti di vendita che capitano nel mio ufficio». Si giustificò. Soitok non seppe cos’altro dire. Si limitò a fare intendere con un cenno all’amico che avrebbe preferito uscire dal locale. Si alzarono entrambi dalle sedie. Iagain saldò il conto posando il dorso della mano sul lettore di chip cutanei del distributore automatico di bevande. La macchina emise un bip di conferma, e i due uscirono nella notte ancora piacevolmente fresca. Camminarono lentamente e arrivarono in silenzio fino al palazzo dei governanti cittadini sulla cui facciata spiccavano due enormi rapaci di cristallo. Dopo alcuni minuti di riflessivo silenzio, Soitok riprese a fare domande, sempre più incuriosito. «E come ci saresti arrivato da Lui?». Conosceva la risposta, l’aveva già sentita poco prima, ma quella parte della storia gli sembrava la più inverosimile, e pertanto desiderava ascoltarla nuovamente. L’altro non si fece pregare. «Come ti ho detto, io ero appena uscito dalla palestra e me ne stavo camminando tranquillamente verso casa, quando, all’improvviso, mi sono sentito come risucchiato via altrove». Si fermò cercando di mimare la sensazione che aveva vissuto. «Di colpo si è fatto tutto più scuro, e gli oggetti, i palazzi, le persone che avevo attorno, hanno cominciato a sfrecciarmi a fianco deformandosi e allungandosi, a una velocità che cresceva in modo esponenziale a ogni frazione di secondo. Ma non erano loro a muoversi, ero io». L’altro lo osservò perplesso. «Iagain, amico mio. Quella che hai descritto è la fase iniziale di ogni teletrasporto. Un sistema di viaggio che, se non ricordo male, utilizzi anche tu quasi quotidianamente per seguire i tuoi affari in giro per il globo. Cosa c’è quindi di tanto strano?». Pensò che l’amico stesse manifestando i sintomi di qualche nuova malattia. Se ci 51 VDBD – n. 2 – nov.2008


fossero stati ancora in circolazione alcol e droghe - piaghe sociali fortunatamente debellate da più di trecento anni - sarebbe stato pronto a scommettere che chi gli stava di fronte avesse cominciato ad assumere sostanze in grado di alterare la percezione della realtà. «Sì, lo so, lo so», replicò l’altro spazientito. «Infatti la parte strana non è stata all’inizio di quel viaggio, ma alla fine. Vedi, una cosa è sentire le tue molecole che si disgregano per ricomporsi tali quali altrove, ognuna al proprio posto. Altra cosa, invece, è sentire che ogni singolo tuo atomo anziché riformare la struttura del tuo corpo si va a incastonare all’interno di una statua di marmo». L’altro sgranò gli occhi «Una statua?». «Sì, proprio così. Un angelo. No, aspetta, non aveva piume… Forse si trattava di un santo, sì. Mi pare di ricordare che avesse, che avevo, un cerchio sulla testa. Aureola, credo sia questo il modo di chiamare quella sorta di corona circolare». Un ragazzino col suo doomster a reazione sfrecciò di fianco a loro, mancandoli per un soffio. Soitok imprecò al suo indirizzo per lo spavento. «Questi giovani. Ai miei tempi quei mezzi non ce li immaginavamo nemmeno. Noi dovevamo farci bastare le lente tavolette a levitazione magnetica, per andarcene in giro per la città». Scosse la testa e poi tornò a concentrare la propria attenzione sull’amico. «Stavo pensando che, a tutti gli effetti, averti teletrasportato via così, per rinchiuderti dentro un edificio religioso –incastonato in una statua -, si potrebbe configurare come un vero e proprio rapimento. Un reato bello e buono». «Un migliaio di anni fa l’avrebbero definita “vocazione”». Replicò prontamente Iagain. L’altro non colse l’ironia di quelle parole, e proseguì imperterrito a fare domande. «Quindi tu te ne stavi lì, imprigionato dentro a una statua di marmo, e davanti a te avevi una melassa verde scuro che diceva di essere Dio». «Proprio così», confermò l’altro abbassando gli occhi a terra, visibilmente imbarazzato per quel racconto che sapeva essere difficile da credere. «E penso che ci trovassimo in alta montagna, dentro una di quelle piccole costruzioni di pietra dedicate al culto, scovate e recuperate dagli archeologi durante la grande campagna di “riscoperta delle nostre radici”. Quella che si è conclusa con successo nel 2978». Intuì che si stava infilando sempre più in un tunnel oscuro e difficile da comprendere. Tanto valeva raccontare la storia fino in fondo, senza omettere nulla. «Io non potevo muovermi e riuscivo a vedere solo ciò che mi era consentito roteando gli occhi, però avvertivo nitidamente i campanacci delle mucche che pascolavano fuori da quella costruzione di pietre a vista». «Mucche e campanacci… non credevo esistessero ancora. Immagino sia anche questa opera degli archeologi e dei paleontologi. Beh, con tutto ciò che si immagina abbia a disposizione Dio, poteva anche scegliere un posto più elegante e moderno, per il vostro importantissimo incontro». Puntualizzò causticamente l’altro. «Credo abbia optato per un luogo tranquillo, lontano da occhi indiscreti, per un colloquio riservato. Tutto qui». «Che stupido sono, come ho fatto a non pensarlo subito». Si diede in modo teatrale una manata sulla fronte. Iagain riprese a camminare senza replicare, mettendosi alle spalle l’amico e cercando in quel modo di evitare il suo sguardo stupefatto, e il sorriso ironico che aveva sulla bocca. Soitok non volle affondare il colpo confessando che faticava a credere anche a una sola parola di quella storia. In quel frangente avrebbe voluto suggerire all’amico di rivolgersi a un 52 VDBD – n. 2 – nov.2008


bravo specialista in malattie nervose. Resistette alla tentazione e continuò a indagare. «E per quale motivo ti avrebbe chiamato davanti a sé?». Iagain rispose prontamente. «Consigli. Aveva bisogno di consigli». Lo disse con legittimo orgoglio. «Dio avrebbe bisogno di essere consigliato da te?». «Roba da non crederci, vero?». «Ma no, figurati, cosa stai dicendo, non c’è nulla di strano», aggiunse beffardo. «No, no. Lo so che sembra incredibile, ma è proprio così. Sai, in fondo io sono piuttosto famoso nell’ambito delle consulenze ad altissimo livello per le strategie e il marketing delle aziende di tutto il globo». Fece appena in tempo a pronunciare l’ultima parola, quando il suo sistema di comunicazione lo avvisò che da Tokio lo stavano contattando con una certa premura. Si rivolse all’amico facendogli un cenno con la mano. «Scusami un solo istante». Strinse leggermente tra pollice e indice il lobo dell’orecchio e attivò la conversazione. «Sì, sono Iagain Zobodan in persona. Cosa posso fare per lei, signor presidente». Era l’appellativo col quale chiamava tutti i suoi clienti, altissimi dirigenti di multinazionali sparse per i cinque continenti. «Sì, certo. Mi dia soltanto qualche istante per verificare una cosa». Frugò febbrilmente nella tasca interna della giacca senza trovare ciò che stava cercando. Si rivolse a Soitok. «Perdonami, ma devo avere dimenticato a casa il mio connector, non è che potresti utilizzare il tuo per verificare chi c’è al governo oggi?». L’altro tirò fuori dalla tasca un piccolo apparecchio di colore scuro, e ne sfiorò con le dita il display. «Oggi c’è una coalizione di destra-sinistra, capeggiata da Grahen Fulstam». Iagain, pur senza parlare, gli fece intendere con un gesto della mano di fornirgli ulteriori dettagli sull’argomento. Soitok attinse altre informazioni dal sistema di comunicazione centrale. «Pare che questa compagine abbia tutti i requisiti per restare in carica fino a…», attivò la funzione calendario del connector, «fino a giovedì. Poi, molto probabilmente, ci sarà un avvicendamento e dovrebbe andare al potere il movimento central-radicale». L’altro riferì al cliente le informazioni appena ricevute dall’amico, e suggerì al suo interlocutore di aspettare ancora qualche giorno prima di effettuare il corposo trasferimento di capitali di cui gli aveva parlato. Infine lo congedò con un amichevole «Ciao, Gino». Intanto erano quasi giunti presso l’abitazione di Iagain, il quale si affrettò a recuperare il filo del discorso. «Cosa stavamo dicendo?». «Mi stavi raccontando che Dio ti avrebbe chiesto dei consigli». «Giusto. Sì, esatto, è andata proprio così». Annuì con convinzione. «E di che tipo, se posso chiedertelo?». «Vedi, lui ha un grosso problema. Ormai sul pianeta non c’è più un solo essere umano che sia disposto a credere. Che abbia fede in lui». Fece una breve pausa. «Dio mi ha chiesto di farmi venire qualche idea che lo possa riportare alla ribalta». Soitok soppesò un istante quell’affermazione. «Ma con tutto ciò che sa fare, non può pensarci da sé?». «E come? Non ha più nessuno che gli dia una mano e, sai, anche molti degli eventi con i quali tanto tempo fa riusciva a stupire le persone, oggi non hanno più nessun impatto su di loro. Prendi i miracoli, per esempio, quella è una cosa che non funziona più. La scienza, la tecnologia e la medicina, ci hanno messo a disposizione medicinali e cure per guarire da tutte le malattie, e prodotti tecnologici di ogni sorta. Elementi di gran lunga più accattivanti e utili di qualsiasi tipo di prodigio religioso o mistico». 53 VDBD – n. 2 – nov.2008


«Ehi, vacci piano con queste considerazioni», lo interruppe Soitok. «La fede è sempre stata qualcosa di molto di più, di una semplice parata di effetti speciali. La sua forza stava proprio nel “credere” a prescindere da tutto, al di là di ogni logica materiale». «Sì, hai ragione. Non ti scaldare però», replicò Iagain, intimamente divertito. L’amico aveva reagito esattamente come lui aveva sperato. «Comunque resta il fatto che l’umanità oggi non è minimamente interessata alla religione, e pertanto Lui si sente inutile. Ma ha ancora energie da vendere e vorrebbe ricominciare. Ricostituire un nuovo gruppo. Folto e forte, in grado di aiutarlo nuovamente a portare avanti le sue battaglie». Si accorse di avere parlato in modo forse troppo enfatico, alzando la voce di almeno un paio di toni. «Capisco», si limitò a dire l’altro, sinceramente impressionato dall’ardore mostrato dall’amico. «In fondo la religione è stata a lungo un elemento importante per l’umanità, e ha avuto un impatto significativo e largamente positivo». «Intendi dire tra una guerra santa e l’altra, ovviamente». Replicò Iagain inarcando un sopracciglio e scrutando l’altro con fare indagatore. «La storia dell’umanità è stata piena di cattive interpretazioni da parte dei potenti. Spesso utilizzavano sani valori e principi, deformandoli e piegandoli ai loro biechi scopi». «Non posso che darti ragione». Tornarono all’argomento centrale della serata, all’incontro che Iagain aveva avuto con la melassa verde che diceva di essere Dio. «Tu allora che consigli gli hai dato? Cosa gli hai proposto di fare?». «Bé, lì su due piedi non era così semplice farsi venire in mente qualche cosa di veramente valido. Stavo per dirgli che mi serviva tempo, che ci avrei dovuto pensare su a lungo. Ma proprio in quel momento mi è venuta un’idea che ho subito trovato interessante». «Sarebbe?». Fece l’altro impaziente. «Per cominciare, gli ho detto che a mio avviso doveva abbandonare da subito la strada dei miracoli, delle apparizioni e degli altri effetti mirabolanti. Roba superata, non attacca più. C’è bisogno di qualcosa di nuovo, di moderno. Qualcosa di forte ma allo stesso tempo chiaro e facile da comprendere. Un messaggio alla portata di tutti, che possa catturare l’attenzione e l‘interesse soprattutto dei giovani. “Bisogna avere pazienza e investire oggi per il futuro”. Questo gli ho detto». Il suo tono si era nuovamente riempito di un entusiasmo che finì per coinvolgere anche Soitok. «Quindi cosa gli hai proposto?». Iagain lo squadrò brevemente. «Di rivisitare in chiave moderna quell’episodio fantastico della venuta sulla terra di suo figlio». Soitok sbarrò gli occhi. «Vorresti forse realizzare una sorta di spot pubblicitario da mandare sugli schermi delle abitazioni? Oppure una fiction televisiva che faccia rivivere quel momento di più di tremila anni fa?». Sapeva che l’amico ne sarebbe stato capace. Tempo addietro aveva addirittura prodotto un film il cui unico scopo, raggiunto attraverso una sceneggiatura realizzata ad arte, era stato quello di pubblicizzare una società di servizi del vecchio continente europeo. «No, no». Lo tranquillizzò Iagain. «Niente di tutto questo. Pensavo piuttosto a una forma di propaganda diversa. Più semplice e molto più efficace». «Cioè?». «La mia idea è questa: spargiamo la voce che Dio ha ritenuto che i tempi fossero di nuovo maturi, e che ha mandato ancora una volta suo figlio sulla terra. Per anni il giovane ha vissuto come un normale essere umano, ma a un certo punto il padre gli chiede di 54 VDBD – n. 2 – nov.2008


ricominciare a tessere quel tessuto prezioso andato perduto tanto tempo prima. Lo invita a ricostituire un gruppo che porti la sua parola nel mondo intero». «Cavoli, roba forte! Mi sembra davvero un’ottima idea». Rimuginò tra sé per qualche istante. «Ma sì, certo! Il tutto si basa sul passaparola. Cosa c’è di più credibile della testimonianza di qualcuno che conosci?». «Mi complimento con te, hai capito al volo». L’altro continuò a muoversi freneticamente avanti e indietro, passando a intervalli regolari davanti a Iagain che lo osservava imperturbabile. «La trovo davvero un’ottima idea. Sì, può funzionare, certo! E Lui cosa ne pensa? Immagino sia stato entusiasta di questa tua trovata». Ormai non aveva più dubbi sulla veridicità del colloquio avuto dall’amico. «A dire il vero… non è che gli sia piaciuta tanto». Abbassò gli occhi un istante, poi li rialzò e incrociò quelli dell’altro che balenavano come fiamme nella notte. «Ma io non ho ceduto, sai? Eh no, ci mancherebbe. Mi sono detto: chi è l’esperto di marketing qui? Mi ha convocato per avere il mio parere da professionista, o cos’altro?». «Giusto! Ben fatto. Ben detto! Ma come è andata a finire?». «Siamo andati avanti a discutere per quasi mezz’ora, dicendoci a muso duro ciò che pensavamo. Poi, alla fine, lui si è lasciato convincere e mi ha dato carta bianca». «Bene!». Un’espressione cupa gli comparve sul volto. «Però, a essere sincero, pensavo avesse più polso. Voglio dire, senza offenderti, tu sei uno stimato professionista di fama mondiale, ma lui è pur sempre Dio! Sono lieto che abbia accettato la tua proposta, ma allo stesso tempo trovo strano che si sia piegato così in fretta». L’altro sorrise leggermente. «Vedi, amico mio, Lui è saggio, non stolto. Perché mai si sarebbe dovuto ostinare a rifiutare una proposta, se si era convinto della sua bontà?». Vide tornare la pace sul viso di Soitok. «E sai come mi ha comunicato che accettava la mia idea?». Non attese risposta. «Ha fatto un grosso sospiro e mi ha detto: “Sia fatta la tua volontà”». L’altro si sentì invadere da un’ondata di calore. «Accidenti, questa sì che una frase a effetto! Non si può dire che non abbia stile!». «Già. A quel punto ci siamo salutati e Lui mi ha fatto tornare sulla strada dalla quale mi aveva prelevato». Si era fatto piuttosto tardi, e l’aria aveva cominciato a diventare fredda e pungente. I due amici scambiarono ancora poche parole, infine si salutarono dandosi appuntamento alla sera seguente. Soitok raggiunse il proprio mezzo di trasporto che fluttuava nell’aria a pochi metri da loro. Mise in moto e partì, allontanandosi lentamente nel buio della notte. Iagain lo vide andare via, quindi si girò su se stesso e varcò il cancello di ingresso della propria abitazione. Appena entrato fu avvolto da un piacevole tepore. Si tolse la giacca e si diresse senza indugi verso il salotto, dove un caminetto elettronico rompeva l’oscurità, scaldava l’aria e rendeva più intima e raccolta l’atmosfera di quell’ambiente. «Com’è andata?». L’anziano uomo lo stava aspettando comodamente seduto su di una poltrona collocata a qualche metro dal calorifero. I riverberi rossastri della fiamma artificiale si riflettevano sulla sua barba bianca, lunga e ben curata. 55 VDBD – n. 2 – nov.2008


«Piuttosto bene». Iagain si mise in piedi davanti al suo interlocutore. «All’inizio è stata dura, ma alla fine credo sia andata come speravamo». «Non voleva accettare la storia dell’incontro con Dio, vero?». «Già, penso che all’inizio non abbia creduto a una sola parola, e mi abbia preso per pazzo». Notò che l’anziano gli stava rivolgendo un sorriso affettuoso. «Le cose sono andate esattamente come avevi previsto tu». L’uomo sulla poltrona annuì. «Credi sia pronto per l’incarico?». Il giovane rifletté un istante «Ha mille dubbi e incertezze. Ha paura di ammettere a se stesso che ha fede, ma ho capito che ha anche una voglia immensa di aprirsi, di lasciarsi andare. Se ci riuscirà, in seguito potrà trasferire ad altri le sue sensazioni, la sua convinzione». «Quindi?». Lo incalzò l’altro. «Credo che se parlerò ancora qualche volta con lui, riuscirò a fargli superare le titubanze che ha adesso». Vide brillare di gioia gli occhi profondi e magnetici dell’uomo. Non indugiò ulteriormente. «Sì, padre, credo che sia la persona giusta, proprio come avevi detto tu». «Ottimo lavoro, figliolo. Ottimo lavoro». Gli prese le mani. «Ti va di bere qualcosa di caldo con me?». «Io ho bevuto un tè pochi minuti fa. Ti preparo un infuso. Aspettami qui». Tornò dopo pochi minuti con una tazza fumante che depose delicatamente tra le mani dell’anziano genitore. Sfiorò la sua folta chioma di capelli canuti, gli carezzò con tenerezza le guance. Osservò con attenzione il suo volto. Sembrava stanco, ma dai suoi occhi trapelava la solita indomabile determinazione. Posizionò una poltrona vuota vicino a quella occupata dal padre, sistemò la coperta che teneva sulle ginocchia e poi, con fare solenne, come consuetudine, si sedette alla sua destra. Davide Piazzi

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(foto di Giusy Calia)

FINESTRE

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Siracusa, il romanzo di una grande città del Mediterraneo di Salvo Zappulla E' un atto d'amore nei confronti della sua città questo monumentale romanzo di Carlo Monteforte ( Siracusa, il romanzo di una grande città del Mediterraneo, editori Lombardi, pagg.490, € 48,00). Un'opera prima presentata al Salone del Libro di Torino. Due volumi che intrecciano storia e narrativa dalla preistoria agli anni 40, L'evoluzione dell'isola attraverso le dominazioni e le civiltà lasciate dagli invasori nel tessuto sociale del territorio. Un crocevia di popoli, a volte pacifici ma spesso violenti e usurpatori che hanno lasciato il segno: bizantini, arabi, normanni, svevi, pisani. Nel suo romanzo Monteforte fa rivivere con la fantasia personaggi del passato, emozioni e sensazioni appartenuti alla storia, assemblando mitologia e fatti realmente accaduti, paganesimo e cristianesimo. L'isola di Ortigia ha subìto un'invasione continua di popoli e varie dominazioni: dai Principi di Pantalica, ai greci, i romani, fino ad arrivare all'impero del grande Federico, per essere conteso alla sua morte da catalani e francesi. I baroni spadroneggiavano su una popolazione ridotta alla fame. Nei primi del 1700 passa per cinque anni al regno del Piemonte, poco dopo all'impero austriaco, per diventare parte del regno dei Borbone. Monteforte conduce per mano il lettore a ritroso nel tempo attraverso una scrittura potente ed estremamente suggestiva, ricca di colori e immagini; ci mostra scene di grande coralità dove sembra di vederle le mura della città, la maestosità del mare profanato dalle navi guerriere, le donne che si aggirano spaventate tra i vicoli di Ortigia, le battaglie cruenti, il sangue riversato sulle strade, le malattie. Il tutto con rigore storico e disciplina da studioso autentico. E lì dove non è potuto arrivare per mancanza di documentazione, ha provveduto con la fantasia, attraverso la lettura degli oggetti conservati nei musei, chiedendo ad essi di parlare, di tirare fuori preziosi ricordi sopiti dentro lo scrigno della memoria. Ogni utensile ha la sua storia da raccontare, ogni manufatto, ogni moneta; oggetti che hanno vibrato nelle mani di uomini d'un tempo remoto custodiscono emozioni, gioie, dolori. I secoli hanno spazzato via gli uomini ma le loro opere rimangono, insieme alle voci che sussurrano nel vento ed emergono dalle tenebre a ricordarci che non ci si può liberare del passato. ***

Carlo Monteforte, nato a Siracusa da madre emiliana e padre siciliano, vive attualmente a Pavia con Annalucia. Docente in Ostetricia e Ginecologia presso l'Università di Pavia, è stato Primario presso l'Ospedale di Vigevano e Direttore del Dipartimento Materno Infantile dell'ASL di Pavia. 58 VDBD – n. 2 – nov.2008


Affascinato dall'idea che si può viaggiare nel tempo, ha rivisitato la sua città natale in epoche diverse, attraverso personaggi fittizi che interagiscono con quelli storicamente esistiti. Il risultato è “Siracusa”, una serie di racconti distribuiti in tempi storici differenti, uniti fra loro più in senso geografico che storico, in quanto il filo che lega le loro trame passa sempre per Siracusa, la Sicilia ed il Mediterraneo. Attualmente ha appena completato la sua seconda fatica letteraria sugli Etruschi in Val Padana, ricostruendo in un romanzo storico Fra i Celti e gli Etruschi la distruzione (documentata da Tito Livio) ad opera dei Celti nel V e IV secolo a.C. dell' Etruria padana. L’opera è in libreria dal febbraio 2008.

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Letture di genere di Marta Ajò

La letteratura femminile, al femminile e per il femminile, ormai arricchisce da molto tempo la produzione editoriale. Molte sono le autrici (scrittrici, giornaliste, storiche, ricercatrici, ecc.) che, pur seguendo dinamiche e modi differenti, hanno indirizzato la loro scrittura e, in alcuni casi anche il filo della loro vita e dei loro interessi, verso temi e problematiche di “genere”. In particolare, la lettura di tre libri usciti recentemente, per alcuni versi diversi ma per altri molto simili, sembrerebbe confermare che la letteratura, la storia e la politica delle donne, si intrecciano da sempre e rendono moderna e attuale qualsiasi forma di scrittura e saggistica che parli di esse.

storico-sociale-culturale delle donne, che altri vorrebbero fosse immutabile. Emergono, inoltre, due posizioni forti e contrapposte che potremmo definire, e di malavoglia, di destra e di sinistra: l’una che sostiene la tesi di una natura femminile comunque “diversa”, e’l’altra che ravvisa le differenze esistenti e perpetuate come frutto dell’oppressione subita da secoli dalle donne.

I tre libri in questione sono: “Amanti e regine, il potere delle donne” di Benedetta Craveri, Adelphi; “Prime donne, perché in politica non c’è spazio per il secondo sesso”, di Ritanna Armeni, Ponte Alle Grazie; “Donne e politica”, di Giuditta Brunelli, Il Mulino. Non è un caso che a distanza di tanti anni, ricorra ancora il concetto di “secondo sesso” che è stato il titolo di uno dei più discussi libri della letteratura femminile, “Il secondo sesso”(appunto…) di Simone De Beauvoir, pubblicato nel lontano 1949, di cui ancora se ne ravvisa la modernità. In particolare, raffrontandolo con quanto descrivono nei loro testi le tre autrici, quello che si conferma è la peculiarità

In “Amanti e regine” Benedetta Craveri, docente di Letteratura francese all'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, racconta la vita, le difficoltà, le consuetudini e il difficile percorso di molte donne nella Francia di Antico regime, passate alla storia spesso più per le loro sventure che per il loro reale potere. 60

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L’autrice ci rammenta che nell’anno 1586 il celebre giurista francese Jean Bodin, teorico della sovranità dello Stato assoluto moderno, non esitava a confinare le donne ai margini della vita civile, ritenendo che «dovessero essere tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli, perché si occupassero solo delle loro faccende donnesche e domestiche » e che affidare a una donna una qualsivoglia responsabilità di governo fosse «cosa ripugnante alla natura, contumelia a Dio, sovvertimento del retto ordine e di ogni principio di giustizia». Forte di un doppio retaggio culturale quello grecoromano e quello giudaicocristiano -, il grande teorico ribadiva una convinzione antica quanto la società occidentale. In tutta Europa, in considerazione della debolezza intellettuale, morale e psichica intrinseca alla loro natura, le donne andavano escluse dal potere; solo gli uomini erano cittadini a pieno diritto, solo agli uomini era consentito regnare.

potere maschile senza esserne stritolate, dovettero imparare a giocare d'astuzia, a crearsi alleanze, a distribuire favori, a corrompere, a punire - e a uscire di scena al momento giusto. Alcune di queste donne, amanti o regine - da Anna d'Austria a Maria Antonietta, da Gabrielle d'Estrées a Madame du Barry -, hanno fatto della loro presunta debolezza uno strumento di dominio”. Trattando di un periodo storico ben preciso, essa ricorda ancora che consuetudini e leggi non erano sempre state così sfavorevoli al gentil sesso e ancora non molto tempo prima, all'interno del sistema feudale francese, le donne avevano goduto di un trattamento meno punitivo ma che, essendo legati alla società feudale, questi margini di autonomia femminile vennero meno con il Rinascimento. Nel corso del XlV secolo infatti (all’interno di un profondo mutamento, che affondava le sue radici nel secolo precedente, del modo di pensare la politica e le istituzioni, in cui la nozione di «res pubblica» sostituì progressivamente il concetto medioevale di lignaggio e l'autorità del re, quella del signore), cominciò a farsi strada una nuova concezione della famiglia. Questa appariva ora come il fondamento su cui poggiava l'edificio dello Stato moderno, era anzi una sorta di repubblica in scala ridotta, retta dal capofamiglia e perfettamente speculare all'altra. La sua stabilità, il suo equilibrio, la sua autonomia erano perciò di vitale importanza tanto per la sfera privata come per quella pubblica, e i legislatori non avevano risparmiato accorgimenti per metterla al riparo dalle potenziali minacce l'irrazionalità, !'irresponsabilità,

Eppure, ribadisce la Craveri, soprattutto in certi luoghi e tempi della storia, e in particolar modo nella Francia di Antico Regime -, quel potere le donne se lo sono arrogato, vanificando, di fatto, le leggi e le consuetudini che glielo negavano: prima fra tutte Caterina de' Medici, che per trent' anni riesce a mantenere intatta l'autorità reale. Ma accanto alle regine - e spesso contemporaneamente e in antagonismo con loro - altre donne (le cosiddette «regine di cuori» ) hanno avuto sugli equilibri politici interni ed esterni alla monarchia francese, nei secoli che precedono la Rivoluzione, una formidabile, per quanto discreta, influenza: le potentissime amanti reali, le quali, per inserirsi negli ingranaggi del 61 VDBD – n. 2 – nov.2008


l'incostanza femminile.

-

derivanti

dalla

natura

in massima parte le virtù. Un sesso a cui, come sola felicità, come uniche e sovrane virtù, si lasciano l'ignoranza, la servitù e la facoltà di passare per stupido, se questo gioco gli piace ".

Nella guerra preventiva contro le insidie del sesso debole si riteneva necessario sottomettere completamente la donna all'autorità maschile e circoscrivere il suo raggio d'azione all'interno della sfera domestica. In questo modo veniva sacrificata a garanzia dell'ordine familiare non solo la sua libertà, ma la sua stessa persona giuridica, poiché ella non avrebbe avuto altra identità all'infuori di quella di figlia, di moglie, di vedova. Nella sua interpretazione letterale, 1'« incapacità “femminile» significava che, senza l'autorizzazione dei parenti maschi o del re, le donne quasi non possedevano una personalità giuridica autonoma.

Nel libro risulta evidente che a questa educazione repressiva non si sottrasse la Chiesa cattolica. Infatti , elaborando una pedagogia ispirata al culto mariano che, di trattato in trattato, perseguiva un unico obiettivo: neutralizzare la componente oscura e demoniaca in agguato nella natura femminile e, prendendo a modello le virtù incarnate dalla Vergine Maria - la purezza, la dolcezza, la carità -, precauzione morale importante per le ambizioni intellettuali delle loro consorelle meno altolocate, non faceva che consentire e convivere con tali principi.

Un secolo dopo, lo stesso Montaigne, pur dando prova di un atteggiamento molto più liberale della maggior parte dei suoi contemporanei nei confronti del gentil sesso, continuava a essere intimamente convinto della superiorità intellettuale maschile e si limitava a osservare che lo studio della storia e della filosofia poteva aiutare le donne a sopportare le ingiustizie e le prevaricazioni di cui erano vittime da parte degli uomini.

Nemmeno una nascita reale poteva conferire alle donne gli stessi diritti degli uomini e la e a differenza di quanto avveniva in altri paesi europei, in Francia le donne erano escluse dalla successione al trono, e il compito di assicurare la continuità dinastica era riservato alla discendenza maschile. Solo il re deteneva il potere, mentre la regina non aveva altro status che quello di moglie.

E in quel periodo si solleva finalmente la voce di una donna, Marie de Gournay (1626), nelle cui parole non vi era rassegnazione e amarezza: «Fortunato sei tu, Lettore, se non appartieni a quel sesso che, privato della libertà, è interdetto da tutti i beni, come pure da pressoché tutte le virtù. Né potrebbe essere altrimenti, visto che gli è negato l'accesso alle cariche, agli impieghi e alle funzioni pubbliche, ovvero al potere, perché è nell'esercizio moderato di quest'ultimo che si formano

“Eppure”, scrive l’autrice, “alla prova dei fatti, il XVI secolo non costituiva una clamorosa smentita degli interdetti che pesavano sul gentil sesso? Mai come nell'Europa del Cinquecento un numero tanto rilevante di donne - figlie, sorelle, mogli, madri, amanti - ebbe accesso ad alte responsabilità, influì sulla politica, governò in prima persona. Nonostante gli anatemi dei predicatori, Maria Tudor prima e sua sorella Elisabetta poi salirono a pieno titolo al trono d'Inghilterra, 62

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mentre Maria Stuarda cinse la corona scozzese”.

mette in risalto, oltre alla loro condizione umana, una testimonianza del coraggio, dell'intelligenza, dell'inventiva che hanno costantemente caratterizzato le donne francesi di Antico Regime.

Le conclusioni che tira la Craveri, nonostante questi esempi, comunque, non inducono a nessuna valutazione ottimistica di quel periodo e delle sue protagoniste. “Non dobbiamo, tuttavia, essere indotti a pensare che questo illustre corteo di dame al potere sia il segno di una evoluzione, sia pur sotterranea, della mentalità e del costume, o riveli un miglioramento giuridico della condizione femminile. Se nella società del Cinquecento vi sono delle donne che contano è perché, forti delle loro ambizioni, della loro intelligenza, della loro bellezza, sono riuscite, a dispetto dei pregiudizi maschili, ad approfittare delle circostanze favorevoli e a farsi valere. Mai, però, assumono il potere in nome proprio, la loro autorità è sempre provvisoria e soggetta a contestazioni, e la loro affermazione presuppone sempre un vuoto o una debolezza maschili: la lontananza o la morte dei mariti, la minore età dei figli, la passione dei sensi. Per quanto spettacolari, le loro vicende costituiscono la somma di casi individuali, non si saldano mai in un'unica storia. Perché la Storia, nessuna di loro ne dubita, rimane appannaggio ufficiale degli uomini, e per inserirsi nei suoi ingranaggi senza venirne stritolate, bisogna mascherarsi, giocare d'astuzia, crearsi alleati potenti, distribuire favori, sedurre, corrompere, punire - e sapere, al momento giusto, uscire di scena”.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° “L’emancipazione delle donne sembra un fatto scontato. Le battaglie del femminismo degli anni Settanta appaiono lontane. A qualcuno anche vecchie e superate. Naturalmente è vero che le donne hanno percorso un lungo cammino. E che hanno vinto molte importanti battaglie”, sostiene nel libro”

Prime donne, perché in politica non c’è spazio per il secondo sesso”, Ritanna Armeni. “Questo non significa che il cammino per raggiungere la Libertà con la L maiuscola quella che permetterebbe a una donna di muoversi dentro la società con la stessa disinvoltura di un uomo - sia finito. Uno

Infine il potere di queste donne, è un potere sui generis, che sa trasformare la debolezza in forza, e fare della condizione di inferiorità una carta vincente. L’autrice 63 VDBD – n. 2 – nov.2008


dei campi rimasti tutto sommato preclusi alle donne è quello della politica, o meglio del potere, potere che si declina ancora perlopiù al maschile. Le donne nel secolo scorso hanno occupato qualche poltrona, ma gli uomini mantengono quasi intatta la loro egemonia”.

con l'uomo che fa politica, riescono a influenzare e ad esercitare così un potere occulto. La Armeni prosegue le sue riflessioni sostenendo che: “Una donna che aspira al potere, al potere vero, lancia una sfida, entra in un terreno, in una sfera quasi del tutto inesplorata nell' antica lotta fra i sessi. Per questo anche chi sostiene l'emancipazione e la parità non riesce ad affrontarla adeguatamente. Non si tratta di aprire spazi, organizzare libertà, concedere possibilità in questo o quel settore della vita sociale e pubblica con la gradualità e le necessarie mediazioni con cui è stato fatto finora, per esempio nel campo del lavoro. Qui, infatti, le donne sono passate prima attraverso ruoli considerati eminentemente femminili, poi hanno occupato - per necessità, durante le guerre - posti maschili, fino a che il mercato capitalistico da un lato e una legislazione guidata dal concetto di parità dall' altro hanno permesso loro di occupare posti in buon numero ed emergere anche in settori di eccellenza”.

L’autrice, nelle sue riflessioni, sostiene di essere arrivata a due conclusioni possibili per comprendere l’esclusione delle donne dal potere. Un motivo, è sicuramente dato dall’impegno delle stesse all’interno della vita domestica che le ha portate inevitabilmente ad assumere una concezione di indifferenza o quantomeno di estraneità verso le forme del potere politico, oltre, ovviamente, alla responsabilità di un gap culturale e di educazione impartite fina dalla giovane età. Naturalmente ci sono anche molti modi per accettare o convivere con questa ripulsa. In primo luogo ci sono le donne che rinunciano, e sono la maggior parte. Il potere politico - pensano - è maschile ed è giusto che rimanga tale. Loro si occupano d'altro. Poi ci sono quelle che accettano le regole, perché convinte che siano le migliori possibili. Non ne conoscono altre e non sono interessate i trovarne di nuove. È questo il comportamento della maggior parte delle donne al potere nel ventesimo secolo. E ancora ci sono le donne che a quelle regole si adeguano, pur vedendone tutti i limiti. li loro è un atteggiamento di frontiera. Avvertite nei confronti della politica maschile, ma non abbastanza forti per osare di più. Incuriosite da una ricerca femminile, ma capaci di gestire con perizia la politica maschile. E infine ci sono quelle donne - e non sono poche - che attraverso il privato, il rapporto intimo e familiare

Sostiene, inoltre di avere capito che l'esclusione delle donne non è assimilabile a quella di altre categorie sociali. Mentre la discriminazione di alcune categorie di uomini e di classi sociali è un fatto storico, contingente, determinato dai rapporti economici, dalla lotta fra le classi, dal dominio di alcuni popoli su altri, la discriminazione delle donne è costitutiva della stessa idea di potere. Affermare la necessità di abbatterla è talmente audace, talmente eversivo da richiedere una nuova rivoluzione del pensiero. Oggi, prosegue, la possibilità di un cambiamento più radicale non riguarda il modo in cui la società si organizza 64

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attraverso la politica e le istituzioni, bensì la necessità di rimettere in discussione l'idea stessa della politica, del governo e dello Stato, del rapporto fra governanti e governati. Oggi c'è l'opportunità di ribaltare la rappresentazione dominante del potere, di scalfire una realtà che si fonda su un immaginario fortissimo e finora invincibile. In esso esiste una contrapposizione così forte e radicata tra le donne e il potere da provocare quasi automaticamente un' esclusione e una rinuncia. C'è un contrasto che, almeno fino a oggi, ha lasciato davvero poco spazio a mediazioni.

che la donna possa gestire il potere, ma solo se agisce come un uomo, se si dimostra capace di assumere integralmente i comportamenti maschili. In questo caso la misoginia permane, ma meno evidente. In fondo che cosa ci può essere di più gratificante che assistere alla replica di se stessi? Non è la conferma che, sia pure possedute e guidate da un corpo femminile, le regole del potere sono uniche e irriformabili? C'è infine chi ritiene le forme in cui si può esprimere un potere femminile interessanti, ma comunque politicamente e cultural mente secondarie rispetto a quelle maschili. È la posizione di chi pensa che solo la contrapposizione di classe, e ( con essa le categorie di destra e di sinistra), siano fondamentali e che quindi la ricerca delle donne sia solo un interessante accessorio.

È questa contrapposizione che spiega la tenacia e la violenza straordinaria con cui gli uomini difendono la loro posizione di dominio e respingono i tentativi delle donne. E, nello stesso tempo, essa chiarisce la forza m 'scussa e indiscutibile del modo maschile di fare politica, ritenuto l'unico possibile. Il potere politico, la direzione dello Stato, è per gli uomini la frontiera invalicabile, la difesa naturale contro ciò che appare un' aggressione contro natura.

Ed ancora,nella parte finale del libro, l’autrice si lascia andare e riflette sulle speranze personali e con molta semplicità ed umanità, in cui è facile riconoscersi, afferma: "Mi piacerebbe che le donne che fanno politica avessero un'idea più alta e profonda della loro libertà. Mi piacerebbe che dicessero quello che sono, quello che vogliono, che pensassero innanzitutto e soprattutto a se stesse. Che cercassero di diventare un modello per le altre. E quindi provassero, almeno provassero, a proporre un diverso modello di potere. Che non può nascere se le donne non credono profondamente in se stesse e non affermano - rischiando molto - la loro identità nella politica. Mi piacerebbe che qualche volta mandassero un messaggio alle altre donne in modo non strumentale, non subordinato ai progetti politici maschili.

In questa difesa c'è ancora oggi la convinzione assoluta di chi ritiene così uniche, giuste, oggettive le proprie posizioni da non riuscire in alcun modo a immaginare l'idea del femminile congiunta a quella del potere. Ovviamente questo rifiuto, questo accanimento negativo è gestito in modi diversi dagli uomini ed è diversamente accettato o subito dalle donne. C'è l'uomo che respinge anche la sola idea che una donna possa esercitare il potere e vi si oppone in nome di ruoli prestabiliti e naturali. Ancora oggi non è raro incontrare una vera e propria misoginia alimentata dalla tradizione, dagli stereotipi, dalla paura. C'è chi pensa invece 65 VDBD – n. 2 – nov.2008


Certo non è facile. E niente è più lontano dalle intenzioni di chi scrive di una critica presuntuosa o nemica. Non è facile perché si tratta di fare nel più maschile dei settori della società, quello della politica, il doppio salto mortale: conquistare il potere e cambiarlo. Destrutturarlo, forse annullarlo. Si tratta di inventare, di costruire quelle che gli uomini chiamano alleanze e che le donne chiamano relazioni per fare dei passi avanti, per mandare dei segnali. li punto positivo è che ci sono molte donne pronte ad accoglierli. Le donne che oggi hanno raggiunto una forma di potere e di autorevolezza hanno una responsabilità precisa, hanno il compito di mandare questo messaggio. Non mi si dica che è impossibile. Non mi si dica che bisogna aspettare altri movimenti sociali, altri cambiamenti e altre generazioni perché questo avvenga. Di movimenti sociali e politici importanti questo paese ne ha visti tanti. L'Italia ha avuto e ha un forte movimento operaio con fondamenti maschili profondi sui quali ancora non si è riflettuto abbastanza. Dal '68 in poi si sono sviluppate spinte sociali straordinarie, egualitarie e antiautoritarie. Ma la leadership è stata sempre maschile. I noglobal, i movimenti pacifisti, quelli ecologisti hanno avuto sempre capi uomini; le eccezioni si possono contare sulle dita di una mano. L'egualitarismo è scomparso come neve al sole nel rapporto con le donne. L'antiautoritarismo si è proclamato, ma l'autoritarismo è rimasto forte all'interno del movimento e dei gruppi di sinistra, soprattutto nei confronti dell' altro sesso. I processi, le ritualità della politica, le sue pratiche maschili si sono riprodotti immediatamente, con precisione, quasi con automatismo. Per questo mi sono fatta l'idea che il cambiamento non possa che nascere - se può nascere - proprio nel

cuore dell' emancipazione femminile e del potere politico. Non possa emergere che da una donna o da più donne che hanno sperimentato e conosciuto fino in fondo il potere maschile. O, perlomeno, questo è quello che spero”. Infine, si può dire che in questo libro si analizza con chiarezza e serenità la situazione passata e attuale e, senza alcun vittimismo né desiderio di rivalsa, chiede alle donne di avere il coraggio di scendere in campo, di sentirsi autorizzate a desiderare il potere senza essere subordinate a un uomo; di essere padrone delle loro scelte e delle loro convinzioni; individui liberi in una società libera. Perché l'abbattimento dei pregiudizi di genere possa essere l'inizio di un' era del confronto e dell'uguaglianza. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Ad alcuni dei molti interrogativi posti dall’Armeni, cerca di dare una risposta, 66

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per vie più concrete e pragmatiche nel libro “Donne e politica”- Quote rosa? Perché le donne in politica sono ancora poche, Giuditta Brunelli che Insegna Istituzioni di diritto pubblico nell'Università di Ferrara.

Non si tratta soltanto di limitazione delle risorse (tempo e denaro, soprattutto), ma della scelta di regole che - osserva Giovanna Zincone - svalorizzano ulteriormente nel -mercato politico- le già scarse risorse disponibili. Così, "un sistema elettorale che obbliga a costose campagne svaluta l'impegno etico e sopravvaluta la capacità di spendere. E, se l'impegno etico si distribuisce forse equamente tra i sessi, lo stesso non vale per la capacità di spendere: le candidate hanno minore abilità nel procurarsi finanziamenti-. Ecco, allora, la necessità di identificare quegli strumenti (ad esempio, l'imposizione per legge di "tetti" alle spese elettorali) che, abbassando la soglia delle risorse necessarie a fare politica, facilitino l'accesso alla rappresentanza di chi si trova in una condizione di svantaggio. Sembra assai difficile, nel contesto italiano, una sorta di evoluzione «naturaleche scalzi il monopolio maschile della politica. I monopoli vanno spezzati con specifiche regole antitrust, osserva Lorenza Carlassare; nel nostro caso, con misure (legislative o volontarie) che forzino- gli assetti di potere consolidati”.

L'autrice inizia immediatamente a descrivere con precisione basata su numeri e statistiche, la realtà dell'Italia: sesto paese industriale al mondo, è al 85esimo posto nella classifica dei parlamenti per presenza femminile. Perché, chiede, dal momento che nessuna norma limita la parità dei sessi, è ancora così bassa la partecipazione delle donne alla nostra vita politica? Nei vari capitoli ripercorre il cammino delle donne dalla conquista del voto alla rappresentanza in politica; i tipi di discriminazione, dirette ed indirette, che esse hanno subito e le “azioni positive” messe in campo dalle direttive europee e nel nostro Paese. In particolare si sofferma sulla vicenda delle quote riservate alle donne nelle liste elettorali, le misure antidiscriminatorie e il riequilibrio di genere negli statuti e nella legislazione elettorale delle regioni ordinarie.

Tutto ciò riguarda in particolare una questione di potere (maschile) ma occorre, sostiene l’autrice, andare oltre con le misure legislative di garanzia per le candidature; il riequilibrio delle candidature; gli strumenti del gender mainstreaming. Conclude affermando che: “In conclusione le quote elettorali previste per legge sono senz’altro ammissibili…ma la strada maestra è quella indicata da Elisabeth Badinter, con parole che faccio mie: “sufficiente che tutti i partiti politici decidano di sottomettersi volontariamente al principio di eguaglianza da loro predicato con tanta disinvoltura. Sarebbe

Dopo avere spaziato sulle esperienze europee, ragiona, nella parte finale del libro, sulle possibili soluzioni che si possono mettere in moto per favorire la politica al femminile. “ In molti paesi del mondo, e certamente nel nostro, la cittadinanza politica delle donne è ancora oggi "affievolita" non sotto il profilo formale, almeno negli stati democratici, ma a causa dell'organizzazione dell'attività politica in forme non compatibili con la costruzione sociale dei ruoli femminili. 67 VDBD – n. 2 – nov.2008


per questi partiti il modo migliore di dimostrare che sono al servizio della repubblica universale”.

domestica, taglio, ricamo, cucito, maglia, puericultura e tutte le altre materie necessarie per diventare una perfetta moglie e donna di casa. Lo stesso percorso magistrale e magistero, contemplava specializzazioni cosiddette più idonee all’indole femminile. Possiamo dire che questa mentalità sia completamente scomparsa dal nostro orizzonte e dalla nostra cultura?

La Brunelli, senza indulgere al vittimismo che a volte trasuda dal dibattito di genere, offre un quadro - anche in chiave comparata - del cammino compiuto per superare la discriminazione giuridica delle donne; esamina le cose fatte e quelle ancora da fare; discute l'atteggiamento dei partiti e illustra gli orientamenti dell'Unione europea in materia. Infine, a partire dalla conquista del voto fino alla vicenda delle quote «rosa» nelle liste elettorali, (tema largamente dibattuto ed ancora irrisolto) mostra come anche rimuovendo gli ostacoli normativi ne restino altri di natura sociale e culturale.

Ed ancora, per passare dalle “regineamanti” della Craveri, alle donne di oggi dell’Armeni, vengono in mente alcune considerazioni: non sono forse anche le donne descritte in “Regine e amanti” vittime delle stesse e di altre discriminazioni delle donne di oggi? Non è la concezione dell’impossibilità della donna a raggiungere il “vero” potere come e quanto gli uomini che è stata sempre ribadita? Non era ed è forse pensabile, per arrivare ad un cambiamento, una rivoluzione del pensiero? Dunque siamo così lontane oggi da allora o sono solo cambiate le formalità della discriminazione che si è fatta di volta in volta più subdola ma resistente? Le risposte tecniche,giuridiche che l’ultima autrice ci fornisce, lasciano comunque ancora colmi di incertezze e di interrogativi

°°°°°°°°°°°°°°°°° Dalla lettura di questi tre libri, viene subito alla mente come a tutt’oggi, facendo una comparazione con quanto scritto dalla Craveri, questo stato di subordinazione, quando addirittura di schiavitù, esista ancora in molti paesi di altre culture o religioni. Per non parlare delle varie forme di schiavitù indotta all’interno delle società occidentali. L’egoismo non dovrebbe infatti distoglierci o allontanarci dalle difficili realtà che altre donne soffrono ( si pensi all’infibulazione o alla lapidazione, come strumenti estremi di queste culture). E, sempre per fare una comparazione fra periodi storici diversi, fino ad arrivare all’ ideologia della donna nel fascismo, o, anche solo per restare in tempi più recenti, negli anni 60/70, ad esempio nella nostra istruzione, era ancora vigente l’Istituto tecnico femminile, che insegnava appunto, come materie principali: economia

Se andiamo a considerare bene, molti nomi di donne moderne in corsa per il raggiungimento di posti di primo piano (Hillary Clinton, Ségolène Royal, Sarah Palin, ed altre…) sono spesso protagoniste di cattiva stampa o di campagne denigratorie che ne infestano l’immagine pubblica rendendo il consenso popolare più difficile.

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Resta la certezza che l’uguaglianza sarà raggiunta quando non si avvertirà più la necessità di affermarla.

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Il miraggio della felicità – Requiem for a Dream

di Gregorio Sorgonà

Regia: Darren Aronofsky Interpreti: Ellen Burstyn, Jared Leto, Jennifer Connelly Produzione: USA, 2000

Tratto da un romanzo omonimo di Hubert Selby Jr., e riprodotto sullo schermo da Darren Aronofsky, autore dell’opera di culto “Il teorema del delirio”, “Requiem for a dream” è un’opera dai tratti cupi, quasi grotteschi, centrata sulla descrizione di una crisi di senso generalizzata della società statunitense. I protagonisti principali del film, una madre interpretata da Ellen Burstyn e il figlio, un emaciato e convincente Jared Leto, costituiscono il nucleo particellare di questo mondo più ampio e al tempo stesso ne riflettono, nella propria esistenza, le ragioni della necrosi. 70 VDBD – n. 2 – nov.2008


La prima linea di identificazione del “sogno defunto” è la separazione tra madre e figlio all’interno della stessa casa: la debolezza dell’individuo sta nell’essere diventato appunto tale, elemento monadico incapace di relazionarsi al prossimo. La traduzione “scenica” avviene, in questo caso, attraverso la separazione tra due inquadrature, che tagliano esattamente a metà il video. Da una parte la madre, chiusa in una stanza che osserva il figlio dal buco della serratura come se fosse una spettatrice, dall’altra il figlio, che porta via alla madre il televisore per pagarsi le prossime dosi. Il televisore non è un mezzo tra gli altri, ma una “porta di passaggio”, dal momento che il sistema dei mass media corrisponde alla forma di dipendenza contratta dalla madre. Fin dal principio le tossicodipendenze sono almeno due, mentre cambia il veicolo del loro appagamento (un tubo catodico, una siringa). La separazione individuale e lo schema delle reciproche dipendenze introduce al tema di fondo del film che è l’assenza di una rete sociale capace di assicurare i suoi membri senza con questo asservirli. L’assenza di una società non indica, tuttavia, la latenza di una società in linea di massima, quanto, semmai, la crisi di un modo di pensare la convivenza tra esseri umani. Al tempo stesso, poiché le società sono fatte dagli esseri umani e dalle loro rappresentazioni, è la nuova dimensione in cui questi uomini si muovono a sostanziare questa società di nuovo conio. La nuova antropologia sostanzia un individuo irrelato al punto da perdere la propria identità. Il segno che indica la perdita d’identità dell’individuo viene espresso, nella pellicola, attraverso la distorsione delle percezioni. L’alterata percezione del senso del tempo e dello spazio, soprattutto nel caso della madre, demolisce il soggetto, dal momento che esso non è più capace di rappresentare sé stesso. La perdita della libertà è conseguente alla perdita dell’identità. Il superamento della modernità avviene così attraverso una regressione e la morte della società passata non coincide con la liberazione dei suoi membri, quanto con un ritorno a feudalesimi molecolari e diffusi, dove sono mutate le forme della servitù. La nuova società imprime la sua forza solo attraverso la coazione giuridica o lo sfruttamento, mentre è assente qualsiasi forma di recupero, poiché la scelta della frattura appare netta e non reversibile. Proprio perché soggetto e società non smettono di riflettersi l’uno sull’altro, almeno nella percezione che noi ne abbiamo, la frattura interna alla seconda è intima anche alla prima. La perdita genera un’impotenza che allontana la realizzazione dei propri desideri e con essi ogni prospettiva di felicità e auto-realizzazione. Questo passaggio, in una delle scene centrali del film, viene riprodotto rappresentando una virtualità non realizzata da parte della seconda protagonista femminile, Jennifer Connelly, a cui segue una “costrizione” dal carattere 71 VDBD – n. 2 – nov.2008


particolare quale è la scelta di prostituirsi. La libertà persa è un anticipo di morte o un accomodarsi alle regole del mondo, dopo aver perso la battaglia per ciò che si desiderava realmente dalla vita. La tossicità altera il reale e lo pervade, l’effetto è quello che la distorsione nella sua percezione attraversa tutti i protagonisti del film che, sebbene individuino i propri fini esistenziali, sono troppo deboli per poterli raggiungere. La percezione netta dell’essenziale è ciò che manca ai protagonisti del film. Questa consapevolezza affiora solo come il miraggio di un sogno interrotto, ad esempio nei pochi momenti di lucidità che il protagonista maschile sperimenta tra un buco e l’altro. La distorsione dello spazio e del tempo rimanda come un’analogia a quella dei fini. I mezzi del benessere diventano fini a sé stanti e ne chiudono la ricerca in una continua fagocitazione del sé fino all’annullamento (è il caso della droga per il figlio ed è il caso della dieta seguita dalla madre per essere in perfetta forma di fronte al miraggio delle telecamere di uno studio televisivo). Questa distorsione non è affatto disinteressata, né la tossicodipendenza rappresenta un puro e incontrollato meccanismo del piacere e dell’autodistruzione. La trasposizione del mezzo “droga” in fine per l’uomo comune, diventa, per chi gestisce le leve del controllo sociale, a sua volta un mezzo per perpetuare il proprio controllo. La gestione di una società illiberale – quale quella americana viene qui presentata – avviene attraverso un’invasione dello spazio intimo della vita personale, legittimato facendo ricorso, ipocritamente, a un’esaltazione della volontà e del self control. Così come l’eroina invade il corpo del protagonista, la televisione, in un incubo terrificante, finisce con l’invadere le mura di casa della madre, operando un esproprio integrale del suo corpo, prima, e della sua anima, poi, tale da spezzarne l’equilibrio psichico in un incubo colorato da luci stroboscopiche e musica ossessivamente allegra. La dipendenza da sostanze tossiche è dipendenza tout court, ogni dipendenza intossica e il principio della libertà assente mangia dall’interno ogni protagonista del film, compresi coloro che gestiscono il controllo del potere e che, tuttavia, sono a loro volta controllati da una dipendenza particolare (in questo caso un sesso, alla fine sublimato in voyeurismo). Il sogno non più interrotto, ma ormai defunto, è quello della società americana e della nuova frontiera che, giunta al suo limite, diventa un contenitore per alienazioni continue. Scardinato il rapporto tra parole e cose, che sopravvive armonico solo nell’inganno televisivo, resta uno stato latente di guerra civile dove non esiste parvenza di una legge comune. Si potrebbe dire, alla fine della visione e attraverso di essa, che gli Stati Uniti d’America non esistano più. Sebbene spesso l’apocalitticità delle diagnosi finisca con l’essere contraddetta dalla capacità di reazione dell’uomo alle crisi, ciò non toglie la pertinenza della rappresentazione di Aronofsky. La disgregazione della società a noi contemporanea trova un riflesso anche in altre pellicole più recenti (penso, ad esempio, a quel gioiello che è “Non è un Paese per vecchi” dei fratelli Cohen) ed è certo qualcosa di più complesso che la proiezione estremamente ideologizzata di un mondo. La fine del sogno può però corrispondere con una presa di coscienza e il ritorno a quella promessa di felicità, tradita, che la Costituzione americana, prima e credo unica tra le Costituzioni più importanti, ha formalizzato per iscritto. Proprio da quella promessa si può ripartire, svegliati dalle illusioni retoriche dei sogni, per ripensare la nostra libertà e i nostri fini fuori dall’inganno di un 72 VDBD – n. 2 – nov.2008


presente che ci vorrebbe clonare a immagine e somiglianza di ciò che non siamo. Ma questo, è chiaro, è un discorso che, anche innervandola, va oltre la recensione di un film. ***

Gregorio Sorgonà è studioso, per professione di storia e filosofia, ma soprattutto fondatore, con Chiara Orlandi, del sito CONTROREAZIONI, interamente dedicato al cinema.

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Una finestra sul 900 a cura di Sandra Palombo

Una finestra sul 900 vuole essere uno spazio per ricordare, con poche righe informative di biografia e bibliografia, autrici del XX secolo poco conosciute ai più e, spesso, anche a chi scrive. La critica la lasciamo agli addetti ai lavori e ci limitiamo a segnalare, proprio come chi, affacciandosi alla finestra, indica con il dito una persona o un luogo, che anche loro, seppur con pesature diverse, hanno contribuito alla storia della letteratura del novecento con la loro opera in prosa o in poesia. Sarà anche una finestra aperta ai lettori che, tenendo conto della linea della rubrica, potranno proporre i loro articoli a redazioneviadellebelledonne@yahoo.it perché siano, via via, pubblicati nei prossimi numeri della Rivista. Il filo che unirà questi quadri sarà dunque l’appartenenza allo stesso secolo, il 1900, con l’obiettivo di informare o di incuriosire il lettore a conoscere meglio l’autrice proposta. Maria Banuş Capita di sfogliare un’antologia poetica - in questo caso un volume dal titolo Poeti romeni del dopoguerra / presentati e tradotti da Mario De Micheli, Parma, Guanda, 1967- imbattersi in un autore - in questo caso un’autrice - volere conoscere qualcosa di più della sua vita oltre alle poche righe di bio-bibliografia riportate a fine volume e trascorrere un pomeriggio a vagare in internet alla ricerca di chi fu, in questo caso Maria Banuş.

La navigazione in rete porta però a raccogliere altri frutti; cercando la Banuş si trovano infatti delle indicazioni interessanti riguardanti la letteratura romena tra cui quella sul volume di Marco Cugno La poesia romena del Novecento. Studio introduttivo, antologia, traduzione e note (1996), La letteratura romena in italiano (2005) che comprende numerosi saggi di diversi autori, corredati da una ricca bibliografia sugli studi italiani, che offre, una sintesi sulle traduzioni e sugli studi della storia della letteratura romena, un articolo di Bruno Mazzoni e Monica 74 VDBD – n. 2 – nov.2008


Zafiu dal titolo Poesia romena di fine millennio in Poesia '98: annuario a cura di Giorgio Manacorda pubblicato da Castelvecchi nel 1999 e un altro sempre di Bruno Mazzoni dell’Università di Pisa La presenza della letteratura romena in Italia 1989-2001 dove, dopo una chiara e esaustiva introduzione, lo studioso disegna “ la parabola dell’attenzione e talvolta dell’ interesse che la cultura italiana recente e recentissima ha prestato, all’indomani della caduta della dittatura ceauşista, alla produzione saggistica e letteraria romena contemporanea, e non soltanto esclusivamente contemporanea” partendo dall’anno 1989, “anno- soglia… di un prima e dopo nello scambio culturale recente tra la Romania e l’Italia”. Sempre leggendo Mazzoni si scopre che l’ Italia è paese europeo con il più alto numero di cattedre universitarie di Lingua e letteratura romena, che esiste l’Associazione italiana di Romenistica” e un sito dedicato agli studi di romeno www3.humnet.unipi.it/air/.

Maria Banuş, autrice di numerosi volumi di poesia, memorie, teatro, ha tradotto in rumeno poesie di Rilke, Pushkin, Goethe, Neruda, Heine, Rimbaud ed è stata a sua volta tradotta in varie lingue. In Italia i suoi versi sono stati pubblicati in un volume a cura di D. Vrinceanu e A. Zanzotto, intitolato Nuovi spazi (Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1964. Poesie scelte) mentre alcune poesie sono state tradotte da Carla Mazzarello. Nata a Bucarest il 10 aprile 1914 Maria Banuş, seguì all’università corsi di Lettere e Diritto. Nel 1928 uscirono i suoi primi versi nella rivista del più grande dei poeti romeni dopo Eminescu, Tudor Arghezi , Bilete de papagal e nel 1937 la sua prima opera dal titolo Il paese delle ragazze. Ha partecipato alla resistenza clandestina durante il periodo dell'occupazione tedesca ed è vissuta a Bucarest fino al 14 luglio 1999 , giorno della sua morte. Con il volume Felicità vinse nel 1948 il Premio dell’Accademia della Repubblica Popolare Romena. In seguito ottenne il Premio di Stato nel 1951, il Premio Speciale della scrittori nel 1986 e il Premio Internazionale Gottfried von Herder 1989. Tra le tante sue opere citiamo: Il paese delle ragazze ( 1937); Felicità (1948); Versi scelti (1952); Discorso sulla terra (1954); Parlo a te, America (1955); Alle porte del Cielo (1956); Si rivela il mondo 75 VDBD – n. 2 – nov.2008


(1956); Il torrente (1959); Magnete (1962); Metamorfosi (1963) Il diamante (1965) Magia interdetta (1970).

Della Banuş, che fece parte del gruppo di poeti romeni della seconda generazione del ‘900 che avevano un orientamento antifascista , riportiamo delle poesie tratte Poeti romeni del dopoguerra / presentati e tradotti da Mario De Micheli, Parma, Guanda 1967 e che ancora mantengono intatta la loro freschezza, sia che affrontino temi politici e sociali , come la tragedia del Pogrom rumeno, sia che riguardino la sfera intima dell’autrice come Alchimia. Sandra Palombo Pogrom Siamo intorno alla tavola per la cena. Così sempre mi appare Il pasto silenzioso e lunare In mezzo al mio clan. Un ospite s’avvicina nella nebbia, lo sente anche il bambino nelle viscere materne. Noi fissiamo il nostro piatto E il cucchiaio fa udire il suo canto. Un canto di paura e di odio, di sortilegio e di terrore. Noi portiamo il cucchiaio alle labbra, l’ospite tesse i suoi neri fili. Sui fili neri si lascia scivolare Il carnefice , come un vecchio ragno. La tovaglia splende sulla tavola, lo spavento ci fischia nelle orecchie. Uno alla volta, il boia ci segna a fuoco col marchio di morte. Con che aria sperduta la madre ci esorta: - Mangiate figli, continuate a mangiare! 76 VDBD – n. 2 – nov.2008


E il cucchiaio fa sentire il suo canto In cui ciascuno la rivolta. Lo sentono anche i bambini nelle viscere materne E diventano grandi, vecchi e lucidi. (1940-1944)

Il passato Tra due rovine ho alzato una casa, tra due allucinazioni ho piantato una fede, tra due abissi ho messo una tavola con tovaglia e saliera, tra due montagne di cadaveri ho visto un fiore e gli ho sorriso. Così ho vissuto, miei cari. Ora capite? Così ho vissuto. (1959)

Destino Non più di notte uniremo coscia e fronte. Il richiamo si sperde nel cielo d’autunno, nel mucchio Delle foglie appassite. Ormai In margine al tempo, sotto la maschera degli anni, stanno le nostre vite come due tribù in eterno divise da due totem avversi. ( s.d.)

Alchimia Oramai ero solo inchiostro, penna stilografica. I miei capelli davano un rumore secco, come di carta. I giorni frantumavano il loro guscio In minuti calcinacci bianchi. Lo scoiattolo non mi guardava più, le foglie m’avevano nascosto il loro viso, avevo dimenticato come freme una stella e l’intima carezza della nebbia. Ma il tuo sguardo mi ha scoperta e avvolta Col suo verde, col suo grigio profondo. 77 VDBD – n. 2 – nov.2008


Brucia d’oro la polvere spenta Come per un’antica alchimia. Tutte le cose sono in me e in tutte io sono, sono nello scoiattolo, nella foglia, nella stella. Mi sento una statua di sale come la moglie di Lot, mi ero riconciliata con la neve… Ma il tuo sguardo m’ha scoperta e avvolta Col suo verde, col suo grigio profondo. Lacrime di sale dalla statua stillano E marzo nelle lacrime rinasce. (1962)

Nel microcosmo Nel microcosmo del corpo si fa sera, l’abbraccio della vita è sempre più fioco. Paghiamo a Cronos una tassa severa E sorridenti simuliamo che sia un’inezia. Pianeti spenti ruotano sull’asse Con moto sempre più lento, sempre più raro… Crepuscolo degli Dei nel mondo delle cellule, drappeggiato festosamente in ritmi e sintassi. Si lamentano i soli polverizzati nello spazio, ma noi abbiamo la fierezza virile d’affrontare il declino secondo le tradizioni. Tocca a noi recitare epitalami E alzare bandiere in cima ai platani Per le nuove feste di nozze. (s.d.)

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(Foto di Paola Pluchino)

PONTEGGI

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iaia gagliani

roberto matarazzo

donna_creativa in milano

uomo_creativo in benevento

americana tra elio vittorini e fernanda pivano

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Quando il segno si fa disegno di inquietanti solitudini.

L’architettura e il disegno industriale hanno riconfigurato più e più volte l’aspetto delle città e degli oggetti d’uso quotidiano, hanno manipolato e monopolizzato il comportamento di milioni di persone relativamente all’uso e consumo, orribile parola ma realistica certezza, di materiali che erano materie prime e ricchezze di terre spesso lontanissime. Spesso noi occidentali non pensiamo che quanto produciamo abbia a che fare con un numero così elevato di coinvolgimenti e finiamo per sottovalutare ampiamente la portata di ogni progetto confinandolo all’esiguo intervallo di ideazione progetto diffusione e marketing. Manca la relazione col tempo e con lo spazio, la fantasia è un presupposto che vale poco in realtà, se posto a contatto con ciò che è l’impatto anche del più inutile ritrovato della tecnica. Eppure il lavoro di progettazione e la produzione seriale erano stati pensati come una specie di toccasana per l’economia e per l’ampliamento a larghe fasce sociali di beni che, 82 VDBD – n. 2 – nov.2008


seppur di consumo, e quindi non considerabili alla stregua di valori, avrebbero dovuto dare benessere a molti, non proprio la felicità che propagandavano attraverso una pubblicità ancora allo stadio neonatale, non martellante e direttamente colpevole della narcosi che oggi è facile rilevare analizzando i consumi della gente. Ciò che si nasconde dietro quelle copertine patinate, dietro il progetto di un futuro sognato,ipotizzato, rincorso e ancora una volta vagheggiato, è qualcosa che, come già aveva detto Nietzsche, è il nemico strisciante, l’invisibile nemico che già praticava allora le case di tutti, nessuno escluso. Più il sogno si materializzava e più la solitudine si faceva tangibile e visibilmente l’unico mezzo per raggiungere ancora più alti livelli di consumo e produzione del vacuo, senza ledere gli interessi del capitale, sempre meno indagabile sotto il profilo di un nome e cognome, sempre meno ritraibile secondo i dati anagrafici di un volto o di un domicilio in cui trovarne la residenza. Di capitale priorità sparire in multinazionali, in società che combinano i loro tessuti linfatici rendendo impossibile lo scioglimento dei nodi,pena la perdita da parte di tutti coloro che, senza saperlo, sono confluiti nelle loro tessiture. Oggi non c’è nessuno che possa dirsi estraneo e libero da tali maglie, da tali infernali trame in cui le tecniche finanziarie decidono della vita e della scomparsa di forze lavoro dietro cui sono nascoste le vite di migliaia di persone, di milioni di ettari di superficie del pianeta. Ridisegnare il volto della terra è ridisegnare le sorti della vita e l’architettura si è dimostrata incapace di risolvere i temi nodali che assillano la società. I suoi sono gingilli con cui giocare a piccoli monopoli, come si faceva da bambini o come forse sono ancora gli uomini, purtroppo ancora così infantili da non comprendere che il destino dell’umanità è il destino di un uomo collettivo da cui non si può estromettere la mano di questo o quello, non si può allontanare il lezzo delle baraccopoli e delle discariche poiché abitiamo una zolla nel cosmo e la distanza è solo prossimità. Musei, centri congressi, banche, centri commerciali: sono solo una piccolissima specchiatura dell’essere uomini e spesso il miraggio dell’illusione di guardare da un punto di vista preferenziale annulla la possibilità stessa di vedere. Il passato, fatto mercato tanto quanto l’arte, anch’essa luogo del consumo e non della ricerca, non in-segna punti di vista e postazioni prospettiche capaci di mostrarci quale sia la via da praticare, ma solo la desolazione in cui la solitudine costringe a guardare ad una spettacolarizzazione della miseria e del degrado in cui, asfitticamente, è piombata la capacità umana di guardare e sognare la vita, sapendo che è solo questo che ci è, come al solito, consentito. [testo a cura di Fernanda Ferraresso]

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Autobiografia e riscrittura del Sé di Teresa Ferri

le due identità si crei una specie di frattura, che la grafia del sé è delegata a risanare. Una volta conquistata la fama e diventato personaggio pubblico, una volta indossati i panni di autore, lo scrittore è in un certo senso chiamato a un redde rationem, che lo vede contemporaneamente imputato e giudice di se stesso, prima che della valutazione altrui. È per questo che egli avverte l’urgenza di rettificare eventuali malintesi, di chiarire possibili dubbi, di correggere determinate opinioni, di emendare eventuali colpe: tutto ciò al fine di allontanare possibili sospetti e ricucire le discrepanze da cui percepisce contaminata la propria immagine. Presentarsi davanti a questo metaforico tribunale costituito in prima istanza dalla propria autovalutazione, insieme a una profonda e lucida conoscenza di se stessi, richiede un atto di coraggio, nonché un’esplicita professione di verità che, in quanto professione, mentre acquista una precisa realtà linguistica, non coincide tuttavia necessariamente con la realtà effettiva. Al linguaggio è insomma attribuito il compito di materiare l’immagine che si desidera offrire allo sguardo proprio e altrui e la scrittura è chiamata a modellare un composito ‘arazzo’ costituito di luci e di ombre, di realtà piacevoli e di verità sgradevoli, di eventi glorificanti e di altri meno soddisfacenti, che devono necessariamente trasformarsi in appaganti. A mo’ di stampo, la scrittura deve prestarsi ad accogliere sia le esigenze che ne motivano l’insorgere, sia gli scopi che

L’autobiografia

(dal greco, autós, “stesso”; bíos, “vita”e grápho, “scrivo”) è un genere letterario che si fonda sulla scrittura del Sé. Essa è – come ha opportunamente sottolineato Philippe Lejeune, lo studioso cui si devono le pionieristiche e sapientemente articolate riflessioni su questo tipo di scrittura – il racconto retrospettivo, in prosa o, in casi rari, in versi, che chi scrive fa della propria vita e della propria personalità (cfr. Ph. Lejeune, Il patto autobiografico, trad.it. Bologna, Il Mulino, 1986). Chi si accinge a por mano alla stesura del racconto della propria vita ha la consapevolezza di aver raggiunto una certa notorietà e ha pertanto trasformato il suo nome proprio in nome d’autore perché, come scrive Lejeune,“non si è veramente autori che dal secondo libro, quando il nome proprio stampato in copertina diventa il «fattore comune» di almeno due testi diversi” (Op. cit., p. 35). L’autore viene a coincidere dunque con un nome di persona “identico, che assume una serie di diversi testi pubblicati. Diventa reale attraverso l’elenco delle altre sue opere che compaiono spesso sotto la dicitura: «dello stesso autore»” (Ibidem). È dunque la propria bibliografia, o l’intera produzione, a conferire realtà autorale a chi scrive o si esprima in una qualsiasi altra forma artistica. E non necessariamente, né sempre è così scontato che la realtà autorale dello scrittore, dell’artista, coincida con la realtà esistenziale dell’uomo. Anzi, è più facile che si verifichi l’esatto contrario e che tra 84 VDBD – n. 2 – nov.2008


l’autobiografo intende raggiungere, per cui è necessariamente costretta a mediare tra le domande, i dubbi da cui si origina e le certezze da manifestare. Paludata della superba consapevolezza autorale, essa procede tra occultamenti deliberati e disvelamenti strategici, mentre tra le sue pieghe più riposte si acquatta il proteiforme magma significazionale che la stessa provvederà a filtrare attraverso i suoi accorti dispositivi stilistici e le sue mirate strategie argomentative. Tuttavia poiché neppure l’io autorale possiede interamente quella ‘verità’ che il linguaggio dovrebbe tradurre o camuffare e quindi proiettare sulla pagina bianca dopo oculata analisi, né è del tutto in grado di operare una selezione definitiva all’interno di una materia di cui gli manca la conoscenza completa, è possibile che nel corso del processo di scrittura l’autore metta involontariamente allo scoperto schegge, frammenti, indizi che, pur nella loro umbratile parzialità, finiscono per tradire la sua fiducia di autobiografo, arrogantemente chiuso nella convinzione di dominare appieno quel mezzo, che per definizione è infedele. Per questo motivo è possibile che la stessa scrittura, tesa a ordire il suo oraziano monumentum aere perennius, ovvero una rappresentazione più durevole del bronzo da consegnare all’eternità, e perciò volta a ricercare all’interno del proprio laboratorio stilistico le risorse estetiche più convincenti, trascuri rapsodicamente la significazione da mascherare o da esibire e invece, rincorrendo i propri miraggi formali, si lasci sfuggire anche minimi segni-spia, che lasciano quindi intravedere al lettore esterno lampi di ‘vero’. Con l’operazione autobiografica l’autore viene a coincidere con il narratore e con il personaggio principale della narrazione: si produce dunque una sorta di

circolo chiuso, una circolarità rifranta, speculare, che rende questa scrittura profondamente narcisistica, e pertanto deformata. Alterata, contraffatta dal processo di rifrazione, la scrittura autobiografica finisce per compattarsi in una serie di tessere, che specularmente, attraverso citazioni esplicite o implicite, mediante travestimenti intenzionali o innocenti, ordiscono una tela di rimandi testuali ed extratestuali. Essi sfidano il lettore a una specie di ‘giuoco a rimpiattino’ in cui egli è destinato inesorabilmente a perdere, qualora pretenda di trovare la verità della significazione mediante la rincorsa disperata dei contenuti manifesti. A una scrittura deformante corrisponde necessariamente un significato alterato, una verità che, proprio perché riflessa, si scrive ingannevole e menzognera, tanto più che il linguaggio, il segno stesso è arbitrario, e la parola letteraria è solo rappresentazione, finzione (nell’accezione etimologica del termine) di quella realtà che mira a inscenare sul testo. Aggirarsi all’interno di questo laboratorio sperimentale del sé tradotto in scrittura non pone dunque soltanto problemi di ordine stilistico, non ci costringe cioè a interrogarci unicamente sul come questo sé venga riflesso sulla pagina, ma ci impone anche di assumere un atteggiamento di sana e corretta distanza rispetto all’immagine che troviamo lì riprodotta, specie se si tiene costantemente presente il fatto che proprio sulla distanza, sia cronologica che psicologica esistenziale, opera qualsiasi autobiografo. Infatti parallelamente al processo di identificazione tra autore, narratore e personaggio, si verifica anche, da parte della scrittura, un’interessante rivisitazione della nozione di tempo in quanto soggetto 85

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davvero, da ciò che è realmente accaduto. Il contenuto della narrazione autobiografica è destinato quindi a configurarsi come soltanto umbratile parvenza di quel vero cui invece il narratore pretende di aderire appieno. Infatti, sottoposto come risulta, da un lato, alla rivisitazione compiutane dallo scrittore allo scopo di riscuotere ammirato e convinto consenso da parte dell’interlocutore, dall’altro al clemente sguardo retrospettivo del ricordo, tale contenuto finisce con il dissolversi tra le fitte e accecanti nebbie di un passato dove è difficile distinguere il vero dalla sua illusoria, finzionale rappresentazione. Ed è proprio da una lontananza siffatta che le parole di Narciso arrivano al lettore, con cui l’autobiografo deve necessariamente redigere, in maniera più o meno palese, un contratto fiduciario, quel “patto di lettura” lejeuniano, la cui assenza rischierebbe di compromettere l’intera operazione. Qualsiasi scrittura autobiografica pertanto finisce per configurarsi come intervento deformante su quella vita di cui pretende di offrire una lettura retrospettiva e veridica e così si costituisce come una rappresentazione arbitraria e alterata di un reale che richiede un’azione di restauro per poter essere esibito al pubblico, dal quale evidentemente si attendono determinate risposte. Muoversi tra gli splendori e le miserie inscenati ad arte dall’autobiografo richiede un sapiente dosaggio di scetticismo e di fiducia in quello che si va a leggere, pena la partecipazione involontaria a un giuoco di cui si ignorino condizioni, regole, finalità e premio conclusivo, una partita di cui è prevedibile un unico esito, l’ovvia inattendibilità e opinabilità dei risultati e, con esso, lo scacco finale del lettore. L’operazione autobiografica dunque, attraverso la relazione che si stabilisce tra

e oggetto della narrazione finiscono con il convivere all’interno di un récit che, essendo appunto retrospettivo, non può non coinvolgere la memoria e i vari processi che la governano e condizionano (di distanza, di censura, ecc.). Infatti lo iato temporale da un lato e l’atteggiamento, tipicamente difensivo, che caratterizza l’atto memoriale dall’altro fanno sì che il materiale estrapolato dalle tenebre del passato risulti necessariamente deformato rispetto alla realtà dell’evento ricordato. Quando l’autobiografo si accinge a questa rivisitazione retrospettiva della propria esistenza e al successivo atto scrittorio sottopone il proprio ieri a un attento vaglio, anche censorio, per consegnarlo all’hic et nunc della scrittura. Dovendo trasformare il passato in presente, egli è chiamato a intrecciare un rapporto anomalo con la categoria temporale, relazione che già da sola sarebbe sufficiente a inficiare l’attendibilità del racconto. Al di là di qualsiasi pur leale intenzione di partenza, è il ricordo dunque a condurre il suo giuoco e si sa bene che molto spesso il magma memoriale è sottoposto a operazioni di rimozione, anche involontarie, tese a salvaguardare da possibili disagi colui che ricorda, il quale diventa vittima inconsapevole di tale strategico comportamento difensivo (cfr. Teresa Ferri, Le parole di Narciso. Forme e processi della scrittura autobiografica, Roma, Bulzoni, 2003). L’autobiografo insomma cerca di rimettere insieme le tessere di un puzzle secondo combinazioni nuove e ardite che si avvalgono del materiale memoriale senza tuttavia trascurare di ricorrere all’ausilio dell’immaginazione, che a sua volta obbedisce a ineludibili imperativi tesi a forgiare un insieme dove sarebbe azzardato distinguere con certezza l’operato del desiderio da ciò che è stato 86 VDBD – n. 2 – nov.2008


chi scrive e i vari tempi esistenziali con cui lo stesso deve confrontarsi, riesce a contenere in sé, simultaneamente, passato, presente e futuro, proprio come è tipico della letteratura (Cfr. T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano, Mursia, 1971, pp. 93-101) . Infatti, come si è detto, nel passato si situa l’oggetto della narrazione, nel presente l’atto della scrittura e nel futuro si collocano l’atto della lettura e il concretarsi dell’immagine inedita dell’autobiografo, in seguito alla cooperazione testuale tra autore e lettore. Secondo Jean Starobinski è lo stile a farsi segno di questa relazione e così puntualizza: “Ogni autobiografia [...] è una autointerpretazione in cui lo stile è il segno della relazione tra “chi scrive” e il proprio passato, nel momento stesso in cui manifesta il progetto, orientato verso il futuro, di un modo specifico di rivelarsi all’altro” (cfr. Lo stile dell’autobiografia, in L’occhio vivente,. Studi su Corbeille, Racine, Rousseau, Sthendal, Freud, trad.it., Torino, Einaudi, 1975, p. 205). Si tratta dunque di uno sguardo continuamente in movimento tra ciò che è stato e ciò che è e ci si dispone a essere per cui, cambiando la prospettiva, lo stesso contenuto della narrazione subisce una inevitabile trasformazione, in maniera più o meno consapevole da parte dell’autobiografo. Se dunque il contenuto è soltanto un miraggio, che rischia di risucchiare il lettore all’interno di una seducente spirale di mascheramenti e confessioni tattiche, di menzogne e verità, non restano che l’aspetto formale e un’attenta analisi testuale a poter consegnare all’indagine dati meritevoli di considerazione. Ordito di intenzionalità recondite e fini manifesti sapientemente intrecciati, l’operazione autobiografica finisce per consegnare al lettore il racconto di una

vita rivista e corretta in funzione di un determinato risultato. Infatti chi si accinge a ordire il racconto della propria esistenza sa già, più o meno coscientemente, dove vuole arrivare, qual è l’immagine di sé che intende inscenare, quale situazione personale, quale ferita avverte di dover sanare nel corso di questo processo contemporaneamente privato e pubblico. Tale consapevolezza si coniuga necessariamente con una conoscenza e un’accettazione e/o rifiuto di sé, che costituiscono l’enciclopedia previa e imprescindibile in dotazione dell’autobiografo. Egli ha l’esatta misura dei propri difetti e dei propri pregi e altrettanto bene conosce tutto ciò che di sé gradisce e predilige e quello che invece ricusa del tutto o parzialmente: su questo materiale egli lavorerà non solo per consegnare all’autore che vive in lui l’oggetto magico dell’eternità, ma anche per soddisfare le prevedibili attese del suo lettore o per falsificarne e rovesciarne le certezze. Così egli tenderà a sottolineare quegli aspetti che di sé più lo gratificano, mentre sarà portato a mitigare, a sfumare o a cancellare del tutto altri da cui sente compromessa la propria immagine. La scrittura autobiografica tesse pertanto la sua trama narrativa attraverso un fine giuoco di simulazioni, raramente manifeste, in cui gli sfidanti lottano ad armi impari, in quanto il premio finale non possiede la stessa valenza per l’autobiografo e per il suo lettore. Chi decide di affrontare il percorso autobiografico da un lato dunque lancia una sfida a Cronos e ai suoi rigidi imperativi, delegando la scrittura a scardinare alchemicamente lo iato che c’è tra passato e presente per riattualizzare eventi, azioni, desideri e fattezze irrimediabilmente mummificati tra le 87

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pieghe del tempo, dall’altro è costretto a operare una sorta di rito di morte nei confronti del proprio Sé di una volta per poi ricrearlo, riscriverlo a immagine e somiglianza delle proprie esigenze. Del resto se si parla di rifrazione e di specularità, si allude a quel dionisiaco oggetto magico che è lo specchio e a un soggetto che lì ammira o deplora le proprie fattezze sino a morirne, come Narciso, l’illustre, mitico epigone. Ed è proprio da un irremovibile bisogno narcisistico di guardarsi nello specchio della propria scrittura con fattezze rimodellate in maniera tale da uscire soddisfatti e appagati dal processo speculare che si origina la seduzione autobiografica e non solo dalla necessità di appropriarsi dell’eternità. L’autobiografo compie pertanto una sorta di magia alchemica e un gesto quasi demiurgico: trasforma il passato dell’evento ricordato in presente dell’atto di scrittura e in futuro dell’atto di lettura e,

contemporaneamente, riscrive, ri-crea il suo Sé. Il tempo e gli avvenimenti di ieri, affidati alla rappresentazione narcisistica, vengono necessariamente riscritti in termini compensatori e gratificanti, mentre non si può escludere che nel testo si apra anche una serie di ‘vuoti’ più o meno intenzionali. Demiurgico atto creativo, la scrittura autobiografica è probabilmente quella che, più di ogni altra, sfida il Creatore per antonomasia, in quanto viene a forgiare un’esistenza parallela e alternativa a quella reale, per costituirsi come rinascita deliberata e autonoma dalle proprie ceneri, tramite un abissale atto di superbia in cui a Dio è assegnato, spesso e non sempre, soltanto il ruolo modesto di testimone. E questa vita, che si racconta attraverso l’atto intenzionale dell’autobiografo, si disegna come infinita opera aperta, continuamente sottoposta a nuove riscritture nel corso dei vari processi di lettura.

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Meglio umorista che commercialista di Francesco Di Domenico

“Per errore, restò chiuso, quella volta, nella nostra camera a gas, uno delle SS. Morimmo ridendo.”

Questa frase del grande Marcello Marchesi riassume il senso del grande lavoro che sta sulle scrivanie degli scrittori leggeri, quelli considerati a torto “di costume” o “umoristi”, quelli che devono circolare con la patente di “letterati di serie B”. È stato così per anni (in Italia, beninteso) anche per gli scrittori noir, i giallisti. Poi con l’avvento nell’ultimo ventennio dei vari Camilleri, Lucarelli, Carofiglio e del mio amico Maurizio de Giovanni, i giallisti hanno vinto lo “scudetto” e sono saliti in serie A (viste anche le vendite). Gli umoristi no. Sono rimasti relegati sugli scaffali di categoria, a meno di non chiamarsi Stefano Benni o Daniel Pennac; perfino di Woody Allen, il grande fustigatore psicologico delle frustrazioni della borghesia americana di fine ‘900, ho trovato copie relegate su mensole con la dicitura “Umorismo”. Quando qualcuno mi chiede (e non dovrebbe): “Lei che genere di scrittura fa?” ed io rispondo “Umoristica”, la gente sorride, non perché pregusti già la bontà di qualche mio scritto, ma perché pensa (senza dirlo): “Vabbuò, questo scrive barzellette!”. Inutile scomodare Pirandello: il grande siciliano oggi si troverebbe a disagio in una società già rovesciata ed umoristica di suo, dove tutte le espressioni del vivere, dal giornalismo alla politica, passando per la società civile (tv, radio, pubblicità, economia, linguaggio comune) hanno raggiunto livelli di tale parossismo che una persona incline al sorriso ed all’ironia potrebbe morire dalle risate solo svegliandosi al mattino, guardandosi intorno, e facendo avverare un vecchio slogan delle manifestazioni della protesta studentesca bolognese del ’77: “Ah, ah, ah, sarà una risata che vi seppellirà”. Scrivere con umorismo è come avere il “coraggio” di Don Abbondio: se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Ti siedi alla macchina da scrivere perché qualcosa ti ha fatto sorridere, e 89 VDBD – n. 2 – nov.2008


già pregusti il percorso, sai dove vai a parare e soprattutto ti stai divertendo pensando a chi far leggere le tue surreali fandonie; non stai pensando ad un libro da piazzare su uno scaffale alla Feltrinelli, che sarà letto da sconosciuti che non vedrai mai sorridere, no. Stai pensando agli amici e al loro sghignazzo, quello che ti rende felice. Poi se viene un discreto successo e vendi, ti fa piacere, ma essenzialmente vorresti guardarli in faccia i tuoi lettori, perché sei un umorista e vuoi veder ridere. Henri Bergson asseriva a proposito: “Il riso cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano”. Lo scrittore comico può essere, talvolta, considerato un calvinista, sempre pronto a cercare il rovescio delle cose; uno che contesta lo statu quo irridendolo, un bastian contrario, un indignato perenne che con l’ironia e il sorriso comunque cerca di smuovere lo stato di “cose presenti”. Daniel Pennac dice: “L’umorismo, irriducibile espressione dell’etica”. Può accadere che l’autore si accanisca sul “potere” e a senso unico, ma un umorista autentico non ha frontiere e spazia su tutto quello che può contribuire al buonumore e all’autoironia: non può essere considerata seria una persona che usa lo spirito solo verso gli altri, quello è tout court un cattivo. Woody Allen, quando dice: “Il mio unico rimpianto è quello di non essere un altro”, depone una epigrafe enorme sulla scrittura comica, o quando afferma: “A scuola mi esclusero dalla squadra di scacchi a causa della mia statura”. Si comincia con l’autoirrisione, per poi passare allo scandaglio delle attività umane, dell’inutilità di molte di esse, fino alla corsa superflua verso un progresso sovente inutile. Molti scrittori diventano umoristi per caso, o quasi. Accadde a Jerome K. Jerome che nello scrivere una guida di viaggio per escursionisti di fine Ottocento, si ritrovò con “Tre uomini in barca” venduto in centinaia di migliaia di copie; ma bisogna ammettere che lo stile brillante e sornione del grande Jerome lo predestinava a questo successo. Una grande quantità di personaggi della storia sono stati degli eccellenti sornioni, caustici, di battuta pronta, e sono convinto che la loro intelligenza acuta li avrebbe sicuramente portati ad ottime prestazioni letterarie se solo ci avessero pensato, l’esempio principe che salta alla mente è quello di Albert Einstein. Uomo di formidabile ironia e umorismo innato (Gran brutta malattia il razzismo. Più che altro strana: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri: ). Forte della sua intelligenza, era dotato di una robusta autoironia. Molti conoscono la sua leggendaria risposta alla domanda su come sarebbe stata combattuta la III guerra mondiale (“...non lo so; la quarta sicuramente con le clave.”), ma ne ha avuto per tutti, specialmente per i suoi colleghi livorosi. Di Max Planck - suo autorevole collega - disse che non capiva nulla di fisica perché durante l'eclissi del 1919, era rimasto in piedi tutta la notte per confermare una teoria. «Se l’avesse capito davvero avrebbe fatto come me e sarebbe andato a letto ». Il grande Albert era solito produrre anche un umorismo involontario. 90 VDBD – n. 2 – nov.2008


Appena avuta la residenza all’Istituto di studi di Princeton, qualche giorno dopo telefonò chiedendo del direttore Eisenhart, quando gli fu risposto che non c’era chiese di sapere dove abitasse Einstein. La segreteria naturalmente negò l’informazione, e lui, con un filo di voce disse: “Per favore, non lo dica a nessuno, ma il professor Einstein sono io. Sto andando a casa, ma ho dimenticato dove abito”. Ecco Einstein sarebbe stato un ottimo scrittore umorista. Ma lo scrittore comico è anche uno squisito intercettore dell’umorismo involontario, è dotato di una sensibilità diversa, forse anche allenata, a cercare l’iperbole nei fatti che incontra. E’ capitato a me stesso di sorridere ad un doloroso manifesto di lutto: “E’ morta FIOCCO ROSA”. Se l’improvvido tipografo avesse usato un tema meno anagrafico avrebbe potuto evitare l’esilarante effetto del grave annuncio. Molti altri esempi però sono di genuino umorismo senza artificio, tipo un simpatico funzionario (di non so cosa) apparso recentemente intervistato da una rete nazionale, dal fantastico nome di “Gustavo Ricevuto”. Gli anni ’60 sono stati una fabbrica d’intelligenze. Tutto è ruotato intorno all’eredità di Achille Campanile, il grande umorista surrealista del novecento: “L'umorista è uno che istintivamente sente il ridicolo dei luoghi comuni e perciò è tratto a fare l’opposto di quello che fanno gli altri L’'umorista è uno che fa il comodo proprio: è triste o allegro quando gli va di esserlo e perciò financo triste nelle circostanze tristi e lieto nelle liete”. Una figura formidabile, quella di Campanile; riconosciuta, come sempre, troppo tardi. Poi sono venuti gli altri. È venuto Dario Fo, l’affabulatore, il figlio dei grandi guitti e novellieri medievali. Sono apparsi Paolo Villaggio e Beppe Viola (“Lei è mai stato innamorato?”. “No, ho sempre fatto il benzinaio”), Stefano Benni e Gino & Michele e ancora il formidabile Paolo Rossi. Milano l’ha fatta da padrone, col suo surrealismo freddo. Il night club Derby è stato una fucina formidabile di scrittori umoristici che andavano a recitare i loro brani facendo cabaret. Poi è venuta la televisione che ha ucciso un po’ tutto. Molti scrittori, invece di fare il grande salto per tentare di passare dal racconto umoristico al romanzo pieno (estremamente faticoso per un umorista riuscire a tenere ritmo e percussione della battuta comica oltre le 50 pagine), si sono ridotti a scrivere battute, quasi barzellette, per i cabarettisti televisivi. Piccoli fenomeni isolati, come la brava Littizzetto, contano poco; c’è richiesta di letture brillanti e allegre ma vi è carenza di proposte (un autore sa che non arriverebbe mai al Campiello con un’opera comica). A Napoli, da una decina d’anni ci sono fermenti che fanno ben sperare. È operante il Laboratorio di scrittura umoristica “Achille Campanile” fondato da Pino Imperatore, che è anche un brillante scrittore (tra l’altro contattato dal Guinness per aver pubblicato tre libri umoristici lo stesso giorno), e co-diretto dal ludolinguista Edgardo Bellini.

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Il corso ha prodotto la prima antologia di umoristi napoletani (“Quel Sacripante del grafico s’è scordato il titolo”) ed ha sfornato, oltre ad autori che pubblicano con case minori, quattro scrittori che hanno fatto il grande salto con editori major: Massimiliano Virgilio, che sta pubblicando con Rizzoli; Paola Cannavale con Mondatori; la regina dell’horror italiano Simonetta Santamaria; Maurizio de Giovanni, l’astro nascente del noir che con “La condanna del sangue” (Fandango) è tra i cento libri più venduti. Quindi anche per fare gli umoristi ci vuole la formazione? Qualcuno obietterà: ma questi sono poi passati alla scrittura drammatica? Sì, ma ogni tanto ritornano alla loro matrice umoristica; come disse Albert Camus... Umh, effettivamente non ricordo cosa disse a proposito, ma avrà detto sicuramente una cosa sensata, almeno lui.

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(Foto di Paola Pluchino)

BALAUSTRE

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CRONACHE DI PASSIONE. Intervista a Paola Pioppi di Elisabetta Bucciarelli Paola Pioppi è corrispondente di nera e giudiziaria per Il Giorno e organizzatrice del festival La passione per il delitto, giunto alla sua settima edizione. Una maratona di autori internazionali e nazionali che quest’anno ha contato circa un’ottantina di ospiti. Oltre alle numerosissime e fidelizzate presenze del pubblico. Uno dei pochi appuntamenti importanti del nord Italia per gli scrittori di gialli e noir, ma non solo. Come è nata e quando l’idea della Passione?

affondano in vissuti diversi rispetto agli uomini. Quanto alla scrittura no, non credo che esista necessariamente una connotazione in questo senso. Abbiamo ormai letto parecchie autrici che si esprimono attraverso stili e temi molto duri, così come autori che hanno scelto, con successo, di narrare da un punto di vista che sembrava tipicamente femminile, esplorando a fondo una psiche che non gli appartiene. Il giallo e il noir sembrano attraversare una stagione dorata. Dal tuo osservatorio privilegiato riesci a tracciare una tendenza a medio termine?

Questa manifestazione esiste da sette anni, partita da un ciclo di incontri con dodici autori di genere nel 2002, ma senza la prospettiva di strutturarsi come un festival. Il pubblico ha subito risposto bene: era il periodo del primo grande successo della narrativa gialla e poliziesca, e in Brianza nessuno aveva mai portato una carrellata di scrittori e scrittrici simile, per quanto oggi possa apparire esigua. L’anno successivo gli ospiti erano oltre quaranta. In seguito abbiamo iniziato ad introdurre le iniziative per bambini e a coinvolgere il territorio chiedendo la collaborazione di biblioteche, scuole, enti pubblici.

Un festival è una parentesi breve che una volta all’anno cerca di recepire e riproporre le tendenze di tanti mondi: quello dell’editoria, degli scrittori, dei lettori, ma anche delle librerie e delle biblioteche. Per mesi si cerca di capire cosa sta piacendo e funzionando, se c’è molto o poco tra cui scegliere, cosa si aspetta il pubblico. Buona parte della prospettiva si guarda dunque alle spalle, ma l’affluenza di pubblico che rimane alta, le aspettative per l’edizione successiva e le richieste continue di conoscere nuovi autori sono segnali positivi. E’ il sintomo che questa narrativa piace ancora, che non sta diventando ripetitiva e che rimane molto da dire e da esplorare. La valutazione, almeno la nostra, si ferma al periodo breve: la Passione avrà certamente un’edizione 2009, ma non saprei dire se tra cinque anni esisteranno ancora i

Uomini e donne che scrivono. Secondo te esiste una scrittura femminile? Credo che per molte scrittrici esista un punto di vista femminile a cui sono legate, la voglia di raccontare temi differenti o la capacità di costruire personaggi che 94 VDBD – n. 2 – nov.2008


presupposti per realizzare un festival come il nostro. Ovviamente me lo auguro, ma non sono in grado di dire se il pubblico continuerà ad attendere questo appuntamento o se comincerà a pensare di voler esplorare altri temi.

capaci di portare in una zona non metropolitana e non turistica, in una villa d’epoca per molti non facile da trovare, decine di nomi che stanno costruendo, anno dopo anno, la narrativa di genere italiana e internazionale. Penso che la visione di insieme abbia un forza che non si può paragonare al singolo successo di nessun autore, per quanto ci siano stati, nelle varie edizioni, momenti indimenticabili.

Sembra di poter dire che il giallo e il noir si stiano muovendo su tre linee principali: l’iperrealismo che muove appunto dai fatti reali. L’impegno sociale volto a smantellare crimini e misfatti. La pura evasione di trame leggere che sconfinano nel rosa. Quale aspetto ti è maggiormente congeniale e quale credi che il pubblico stia apprezzando di più.

Vale la pena di conoscerli davvero gli scrittori o danno il meglio di sé con le loro pagine? Ci fai qualche esempio. Quando si trova davanti al pubblico lo scrittore esce dal mucchio. Smette di essere un nome o una firma tra centinaia o migliaia, e diventa una persona che può inaspettatamente piacere o deludere, ma che non si dimentica. Diventa un volto, un insieme di espressioni, un racconto ulteriore che arricchisce la pagine del libro. Ci sono autori che vengono a Villa Greppi da anni, e che qui si sono costruiti un pubblico. In questo modo il libro non è più solo qualcosa che si sceglie in base alla trama, che si nota solo se il libraio lo mette in vista sugli scaffali, ma diventa un filo invisibile che si è creato tra lettore e autore, e che rimane.

Personalmente apprezzo la trama che parte dal dato reale ma senza sconfinare nell’iperrealismo, che diventa l’occasione per andare al di là della cronaca e del non detto, che sceglie la durezza quando serve e non si lascia condizionare dalla paura dell’affondo o del pugno nello stomaco. Credo tuttavia che il pubblico, o almeno il lettore medio che non sceglie solo narrativa di genere, apprezzi più la prima tendenza, storie non troppo nere, scritture che non sfociano in eccessi, magari con il passaggio che fa sorridere, o la denuncia che passa attraverso la descrizione caricaturale.

Letteratura, arte, gastronomia. Il tuo festival offre commistioni di parole, profumi, gusti e sensazioni visive. Quest’anno oltre ai classici salotti letterari hai proposto anche i brunch e gli aperitivi con l’autore. Come sono stati accolti dal pubblico?

Quale scrittore o scrittrice ha lasciato un segno indelebile (nel bene o nel male) al tuo festival e perché. Sarebbe facile fare un elenco di nomi celebri come Faletti, Deaver, Paco Ignacio Taibo, Lansdale, Chattam, Stella Duffy, Fforde o Dahl quest’anno. Io credo però che il segno indelebile lo abbiano lasciato sette anni di manifestazione realizzata con risorse economiche e umane minime,

Credo che siano stati l’iniziativa più apprezzata. Dopo sette anni abbiamo l’esigenza di differenziare la formula dell’incontro classico tra autore e pubblico, per non cadere nella ripetitività delle proposte. La situazione di 95

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convivialità piace molto, aiuta a creare un senso di intimità maggiore con l’autore, crea un ambiente accogliente che alla fine invoglia alla lettura del libro. Lo stesso discorso vale per l’arte, le mostre o i corsi, la musica, il mondo gastronomico coinvolto con iniziative sempre diverse: ogni anno la Passione si deve rinnovare, deve avere dei contenuti non ancora visti, che tuttavia non perdono mai di vista la narrativa e gli autori.

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libretto, una plaquette intitolata La lettura è crudele. Include due poesie tratte da Disturbi del sistema binario (raccolta pubblicata da Einaudi nel 2006), un’introduzione che scrissi nel 1990 per un’antologia e una risposta a un’inchiesta sulla lettura. Anche se il cuore del libro è “Uno strano ipertesto”: una poesia di undici endecasillabi, ciascuno dei quali diventa a sua volta il titolo di un’altra poesia.

Intervista a Valerio Magrelli di Marco Noce

Perché è crudele la lettura? Il titolo si riferisce alla sensazione di estraneità conturbante che si prova stando accanto a una persona che legge. Chi è immerso nella lettura vive uno stato di presenza-assenza, è un medium, un posseduto. Se ne va, è come se attraversasse un portale e finisse in un’altra dimensione spaziotemporale. Una volta hai parlato del testo poetico come una sorta di zombie: cosa morta pronta a tornare in vita quando il lettore, leggendolo, lo riattiva. Una delle poesie della tua ultima raccolta, Disturbi del sistema binario, parla della riesumazione del cadavere di Petrarca a opera di uno studioso, il professor Vito Terribile Wiel Marin che, scrivi, “… fruga anche dentro il cranio / di Petrarca, casomai vi restasse una quartina / avanzata, / una quartina di tenebra. / Terribile è l’amore di chi legge / e non vorrebbe smettere di leggere / nemmeno fra le ossa di chi scrisse”. Il titolo è Misery non deve morire, dal romanzo horror di Stephen King. La lettura, per te, ha sempre una risonanza lugubre.

“La penna non dovrebbe mai lasciare / la mano di chi scrive”. Firmato Valerio Magrelli, 1980: sono i primi due versi di una delle poesie di Ora serrata retinae, la raccolta che chiamò il poeta, allora ventitreenne, al centro del panorama della nuova poesia italiana. A ventott’anni di distanza, quei versi, per Magrelli, sono ancora veri. La penna non lascia mai la sua mano: nemmeno quando legge. E non per modo di dire, come vedremo. Proprio sulla lettura, o meglio sulla figura del lettore, lo abbiamo intervistato. Magrelli, si scrive affinché si legga. Ma si scrive anche perché si legge. O no?

E’ vero. Il momento in cui ho preso coscienza di quest’alone di minaccia, di questa incombenza della morte, è stato estremamente liberatorio. E’ accaduto più o meno all’altezza di Esercizi di tiptologia,

E’ curioso: per una felice coincidenza, proprio ieri (venerdì 14 novembre, ndr) è uscito, per le edizioni D’If, un mio 97 VDBD – n. 2 – nov.2008


intorno al 1992: in quella raccolta c’è una prosa, “Moore bianco”, in cui associo i gessi di Henry Moore al sarcofago di Chernobyl, l’incamiciatura che fu realizzata attorno al reattore nucleare dopo l’incidente. L’opera d’arte mi è apparsa, da allora, come il lutto della bellezza. Riguardo “Misery non deve morire”, che fra l’altro è proprio una delle due poesie inserite nella plaquette, più che al romanzo di Stephen King il riferimento è al film che ne fu tratto: non ho mai letto King, per quanto riconosca notevolissimo il suo immaginario.

Mentre scrivi hai in mente il tuo lettore? No, assolutamente. Non potrei. Credo, anzi, che sia la presenza o meno del lettore il discrimine fra letteratura e mercato. Al lettore penso invece quando scrivo libri di critica: mi chiedo sempre se ciò che ho detto è sufficientemente chiaro, se ogni passaggio è motivato, se la connessione fra i concetti è comprensibile. Tu che tipo di lettore sei? Un lettore collezionista, un ossessivo. Dipende anche dalla mia formazione bellica: sono stato un grande giocatore di Risiko, così ogni tanto lancio delle campagne di lettura; accumulo truppe ai confini finché, quando sono pronto, sferro l’attacco. Ora sto leggendo tutto Ariosto. L’inverno scorso ho affrontato Lucrezio. Prima ancora, Tasso. Colmo le mie lacune.

Film e libro raccontano la storia di una lettrice invadente al punto da sequestrare il romanziere pur di impedirgli di completare il capitolo in cui il protagonista morirà. Io, in questo caso, ho una posizione privilegiata, come il medico malato: sono scrittore, ma anche lettore. Prima dicevi: si scrive perché si legge. Non è detto. Esistono anche scrittori che leggono poco: un mio studente, per esempio, è stato a casa di Agota Kristof: nella sua libreria ci sono pochissimi titoli, praticamente solo i suoi libri in tutte le traduzioni. Pare che, quando le sia stato fatto il nome di Kafka, abbia risposto: “Sì, mi hanno detto che abbiamo qualcosa in comune”. Di norma, però, lo scrittore è anche un lettore. L’anno scorso ho pubblicato un altro libro sull’argomento: Il lettore ferito. Sono cinque saggi. Uno è dedicato a un racconto di Lamartine in cui un giovane aristocratico francese si innamora della figlia di un pescatore di Ischia e la conquista proprio grazie alla lettura. C’è un passo in cui, mentre lui legge, lei – analfabeta - avvicina la bocca alla bocca di lui, come per baciare la fonte di quel flusso di parole, e reggendosi su un braccio barcolla, scrive Lamartine, “come un gladiatore ferito”.

Sempre stato così metodico? Sempre: è il mio tratto distintivo. Come nell’alpinismo, anche in letteratura esistono gli Ottomila, le montagne più alte, i libri da espugnare. Il mio sogno è leggere tutti i Memoirs di Saint Simon: otto volumi della Bibliothèque de la Pléiade. Un’impresa favolosa, leggendaria. Conosco una persona che conosce uno che li ha letti tutti. Io avevo i primi tre volumi, ma me li rubarono dalla moto. Quindi, immagino, per te gli incontri con i libri non sono mai casuali: leggi in base a una strategia. Anche se magari ti capita, per poter poi conquistare l’Asia, di dover prima conquistare l’Oceania.

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Esattamente. Poi non sempre le cose vanno secondo i piani. Ho dovuto iniziare per sei volte Oblomov, di Gončarov, prima di imboccare la strada giusta. Non voglio rischiare di trovarmi in cassa dei bond argentini: per questo non ho letto, ad esempio, Le correzioni di Jonathan Frenzen, troppo rischioso affrontare mille pagine senza le adeguate garanzie. Idem per Le benevole di Jonathan Littel, sul quale ho ricevuto autorevoli pareri positivi, ma anche diversi negativi. Non è una forma di snobismo, è solo che non vado mai alla cieca. Ho letto Philip Roth, certo. Ma mi sono scoperto totalmente refrattario, per esempio, a David Foster Wallace: ho comprato i suoi libri, dai romanzi ai saggi, ho tentato diverse volte di leggerli, ho perfino partecipato a diverse maratone di lettura. Niente da fare. Invece ho dedicato dodici anni alla lettura di tutto Dante: la Commedia, canto per canto, con la penna in mano.

basterebbe perché potrebbe finire perché voglio poter scegliere. Ma se ritrovo senza penna, divento matto: depredato qualche sala d’attesa, pur procurarmi fosse pure un pennarello.

Pianifichi anche l’incontro con i poeti? Per i poeti vale l’opposto dell’esperienza della refrattarietà: quando scopri una voce cui aderisci totalmente, sillaba per sillaba, come è successo a me con Mandel’štam, con Michaux o con certe cose di Caproni, il senso di fraternità improvviso e inebriante ti provoca una sorta di elettrochoc. E’ una scossa che ti percorre il corpo. Poi l’incontro può avvenire per i motivi più vari. Mandel’štam, ad esempio, l’ho scoperto grazie a un’amica che stava traducendo Jaccotet: leggendo le sue traduzioni mi sono imbattuto in una citazione che non conoscevo, dei versi che mi hanno letteralmente folgorato. L’ho chiamata per chiederle di chi fossero: erano di Mandel’štam, che colpevolmente non avevo mai letto. Ho subito comprato una sua raccolta, quella tradotta da Serena Vitale per Garzanti. Poi ho comprato anche il suo bellissimo Viaggio in Armenia. Da lettore, piuttosto, ecco, ho un rimpianto.

La penna? Senza, non riesco a leggere. Nel senso che sottolinei? Certo. Ho un sistema di richiami da una pagina all’altra: quando individuo un tema, lo seguo nel suo evolversi nel corso del testo, proprio nel suo tessersi, ne seguo il tracciato. I miei libri sono, come dire, abarthizzati.

Quale? Non ho mai riletto un libro se non per lavoro. Eppure vorrei rileggere, che so, Proust. O Tolstoj.

Insomma, evidenzi le isotopie. Scrivi anche sui libri di poesia?

Chi te lo impedisce?

Certo. All’inizio, da ragazzo, usavo la matita e poi cancellavo tutti i segni con la gomma. Poi mi son detto: in fondo i libri li compro, sono miei, non devo renderli, quindi perché rinunciare ad appropriarmene, ad annettermeli? Non esco di casa senza avere due libri, per essere attrezzato in caso di fila: uno non

Non me lo posso permettere. Sarebbe piacere puro, ma io sono un puritano: prima di tutto ci sono i libri ancora da leggere. Con la musica, invece, è diverso: finisco per ascoltare sempre gli stessi cd. Una volta che metto su le Variazioni Goldberg di Bach o il Don Giovanni di Mozart non ho bisogno d’altro. Ah, ecco, 99

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e mi ho di


in poesia ultimamente ho letto Houellebecq: può essere irritante, certamente, fastidioso. Ma è geniale. Una sorta di Baudelaire straniato.

o, al contrario, che riscrivendole non si poteva che peggiorarle. In questo caso, riscrive il sonetto, composto originariamente in alessandrini, utilizzando gli ottonari.

A proposito di lettori con la penna, e quindi di scrittori che scrivono perché hanno letto, so che stai lavorando a un libro in cui insegui le tracce di un sonetto di Baudelaire nelle opere di dieci autori.

Quasi un emblema del lettore invadente, parente della lettriceaguzzina di Misery non deve morire. Mi ha incuriosito, però, l’accenno a Nabokov: ne parliamo?

Sì. Uscirà fra un annetto per Laterza. Il sonetto è Recueillement. Gli autori sono Perec, che lo riscrive nel suo La Disparition, il libro di 450 pagine in cui non compare mai la lettera “e” (quindi, al posto di “crépuscule”, Perec usa “soir”) Beckett, Céline, Houellebecq, Queneau, Michaux, Colette, alla quale mi sono sorprendentemente affezionato, Valery, che ne parla in uno dei suo saggi sostenendo che il primo verso è l’esempio più alto di poesia per poi aggiungere che negli altri non mancano delle debolezze, Nabokov, cui è dedicato il capitolo più decostruzionista, e Jean Prévost, che morì ucciso dai nazisti e fu un rappresentante di un tipo di critica letteraria delirante che definisco eugenetica e ha, se vogliamo, una lunga tradizione che comprende Dionigi d’Alicarnasso e Plinio e che è stata in auge a lungo: sostanzialmente Prévost riscriveva le poesie di cui si occupava, e lo faceva o per dimostrare che non erano valide e quindi potevano essere migliorate,

Il protagonista di Lolita, spesso si tende a dimenticarlo, è un professore di letteratura francese che sta per consegnare un’antologia di poesia francese dell’Ottocento destinata agli studenti anglofoni. La mia idea è che durante tutta la vicenda Humbert Humbert non faccia che ragionare su quel testo, il cui primo verso inizia con queste parole: “Soi sage, ô ma duleur”. A un certo punto, Humbert si rivolge a Lolita, il cui vero nome è Dolores, dicendole “Soi sage, ô ma Lolita”. All’elenco di autori che prendi in esame si potrebbe aggiungere un undicesimo nome: il tuo, visto che sul numero di “Poesia” del febbraio scorso c’è una tua composizione intitolata Raccoglimento. E’ la mia Baudelaire.

***

Raccoglimento Mia debolezza, debolezza mia, ma che devo fare con te? Ho cinquant’anni e tremo quando tuona, e sbaglio ancora posto come quando sbagliai banco all’asilo. Ho un corpo trapunto da graffe, il sonno come un campo di macerie, 100 VDBD – n. 2 – nov.2008

risposta,

dissimulata,

a


la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi, e in questo Grande Sfascio l’unica intatta resti tu, mia ferita, mio Graal, codice a barre di un estraneo che è leso, che è fallato, che è costretto a essere me. Mia debolezza, talpa del nemico, creaturina indifesa che mi rendi indifeso, il solo, vero premio della morte sarà saperti morta insieme a me, mio motore, mio orrore, mia consustanziale sconfitta. [Valerio Magrelli]

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Questo mare non finirà di urlare di G. Caprilli Sandra Palombo ne parla con Manrico Murzi

E’ uscito per le edizioni Liberodiscrivere di Genova il libro di Giulio Caprilli, Questo mare non finirà di urlare, curato dal poeta giramondo Manrico Murzi al quale abbiamo chiesto di raccontarci il percorso che lo ha portato a pubblicare un’ampia selezione dell’opera edita e inedita del suo amico Caprilli, scomparso nel 1960.

Hai la testa in mongolfiera e un occhio a levante. L’altro mi guarda e sto seduto sul bordo d’occidente. Dove l’arcobaleno fa da ghigliottina e taglia a fette il cielo segheremo la testa del nocchiero per trenta stelle lucenti di prima grandezza. Giulio Caprilli 102 VDBD – n. 2 – nov.2008


S.: Manrico, quale senso ti fa l’ascoltare questi versi? M.: Un bagno di lirica freschezza, al mondo d’oggi impossibile! Sì, Giulio parla a se stesso, dandosi quel cenno distintivo di perpetuo fanciullo, teso verso quel che sta per apparire dal pezzo di cielo dove si leva il sole, portatore del nuovo che può meravigliare. Intanto, con un occhio sempre a se stesso, si vede seduto al limite del lago celeste dove le cose di questo mondo tramontano. Una delle molte tempeste è passata, nel cielo splende l’arcata con i colori dello spettro solare: all’animo di un figlio dell’arcipelago, quella apparizione evoca la mannaia e il voluto taglio della testa del nocchiero della nave pirata che ognora minaccia la sua spiaggia interna! S.: In un’epoca in cui anche il libro è diventato un usa e getta e nelle vetrine delle librerie i titoli cambiano ogni settimana, è singolare imbattersi in un volume contenente scritti inediti di un poeta sconosciuto e morto giovane che si chiamava Giulio Caprilli. Questa operazione insolita e coraggiosa la si deve al poeta Manrico Murzi e all’editore di Liberodiscrivere, Antonello Cassan di Genova che l’ha sostenuta e voluta nella collana di poesia Libero di Stile e uscita con il titolo Questo mare non finirà di urlare - Poesia e Politica nel luglio 2008. M.: L’amicizia è un vincolo duraturo che la morte non riesce a spezzare. Quel che mi è rimasto di Giulio, oltre la memoria, sono i suoi scritti connotati da un forte legame, duraturo appunto, con il continuum, con quel che non muore. Il suo canto è limpido come acqua appena sgorgata; i suoi sentimenti, le narrazioni hanno il dono del sempre-presente; le sue pagine politiche sono attuali, porgendosi alla riflessione degli odierni tribuni che praticano piazze o aule parlamentari. I libri spazzatura invadono le vetrine dei librai, pagine con parole che non vedranno il futuro, anche se oggi arricchiscono furbi e saltimbanchi. Coloro che amano il costante, troveranno in Caprilli lo slancio imperituro. Il suo libro non è amico del quotidiano, ma di ciò che si cristallizza nel dolore, dando poi vita all’avventura poetica. Che l’editore Cassan, il sindaco di Portoferraio con i suoi assessori, abbiano avuto sensibilità nel sostenere questa operazione da te definita insolita e coraggiosa, è vivo segno della validità dell’opera di Giulio. 103 VDBD – n. 2 – nov.2008


S.: Nato nel 1928 a Portoferraio, Giulio Caprilli si spense a Firenze per una grave forma di leucemia, all’età di 32 anni, nel luglio 1960, un mese dopo aver pubblicato per l’editore Bino Rebellato una piccola raccolta poetica dal titolo La testa in mongolfiera. Intellettuale inquieto e curioso, spirito libero, incapace di scendere a compromessi sin da giovanissimo, al ginnasio conobbe Manrico Murzi con il quale s’intese subito, tanto che i due ben presto, per la loro mal-sopportazione delle regole, dovettero lasciare l’isola per continuare gli studi in continente. M.: Oh, la libertà del pensare, del dire, anche con una certa anarchia bevuta nella bettola di Libertaria, al suono del mare contro la banchina della darsena! Giulio mi ha trascinato nei sentieri dell’esilio e della solitudine: i due modi di essere, humus dei poeti; con l’isola che, lontana, diventa sempre più oasi agognata. S.: Nonostante la distanza e la diversità di vite, l’amicizia tra Murzi e Caprilli continuò e alla fine dei suoi giorni Caprilli lasciò, all’amico lontano, le sue carte e questo saluto: Il cuore di un morto è freddo, amico. E tu non puoi riscaldarlo. Dimenticati di me, se non ti è molto difficile dimenticare. Murzi non dimenticò e già anni fa fece leggere un racconto dell’amico, intitolato La Ritrattazione, al giornalista e scrittore Raffaello Brignetti che lo definì uno dei racconti più belli del dopoguerra; e riuscì a farlo pubblicare da De Luca di Roma assieme al suo racconto Daniele, nel 1972. La Ritrattazione chiude anche questa raccolta antologica Questo mare non finirà di urlare. M.: Quei versi non hanno mai smesso di toccarmi, mi hanno caricato di un impegno irrinunciabile: trasmettere la poetica e il messaggio politico di Giulio. Omaggio all’amicizia, certo, ma soprattutto onore al canto e al pensiero di un figlio che, pubblicato, aggiunge lustro alla sua Portoferraio. La Ritrattazione, arricchita dal racconto Daniele tracciante il mio sodalizio d’amicizia e letterario con Caprilli, non ebbe vita facile, appena uscita, e la sua diffusione fu ostacolata da Botteghe Oscure. Prese vita una vertenza giudiziaria, vinta dal Brignetti e seguita da un risarcimento danni. Anche questo evento meriterebbe riflessione. S.: Manrico, chi era Giulio Caprilli? Un poeta idealista, un anarchico sognatore o chi… M.: Un poeta in ogni sua manifestazione di vita. La sua anarchia consisteva nel fare e dire quel che un suo profondo senso etico gli suggeriva. Detestava tutto quel che alludeva al dettato dagli altri, alle spiegazioni del mondo e della vita imposte come lettura da imparare a memoria. Si muoveva inventando di volta in volta, con una libertà che affascinava me, ligio all’obbedienza e all’ordine prima che lo incontrassi. Era di certo un sognatore, senza paura di inciampare nel reale. S.: Nella prefazione definisci La Ritrattazione una profezia poetica che molti dovrebbero leggere. Ce ne vuoi parlare?

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M.: Potrei definire questo racconto un inno alla libertà, una ribellione che gli Italiani dovrebbero imparare per rompere con la sacrestia, con il proprio egoistico tornaconto, con la pratica della personalità e la fedeltà imbecille a concetti che, opprimendo il prossimo da amare, il debole da difendere, il diseredato da proteggere, danno falsa sicurezza e fasullo provento. Imparare: l’affetto per il mondo, la capacità di ascoltare e rispettare chi manifesta dissenso per un diverso modo di sentire e pensare. S.: Alcune sue prose poetiche, tra cui Paradisi adolescenti toccano punte liriche e surreali alle quali molti giovani scrittori di oggi vorrebbero arrivare. Tu pensi che se la sorte non fosse stata maligna, il nome di Caprilli avrebbe potuto aggiungersi a quello delle nostre glorie letterarie isolane del Novecento*? M.: Il suo lirismo di slancio nasceva dal dolore: è un fiore sbucato da un sottosuolo di sensibilità, di umori appena suggeriti ad un lettore attento. Lirismo proibito a un giovane d’oggi che riesce a bruciare ogni voglia senza che il sogno, il vagheggiare e la privazione precedano. Sono certo che con questa raccolta antologica Giulio, colonna troncata dal destino, entra a buon diritto tra le glorie isolane del Novecento. S.: Quale tra i testi presenti nel volume vuoi inserire alla fine di questa intervista per Via delle Belle Donne? M.: Da le donne dell’isola a pagina 121 del libro: «Sulle rampe del piazzale Michelangelo, Rosina cominciò a slargarsi le gonne con le mani aperte, e a farsi aria sotto il nylon che a quei movimenti si gonfiava e si alzava come una mongolfiera: e pareva sempre che d’un tratto si dovesse vedere qualcosa, perché io stavo più in basso e non riuscivo a badarla appresso, ma senza mai che nulla di ciò accadesse, per mancanza assoluta di aria. Lei allora si rigirava, mi allungava un braccio e con la mano in mano mi dava un colpo di rimorchio e mi rideva addosso con la bella bocca che aveva».

* Gaspare Barbiellini Amidei, Luigi Berti, Raffaello Brignetti, Oreste Del Buono, Carlo Laurenzi, Michele Villani …etc.

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Maria Occhipinti, una donna di Antonella Pizzo

Già dal precedente numero avevo voglia di parlare di WONDER WOMEN, in particolare avevo in mente di iniziare con una donna speciale, una donna che sento vicina, come fosse una mia parente, una vecchia amica, anche se in verità non l’ho mai conosciuta. La donna era Maria Occhipinti. Poi non se n’è fatto nulla, la cosa è rimasta nella mia mente per un po’ di tempo, fino a che non ci ho pensato più. Finito, dimenticato, scordato. E' accaduto qualcosa oggi, però, me l’ha riportata in mente.

C’è a Ragusa, alla fine della Via Roma, una vallata, alla fine della strada c’è una rotonda, pietra bianca e panchine, inferriata attorno, bambini che giocano, vecchi che chiacchierano fra loro e guardano i bambini giocare, se ti affacci ti godi la vista delle montagne e della valle, e giù, a sinistra, quella del cimitero. Ci passo spesso. La rotonda non aveva nome, era chiamata semplicemente “La rotonda”. Oggi passando ho notato, con grande mia sorpresa, che hanno dato il nome alla rotonda: “Maria Occhipinti”, e così sono qui a ricordarla. Maria Occhipinti, era nata a Ragusa nel quartiere “La Russia”. La Russia è un quartiere che conosco abbastanza, in quelle strade ho trascorso buona parte della mia infanzia. Negli anni 60 andavo spesso a giocare in quelle strade perché in Via IV novembre, una via che fa parte di quel quartiere e che in questo contesto ci 106

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interessa, c’era la scuola elementare che frequentavo. Il quartiere era chiamato La Russia perché era collocato in periferia e nell’allora parte alta di Ragusa, e soprattutto si chiamava così perché durante la seconda guerra mondiale, e nel dopoguerra, il quartiere era abitato in prevalenza da contadini ed operai comunisti. Gente abituata a lavorare sodo e che sudava per procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti. Abitavano nei dammusi, gli uomini andavano a lavorare e le donne stavano in casa, spesso sedevano davanti alle porte a vetri, e quando c’era freddo, se potevano, si riscaldavano col succetto di rame riempito di carbonella o di nuozzolo, ricamavano il cinquecento, il quattrocento, il punto antico o lavoravano all’uncinetto, alcune erano sarte, quasi tutte sapevano fare quasi tutto.

deturparono il candore e la freschezza della mia pelle. Mia madre non finiva di elogiarmi la bellezza di sua sorella Giovanna ed io mi sentivo profondamente infelice. Vedendo che le bollicine non scomparivano, piangevo, tante volte davanti allo specchio, mi credetti inguardabile e mostruosa, apparivo ai miei occhi come lo scarto dell’umanità. Allora desiderai disperatamente di essere bella, tanto bella da mettermi alla finestra e farmi ammirare da tutti, come un angelo, senza che nessuno potesse sfiorarmi. Erano gli anni che sognavo ad occhi aperti, ma i miei sogni erano diversi da quelli delle mie amiche. Le mie amiche volevano sposarsi per potersi comprare tanti vestiti e l’orologio da polso o avere dei bei bambini o per il piacere di passeggiare la domenica col marito a braccetto. Io invece volevo amare come una regina, vestirmi come una dea, girare il mondo, e, insieme con l’uomo amato, scoprire luoghi incantevoli, passare i nostri giorni sulle rive dei ruscelli, vicino alle cascate, sui prati fioriti, parlando di tutte le cose belle, cantando le canzoni dell’anima. Facevo quei sogni meravigliosi, forse perché la realtà era troppo diversa. Avevo una voce ingrata, stonatissima, ci vedevo poco dall’occhio destro, e invece di pensare a distrazioni e divertimenti dovevo fare la fila per l’acqua alla fontana e badare al forno e dedicarmi al cucito e al bucato. Per questo pensavo con terrore al matrimonio, alla maternità, ai molti figli, ero certa che non avrei resistito a fare tutto in casa. Io, così esile e già sofferente di cuore, sarei rimasta schiacciata sotto il peso di tante responsabilità e di tante fatiche.

La madre di Maria era bravissima a lavorare l’uncinetto e lavorava per mezza lira al giorno, intanto preparava il corredo per le sue tre figlie, il padre faceva il muratore, sapeva costruire i muri a secco tipici della Sicilia, era stato, però, costretto ad emigrare in Africa in cerca di fortuna. La famiglia era così povera che la nonna quando andava a messa non poteva pagarsi neppure la sedia e si inginocchiava a terra. Ma com’era Maria? Nel 44 Maria aveva 23 anni, era sposata da qualche anno ed era in avanzato stato di gravidanza. Ma lasciamo che sia lei stessa a raccontarsi e a descriversi:

(Una donna di Ragusa, Sellerio Editore)

Quando, in Sicilia, sbarcano gli alleati anglo americani, i siciliani credettero che la guerra fosse finita, invece si illusero, infatti nel dicembre del 44 i giovani fra i 18 e i 30 anni, in nome di Sua Altezza Reale Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno, furono invitati a presentarsi entro il termine perentorio di dieci giorni

"Dice mia madre che quand’ero bambina avevo un carattere mite e paziente. Spesso le compagne mi picchiavano ed io non sapendo difendermi andavo a sedermi sullo scalino della porta di casa e li, col pollice della mano sinistra in bocca, rimanevo delle ore, tranquilla, a succhiare, come per consolarmi della mia debolezza. A dodici anni ebbi “uno sfogo” sul viso, tante bollicine che 107 VDBD – n. 2 – nov.2008


al locale Distretto Militare portando la gavetta, il cucchiaio e la coperta. Il governo Badoglio aveva richiamato alle armi.

la cartolina in tasca, ma io ero decisa, il padre di mia figlia non lo prendevano né vivo né morto. Corsi sullo stradone. Era una giornata serena dopo una grande pioggia e le donne fuori dalla porta, al sole, facevano la calza. Il camion carico di giovani veniva avanti come un carro funebre. Fallito il rastrellamento notturno perché i giovani scappavano in campagna e andavano a dormire in casa dei vicini dove c’erano solo donne (e tutte si prestavano in quell’occasione senza i soliti pregiudizi, pur di salvare un figlio di mamma), le autorità avevano deciso di fare una retata, cominciando da in cima allo stradone. Prendevano tutti i giovani che trovavano nelle botteghe dei barbieri, dei calzolai, dei mastricarretta di quel quartiere popolare che chiamavano “la Russia”. Davanti al camion venivano le autorità di polizia, tra gli altri perfino il vicequestore di Catania, mi dissero.” (Una donna di Ragusa, Sellerio Editore)

In Sicilia insorsero tutti, fascisti e antifascisti, vecchi e giovani, donne e bambini, come un fiume in piena si riversarono nelle strade al grido di battaglia “Non si parte”. Maria era fra questi.

Dopo giorni di scontri violenti, che si allargarono a macchia d’olio in tutta la provincia e anche oltre, la rivolta fu repressa. Maria Occhipinti fu arrestata. Il gesto di Maria non fu dettato da un impulso momentaneo ma fu frutto di un sentimento antimilitarista da tempo radicato in lei. Maria, infatti, aveva provato sulla propria pelle quanto male facesse la guerra e di quanta fame e di quanto orrore era causa. Sapeva già di ingiustizie e di iniquità. Nel 1940 ingenuamente, aveva scritto una lettera a Mussolini “uomo giusto, grande e umano”, informandolo che un ricco commerciante era stato esonerato dal servizio di leva, mentre il marito e gli altri continuavano a combattere. “Perché i ricchi possono corrompere i generali e non vanno a combattere come i poveri?” E’ schietta e sincera al punto da sembrare a molti un’incosciente. Si rende conto dell’importanza dell’istruzione e della cultura, capisce che la libertà delle donne

La mattina del 4 gennaio del 1945 tra Corso Vittorio Veneto e la Via IV Novembre, Maria, incinta di cinque mesi, si stende a terra davanti un camion carico di giovani rastrellati nel quartiere. I soldati cominciano a sparare alla folla, feriscono un ragazzo e ammazzano un sacrestano che si era avvicinato per fare da paciere. Così Maria descrive la rivolta: “La mattina del 4 gennaio verso le 10, mentre stavo lavando mi sentii chiamare dalle donnette del mio quartiere che gridavano: Venite, venite sullo stradone, comare, voi che sapete parlare, voi che vi fate sentire e avete coraggio, venite a vedere che gran camion che c’è e sta portando i nostri figli. Mio marito era a lavorare, aveva anche lui 108 VDBD – n. 2 – nov.2008


passa attraverso esse, una libertà non di rivalsa nei confronti degli uomini, ma di maggiore consapevolezza della condizione femminile e dell’orrore della guerra portata avanti dagli uomini.

in Svizzera dove scrive, in un linguaggio realista, verista, in un misto fra italiano e ragusano, la sua biografia: “Una donna di Ragusa” che viene pubblicata nel 1957 da Landi. Il libro però passa inosservato fino a quando, nel 1976, fu pubblicato dalla Feltrinelli, destando parecchio interesse tant’è che la Occhipinti non solo fu annoverata fra le migliori scrittrici del tempo ma vinse nello stesso anno il premio Brancati-Zafferana.

A vent’anni va nell’istituto delle orfanelle del Sacro Cuore tenuto dalle suore e frequenta la quarta classe elementare, studia con passione e avrebbe voluto studiare “sempre geografia, niente storia, niente guerre, stragi e miserie”. Tiene discorsi di pace e di giustizia sociale alle vicine di casa, definisce la guerra illogica e senza regole.

Maria in seguito si trasferisce all’estero e poi si stabilisce definitivamente a Roma dove scrive alcune novelle, che in seguito andranno a far parte della raccolta “Il carrubo ed altri racconti” nelle quali la Occhipinti racconta le arretratezze della vita che si svolge in una Sicilia contadina. Legata al partito comunista arriva alla rottura definitiva quando quest’ultimo condanna i moti ragusani accusando i rivoltosi di complicità con i fascisti e con i separatisti. Maria si avvicina così agli anarchici e scrive una lettera Feliciano Rossito nella quale afferma che i moti erano antimonarchici e antimilitaristi, che erano nati spontaneamente dal malessere profondo della gente stanca della guerra e della fame. Lei non si schiera dietro una bandiera o un'ideologia, è una donna libera, una libera pensatrice, "fuori di ogni setta politica". Maria Occhipinti muore a Roma nel 1996. Il suo libro “Una donna di Ragusa” è edito da Sellerio. Sempre da Sellerio è stato pubblicato "Una donna libera" dove Maria racconta la sua partenza da Ragusa dopo il suo rilascio e il suo peregrinare all'estero, in Svizzera, in Francia, in Inghilterra, in America. Questa è la prima WONDER WOMAN che ho il piacere di presentare. Maria Occhipinti, una donna libera.

Nel 1941 il marito è in guerra a Cassino, lei lo raggiunge. Tocca con mano e vede con i propri occhi in quali terribili e miserevoli condizioni vivono i soldati e quanta è insopportabile l’autorità e la severità dei superiori, così si rivolge al colonnello per denunciare i fatti. Una donna così strutturata non poteva non stendersi a terra davanti ai camion militari. Maria dopo l’arresto viene condotta ad Ustica dove partorisce nella miseria assoluta una bambina. Successivamente, è trasferita nel carcere delle Benedettine a Palermo. Torna a Ragusa dopo un paio di anni ma viene accolta freddamente dai ragusani i quali non capiscono questa donna troppo diversa da loro. E’ inconcepibile per loro una donna che ha voglia di studiare, una donna che si ribella alla guerra, alle ingiustizie, ai soprusi, che parla, grida, agisce. E non solo, anche il marito la disprezza, è un ignorante, rozzo, incolto, e si è legato ad un’altra donna. Così Maria va via da Ragusa e si trasferisce al nord, vive in diverse città fino a quando approda Alla prossima! 109 VDBD – n. 2 – nov.2008


Intervista impossibile a Gabriele d’Annunzio – di Morena Fanti

D. Caro d’Annunzio, la ringrazio di avermi ricevuta con così breve preavviso. E’ stato molto gentile. R. Mia cara, dovete sapere che io non rifiuto mai l’opportunità di incontrare una Bella Donna. D. Non capisco se mi sta lusingando o se fa riferimento al nome della rivista… Bene, allora iniziamo. Prima il dovere e poi il piacere. R. Ora siete voi, mia cara, che fate allusioni. Volete per caso, parlare del mio romanzo? D. Sì, certo. Confesso che ne sono affascinata. Ci sono tante curiosità da soddisfare. Lei scrisse Il piacere tra luglio e dicembre del 1888, dopo una lunga gestazione e dopo avere annunciato più volte in passato, ai suoi amici e anche ai lettori, che stava lavorando ad un romanzo. Ci racconti, per favore, perché per lei era così importante riuscire a scrivere questo suo primo romanzo. In quegli anni lei era già molto conosciuto. Che cosa l’ha spinta a impegnarsi in questa stesura? R. E’ vero, ero già molto conosciuto e apprezzato, però sentivo di aver bisogno di un riconoscimento ufficiale. Io desideravo essere ricordato come un uomo che aveva compiuto grandi imprese, e nella scrittura l’unico risultato che sentivo degno del mio talento era, naturalmente, il romanzo. Un grande romanzo era ciò che sentivo di dover scrivere. Tutti i miei sforzi dovevano essere indirizzati a questo scopo. Il resto dei miei impegni mi sembrava tempo sprecato. D. Negli anni precedenti la stesura de Il Piacere, dal 1884 al 1888, lei lavorò per il giornale La Tribuna a Roma. Cosa le procurò questa sua esperienza lavorativa? R. Negli anni in cui lavorai per il giornale La Tribuna scrivevo servizi di cronaca e, anche se questo lavoro mi forniva molte occasioni mondane e mi permetteva di frequentare feste e 110 VDBD – n. 2 – nov.2008


persone interessanti, io sentivo di sprecare il mio tempo. L’impegno giornalistico mi distraeva da ciò che era il mio desiderio di lavorare sul serio al progetto del mio primo romanzo: un lavoro che io consideravo d’importanza capitale. Ma, effettivamente, quegli anni mi fornirono molti spunti per il mio romanzo. Le ville che descrissi nei miei articoli, le feste sontuose a cui partecipai, perfino i bellissimi abiti delle signore, tutto finì nel mio romanzo. Frequentare la nobiltà e le loro feste fornì molti spunti alle mie pagine: tenevo da parte tutti gli articoli e per la mia stesura attinsi a questa fornita riserva come fosse una cantina piena di bottiglie di sciampagna con cui inebriarmi. D. Quindi, si può dire che riciclò le sue parole e le convertì in storie e descrizioni utili per Il Piacere? Questa operazione che lei fece è molto moderna. Lo sa che oggi questa operazione si potrebbe fare con un semplice clic su un tasto? R. Mia cara, voi mi sorprendete. D’altronde, lo sapete certamente, io sono sempre stato un precursore e ogni mio gesto veniva copiato dai miei tanti estimatori. Quindi, ora io potrei con un clic copiare i miei testi e inserirli in un testo completamente nuovo? D. Sì, ma ora non facciamoci distrarre da queste cose. Caro d’Annunzio, se la lasciassi fare, finirebbe per intervistare lei e io mi troverei a rispondere alle sue curiosità. Torniamo al romanzo. Nel 1887 lei incontrò Barbara Leoni e questo incontro vi portò a una lunga e intensa relazione amorosa. Nel 1888 lei si allontanò da Roma e rientrò a Francavilla, ospite dell’amico Michetti, deciso a iniziare la stesura del Piacere. A cosa era dovuta tanta decisa e improvvisa energia, dopo anni di vano inseguimento all’idea del romanzo? R. Ho sempre trovato nell’amore, e nello specifico, nell’amore sessuale, il levame della mia Arte. Da ogni mia relazione ricavavo una carica emotiva così intensa da trascinarmi in pagine di scrittura e di versi. Senza l’Amore la mia Arte soffocava e languiva fino a morire. Poi, con il fruscio di una veste di seta e il profumo della pelle della donna amata, di nuovo risorgeva più forte di prima. Io sono sempre stato un uomo dalle grandi pulsioni, dalle passioni intense. Ho sempre trovato nell’atto stesso del vivere, le emozioni e i sentimenti che, amplificati dal mio sentire, si trasformavano in parole poetiche. Credo che anche la mia prosa, in fondo, sia poesia: la poesia dell’amore e dei sensi. D. Lei ha sempre vissuto al massimo ogni suo sentimento d’amore, in un modo anche alquanto plateale, se mi concede l’espressione, rendendolo pubblico anche negli aspetti più intimi. Le sue relazioni non sono mai state segrete e, anzi, avevano molto risalto ed erano note a tutti. Forse aveva bisogno del clamore come cassa di risonanza per i suoi sentimenti? R. Mia cara, voi mi stupite sempre più. Sapete vedere dove gli altri non vedono. Io ho sempre pensato che il fallimento più grande della vita dell’uomo fosse non mettere a frutto gli ardori giovanili, ovvero quel desiderio che ognuno di noi serba nel petto di condurre un’esistenza attiva, viva, operosa, ricca di stimoli intensi, di profondi ideali, di attività fiorenti. Mi sono, quindi, abbandonato appieno alla vita, come una foglia sospinta dalle impetuose acque di un fiume e sono andato ovunque esplorando ogni sentimento ed ogni emozione che mi venisse incontro. E, quelle che non mi cercavano, le desideravo e le inseguivo. La 111 VDBD – n. 2 – nov.2008


passione ha guidato ogni mia azione, in Amore come in guerra, e la vitalità, la spinta interiore che profondevo nelle mie attività ha sempre desiderato la luce, mai l’ombra. Io volevo essere “visto” e nel clamore trovavo il giusto omaggio alla mia Persona. Molti Poeti si compiangevano e i loro versi erano sempre volti al desiderio di ciò che non avevano. Io cantavo le cose della vita, la passionalità, gli estremi. Come potevo non essere al centro di tutto, del palcoscenico del mondo? Come poteva il mondo ignorarmi? D. No, effettivamente, non poteva… Lei mi distrae. Torniamo a noi. Parlando di palcoscenico non posso non parlare di teatro e delle tragedie che lei scrisse. Non tutte ebbero il grande successo che lei auspicava. Forse la sua scrittura non era adatta ai tempi teatrali? R. Le prime tragedie che scrissi furono per la mia amata Eleonora, la Divina. Fu lei che mi avvicinò al teatro. Forse non furono comprese dal pubblico, o forse dovevo ancora affinare il mio estro creativo e adattarlo alle luci del palcoscenico. Quando uscì La figlia di Jorio però fu un vero trionfo e il pubblico mi acclamò come un Grande e mi diede tutti i riconoscimenti che meritavo. D. L’unica che non apprezzò mi pare fu la stessa Duse che si vide sottrarre la parte all’ultimo minuto. Si dice che lei mandò un fattorino a ritirare l’abito di scena poco prima della rappresentazione. E’ vero? R. Non è cosa di cui io mi possa vantare, ma è la verità. Mi facevo prendere da grandi e improvvise passioni e anche in quel periodo successe la stessa cosa e forse un’altra donna mi distrasse da lei, ma Eleonora rimane la donna che ho amato fino in fondo, la donna che più mi ha amato. In una sua lettera mi scrisse: " Non ti difendere, figlio, perché io non ti accuso. Non parlarmi dell'impero della ragione, della tua vita carnale, della tua sete, di vita gioiosa. Sono sazia di queste parole! Da anni ti ascolto dirle… Parto di qui domani. A questa mia non c'è risposta." e infatti io non le risposi per quasi vent’anni. Fu nel 1923, qualche mese prima della sua morte che, in un impeto improvviso e con il desiderio di lei e della sua anima, le scrissi per l’ultima volta: "Io ti amo meglio di prima… e ti bacio le mani tanto che te le consumo." Il lunedì di Pasqua del 1924 la Divina morì a Pittsburgh e io mi appellai a Mussolini affinché lo Stato provvedesse al rientro della “Salma Adorabile”, della mia Amata Eleonora: "E' morta quella che non meritai." scrissi in una lettera e mai frase fu per me più vera. Pensate, mia cara, che al Vittoriale, nella stanza chiamata “l'officina”, la stanza dove lavoravo, avevo una statua raffigurante il volto della mia amata Duse e la coprivo con un velo per non provare dolore rivedendo quel volto tanto amato. Era la mia “musa velata”. D. Quindi, la Duse continuò ad ispirare le sue parole e i suoi versi, anche dopo la sua morte? R. Certo. Un Amore così grande e completo come era stato il nostro non si esaurisce con la morte. L’amore si autoalimenta e anche nei ricordi, nell’affanno di ritrovare l’altro anche quando non c’è più, si generano sentimenti ed emozioni e, per me tutto ciò significa versi e 112 VDBD – n. 2 – nov.2008


prose ricche di sfumature e di forza. Vi reciterò alcuni versi che spiegano questo mio pensiero: Voglio un amore doloroso, lento, che lento sia come una lenta morte, e senza fine (voglio che più forte sia della morte) e senza mutamento. Voglio che senza tregua in un tormento occulto sian le nostre anime assorte; e un mare sia presso a le nostre porte, solo, che pianga in un silenzio intento. Voglio che sia la torre alta granito, ed alta sia così che nel sereno sembri attingere il grande astro polare. Voglio un letto di porpora, e trovare in quell'ombra giacendo su quel seno, come in fondo a un sepolcro, l'infinito. D. … lei mi incanta con i suoi versi, caro d’Annunzio, e forse è proprio ciò che vuole. Mi sta distogliendo dalle mie domande. Torniamo a noi. Lei si dedicò a grandi imprese di guerra e anche in questo si distinse per impeto e coraggio. Ad un certo punto, però, i suoi rapporti con il Duce divennero molto difficili tanto che Mussolini riferendosi a lei disse: “Gabriele D'Annunzio è come un dente marcio o lo si estirpa o lo si ricopre d'oro...io preferisco ricoprirlo d'oro”. R. Il Duce era un uomo che doveva essere sempre in primo piano e, ovviamente, non sopportava che un altro gli rubasse la scena. Quindi, io rappresentavo una spina nel fianco per Mussolini e quelle parole non mi stupirono per nulla. Anzi, da ciò, da questo sentimento che il Duce aveva nei miei confronti, seppi trarre la mia fortuna e mi feci costruire il Vittoriale, tutto a spese del Regime, accettando in cambio di donarlo allo Stato dopo la mia morte. Venivo da un momento di disagio economico e ciò mi fece comodo. Mi ritrovai di nuovo in una dimora elegante, con i lussi a cui ero abituato, quelli che si confacevano alla mia persona, e tutto questo, credetemi, mia cara, non è affatto da disprezzare. Un uomo della mia levatura non poteva tollerare di vivere nella bassezza. Io avevo bisogno di circondarmi di cose preziose, velluti, sete, damaschi, statue. Il Vate aveva bisogno della giusta cornice. Quindi, il Vittoriale, per via di quella clausola che lo voleva donato allo Stato dopo la mia morte, venne chiamato “Vittoriale degli italiani” e perciò sulla soglia feci incidere la frase “Io ho quel che ho donato”. D. Lei ha parlato della morte. Credo sia un tema che le è sempre stato caro. Cosa significa per lei? E che importanza ha per la vita conoscere la morte? R. Senza la Morte, senza la sua conoscenza e senza averla avvicinata, non si può comprendere in pieno la pulsione amorosa. L’Amore è un sentimento che può straziare le membra e la mente, un sentimento da vivere con totalità e profusione. Se non si è pronti a 113 VDBD – n. 2 – nov.2008


donare tutto ciò che abbiamo, e quindi a perderlo in un certo modo, non si è pronti per amare. Il vero Amore esiste solo quando siamo pronti a donare noi stessi e a vivere il sentimento nella maniera più profonda. D. Un tema davvero affascinante, caro d’Annunzio. Le sue teorie lo sono sempre. Ora capisco la grande presa che ha sempre avuto sui suoi lettori e sugli italiani. E anche quella che ha avuto sulle donne… R. A proposito, mia cara, non credete sia il momento di fare una pausa? Non vorrei che vi stancaste troppo. Ho fatto mettere in fresco della sciampagna ottima. Brinderemo alla nostra conoscenza e intanto mi racconterete di queste novità e di questo nuovo attrezzo per la scrittura su cui avete trascritto le nostre parole. Abbiamo ancora molte cose da dirci. (M.F.)

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(foto di Paola Pluchino) CAMMINAMENTI

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Moderna cronistoria semiseria della didattica di letteratura alle scuole superiori di Maria Gisella Catuogno Quando un insegnante di Materie Letterarie negli Istituti tecnici approda al triennio delle scuole superiori, dopo un viaggio alle scuole medie e una sosta prolungata al biennio successivo, si sente come Ulisse quando baciò la sua “petrosa Itaca”. Il motivo è semplice: dopo aver rafforzato le famose quattro abilità del parlare, scrivere, leggere e ascoltare alle medie; dopo aver lasciato intravvedere, senza dimenticare le ancora tentennanti suddette abilità, gli allettanti arcipelaghi dei vari generi narrativi, dalla favola alla fiaba, al racconto, nelle sue varie tipologie di storico, poliziesco, giallo, filosofico; su su verso il romanzo storico, verista, decadente, contemporaneo, fino alle vette sublimi della poesia, epica e lirica, sempre naturalmente offrendo agli allievi assaggi di questo e di quello, per nutrirli senza disgustarli; finalmente, giunto in terza, quarta e quinta, dapprima con un po’ di batticuore per il timore di non essere all’altezza, poi, sempre più sicuro nella navigazione perigliosa ma di soddisfazione che è l’insegnamento, il docente può cominciare a dipanare il filo della storia della nostra letteratura, cercando anzitutto di motivare il lavoro che sta per iniziare. Perché, infatti, se per la Storia è intuitivo, anche a un ragazzo di quindici anni, che, per conoscere il presente è necessario non ignorare il passato, prossimo e remoto; altrettanto non lo è per la Letteratura, che è prodotto culturale mediato e non immediato di un determinato contesto storico, a propria volta generatore di riflessioni, valutazioni e idee che incidono sull’hic et nunc e lo modificano, seppure lentamente. Per far capire questo, il suddetto scomoda Dante: certo, il Medioevo l’avrebbero conosciuto anche senza di lui; ma chi meglio del Poeta fa comprendere l’afflato religioso degli uomini del tempo, l’ossessione del peccato, e della necessità della redenzione, l’intuizione del mistero divino, il livello di degrado a cui era giunta l’esperienza comunale a Firenze? “Vedrete, ragazzi, come sarà affascinante leggere Dante!” promette all’inizio della terza e quasi sempre riesce a mantenere la promessa. Il merito non è certo suo ma dell’incipit fantastico della Commedia: di quella selva oscura, di quel colle luminoso inutilmente vagheggiato, di quelle tre fiere che incutono timore anche a loro. E che vorrà dire “tra feltro e feltro” e chi sarà mai il “veltro” che ricaccerà la lupa nell’Inferno!? La Commedia crea suspence. Ma anche pietà e immedesimazione: non tanto verso gli ignavi (chi mai si sente ignavo a quindici anni? Corrano pure dietro la banderuola, siano pure tormentati da insetti e vermi schifosi!) quanto verso i lussuriosi…Che bel peccato, vorrebbero essere anche loro in quel cerchio, con Cleopatra e Semiramide, Paride e Didone, travolti dal vento incessante, come nella vita dalla forza della passione (Chissà che avranno fatto? Sesso sfrenato, si 116 VDBD – n. 2 – nov.2008


suppone…) Il racconto di Francesca li commuove (Povera Francesca! Ha fatto bene a tradire Giangiotto con Paolo, il primo zoppo e deforme, questo bello come il sole…Ma prof., non è nemmeno peccato, il matrimonio era combinato! Si vede che a Dante dispiace farli stare all’Inferno! Tira fuori il paragone con le colombe, alla fine si sviene…); e quando la peccatrice racconta del “punto” che rivelò il reciproco amore, a loro che si intrattenevano con i romanzi cortese-cavallereschi, durante la lettura galeotta del bacio di Ginevra a Lancillotto, potrebbe anche scattare l’allarme di evacuazione della scuola, che per qualche istante non si muoverebbero dal banco. “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, si ingegna a spiegare l’insegnante. “Ma come, qui Dante ha toppato [=sbagliato, nel loro slang], prof., non è vero che non esiste l’amore non ricambiato…” E come dargli torto? Ognuno pensa a qualche passioncella insoddisfatta e sospira, compreso l’insegnante, ma senza farsi scorgere. Con la Commedia, il rischio di provocare sbadigli soffocati non esiste, anche perché il docente si guarda bene dall’offrir loro pietanze poco saporite: con tre ore la settimana d’Italiano e una programmazione che esige di giungere a Tasso alla fine della terza, occorre fare una selezione anche dei luoghi infernali. Ma si può rinunciare a Ulisse? Mai! E’ troppo affascinante, troppo “ganzo”, dicono loro: e così lasciano insieme a lui l’isola di Circe, dove, a dir la verità, non stavano niente male e con la “compagna picciola” si mettono a navigare il Mediterraneo: che bello avere a destra l’isola dei Sardi e a sinistra Ceuta, sembra di vederne le coste soffuse di nebbia nel chiarore del primo mattino; il richiamo della famiglia è una spina nel cuore, ma di quelle piccole, di rosa canina, la voglia di andare oltre è tanto più grande! Li assale un po’ di spavento: non sono lontane le Colonne che Ercole ha posto a segnare i confini del mondo e la loro nave va avanti troppo velocemente…”Torniamo indietro, usiamo la ragione!” azzarda spaventato qualcuno, ma Ulisse li chiama e sussurra loro con quella sua voce bassa e suadente: “Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza/.” Che effetto fanno quelle parole… tremano le gambe, il cuore batte forte nel petto: il desiderio di andare avanti e sfidare le leggi umane e divine lotta con la razionalità, con la tradizione, con la norma, con il sacro divieto. Ma è una lotta impari, prevale l’istinto di conoscere, di esplorare: si va avanti, si superano con senso di sfida quei traguardi, si guardano con senso di superiorità, meravigliati che fermino tanti marinai meno coraggiosi e sacrileghi di loro. Procedono trattenendo il respiro: “Non è successo nulla! Avevamo ragione a andare avanti, festeggiamo!” Dall’anfora levano un vino che sembra miele e brindano al coraggio. La navigazione procede verso sud-ovest, in tranquillità: superano l’Equatore, contemplano le stelle dell’altro emisfero e la luna che compare per la quinta volta a bagnare di luce lo sguardo. Al mattino, quando l’aurora ancora trattiene nel cielo i suoi petali rosati, si stropicciano bene gli occhi per evitare di prendere abbagli…ma no, è proprio una montagna, quella che tutti vedono, alta e scura, che nasce all’improvviso dall’acqua, come l’isola di Montecristo, se si avvicinano d’estate a assaporarne i colori, seppure più imponente e misteriosa. Si rallegrano, abbracciandosi l’un l’altro, quando all’improvviso da quella terra straniera s’alza un vento che diventa vortice, solleva l’acqua impazzita che gira con lui e si abbatte su 117 VDBD – n. 2 – nov.2008


di loro, facendoli mulinare per tre volte: in un flash, prima che il mare si chiuda sopra, rivedono quelle colonne e il “folle volo”… Quando la lettura del XXVI canto si conclude, ai ragazzi dispiace lasciare Ulisse nell’VIII Bolgia dell’VIII Cerchio, seppure in compagnia di Diomede, entrambi nell’inusuale foggia di due lingue di fuoco parlanti. “Meglio l’Ulisse omerico?” chiede il prof. Forse sì, almeno finisce bene: la strage dei Proci non li turba più di tanto, in fondo se la sono andata a cercare; finalmente la fedeltà di Penelope sarà premiata e Itaca ritornerà a essere un’isola di operosa legalità. “E la sete di conoscenza?” azzarda Non ci stanno! Meglio Itaca che il fondo del mare e l’Inferno. Altrettanto interesse, seppure venato d’orrore, suscita la lettura del XXXIII canto: Ugolino che rosicchia il cranio dell’arcivescovo Ruggieri li schifa e li attrae, avvertono l’angoscia del sogno che “del futuro squarciò il velame” e sentono negli orecchi il suono di quella porta inchiavardata. Soffrono con Gaddo… il Brigata e l’Anselmuccio, intuiscono (loro che non l’hanno mai conosciuta, per fortuna) la rabbia della fame e l’atrocità della sete; brancolano con Ugolino sopra i corpi dei figli e sperano che muoia presto per soffrire meno. Ascoltano silenziosi la violenza profetica di Dante contro Pisa: “Movasi la Capraia e la Gorgona …”Quell’ora passa in un soffio. Del Poeta apprezzano e gustano la Commedia, glissano sulla Vita Nuova, si annoiano col De vulgari eloquentia, il Convivio, la Monarchia e le Epistole. Problematico traghettarli dalla corposa plasticità del poema alla levità del Petrarca: il conflitto interiore tra l’aspirazione alla spiritualità e l’irresistibile attrazione dei beni mondani; l’oscillazione tra l’ideale religioso vissuto senza compromessi e le delizie di un amore terreno che si materializza nelle bionde trecce di Laura, nel suo bel fianco, negli occhi splendenti, non li coinvolge più di tanto. “Quante paranoie, prof!!” Però, mettendo a confronto “Benedetto sia il giorno, il mese e l’anno” con “Padre del ciel dopo i perduti giorni”, un barlume si accende e intuiscono la lacerazione del povero Francesco. Passare a Boccaccio è un sollievo: evapora come neve al sole l’esasperato senso di colpa dell’epoca precedente; la pagina si affolla di mercanti avventurosi che respirano la brezza del mare e amano i vasti orizzonti; di sprovveduti sensali di cavalli che perdono la testa per le belle “ciciliane”, di donne innamorate che non disdegnano audaci convegni d’amore; di frati lazzaroni che approfittano dell’ingenuità popolare; di nobiluomini che, spendendo e spandendo, si rovinano per la fanciulla del cuore; di individui che combinano tranelli e si prendono beffa del prossimo anche in punto di morte. E’ un caleidoscopio di vita e di gusto per la vita: lo spazio geografico diventa orizzontale e si estende dalle città alle campagne, da oriente a occidente: il mare ne è un protagonista privilegiato perché esso, per volubilità di carattere e capacità di furore, è metafora stessa della vita. Sfuma l’anelito verso Dio, il miraggio dantesco al cielo: nemmeno Boccaccio disdegna l’elemento religioso, ma ciò da cui è irresistibilmente attratto è l’inesauribile potenzialità del quotidiano nella tragicomica vicenda umana, le infinite avventure del mondo terreno; l’altro, l’oltremondo è meno interessante e fascinoso. I ragazzi lo deducono dalle novelle: da Chichibio cuoco, che, per la pronta e gustosa risposta placa l’ira di Currado Gianfigliazzi; da Andreuccio da Perugia, prima vittima poi baciato dalla sorte; da Lisabetta da Messina, uccisa della cupidigia dei 118 VDBD – n. 2 – nov.2008


fratelli; da Frate Cipolla, ingannatore beffato; da Federigo degli Alberighi, che imprudentemente sacrifica il suo falcone, unico oggetto di desiderio della ritrosa Giovanna; da Cisti fornaio, che sa stare al suo posto ma indica anche i limiti della democrazia boccacciana. Dal Decamerone escono a fatica, riluttanti. Ma presto sono travolti dal vortice dell’Orlando furioso. La cornice storico-culturale in cui collocarlo, la recepiscono bene. L’Umanesimo e il Rinascimento piacciono: non il neo-platonismo fiorentino, l’affermarsi della filologia, la riscoperta delle civiltà classiche; quanto invece la valorizzazione dell’esperienza umana, l’uomo misura del mondo, di leonardiana memoria (l’euro aiuta!). Afferrano bene le motivazioni del costruire cattedrali meno esagerate di quelle medievali; dello scolpire figure umane che esaltano la bellezza corporea o del dipingere tele d’ispirata armonia. Meno gradito risulta il contrasto tra lo splendore della cultura e la crisi politica, tra la raffinatezza delle corti principesche e la debolezza degli stati italiani, che inesorabilmente si avviano alla perdita dell’indipendenza: “Ragazzi, passeranno quattro secoli prima che l’Italia sia di nuovo unita e indipendente, quattrocento anni, capite?! Ci invaderanno i francesi, gli spagnoli, gli austriaci! L’Italia debole diventa terra di conquista, ve ne rendete conto!?” E Ariosto? Ne aveva consapevolezza? Certo, che ne aveva! Sceglie un genere accattivante, conosciuto nelle corti principesche, il poema cavalleresco, compiendo un viaggio a ritroso nel tempo: rispolvera le vecchie figurine di Carlo Magno, del paladino Orlando (“Ricordate, ne abbiamo fatto la conoscenza all’inizio dell’anno, con le chansons de geste!?”), della lotta contro i musulmani, della bella principessa del Catai di cui tutti si innamorano, l’inafferrabile Angelica; e costruisce un intreccio incredibilmente complesso e affascinante, in cui non mancano escursioni sulla luna, castelli incantati, paladini valorosi che perdono il senno per amore e miraggi di nozze principesche. La selva in cui si ritrova Angelica sfuggita a Gano di Maganza è labirintica e in essa tutti si perdono, tornando sempre al punto di partenza La parola chiave è ricerca -recherche, dice il libro- quasi sempre destinata al fallimento. Tutte le possibilità sono aperte fino ai due terzi del romanzo: i tre filoni pricipali, la lotta tra cristiani e musulmani, la pazzia di Orlando, la promessa d’amore tra Ruggiero e Bradamante non giungono a compimento. Sembra un romanzo cavalleresco! Tutte le soluzioni sono ancora possibili. Perché, -lo capite, ragazzi?- il poema per Ariosto è un pretesto per parlare della sua vita e di quella del suo tempo: la condizione del cortigiano, prigioniero di lusso di un principe, che lo usa come cassa di risonanza del potere, che lo ricopre di beni materiali ma non sopporta nessuna critica; la follia umana, che fa continuamente ricercare beni effimeri e trascurare quelli autentici; l’amore, consolazione e schiavitù. Per questo, si diverte a creare storie che a loro volta ne generano altre, apparentemente all’infinito, senza una conclusione. E invece no! A un certo punto Ariosto mette i remi in barca, trasforma quello che sembrava un romanzo cavalleresco in un poema epico e dà una chiusa a tutti e tre i filoni principali: il conflitto tra cristiani e musulmani termina con la vittoria dei primi; Orlando, grazie ad Astolfo che è andato sulla luna, recupera il senno custodito in un’ampolla e ritorna a essere la consolazione di re Carlo; Bradamante può convolare a nozze con quel donnaiolo di Ruggiero e portare in grembo il seme della dinastia estense. Perché!? Per quale motivo Ariosto fa questa scelta? Probabilmente per il fatto che, di fronte a una realtà storica fuori del suo controllo, di cui andava intuendo, senza poter costruire argini, la dilagante rovina, il poema era il solo luogo dove poter esercitare un potere e una 119 VDBD – n. 2 – nov.2008


volontà non destinati allo smacco. Insomma la creazione artistica come risarcimento alla sconfitta e all’impotenza nei confronti del reale. Come un dio creatore, lo scrittore fa e disfa, apre infinite strade, ma regala una conclusione positiva alle vicende, un esito che non poteva imporre invece all’intricata matassa dei fatti contemporanei. Ecco, questo concetto, per qualcuno di loro, è un po’ difficile da cogliere, ma mediamente è metabolizzato bene. Di solito, quando arrivano a parlare d’Ariosto è già primavera inoltrata, il tempo stringe, le verifiche incalzano, gli scrutini incombono. C’è tempo solo per Machiavelli; Torquato Tasso sarà affrontato al rientro, con più calma, meglio per lui e per loro. Niccolò è più tosto: del Principe leggono solo i passi meno ostici, ma la stringatezza del ragionamento logico, la potenza delle immagini, l’urgenza della sintesi, per l’uso concreto del libello da parte di signori volitivi e senza scrupoli, tengono desta l’attenzione e suggeriscono riflessioni non banali. E poi c’è la Mandragola, la più importante commedia del Cinquecento di cui non perdono una battuta e da cui trasuda, come negli altri scritti, il sostanziale pessimismo dell’autore. “Perché prof.”pessimismo”? Finisce bene! Lucrezia si tiene tutti e due…” “Ma non vedete? Anche lei scende a compromessi con la moralità, si adegua alla disinvoltura etica di chi la circonda, vi sembra positivo, questo!?” chiede ansioso il docente Nicchiano…l’estate, stagione più di altre del compromesso, è alle porte. Si sentono molto vicini alla bella signora fiorentina.

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Una nuova realtà nel mondo della comunicazione scritta: il giornalismo partecipativo

di Nicola Amato cinesi sino alla stampa per clichè del Settecento, passando attraverso Gutenberg che compì i suoi primi esperimenti di stampa nel 1440 e mise a Sono davvero tanti, al giorno d’oggi, punto un metodo in grado di consentire la coloro che si dedicano all’arte dello produzione di una notevole quantità di scrivere ed al giornalismo, soprattutto a caratteri, quella sufficiente a comporre seguito della straordinaria evoluzione delle testi piuttosto lunghi. tecnologie che hanno dato impulso e Le tecniche di Gutenberg si diffusero vitalità al continuo pullulare di blog e diari rapidamente anche grazie agli stessi online. Per giungere però a quest’elevato stampatori che, passando di città in città, grado comunicativo, siamo stati costretti a portavano con sé le loro macchine e nel passare inevitabilmente attraverso un contempo il loro mestiere. tunnel buio, dove la comunicazione scritta La maggioranza dei libri prodotti da era per soli pochi “eletti” e, soprattutto, queste prime stamperie erano in latino e di era di tipo rigorosamente uni-direzionale, contenuto religioso, ma venivano ovvero, un autore scriveva e i lettori pubblicati anche libri di filosofia, di diritto leggevano, null’altro, nessuna possibilità di e di argomenti scientifici. Inoltre, in interazione, replica o feedback. Mi maniera graduale, la stampa sostituì riferisco alla stampa e alla sua evoluzione l’attività di amanuensi e copisti. storica, durante la quale ha dovuto superare molte traversie per poter C’è da rilevare che la nascita dell’industria diventare un atto comunicativo completo editoriale aveva creato nuovi centri e reti e disponibile per tutti, senza distinzione di di potere simbolico, che si fondavano casta o di background culturale. innanzitutto sul principio della produzione A tal proposito, alcuni cenni sulla nascita di merci, e che quindi restavano della stampa e su come si sia evoluta può relativamente indipendenti dal potere essere illuminante. politico e simbolico esercitato dalla Chiesa e dallo Stato. Possiamo far risalire la nascita Inizialmente, la Chiesa appoggiò con dell’industria dei media alla seconda metà energia lo sviluppo dei nuovi metodi di del Quindicesimo secolo. In quegli anni, le stampa. Anche perché il clero tecniche di stampa originariamente commissionava agli stampatori la sviluppate da Gutenberg si diffusero pubblicazione di opere liturgiche e rapidamente nei centri urbani di tutta teologiche. Europa e, ad esse correlate, anche lo Ma la Chiesa non poteva certo controllare sviluppo delle tipografie. le attività di questi nuovi soggetti, come Le innovazioni tecnologiche che hanno aveva fatto con gli amanuensi e i copisti reso possibile lo sviluppo della stampa, dell’epoca dei manoscritti. vanno dalle prime tecniche di stampa 121 VDBD – n. 2 – nov.2008


Tra la fine del Quindicesimo secolo e l’inizio del Sedicesimo, quindi, la Chiesa tentò a più riprese di distruggere parte dei materiali stampati. Dal momento però che il numero dei libri banditi cresceva, la Chiesa decise di compilare un indice, l’Index librorum prohibitorum, promulgato per la prima volta nel 1559. Come succede spesso, però, quando si pone un veto di qualsiasi natura, la censura della Chiesa non fece altro che stimolare un fiorente mercato clandestino. Difatti, è oltremodo fuori di dubbio che le nuove tecniche di stampa abbiano giocato un ruolo fondamentale nella diffusione delle idee di Lutero e degli altri riformatori. I sermoni e i trattati di Lutero vennero pubblicati in numerose edizioni e divennero molto popolari. Di contro, il papato condannò le opere di Lutero e i sovrani emanarono editti che ordinavano di bruciarle.

specializzarono nella pubblicazione di testi di medicina, anatomia, botanica, astronomia, geografia, matematica. La stampa divenne, in definitiva, strumento di un nuovo flusso di dati, tabelle, mappe e teorie che potevano essere consultate, analizzate e discusse dagli studiosi di tutta Europa. Ma chi leggeva i libri prodotti dalle prime tipografie? I principali consumatori dei libri prodotti appartenevano, senza dubbio, alle elite urbane istruite: erano membri del clero, delle autorità politiche, della nascente classe dei commercianti, o studiosi e studenti. E’ probabile inoltre che si procurasse e leggesse libri anche un notevole e crescente numero di artigiani e bottegai di città, anche se i dati sui tassi di analfabetismo nell’Europa della prima modernità siano lacunosi e non conclusivi.

Lo strumento della stampa, inoltre, ha avuto conseguenze importanti anche su altri aspetti della cultura europea della prima modernità; infatti, comparvero molte edizioni anche delle opere dei classici di Virgilio, Ovidio, Cicerone ed altri. Per di più, la diffusione dell’Umanesimo italiano nel nord Europa è stata, in buona parte, opera di stampatori, librai e traduttori e del loro ruolo d’intermediazione; mentre la stampa ha consentito agli studiosi di fissare e uniformare i testi dell’antichità, un’operazione che sarebbe stata impossibile nell’epoca in cui ciascuna opera veniva copiata a mano. In secondo luogo, la stampa ha consentito di facilitare l’accumulazione e la diffusione di dati relativi al mondo naturale e sociale, e di sviluppare sistemi standardizzati di classificazione, descrizione e utilizzazione. Alcune delle prime stamperie si

Insieme all’abitudine di leggere libri crebbe, nel corso del Sedicesimo secolo, anche la proporzione dei materiali stampati pubblicata in lingue volgari. Il declino del latino e la nascita delle lingue nazionali fu un processo determinato, in parte, dall’industria della stampa, ma le sue conseguenze andarono ben al di là degli interessi economici che lo avevano avviato. La Chiesa cattolica continuò a considerare il latino come sua lingua ufficiale e a proibire l’uso del volgare, la barriera linguistica tra il clero e le popolazioni laiche si fece ancora più insormontabile. Si potrebbe sostenere che l’imporsi delle lingue volgari consentito dalla stampa, e la trasformazione di alcune di esse in lingue ufficiali, abbiano preparato l’emergere nel mondo moderno del senso d’identità nazionale e dei nazionalismi. Questo è quanto sostengono alcuni storici. 122

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Si tratta indubbiamente di una tesi importante e provocatoria. E’ comunque certamente plausibile sostenere che la formazione delle comunità nazionali si sia intrecciata con lo sviluppo di nuovi sistemi di comunicazione. Dopo tutto, ciò che tali sistemi hanno fatto è consentire agli individui di condividere, pur senza interagire direttamente, simboli e credenze espressi in una lingua comune, vale a dire, condividere quella che, con una certa approssimazione, potremmo definire una tradizione nazionale.

i lettori e in senso più ampio sul modo di informarsi che si va affermando. La multimedialità, l’ipertestualità e l’interattività sono elementi rivoluzionari delle news telematiche, in grado di rimettere in discussione i punti cardine del giornalismo tradizionale, a cominciare dal concetto stesso di notizia che é stato stravolto. Infatti, il criterio valutativo convenzionale adottato dagli operatori dell’informazione per determinare la “notiziabilità” di un dato evento, era la capacità di quell’evento di diventare oggetto di interesse per il maggior numero di persone. Purtroppo, oggi, travolti da un flusso incessante di potenziali notizie, risulta sempre più difficile riuscire ad individuare gli avvenimenti in grado di attirare l’attenzione. In sostanza, l’informazione massificata non è più sufficiente per rispondere ai bisogni di un pubblico, ormai smaliziato ed esigente, in cerca di notizie “su misura”. Lo spazio teoricamente illimitato della rete consente edizioni personalizzabili: ogni utente si trasforma in autore, ha la possibilità di interagire e di creare un’edizione individuale del proprio TG in base alle proprie specifiche necessità e curiosità. L’accesso diretto alle fonti, la tempestività di aggiornamento garantita dal Web, la rapidità di consultazione dell’informazione online e la convergenza sullo schermo del personal computer di dati, parole, suoni ed immagini, realizzano nuovi paradigmi comunicativi, centrati sul coinvolgimento attivo dei destinatari dell’informazione, che richiedono inevitabilmente una rivisitazione della figura del giornalista.

Com'è la situazione oggi, dal punto di vista della comunicazione scritta? Iniziamo col dire che non si può fare a meno di constatare che una nuova realtà nel mondo della scrittura si sta affacciando prepotentemente alla ribalta della comunicazione. L’avvento di Internet, e più in generale dell’evoluzione delle tecnologie informatiche che si sono orientate e sviluppate sempre di più verso la comunicazione digitale, rappresenta un nuovo archetipo di comunicazione, visto la considerevole quantità di informazioni che circola in rete senza filtri né, tanto meno, censure. Nel mondo sconfinato del Web ognuno ha la possibilità di servirsi del linguaggio multimediale per diffondere o ricercare notizie, saltando purtroppo la mediazione giornalistica. Si tratta di un cambiamento epocale per quello che concerne i media, ossia un processo di separazione e di inversione di importanza tra media e messaggio, che incide inevitabilmente non solo sull’organizzazione editoriale e sul confezionamento del prodotto giornalistico, ma anche sulla figura e sul ruolo del giornalista, sul suo rapporto con

In questo contesto si inserisce il giornalismo partecipativo, in inglese “people journalism”, nuova forma di 123

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giornalismo, figlia di Internet e delle nuove tecnologie multimediali. Si tratta delle possibilità di partecipazione e interazione a disposizione dell'audience, grazie alla natura interattiva dei nuovi media e alla possibilità di collaborazione offerta da Internet. In pratica, chiunque può contribuire come reporter, scrivendo o inviando immagini a copertura di storie già scritte. La qualità non è sempre quella del giornalista professionista, ma spesso le notizie sono raccontate con maggiore prontezza e soprattutto da chi le ha viste succedere. Il giornalismo partecipativo, in definitiva, cavalca l’onda della comunicazione multimediale, intesa come la compresenza e interazione di più mezzi di comunicazione in uno stesso supporto informativo. Si parla di contenuti multimediali, specie in ambito informatico, quando per comunicare un'informazione riguardo a qualcosa ci si avvale di molti media, diversi tra loro, quali possono essere le immagini in movimento di un video, le immagini statiche delle fotografie, la musica e il testo; i nuovi media insomma.

che i quotidiani mettono a disposizione degli utenti per discutere delle notizie pubblicate, offrendo inoltre la possibilità agli utenti di comunicare e discutere di argomenti anche non pubblicati sul giornale in questione. In questo modo, è l’utente che crea la notizia e la offre al commento altrui imbastendo una discussione in merito. Il ruolo del giornalista, in questo contesto, rimane comunque di notevole importanza in quanto deve saper mettere insieme i diversi aspetti, fare le adeguate verifiche, scrivere in modo chiaro e accattivante i propri articoli, ponderare i punti di vista. Ciò che cambia radicalmente è il riconoscere le rinnovate dimensioni dell’arena in cui il processo si compie, e cercare di adattarsi. Il declino della credibilità dei mass media tradizionali è un fattore centrale nella spiegazione del successo del giornalismo partecipativo tanto quanto la disponibilità, a basso costo, di nuovi strumenti tecnologici che consentono l’interattività. Con la diffusione a livello di massa di strumenti come telecamere digitali, cellulari con videocamera e dei software per l’editing del video, la frontiera del giornalismo partecipativo si sta spostando anche verso la produzione di contenuti audiovisivi. Secondo una ricerca di studiosi americani circa il giornalismo partecipativo, si prevede che nel futuro il 50% delle notizie sarà prodotto dagli stessi cittadini. Compito dei giornalisti, a quel punto, sarà quello di incoraggiare la "conversazione" con e tra i lettori dell'informazione.

Per quello che concerne le forme esistenti di giornalismo partecipativo, dobbiamo dire che sono tante e diversificate ed offrono una vasta gamma di possibilità comunicative. Si va dal livello più superficiale, con la possibilità per gli utenti di inserire commenti agli articoli, alla sollecitazione dei racconti degli utenti su determinati argomenti, dalla consultazione durante la creazione dei contenuti ai blog ospitati o aggregati sul sito, fino ai siti interamente costruiti grazie ai contributi degli utenti, che possono essere a loro volta sottoposti a controllo editoriale o completamente liberi. Molto in voga in questi ultimi tempi sono i forum online

Questo nuovo canale di interazione tra giornalista professionista ed utente che si adopera come tale, fa sì che ci sia la possibilità per i lettori di esprimere commenti, la funzione di filtro delle 124

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notizie presenti in rete attraverso i link, il controllo dell’accuratezza delle informazioni pubblicate, l’arricchimento delle fonti e degli spunti a disposizione dei giornalisti grazie alle proposte e ai racconti degli utenti, la possibilità per i giornalisti di chiedere suggerimenti e correzioni al pubblico.

comunicazione scritta sta apportando alla nostra società, è che il giornalismo partecipativo si sta dimostrando in grado di modificare il ruolo dell’informazione: i lettori si trasformano da consumatori passivi a protagonisti del processo informativo; non solo: la comunicazione scritta diventa finalmente a tutti gli effetti un processo bi-direzionale, e quindi aperta a tutti.

In conclusione, mi sento di affermare che l'effetto positivo, a dir poco rivoluzionario, che questo tipo di

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(foto di Paola Pluchino)

GIARDINI

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Il tragitto dell’occhio:

l’occhio e le parole di Bernard Noël. ( traduzione e commento di Lucetta Frisa )

Sempre legata alla corporeità, la mia scrittura si sviluppa da “scrivo quello che vedo” a “quello che scrivo mi vive”. Questo percorso si realizza con naturalezza. Obbedisce allo sviluppo della mia coscienza che, intensificando la sua percezione primaria, giunge a creare, nel suo centro, la facoltà della vista nello stesso momento che vede. Appare, in tal modo, una funzione di sintesi in cui l’organo è una specie d’occhio centrale - un occhio che, attraverso la visione simultanea del contenuto dello sguardo e del processo del guardare, crea un nuovo modo d’indagine e di conoscenza. Questa conoscenza è, simultaneamente, tanto il sapere quanto il sapere di sapere che, dall’occhio da cui è sorto, fino al centro del “conosciuto”, mette in circolo un movimento di scambio che è organico come un qualunque circuito nervoso. Questo movimento assume il ruolo di un sistema nervoso, nel senso che non si accontenta solo di mettere in rapporto, ma sa controllare, autocontrollarsi e informare. Da qui, il fatto di vedere e di vedermi mentre vedo diventa un fenomeno fisico indistinguibile dagli altri, se non per la sua acutezza e il suo potere di concentrazione. Da questo momento, non mi definisco più in rapporto a un “interno” e a un “esterno”, ma, sinteticamente, io sono tutti e due. Sono tutti e due perché li comprendo in me. La scrittura è l’espressione di questo “io sono tutti e due” in cui trovano una tale coincidenza il mio pensiero, il mio sguardo e la mia carne (il mio Io, la mia Coscienza e il mio Me stesso) che manda in pezzi tutto il vecchio dualismo in quanto non ha più nessun senso. Io sono. Sono questo occhio aperto al centro della mia coscienza, e mai niente è stato così chiaro di questo sguardo inseparabile dal mio corpo. Il mio corpo è al tempo stesso guaina e focolare di questo sguardo, ma non produce la sua materia se non per pensarla. E ora so che non c’è 127 VDBD – n. 2 – nov.2008


mezzo di pensiero, non c’è un Io-da-pensare, che sarebbe lo spirito, ma tutto il pensiero scaturisce e si ascrive al culmine di questo lavoro materiale, lavoro del corpo che esprime questo pensiero nel corso del guardare come ho cercato di descrivere e che è l’unica sorgente delle parole.

Gennaio 1956 Nota I La minima carne, in me, ha la sua rétina. Il minimo gesto, la minima immagine e il mio sguardo al suo estremo hanno una rétina. L’ombra va in mille pezzi. Ovunque non c’è chiusura. Nota II Poter passare, poter dire a domani o a dopo, poter dire ieri o anticamente, era questa l’ombra degli organi. Ora, tutte le facce del volume sono visibili allo stesso tempo. Ora, eccomi in un mondo dove le palpebre servono solo per dormire.

Nota III Centro del centro del centro, a perdita d’occhio, ma l’occhio mai si perde: un altro occhio gli dà il cambio lo guarda lo obbliga ad auto-guardarsi moltiplica il suo potere. Occhio nell’occhio, occhio corpo dell’occhio, occhio osso del tempo.

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Ho scelto questo brano in prosa e queste tre poesie (che Noël chiama note) perché appartengono a Le lieu des signes dove sono raccolti i primi testi di Noël, da lui considerato, a tutti gli effetti, il suo primo libro. È dunque un libro fondamentale per avvicinarsi a tutta la poetica di Noël, che qui mostra le proprie basi - già perfettamente strutturate - per poi amplificarsi, approfondirsi, condensarsi in diverse variazioni, nei libri successivi: molti saggi e romanzi, moltissime poesie in cui ribadisce la poetica dello sguardo e del corpo, poetica suggerita dalla conoscenza di Artaud e Bataille (sul solco di Nietzsche ancora prima tracciato da Spinoza). È la percezione del corpo come psiche e della psiche come corpo con i suoi sensi allo scoperto - in particolare la vista e con la vista la visione - che recitano il dramma splendido e orrendo della vita nella sua inseparabile danza con la morte. “Il faut voyager dans son corps à la rencontre du temps” è una sua frase altamente indicativa nella sua disarmante semplicità. Pochi autori come lui hanno avuto la spudoratezza di mettere cuore e intelligenza così “à nu”, portando all’estremo le proprie convinzioni. In queste tre brevi poesie enunciative della sua poetica che seguono il brano precedente, si avverte questa presa di coscienza simile a un’assoluta folgorazione insieme allo stupore che provoca: il corpo può essere squadernato come un disegno cubista, dove la luce, avvolgendolo tutto, lo costringe a una veglia insonne, indicandogli il suo limite e allo stesso tempo il suo infinito. Quasi quarant’anni più tardi Bernard Noël, in uno dei suoi libri di poesia forse tra i più belli e convincenti L’ombre du double, ci riparla di una vista triplice se non molteplice. Molteplicità e complessità di sguardo che ritroviamo in tutti i grandi autori contemporanei, a iniziare dal nostro Pirandello in Uno, nessuno, centomila a un altro grande francese, Henri Michaux, che afferma: “L’io non esiste. Io è una posizione di equilibrio”. che cos’è l’oggettività la terra è curva e il senso un dado buttato nell’occhio lo spazio divora tutti i luoghi bianca notte la bocca vede il suo tu qualcosa una fossa nell’aria una mano va via ritagliando la forma del mondo davanti ad ognuno si alza l’altro * la piega di un gesto un labbro nel fumo qualcuno cammina attraverso di sé e 129 VDBD – n. 2 – nov.2008


non se ne va il tempo tocca le mie ossa un’ombra cerca la mia presenza nella luce che uccide tutta la vita scorre fuori la memoria più non respira * un tu inciso nello sguardo scava di fronte lo stesso buco centrale come nell’occhio chi è solo vede la solitudine alla fine di tutto un viso nero forbici d’illusione ritagliano un io d’angelo la sua ala nella mia bocca è la lingua del tu Da L’ombra del doppio (trad. ital. I libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure, 2007, edizione originale P.O.L. Editions, Paris 1993).

Bernard Noël nasce il 19 novembre 1930 a Sainte Geneviève-sur-Argence nell’Aveyron. Gli avvenimenti che lo hanno segnato sono quelli della sua generazione: la bomba atomica, i campi di sterminio nazisti, la guerra del Vietnam, la scoperta dei crimini staliniani, la guerra in Corea, la guerra d’Algeria. Al primo libro, Extraits du corps (trad. ital. Estratti del corpo, Mondadori) segue un lungo silenzio. Dal 1969 inizia una sterminata attività di scrittura: ricordiamo il romanzo-scandalo Le Château de Cène e i grandi libri di poesia, La chute des temps e L’ombre du double, tradotti in Italia da Guanda e da Joker. Diversi i libri ispirati ad artisti come Géricault, Giacometti, Masson, Michaux, due volumi teorici sull’arte Roman d’un regard e Les yeux dans la couleur e diverse plaquettes con artisti contemporanei. Studioso di Sade, Bataille e Artaud, scrive un saggio sul rapporto tra Antonin Artaud e Paule Thevenin, Artaud e Paule (trad. ital. Joker). Molti i suoi libri significativi in prosa, tra cui, la Langue d’Anna, dedicato ad Anna Magnani, e Le Syndrome de Gramsci, tradotto in Italia da Manni. Nel 2005 è stato candidato al Nobel.

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Titta Abbadessa di Marco Scalabrino

legame che la Poesia esercita, i contatti epistolari, telefonici, per e-mail si intensificarono, e si consolidarono la reciproca stima e il rapporto umano. Quando allora qualche mese fa, la mattina di un Sabato, Fina Abbadessa mi telefonò annunciandomi che la Città e l’Amministrazione del Comune di Camporotondo Etneo, di cui Piano Tavola – frazione nella quale Titta Abbadessa abitò, in via Nazionale 2, sin dal lontano 1960 – è territorio, nella persona del Sindaco Antonino Rapisarda, a dieci anni dalla scomparsa, avevano deliberato di intitolare una piazza al padre, fui entusiasta del proposito, felice per il nome e la famiglia di Titta, compiaciuto quale siciliano e quale poeta dialettale. Ma l’oggetto della telefonata di Fina Abbadessa non si esauriva in quelle notizie e lei altresì mi confidò che per quell’avvenimento stava personalmente allestendo un florilegio dei testi scelti del genitore e, oltre ogni mia congettura, che lo staff degli organizzatori e lei avrebbero gradito che io fossi il relatore della

Ho

incontrato Fina Abbadessa alcuni anni or sono a Trapani, la mia città, nelle circostanze di un concorso letterario. Quel pomeriggio lei conseguì il primo premio con un suo componimento in Italiano, la cui recitazione fu ben apprezzata. Io ero in platea, tra il nutrito e attento pubblico, e a fine cerimonia mi avvicinai e mi presentai a lei, sia per felicitarmi a motivo della meritata affermazione sia per parteciparle che tra le righe del suo testo, dal titolo ASPETTANDO LA MAREA, in quella “quercia possente, corteccia ruvida e fronde rigogliose, ghermita un mezzodì qualunque dalla Gorgone” io avevo ravvisato un lirico, tenero, affettuoso omaggio al padre. Titta Abbadessa era scomparso di recente e quella evenienza mi fu perciò propizia per esprimerle il mio cordoglio per la immane perdita, per comunicarle che io avevo avuto modo di conoscerlo, che eravamo stati assieme in talune occasioni, che ne serbavo un garbato ricordo, che ne possedevo un paio di pubblicazioni. Da quella sera, in forza del 131 VDBD – n. 2 – nov.2008


ha visto la luce, per i tipi della Tipolitografia Gullotta in Catania, nel Marzo 1991. Altri flashback sovvengono disordinati, spingono per essere celebrati e, volentieri, ve li giro. Rammento una domenica d’estate, dopo una kermesse letteraria mattutina, il pranzo in un ristorante della splendida Ragusa Ibla e lì, in un gioioso clima conviviale, Titta Abbadessa recitò, con sommo gaudio degli astanti, il brano FRA DU’ VICCHIAREDDI PINSIUNATI, tratto dalla commedia atto unico in versi VERA, BRAVA VARVERA DI LU ME PAISI. Un ulteriore episodio risale alla prima metà degli anni Novanta: Titta Abbadessa venne a Paceco, località poco distante da Trapani, per ritirare, presso la Biblioteca Comunale, un premio attribuito alla sua poesia C’ERA NA VOTA, della quale conservo copia datata 1992. I consensi quella sera tributati alla poesia e alla persona sottolineano, ove ve ne fosse bisogno, i saldissimi longevi legami tra Oriente e Occidente di Sicilia, e il fatto che Titta Abbadessa ha avuto fervidi ammiratori, e amici genuini, non solo nei patri lidi ma anche nella Sicilia occidentale e a Trapani e in provincia in particolare. Rimangono comunque, impressi nelle mie reminiscenze, l’uomo, le sue fattezze, il viso rotondo, lo sguardo leale, la “congenita” abbronzatura, i baffetti brizzolati, la rodata ars declamatoria e, ultima ma non ultima, la bonaria compostezza. Titta Abbadessa, primogenito di sette figli, nacque, da una umile famiglia contadina, a Misterbianco il 30 Luglio del 1924. Le ristrettezze economiche lo costrinsero a interrompere (presto) gli studi e a seguire il padre nel duro lavoro dei campi. <La Natura ha voluto donarmi un bel pizzico di buonsenso e grazie a questa facoltà, che mi consente di

manifestazione che di lì a poco andava a realizzarsi. Superato l’iniziale attimo di sbigottimento, la ringraziai di cuore e mi dichiarai lusingato e disposto a onorare la memoria di Titta Abbadessa. Ho conosciuto Titta Abbadessa … I ricordi sono riemersi tumultuosi, irruenti, disorganici tutti insieme a seguito della amabile telefonata pervenutami da Fina Abbadessa e, dopo lustri di ovattato letargo, tuttora stentano ad assumere una precisa dislocazione cronologica. In ogni caso, correvano gli sgoccioli degli anni Ottanta e gli esordi degli anni Novanta allorché ebbe origine la mia iniziazione al Dialetto Siciliano. In quel periodo si susseguirono frequenti, in ambito di concorsi letterari, di recital, di convegni, le puntate nel catanese, nel ragusano e nel messinese: Misterbianco, Catania, Vittoria, Barcellona Pozzo di Gotto, eccetera. All’epoca peraltro, e per un buon frammento degli anni Novanta, si svolgevano nei mesi estivi, a Castellammare del Golfo, cinquanta chilometri circa da Trapani, a cura del compianto zu Pippinu Caleca, i rinomati raduni regionali ai quali partecipavano, in una sorta di gemellaggio in gloria della poesia, numerosissimi autori dialettali siciliani e fautori del dialetto siciliano, decine e decine provenienti dal versante orientale dell’Isola, che giungevano nella cittadina trapanese con autovetture e bus stracolmi di amici e di familiari per una giornata domenicale che di fatto si tramutava, volta per volta, in un festoso giubileo. In una di quelle fortunate occorrenze il nostro incontro. Un paio di dati sono tuttavia certi: un luogo, Misterbianco, e un anno, il 1991, posti, unitamente alla firma, in calce alla dedica fattami per il dono del suo libro SULI CA NON TRACODDA MAI, libro che 132 VDBD – n. 2 – nov.2008


elaborare l’arte con la fantasia, rappresento fatti, immagini e tutto ciò che mi circonda.> Sono parole vergate di suo pugno, che ho riportato al fine di una fedele, rigorosa, presentazione. È tempo adesso, dopo averne delineato per sommi capi il contesto all’interno del quale sono maturate, di dedicarci all’opera e alla figura di Titta Abbadessa, le cui valenze, per le attitudini, l’agone socio-politico, il carisma che si ritrovò a esercitare, sono innegabilmente poliedriche. Privilegeremo, giacché questa sede e questo ruolo ciò richiedono, il profilo culturale del Nostro, appellandoci, per la “ricostruzione” di un sì sfaccettato mosaico, sia alle indicazioni scaturite dalla selezione operata da Fina Abbadessa, sia alla pluralità degli spunti che ci hanno sollecitato. Per prima cosa ci interroghiamo: <Quando cominciò a scrivere Titta Abbadessa? E cosa ha scritto?>, con ciò fondatamente significando: cosa ha pubblicato? Ricorro una volta di più a una fonte inoppugnabile: la sua propria penna. Annota Titta Abbadessa nel 1991: <È da una cinquantina d’anni che scrivo poesia. Amo la campagna e, mentre lavoro, mi viene l’ispirazione … e cantu la Natura e m’arricriu / pirchì mi sentu a cuntattu ccu Diu>. La sua attività di poeta ebbe inizio nel 1947. Ecco, introduciamo una tra le peculiarità dell’opera di Titta Abbadessa: la “mascara”. La “mascara”, la cui etimologia deriva dall’arabo maskhara nel costrutto di buffone e per riflesso derisione, burla, consisteva nel rappresentare in pubblico, nel periodo del Carnevale, una farsa o commedia in versi, su fatti e accadimenti di vita sociale locale effettivamente verificatisi, opportunamente rielaborati così da

scongiurarne l’individuazione dei reali protagonisti. Gli interpreti della “mascara” erano tutti uomini, in maggior misura contadini. Alcuni di loro si prestavano a ricoprire i ruoli femminili, per cui non c’era da stupirsi se, sui carretti, si vedevano recitare “donne” con tanto di baffi! La “mascara” scritta nel 1947, ripresa poi nel 1978 nella commedia in versi titolata CU’ PRIMA NON PENZA ALL’ULTIMU SUSPIRA, fu la sua prima creatura. Sia CU’ PRIMA NON PENZA ALL’ULTIMU SUSPIRA che VERA, BRAVA VARVERA DI LU ME PAISI, che le altre sue “mascari”, tutte rigorosamente in versi siciliani, sono state portate sulle scene nel Carnevale misterbianchese. Rotto il ghiaccio, ritengo semplicistico, superficiale, delittuoso liquidare la pratica Titta Abbadessa limitandoci al mero inventario di titoli e di anni delle pubblicazioni. Sappiamo sì, che suo malgrado, egli ha dovuto rinunciare agli studi regolari; ma parimenti sappiamo che la lettura – libri, giornali e quant’altro – è stata sua fedele compagna in ogni istante in cui il gravoso lavoro dei campi glielo ha consentito, in ogni stagione del suo itinerario terreno. E nondimeno ciò, da solo, non sarebbe stato allora sufficiente, né fornirebbe oggi la risposta adeguata. Quale è stato quindi l’evento scatenante, la contingenza che ha liberato le latenti sue inclinazioni, il punto di non ritorno? <Un giorno del 1942 – rivela Titta Abbadessa – mia madre, rientrando da Catania, mi portò un libro che aveva acquistato in una bancarella.> Il libro si titolava IL GIRO DEL MONDO DI UN BIRICHINO DI PARIGI; ma questo non è essenziale. Conta piuttosto che egli, avendo raccolto per giorni e giorni chili e chili di radici di saponaria (scippannu ervi a corpa di zappuni, è detto nel testo ‘U MAESTRU che più avanti richiameremo) e 133

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avendo rivenduto le radici a una signora di Paternò, racimolò la bella somma di Lire 200 e ordinò alla Casa Editrice Sonzogno, tramite il cedolino allegato al libro appena menzionato, i seguenti due volumi: il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana e il Poliglotta Moderno: Francese, Inglese, Tedesco e Italiano; volumi che puntualmente ricevette dopo una ventina di giorni. Lo studio delle lingue, lo si apprenderà scorrendo il tomo LE COSE SACRE NON SI DISSACRANO, gli sarebbe stato provvidenziale in quei frangenti perigliosi di guerra e di invasioni militari. Ma cos’è stata per Titta Abbadessa la Poesia? E cosa il Poeta? <La poesia – riferisco testualmente – è l’arte di rappresentare fatti, immagini, sentimenti, con parole disposte secondo un determinato ritmo; e poeta è colui che, per felice disposizione d’ingegno, mosso da forti passioni e da fervida fantasia, manifesta pensieri e sentimenti in forme vive e armoniose. Nella mia vita – prosegue – ho preso e prendo tutto con la massima serietà. Ho letto tutti i libri che ho comprato o che ho avuto in omaggio dai poeti e me ne sono fatto un buon profitto culturale.> Poeti, con i quali Titta Abbadessa ha coltivato autentici rapporti di amicizia o di devozione, che rispondono ai nomi di: Turiddu Bella: <tutti li Musi jocunu ccu tia / facennu festa ccu li canti toi. / Turiddu, tu si’ granni, cridia mia: / in Arti si’ sublimi, si’ ‘n-eroi>; Pippinu Caleca: <onuri a d’iddu di cori curtisi / ca teni la puisia a primavera. / È lu Caleca l’omu di li ‘mprisi / pirchì a tutt’oggi porta la bannera>; Guglielmo Castiglia: <vurria cantari senza lassa e pigghia / un gran pueta, omu di campagna. / A vuci ‘ranni, Guglielmu Castigghia / è comu si cantassi cosa magna>;

Giovanni Formisano: <spissu sinteva ‘nta li sirinati / palori ca ‘ntunavunu accussì: / “Lu suli è già spuntatu di lu mari / e vui bidduzza mia dormiti ancora …” / Palori ca parevunu ‘nfatati / miludiusi e chini di virtù.> E ancora di Alfio Naso, Tano Petralia, Nunzio Petralia, Nino Sava, Neddu Bruca, Pasqualino Caruso, Nitto Santonocito, Pasquale Santonocito, Giovanni Scuderi, Turiddu Malerba, Pippinu Anfuso, Ciccu Vitanza, Nina Giardinaro, Saro Ragusa, Attilio Celi, Angelo Santonocito che Titta Abbadessa ricorda assieme con Turi Scordo, il quale durante le prove della “mascara” spesso consigliava agli attori come meglio declamare e rispettare la rima. Accanto a costoro, Titta Abbadessa non manca egualmente di annoverare alcuni concittadini, Mustarianchisi sperti e puliti, che hanno onorato il proprio paese, mettendo i loro talenti a disposizione della collettività, col primario intento di divulgare l’arte, la scienza, la fede: Nunzio Caudullo, Angelo Belfiore, Pippo Giuffrida, Nunzio Ferrara, Paolo Citraro, Giuseppe Di Prima, Pippo Caruso, Mimmo Santonocito, Padre Vincenzo Cannone e Padre Giovanni Condorelli. A partire dall’anno 1970 Nino Giuffrida Condorelli introdusse Titta Abbadessa nei circoli catanesi ARTE E FOLKLORE DI SICILIA, SOCIETÀ STORICA CATANESE e altri, ed egli conobbe i poeti al tempo in auge, quali Giovanni Isaia, Enzo D’Agata, Pippo Cacopardo, Antonino Bulla, nonché Vincenzo Di Maria. E nella antologia, I POETI DELL’ETNA del 1973, e nel Cenacolo denominato “Centro d’Arte e Poesia Antonino Bulla” si trovò fianco a fianco di autori del rango di Nino Gringeri, Giancarlo Interlandi, Carmelo Molino, Alfredo Danese, Tino Scalia, Giuseppe 134

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pubblicato alla fine del 1996, pochi mesi prima della morte avvenuta il 15 Febbraio 1997. CUNTEGGI CAMPAGNOLI, edito nel 1977, è un cospicuo volume di 300 pagine in cui viene ricreato il tessuto economico e sociale nelle campagne misterbianchesi dagli anni Trenta agli anni Sessanta: un succedersi di vicende reali, di vite vissute, di testimonianze di gente tenace e laboriosa. Un libro – asserisce Titta Abbadessa – di pura, nuda e cruda verità. La prefazione, che abbiamo ben valutato e di cui riportiamo rapidi stralci, è di Giovanna Giuffrida: <Titta Abbadessa si fa portavoce della realtà umana di una sofferta generazione che ha visto i soprusi del regime e gli assurdi della guerra e che ha patito gli inganni di una politica violenta e le miserie della terra spesso avara. Il clima rarefatto di un momento della nostra evoluzione salvato dalla dimenticanza. La verità dell’uomo che crea per sé e per gli altri quella dimensione astorica propria della rievocazione. Un abbraccio commosso e spontaneo di Abbadessa ai suoi contemporanei, ai sacrifici, alle sofferenze, ai costumi, alle tradizioni di un’età al tramonto, di una generazione di umili eroi che nelle pagine hanno un riscatto morale, il giusto posto d’onore in una galleria a loro dedicata.> Per un processo di accumulazione, funzionale alla loro classificazione in quanto mezzadri, <persone semplici, umili, analfabeti o quasi, nostri avi che, fino a vecchiaia inoltrata e senza pensione alcuna, lavoravano i terreni degli altri>, compaiono, tra le pagine 192 e 296 del volume, una serie sterminata di soprannomi, di nomignoli. Ma, come del resto fa Titta Abbadessa, rivolgiamoci a essi chiamandoli coi lemmi di peccu o nciuria, ché “naturalmente” tale lessico è integrato in quel mondo in dissolvenza, in

Pisano, Giovanni Formisano jr, Santo Calì, eccetera. Nel 1978 esortato da Micio Agosta, pittore di San Giovanni Galermo, e tramite Nino Marzà partecipò al Raduno dei Poeti Siciliani organizzato da Peppino Caleca. Tanti anni prima, nel 1950, aveva sentito dire che Turi Scordo, di Misterbianco, e Peppino Marchese, di Piano Tavola, erano andati assieme ad un raduno in un luogo lontano. Quella volta realizzò che luogo e raduno erano quelli di Castellammare del Golfo. Il 7 Giugno 1987, per volere di Peppino Caleca, si tennero a Misterbianco i festeggiamenti in occasione del suo 85simo compleanno. I poeti del catanese, Titta Abbadessa in testa, offrirono a Peppino Caleca una targa in argento, grande abbastanza da contenere incisi i 124 nomi dei promotori dell’iniziativa. Nel 1993 Titta Abbadessa redasse la prefazione della silloge di Peppino Caleca titolata: RACIUPPANNU RACIUPPANNU CU SPASIMI E DULURA. Ma, chiudiamo questa pure avvincente e bella pagina umana, rimandiamo quanti volessero sviscerare il fraterno rapporto tra Caleca e Abbadessa alle fitte facciate dedicate in LE COSE SACRE NON SI DISSACRANO, facciamo un passo indietro e torniamo a occuparci più da presso del Nostro. Ha scritto e pubblicato: LI TRICENT’ANNI DI MUSTARIANCU, opuscoletto in versi del 1969, nella ricorrenza del Terzo Centenario della fondazione di Misterbianco; MUSAICU DI VERSI, liriche dialettali siciliane del 1976; LA FRUMMICULA E L’OMU, poemetto in dialetto con traduzione del 1976; CU’ PRIMA NON PENZA ALL’ULTIMU SUSPIRA, commedia in versi del 1978 derivata dalla famosa <mascara>; LA SIGNURINA VOSCENZA, commedia in tre atti del 1980. L’ultimo lavoro di Titta Abbadessa, LE COSE SACRE NON SI DISSACRANO, venne 135 VDBD – n. 2 – nov.2008


quel ritaglio di società in disgregazione, in quella corte culturale all’epilogo. Endemici in passato e oggi pressoché scomparsi, li nciuri, che sovente venivano ereditate dai discendenti di coloro che ne erano stati per così dire titolari, consentivano l’identificazione immediata e indubbia di un casato e di una persona. La loro tipologia è assai variegata e sarebbe prolisso (e spropositato) rivangarne le origini, legate all’attività, a una speciale caratteristica fisica, a un distintivo atteggiamento, a una località, eccetera. Ne elenchiamo, solo mo’ di esempio, le più “colorite”: Ninu causilenti, Petru ‘nsalata, Puddu acquafrisca, Angilu cacaligna, Giuvanni funciazza, Ninu bunaca, Natali cosciajanca, Micalangilu cingalenta, Matteu mattiddina, Ninu manazza, Ninu uccastotta, Cammelu pulici, Pippinu mustazzu, Miciu favisquadati, Vicenzu pisciafinocchi, Neddu micciastotta, Cammelu cicireddu, Affiu masciuscia, Mariu uccad’aneddu, Nunziu menzuculu, Peppi urrocamotti, Turi babbaleccu. L’universo di Titta Abbadessa, pregno di ragguagli storici, di personaggi esclusivi, di allusioni alla Natura, di esortazioni al bene e alla pace, di coefficienti affettivi, si perfeziona di emozioni, di suggestioni e di parole. Parole, ovviamente, siciliane. E ciò ci offre il destro per soffermaci, stringatamente, sulla questione che direttamente lo ha investito e tutt’oggi ci investe: la Poesia e il Dialetto. <La letteratura dialettale – registra Gian Luigi Beccaria in LETTERATURA E DIALETTO, Zanichelli Editore 1983 – non conosce eclissi salvo che nel Rinascimento. L’esperienza storica più complessa è negata a quella letteratura. Ciononostante non è affatto letteratura subalterna di interesse locale. Coesiste, con pari diritto, accanto alla nazionale con la quale forma cordiale e ricca unità,

feconda di scambi.> Eppure la concezione del dialetto quale codice dei parlanti di un ristretto consesso sociale, un codice sinonimo di sottocultura, è sostanzialmente tuttora diffusa. Concezione fondata sul pregiudizio, su una visione assai approssimativa di quanto invece c’era – c’è – di bello, di prezioso, di antico nel nostro dialetto. Non stiamo più, qui, a reiterare che, dopo il disfacimento del Latino, il Siciliano divenne la prima lingua letteraria italiana (Dante, nel De Vulgari Eloquentia: tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano; e il Devoto: la Sicilia a partire dal XII secolo, nel periodo delle due grandi monarchie, la normanna e la sveva, ha elaborato la prima lingua letteraria italiana); che l’epopea del XIII secolo, la rinomata Scuola Poetica Siciliana, fiorì a Palermo alla Magna Curia di Federico II; che nella Sicilia del Cinquecento operavano due Università, quella di Catania e quella di Messina; che già nel 1543 il siracusano Claudio Mario Arezzo propose di istituire il siciliano come lingua nazionale; che per la presenza di Vocabolari, non ultimo il monumentale in cinque volumi di Giorgio Piccitto, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera, nonché di Autori di levatura planetaria, il Siciliano potrebbe essere considerato – se davvero esigessimo impuntarci su questo termine – lingua, ma che il designarlo Dialetto nulla gli sottrae e niente affatto lo diminuisce. E nondimeno non possiamo sottacere che, al pari di ogni altro idioma, esso è un organismo vivente, una struttura articolata i cui elementi, le parole, sono in continua correlazione e trasformazione. Trasformazione dovuta al variare della società, connessa alla evoluzione filosofica, scientifica, tecnologica, e bensì allo stravolgimento dei tempi, del costume, della prassi quotidiana. 136

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Trasformazione che vieppiù, ahinoi, va connotandosi quale sinonimo di impoverimento, abbandono, agonia. Le parole, rilevano gli studiosi, hanno una vita. E in questa loro vita, esse nascono, si evolvono, si ammalano, invecchiano, muoiono. Oggi i fax, le e-mail, i messaggini … sono mutati il mondo, lo scenario ambientale globale, la pratica della vita e per conseguenza sono mutati i codici di comunicazione. La Poesia è ricompresa nel novero dei codici sociali, un codice invero speciale giacché, è giusto il caso di ribadire, essa è interiore urgenza, combinato esercizio di spirito e di intelletto, ufficio il più serio della vita del Poeta. Il linguaggio utilizzato da Titta Abbadessa è il dialetto di tutti i giorni, permeato dalla sofferenza della storia e delle idee. La scelta dialettale è motivata dalla impellenza di palesare sentimenti e concetti nel modo più conforme alla propria sensibilità. Il MANIFESTO DELLA NUOVA POESIA SICILIANA, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, a cura di Salvatore Camilleri, pubblica due componimenti di Titta Abbadessa, QUANNU SCRIVU PUISIA e MORU SI NUN FAZZU PUISIA, e una stringata chiosa: <Al sentimento doloroso della povertà e delle ingiustizie sociali si accompagna la gioia del vivere in un continuo contatto spirituale con la natura, colta nella sua bellezza smagliante e generosità di frutti elargiti all’uomo. È una poesia dal timbro forte, grazie a numerosi gruppi consonantici in un’ebbrezza di toni e di notazioni, varianti in una dinamica lirica assai vigorosa.> SULI CA NON TRACODDA MAI, che ha visto la luce nel 1991 ma i cui testi spaziano tra gli anni dal 1970 al 1990, fu così intitolato dall’Autore perché era suo

convincimento che la poesia, e nel dettaglio la poesia popolare, tradizionale, rimata e ritmata, <finché c’è l’uomo che la coltiva, come il sole, non tramonterà mai.> In quei versi Titta Abbadessa “immortala” (immortalare, in tutte le forme della sua declinazione, è una nozione che egli adopera con insistita frequenza) tanti episodi visti e vissuti di persona, benché arricchiti o addolciti dalla fantasia. E soprattutto viene consacrato, in una impronta indelebile, Misterbianco, il suo paese natio. <La storia di Misterbianco – appunta Titta Abbadessa – è storia di tormento fisico e morale. Il tormento fisico è quello della sua distruzione totale causata dall’eruzione dell’Etna nel Marzo del 1669, la sua più grande e disastrosa eruzione. Allora il vecchio casale di Monasterium Album era nei pressi ove oggi si possono ancora vedere i ruderi del vecchio campanile denominato “Campanarazzu”, in zona Madonna degli Ammalati, l’unica testimonianza di ciò che ci è rimasto di quella catastrofe. Il tormento morale è quello della prepotenza che l’uomo fa al suo simile.> “Ammalati” è una frazione di Misterbianco, dove si svolge, nel periodo estivo, una processione religiosa annuale che ricorda il miracolo della chiesetta risparmiata dalla lava dell’Etna che l’aveva ormai circondata durante una delle tante eruzioni. Lungo il raccordo con la strada provinciale S.P. 12 si trova l’antico il sito di Campanarazzu. <Mustariancu, sempri mi rammentu / la carusanza passata ccu tia, / scausu e ti sigueva in ogni via … / Quannu ci pensu a chiangiri mi mentu. / Mustariancu miu, Terra natia, / accetta chistu elogiu in puisia!>; 137

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<Lu quadru ca si gira nto paisi / fu votu fattu ccu fidi riali, / fidi di cori mustarianchisi / cumbattenti di l’Africa Orientali. / Mustarianchisi, di lu cori ‘ranni, / ca siti nta stu Chianu radunati, / gridati assemi a mia, picciotti e granni: / “Evviva la Madonna d’ ’i Malati!”; <Lu tempu passa … havi tricent’anni, / quannu ppi ‘n-capricciazzu di Natura, / ca Mungibeddu vosi fari ‘u ‘ranni: / dannu a sti lochi eterna sipultura. / Campanarazzu, lu to nomi è granni, / la radica si’ tu di stu paisi. / E iù p’alliviari ‘i toi malanni / eternamenti cantu a toi difisi>. Si situano altresì bene, in questa cornice, i riferimenti correlati alla festa di Sant’Antonio Abate, Patrono di Misterbianco: <Sant’Antunuzzu di virtù divini, / scansatini d’ ‘i guai e di li peni, / faciti quantu stamu a Diu vicini / ppi quantu ni vulissimu chiù beni; / faciti ca rumpemu li catini / e godiri la vita chiù sireni, / mannatini la Binidizioni / e nui gridamu “Viva Sant’Antoni!”; alla Natura: <Viniti a la campagna, cittadini, / viniti a visitari la Natura / ca offri paisaggi ginuini / e suggirisci maggica pittura. / Ccà non ci sunu aceddi abbassamati, / mancu ci su’ di plastica li ciuri, / ccà ogni cosa sana la truvati: / ccussì comu la fici lu Signuri>; all’Etna, il nostro vulcano, amorevolmente anche chiamato Muntagna o Mungibeddu, locuzione quest’ultima che assomma la radice latina di mons (monte) e quella araba di gebel (bello): <Mungibeddu autu e supranu / ca eternamenti fa la so fumata>. Circa la Madonna d’ ’i Malati, come pure su Sant’Antoniu Abbati, chi lo desideri potrà approfondire consultando il volume IL MIO PAESE, del misterbianchese Antonio Belfiore.

LE COSE SACRE NON DISSACRANO è il capitolo conclusivo

della saga associata al marchio Titta Abbadessa. Nomi, cartine, foto, immagini, quietanze, bollette, articoli di giornale, mappe, contratti di mezzadria, tessere di partito, atti pubblici, delibere, sentenze, lettere, copertine di libri, date, annotazioni le più disparate, addirittura un “caldo” discorso – nella stesura integrale, letto sul palco di Piazza della Repubblica a Misterbianco la sera del 6 Giugno 1980 – che la dice lunga riguardo ai suoi travagliati rapporti con il mondo della politica e dei padroni. Un libro che nelle sue dimensioni, la testimoniale, la documentale, la storica oltre che la fisica e l’affettiva, ci consegna uno spaccato che eccede i confini di Misterbianco da cui scaturisce e diviene esemplare di una realtà corrente all’epoca nell’Isola. Scampoli di storia sotterranea, o come qualcuno l’ha acconciamente definita “carsica”, per quella singolare caratteristica, dei fiumi della regione del Carso appunto, di emergere per effimeri spazi in superficie e sottrarsi poi per lunghi tratti alla vista. Un dossier inestimabile, unico, che si spinge fino al 1994, che restituisce cinquant’anni quasi di vicende storiche, politiche e sociali di Misterbianco e dintorni, in cui molti Siciliani avranno potuto rispecchiarsi, e che stimo potrà essere in futuro oggetto di studio da parte dei ricercatori. I temi sono la memoria, gli avvenimenti, la testimonianza, la nostalgia, il destino di uomini e di donne la cui attrattiva insiste sulla amarezza della loro condizione sociale. Famiglie, persone, individui per i quali le vicissitudini indotte dal conflitto bellico sono andate a sommarsi alle già precarie situazioni sociopolitico-economiche, all’atavica sudditanza culturale e psicologica. 138

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SI


facoltà critica rispetto alle cose del mondo (laddove criticare, dal greco “krinein” intende scegliere, discernere, e contempla un atto di libertà). A ciò vanno aggiunte le qualità umane che in lui tutti hanno riscontrato: generosità, disponibilità, integrità morale, carisma, eccetera. Ben oltre la fattispecie del “poeta dialettale” si staglia dunque la sua statura! Perché la prosa, le “mascari” e le commedie e precipuamente i volumi che hanno vagliato la storia, che hanno scavato nella società e nel costume, con le ricerche negli archivi notarili, con la riproposizione di interi atti, con sentenze, contratti di mezzadria, con testimonianze raccolte a viva voce, con dossier a riprova di quanto sostenuto, fanno del suo un lavoro che resterà nel patrimonio memoriale di quelle comunità di cui egli ha trattato.

Ma ampia fetta del lavoro, la più suggestiva, vibrante, è votata alla rievocazione dell’anno 1943; alle vicende che hanno ruotato intorno a quell’anno e di cui Titta Abbadessa si fa puntuale, elettrizzato ermeneuta. Per il 19nne Titta Abbadessa, il 1943 ha costituito l’anno di snodo, un cardine della sua esistenza. Un carosello che, a saperlo cavalcare, salva la vita, e regala esperienze, gesta e maturazione imperiture. <Quando nella mattinata del 4 Agosto 1943 le avanguardie delle truppe inglesi entrarono a Misterbianco nel mio animo si accese una sensazione come se tutto dovesse cambiare>. Un “albero rosso” da cui avrebbe dovuto scaturire la tanto sospirata giustizia sociale; la speranza di una nuova alba presto naufragata. La figura di Titta Abbadessa, poeta, autore teatrale e di “mascari”, appassionato cantore di storie, quelle minute, quelle con la esse minuscola, quelle che nessun testo di scuola mai narrerà, merita di essere commemorata, magnificata, tramandata come convenientemente ha fatto la città di Camporotondo Etneo. E ciò nel tentativo di confutare l’asserzione di Antonino Cremona che, a proposito del poeta niscemese Mario Gori in una lettera del 21 Aprile 1997, aveva sconsolatamente osservato che <la Sicilia è un cimitero di dimenticati>. Titta Abbadessa è stato uomo che malgrado, diremmo oggi, il gap iniziale causato dalle modeste condizioni socioeconomiche, malgrado le congiunture imposte dall’impossibilità a seguire studi regolari e dalla guerra, malgrado talune avversità e angherie subite da politica e padroni, ha trovato in sé, nei propri valori e virtù, nella fede, la tempra di elevarsi nella cultura, nella dignità umana, nella

<Non mi fermerò di scrivere, perché è mio espresso desiderio lasciare una traccia della storia del mio paese natio: Misterbianco.> Don Titta però, come si divertiva a chiamarlo la figlia Fina “ammucciannu l’affettu sutta ‘u sghezzu, cascò ‘n terra all’improvvisu” e ha dovuto fermarsi il 15 Febbraio 1997. Alla sua scomparsa gli amici, quegli amici che egli <aiutò a scrivere la poesia nella giusta metrica e nel giusto modo di comporre: la terzina, la quartina, la sestina, il sonetto>, con gratitudine e affetto lo hanno chiamato Maestro. ‘U Maestru. Non ghisti a scola ch’eri puvureddu / e travagghiasti ancora picciriddu, / ma gran disiu avevi di ‘mparari / e lu facisti cu tuttu lu cori / senza vardari fatichi e suduri. / Li primi libbra ti li procurasti / scippannu ervi, a corpa di zappuni, / e pi campari nta ddi tempi tristi / ti facevi 139

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abbastari ‘n-muzzicuni. / Alacri era lu to studiari / e pi la puisia forti l’amuri / e cu custanza la meta giungisti, / di pueta anuratu e di scritturi. / Eri urgugliusu di lu to valuri / ma non gneri gilusu do misteri / e a cu vuleva cu gioia sincera / nte sinteri di l’arti lu guidavi. / Ora ca non ci

si’, ca ni lassasti / tanti pueti ca lietu accuglisti, / grati do tempu ca ci addidicasti / e rimimbrannu li to versi e l’estru / cu rimpiantu ti chiamaru ‘u Maestru.

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L’IMPOSSIBILE CODICE ESISTENZIALE NELLA POESIA DI GABRIELA FANTATO di Ottavio Rossani

La nuova raccolta di poesie di Gabriela Fantato Codice terrestre (La Vita Felice, 2008, pagg. 82, Euro 12), è un libro importante. Per quello che presenta: cioè il significato di una creazione compiuta, che chiude un’epoca storica di formazione, di acquisizione, di realizzazione, di sedimentazione, di definizione. Ma anche per quello che proietta verso il futuro: cioè una capacità di sperimentazione che non si potrà certamente fermare, un’ipotesi di apertura di nuove strade di ricerca. Gabriela Fantato ha cominciato più di vent’anni fa a scrivere e pubblicare poesie. Ma nel frattempo ha fatto molte altre cose: insegnamento, animazione culturale, presentazione di libri, fondazione e direzione della rivista La Mosca di Milano che oggi è ormai un punto di riferimento per la cultura milanese e italiana. Anche questi aspetti hanno contribuito al suo profilo culturale originale e persuasivo, che con la nuova opera si arricchisce e si staglia con più preciso tratteggio. 141 VDBD – n. 2 – nov.2008


Codice terrestre non è un libro metafisico, non è un libro di ricerca spirituale, non è intimistico, non è nemmeno strettamente lirico. Se dobbiamo dare per forza una definizione possiamo azzardare che si tratti di una poesia filosofico/esistenziale ma con evocazioni, ricordi, delusioni, e premonizioni. La vita non è finita, la poesia non è finita, le ipotesi sono ancora molte e tutte plausibili. Ma il dato da cogliere è la modificazione delle cose, delle idee, della parola creatrice. La giovinezza è finita: questa è la “constatazione” che si deve fare, come ha sottolineato Milo De Angelis nell’introduzione al libro. L’età matura comporta un cambiamento, ovviamente non per tutti, ma per chi sa e vuole realizzarlo. Quindi è necessario fare un bilancio. È necessario mettere ordine nelle cose, nei fatti, nelle emozioni. Trattenere ciò che è fondamentale, e buttare via orpelli, zavorre, pesi inutili. Con una metafora che traggo dalla poesia Le notti posso sintetizzare questo ragionamento con i versi di Gabriela che dicono: “Siamo l’alba che beviamo/ e ci segue e ci apre come solchi/ pieni di pudore./ Al sole siamo solo grano che non smette/ di crescere e noi , noi siamo/ - questa preghiera” (pag. 37). La poesia di Codice terrestre, il cui titolo non casualmente è tratto da un verso della raccolta Tema dell’addio (Mondadori, 2006) di Milo De Angelis, scompagina le carte del processo creativo della Fantato. Ipotizza un ordine codificatorio in cui il corpo, la mente, l’esistenza, gli affetti, gli amori, le cadute, le speranze, le disillusioni, e le nuove potenzialità possano evidenziarsi, autonomamente, solo perché sono esistite, o esistono ancora. Mentre la poetessa compie questa operazione certosina, di precisa connotazione intellettuale, eliminando appunto tutto ciò che è in esubero, non più rilevante, inserisce però false concordanze, falsi registri, false “norme”. Tutto ciò che viene eliminato sparisce, ma quel che resta, ed è tanto perché non ci sono abiure, non ci sono tradimenti del proprio passato, torna a diventare oggetto di rimescolamenti e di aggrovigliamenti. “Il sorriso copre l’assenza dei volti/ - non tirare le somme,/ non sarà un numero a dire la gioia,/ un azzardo nel bianco./ L’addio improvviso come il freddo./ Resta un patto senza abbreviazione/ la tua storia./ Un bordo dentro gli occhi./ Solo nel taglio esatto/ a volte riposo” (p. 72). Sono i versi conclusivi dell’opera, ma in fondo sono i primi propositi per la ripresa dello scavo dentro le pieghe dell’esistenza possibile. Un riposo molto difficile, se non ogni tanto, quando il poeta troverà il “taglio esatto”. Ma il “taglio esatto” quando e quante volte si può trovare? Nel giugno scorso ho pubblicato sul mio Blog POESIA sul Corriere della Sera on line (http://poesia.corriere.it) una recensione al libro e lì mettevo in evidenza che i temi della Fantato sono tanti e sono quelli della “grande poesia”: l’amore, la vita, la morte, la famiglia, i dissensi, i problemi, le illusioni, la realtà, il corpo in rapporto alla mente nel processo esperienziale. Qui ripesco questa registrazione di elementi. Ma per aggiungere una nota: essi, coniugati come riti degli anni, negli spazi e nei tempi che sono concessi in quella che Alberto Bevilacqua ha definito l’umana avventura, ma non come sterili rituali, aggiungono alla riflessione intellettiva di Gabriela Fantato il necessario abbandono, il necessario “malessere”, e anche i necessari momenti di gioia, fondamentali per alimentare e ricostituire la poesia, quella che poi – un giorno – acquisirà la legittima aggettivazione di “grande”. 142 VDBD – n. 2 – nov.2008


Tenendo conto che la Fantato ha cominciato scrivendo poesie estreme – nello sperimentalismo, nella separazione tra significato e significante, nella manipolazione linguistica creando neologismi o componendo sovrapposizioni di parole che talvolta hanno squassato anche la sintassi (basta rileggere Fugando e anche Geografia a Nord per averne ragione) – il risultato del Codice terrestre in termini di crescita nella creatività è rilevante. La lingua è diventata morbida, anzi talvolta dolce; la sperimentazione evita la coartazione delle parole a beneficio della leggibilità dei contenuti, senza però rinunciare all’invenzione di combinazioni che amplificano il senso della dizione. Infine, le cose dette non urtano, non urlano, esprimono pacatezza, accettazione, elaborazione, amore. Direzioni dimensionali dalle quali, all’inizio, Gabriela Fantato come poeta aveva sentito la necessità di “fuggire”. Oggi le ha ritrovate e ha saputo farle progredire in poesie leggere e vigorose insieme. In ogni caso lei mostra di non rinunciare a nulla di ciò che realmente conta. Scrive infatti: “Io preservo l’ostinazione,/ una radice/ e non so dov’è iniziata”. Sono convinto che l’origine di questa radice lei la conosca molto bene, ed è proprio per questo che è riuscita a non perderla e a farla diventare rigenerativa della della sua linfa, formativa della sua capacità inventiva.

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GIARDINI A CURA DI FRANCESCO MAROTTA

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Senza dare nell'occhio di Stefano Guglielmin Due righe d'introduzione: Senza dare nell'occhio è un breve romanzo inedito che, attraverso il tema del guardare e dell'essere guardati, mostra la solitudine delle nostre case, ma anche la gioia che scaturisce improvvisa da una parola, da un gesto inaspettati. L'incipit è calviniano, com'è evidente [fm]

da Senza dare nell'occhio

Così si chiude il giorno mentre passeggio nel silenzioso orto degli sguardi (Valerio Magrelli, rima palpebralis) cap. primo I miei due inquilini

1. Non che di solito tu faccia entrare in appartamento tutti quelli che sostano con una valigetta davanti alla tua porta, ma se uno ti chiede un’informazione tu la dai. Conosci le regole. Sei educato e sai difenderti, almeno a parole: tre buone ragioni per offrire una sedia e un caffè ad uno sconosciuto di cui però ora sai nome e cognome e che vive nella tua città, uno che non è un commesso viaggiatore, ci tiene a precisarlo, e che aspetta la tua nuova vicina niente male, al momento assente, pare. È il niente male, in verità, che ti fa superare lo scrupolo di lasciarlo fuori, di lasciarlo lì, sul pianerottolo. E così lui entra e si accomoda. Lo osservi bene, ma senza dare nell’occhio, e lo assecondi, un poco. Non t’importa niente, chiaro, ma l’estate imminente, la giornata lenta, chiamano anche queste cerimonie all’appello e dunque inventi qualcosa di carino sulla vicina adesso lontana, e garantisci per lei che torna, o tornerà. E lo rassicuri, anche se un poco ti secca che l’omino abbia appoggiato la valigetta 145 VDBD – n. 2 – nov.2008


sul tavolo come se fosse a casa sua. La valigetta chiusa a riccio e nera, lì sul tavolo. Intanto che sbuffi con la mente su quella cosa chiusa davanti agli occhi, l’omino guarda spazientito l’ora, la guarda, si alza, dice è tardi, molto tardi davvero, devo scappare. E tu, tu che non vedevi l’ora che se ne andasse, dici sì, in effetti, sì, mi sa proprio che la vicina carina sta sera non torna. No, non torna! ribadisci, scuotendo la testa. Però carina lo pensi soltanto, che magari lui ci ripensa e resta, mette su casa, anche se l’ora al polso suona e gli dice d’andare svelto e subito. Ma la valigia, dice l’omino, sgusciando dai discorsi come un mago, la valigia è per lei, per la signorina Alice, per quando torna. E ti chiede se te la può lasciare in custodia. S’intende, sarebbe un gran favore che gli fai, avendo d’andare immediatamente, lui, e con fretta, in un impegno suo, urgente. E siccome l’impressione buona tu, Michele, l’hai data, così come la parola di uomo su cui contare, né d'altro canto sei uno che di solito, in segreto, sbircia nelle valigette altrui, lo lasci dire e andare, e annuisci aprendo un poco le braccia, un poco la bocca, come a dire preferirei di no, signor omino della valigetta sul mio tavolo, preferirei che lei si portasse a seguito la cosa nera, o la mettesse da solo davanti alla porta della vicina, ma già lui ti volta la schiena e saluta, per cui non ti rimane che guardarlo con disprezzo e dargli in prestito un non si preoccupi, che è l’esatto contrario di quello che pensi. L’esatto contrario! E così ti monta un fastidio enorme per avere accettato, e, di riflesso, giri lo sguardo altrove, sposti la valigetta, quasi la butti sotto il tavolo, e ti siedi, la schiena senza nervo, il nervo tutto dentro, infatti, che ti fa girare la faccia alla porta chiusa e borbottare qualcosa a proposito della vicina carina che potrebbe essere lì a momenti. Ed è per questo che ti rialzi, svogliato, e fai due passi due verso la finestra, là dove comincia il mondo, per subito voltare e dar la fronte ad uno spazio che conosci a memoria, un rettangolo con credenza divano e cucina moderni, e al centro un tavolo, un tempo albero di faggio, con sopra una valigetta in pelle morbida, attorno al quale cominci a girare inquieto, a muoverti per la stanza in attesa della vicina, che non conosci, essendo lei fresca di affitto qui. Fresca, ma con già al primo giorno uomini sull'uscio, e insistenti, a scricchiolare suole, ad abbandonare messaggi in bottiglia dentro una valigetta, che ora pare un cane bastonato sotto il tavolo. Un cane sotto il fu albero di faggio ora tavolo a quattro zampe tornite e molto bello, modestamente, visto che l'ho scelto io. Tutto il contrario di queste anonime valigette nere come rottweiler, minacciose alle caviglie dei tavoli e alle tue. Se ne trovano ovunque di queste mine vaganti portate a spasso da omini qualunque. In ogni marciapiede o ufficio del mondo, anche loro, tutti sparsi a caso per le vie della città, sembra, finché d’improvviso uno di questi ti si presenta sul pianerottolo, ci gironzola fastidiosamente al punto da costringerti a farlo entrare, vedendolo impaziente e in scalpiccio, perché sei buono, lo so. E questo hai fatto, perché l'ho visto bene: gli hai aperto la porta, dicendogli: prego si accomodi, questa è la mia casa. In effetti, un certo senso del dovere ti dev'essere cresciuto per forza nella pelle, nascendo da queste parti, anche se ora ci stai lontano dal mondo, voglio dire, pur non avendo mai smesso di toccarlo, un poco, quel mondo che comincia dal tuo naso e termina con i tanti saluti amari di Nora, la tua ex fidanzata, che rimase relativamente poco in queste stanze, perché è un fatto, che se ci abiti tutti i santi giorni con qualcuno, nemmeno te ne accorgi di come scappi il tempo, specie se il tuo naso e il resto del corpo, il resto della tua persona, momentaneamente, divengono parte del suo mondo, il centro del suo mondo, per quanto possibile. 146 VDBD – n. 2 – nov.2008


Il vero centro era lei, naturalmente. Per natura, voglio dire, sappiamo bene come sono le donne. Eppure, la vostra convivenza si è sfatta come un corpo morto al sole, piano piano, ma inesorabilmente. Era scritto. Come in ogni storia, specie se lei cerca e lui cerca e infine trovano che stare insieme è difficile, consumata la passione del principio, raccontate le cose giovani, le cose, una volta raccontate, due volte, tre, diventano pesanti e da non sentire più: che noia sta storia che sento per la decima volta, vi veniva da dire, quando ne parlavate, e infatti una vita in comune diventa più facile scioglierla che coltivarla, lo sai tu, lo so io, Bjevard Kožić, e lo sa la vicina carina, che se abita da sola ci sarà pure un motivo: la valigetta da consegnarle potrebbe essere una buona scusa per scoprirlo o almeno per saldare la distanza tra la sua porta e la tua, pochi metri ma difficili, essendo lei arrivata quando non c’eri, e dunque tu non avendola mai vista. A sentire il tuo amico cameriere del bar qui davanti, nel pomeriggio, dopo appena un’oretta dal suo arrivo, sarebbe arrivato un uomo distinto, che non sai se è lo stesso di poco fa, potrebbe esserlo, in effetti, l’omino mani bianche, forse impiegato di banca, lo stesso che per non dare nell’occhio ha finto di portare una valigetta ed invece è l’amante suo, che cerca tutto da lei, che vuole tutto, fuorché di consegnarle una valigetta vuota. Che se è vuota, la consegna serve soltanto ad allontanare i sospetti, chiaro. T’era passato come un lampo che avesse l’amante, ma si sa, la capisci, non è bene scoprirsi subito, dare a sapere a tutti, e sconosciuti, i propri moti personali, spartire con gli altri l’evidenza d’avere un cuore, un vuoto da qualche parte, specie ad una certa età. Che poi trent'anni, pare, non fanno ancora zitella, danno speranza piuttosto e la possibilità che lei il tempo più bello l’abbia imbastito in professione e corsi d’inglese e management, ogni ora a mettere una base solida al futuro, sviando gli occhi solo di rado e trastullandosi a Cortina, magari, o a San Martino di Castrozza come la buona società del Centroeuropa, un tempo.

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INTRODUZIONE A ROCCO GALDIERI di Luigi Metropoli Senza parere, e in parte senza volere, Napoli andò mutando con moto accelerato dopo il 1870, e il carattere e i costumi della popolazione da un lato si adattavano e accompagnavano quel mutamento, da un altro resistevano col loro fondo etnico così caratteristico. All’affacciarsi del nuovo secolo, quella trasformazione era compiuta nelle forme e negli atteggiamenti esteriori. Il viso di Napoli era radicalmente cambiato; essa s’incamminava per mettersi al rango della grandi città moderne. Ma l’anima popolare, l’anima soprattutto della piccola borghesia, che poco s’era avvantaggiata di quella trasformazione, e che per mentalità tradizionalista, per indolenza di vita grama, per necessità di occupazioni difficili a cambiare, rimaneva attaccata più tenacemente ad abitudini e costumi antiquati, e anche materialmente quasi segregata nella cerchia di vecchi rioni, raggomitolatasi tra le pareti stinte della casa insufficiente, dove l’aria mal si rinnova e il sole è avaro. In simili ambienti non scoppia il vero dramma né trabocca la larga risata popolare. L’uno e l’altra hanno bisogno dell’immediato contatto della strada […]. Ed ecco imporsi il bisogno di un’altr’arte, fatta più di intuito psicologico e di larga comprensione e compassione; un’arte che non prenda forte rilievo dagli scorci vigorosi e dai netti contrasti delle cose e delle azioni; ma invece si stemperi in un diffuso lirismo, pervaso d’insanabile malinconia, e che sposti continuamente la visuale tra il mondo esteriore e il cuore stesso del poeta.(1)

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A Napoli questi mutamenti trovano una più compiuta espressione nelle poesie di Rocco Galdieri, il Rambaldo, come egli stesso si lasciava chiamare, considerato da Malato uno dei vertici della «triade dei grandi poeti dialettali napoletani» (2), insieme a Ferdinando Russo e, naturalmente, a Salvatore Di Giacomo. Spesso le sue liriche vivono in una dimensione spuria, di passaggio tra una realtà ancora rurale, condita con un pizzico di nostalgia, e l’avvento di un mondo nuovo che pare dissolvere quelle certezze e quella sapienza popolare a cui Rocco Galdieri intende dare voce. Le ripercussioni sulla sua lingua sono altrettanto tangibili: accanto a lemmi arcaici e appartenenti all’anima più popolare di Napoli, alle bizzarre voci francesizzanti tipiche del dialetto partenopeo, trovano luogo espressioni e nuovi termini che ricalcano l’andamento dell’italiano.

Non stupisce che la poesia dialettale del secondo Ottocento sia poesia di dialetti fortemente italianizzati: basti pensare, non tanto ai romaneschi, […] ma a Testoni, a Malinverni, a Barbarani, a Rocco Galdieri. Le tournées che alcuni dialettali a cavallo del secolo compiranno nei teatri della penisola si spiegano solo con il profilo italianizzante […]. (3) Con Galdieri ci si trova di fronte ad un poeta sensibilmente diverso dai napoletani che l’hanno preceduto e dai suoi contemporanei. Si tratta verosimilmente del primo, forse unico, caso di superamento del digiacomismo (4). Più che impregnato di «diffuso lirismo», Galdieri è poeta elegiaco con una forte predilezione per la sentenza gnomica, per la massima 149 VDBD – n. 2 – nov.2008


sapienziale, in cui è arginata la rarefazione lirica per far posto ad una «disposizione al colloquio» (5).

Poeta senza colori (un verde, un rosso in ‘A veglia: «’e fronne verde se so’ fatte rosse», danno subito nell’occhio), scarica tutta la sua sensuale tensione napoletana neutralizzandola in una lingua assolutamente parlata, «epistolare»: un continuo tono d’angoscia è la luce radente che taglia i suoi paesaggi, le sue figure. Hanno giocato in quest’operazione particolari condizioni biografiche; la malattia, la morte precoce, gettano sulla sua napoletana esuberanza un’ombra come di mortificazione […]. (6) La tonalità grigia di Galdieri, l’attenzione piccolo borghese alle piccole cose domestiche (oggetti, minimi gesti) presenta tratti comuni al crepuscolarismo (7) (persino la sua malattia induce a pensarlo: era affetto dalla tisi), tuttavia l’atteggiamento melanconico e patetico non è mai stato estraneo alla letteratura napoletana (sia quella popolare che la poesia del secondo Ottocento e primo Novecento) ed infatti

quel termine [crepuscolari] non definisce le poesie del Galdieri che con quella dei crepuscolari ha solo, parzialmente, in comune la contemplazione del dolore umano.(8) È innegabile tuttavia l’interesse del poeta napoletano per un mondo tutto interiore, incapace di espandersi nel modo in cui la poesia napoletana ci aveva altrimenti abituati, come se qualcosa lo bloccasse, un grumo di tensioni irrisolte, un’angoscia lo soffocasse nell’attimo in cui si dà un’apertura: quello di Galdieri è uno sguardo introflesso, quasi appartato e distante; presta attenzione alla miseria e alle sofferenze della sua vita, in una travagliata indagine introspettiva, prima che a quelle della realtà napoletana (9). Anche il tono spesso è ironico, se non addirittura sarcastico, quasi a sancire un distacco incolmabile tra il poeta e la vita. È poeta incline a chiuse moraleggianti e amare, a sentenze a volte spiazzanti. La realtà esterna, nelle sue poesie, col suo timbro monocromatico, sembra talvolta il riflesso dell’interiorità del poeta, rimandando per analogia a quei romanzi tardo-ottocenteschi in cui le grigie atmosfere altro non sono che la proiezione delle ombre del protagonista. Le sue poesie sono pensate più che scritte, sono coaguli di pensieri più che cadenzate sillabe. Del resto è il poeta stesso ad affermare il primato del pensiero sulla parola, in una prefazione alla sua prima raccolta di poesie:

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[…] dichiaro subito che io non scrivo le mie poesie in dialetto se non quando le ho compiutamente composte nel pensiero. Sovente ne ho recitata qualcuna, così era per me completa, assai prima di scriverla […] (10). Così si esprime Pasolini a riguardo:

C’è il sapore di una necessaria verità in quel punto della premessa a un suo volume in cui Galdieri dichiara di non usar scrivere le sue poesie, ma di comporle pensando: resta infatti nella sua lingua una congestione di sintagmi appena affiorati da un intenso lavorio interiore. (11) Se il Tilgher ha trovato in Galdieri e in Di Giacomo due opposte sensibilità individuando nel primo «il poeta della saggezza» e nel secondo «il poeta della passione» (12), si può arguire, di conseguenza, che è tanto necessario il pensiero al primo quanto la musicalità al secondo. L’uso che fa Galdieri del dialetto, come si avrà modo di vedere più nel dettaglio, contraddice in buona parte ciò che per la poesia napoletana è un luogo comune: musicalità, facile effetto melodico, esuberanza coloristica, gusto del pittoresco, celebrazione e mitizzazione di vicoli e quartieri, estetizzazione della miseria. La lingua di Galdieri è compita, di una comprensibilità spesso più immediata per chi è poco aduso al napoletano. È un dialetto che tende all’italiano e, fatto meno comune per il vernacolo, assume talvolta toni ragionativi, in più ampie volute sintattiche che tendono a seguire un concetto, la formulazione di un pensiero, più che abbandonarsi all’effetto eufonico (13). Eppure, Galdieri è stato autore di molte canzoni e alcune di esse hanno ricevuto un buon riscontro di pubblico. È come se la sua lingua fosse a metà strada tra un affiorare primigenio di sommovimenti della psiche e un andamento logico, scandito da una sintassi ben meditata. Un parlare che incontra il filtro della ragione, un’ascendenza materna e paterna insieme, o, se vogliamo, parafrasando la Kristeva, un oscillare tra istanze semiotiche e simboliche. Nonostante questa singolarità e questa originale maniera di declinar il parlar natio (o forse, a causa di ciò?), nonostante una voce tutt’altro che provinciale, il nome di Galdieri non è tra i più ricorrenti nella tradizione napoletana, anzi, oggi egli è un autore ignoto ai più (eccezion fatta per gli specialisti). Come autore di canzoni, la sua firma è molto meno nota di quelle di un Bovio, di un Mario o di un Murolo. Il figlio, Michele, stimato autore di riviste e finanche film, regista teatrale, ma dotato di minor talento come poeta, ha firmato una celebre canzone entrata di diritto nel vasto repertorio, popolare, musicale partenopeo: Munasterio ‘e Santa Chiara. Il fatto invece che Galdieri padre non abbia legato il suo nome a nessun brano arcinoto ne limita la popolarità e il riconoscimento. Una più adeguata collocazione critica della figura di Rocco Galdieri nel canone poetico napoletano è, pertanto, più che mai una necessità prioritaria. 151 VDBD – n. 2 – nov.2008


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NOTE:

1)M. Vinciguerra, Prefazione, in R. Galdieri, Le poesie (parte prima), Bideri, Napoli, 1966, pp. 8-9. 2) E. Malato, Rocco Galdieri, in Id., La poesia dialettale napoletana. Testi e note (prefazione di G. Doria), E.S.I., Napoli, 1959, p. 616. 3) F. Brevini, La svolta dialettale novecentesca, in A.A.V.V., La lingua e il sogno. Scrittori in dialetto nell’Italia del primo Novecento (Atti del convegno a cura di V. Moretti), Bulzoni, Roma, 1992, p. 45.

4) P.P. Pasolini, Introduzione, in A.A.V.V., La poesia dialettale del Novecento (a cura di M. Dell’Arco e P.P. Pasolini), Guanda, Milano 1952, [ora: Einaudi, Torino, 1995, con prefazione di G. Tesio]), pp. XXXV. Ma si vedano anche le prime recensioni, molto positive, alle Poesie del 1915: E. Palmieri, La poesia di Rocco Galdieri, «La Diana», n. 3, marzo 1915, pp. 13-6; E. Jenco, Rocco Galdieri, «La Diana», n. 6, giugno 1916, pp. 115-9. 5) F. Brevini, La svolta dialettale novecentesca, cit., p. 54. 6) P.P. Pasolini, Introduzione, in A.A.V.V., La poesia dialettale del Novecento (a cura di M. Dell’Arco e P.P. Pasolini), cit., pp. XXXV. 7) Si veda la nota introduttiva di Mario Vinciguerra: M. Vinciguerra, Prefazione in R. Galdieri, Le poesie, cit., pp. 7-8; ma anche S. Palomba, Rocco Galdieri, in Id., La poesia napoletana dal Novecento ad oggi, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003. Singolare quanto lascia intendere il Tilgher. Quando egli scrive: «Piccola felicità, che la tristezza rassegnata della rinuncia sparge di un non so che di amaro, ma anche fa voluttuosamente e ghiottamente assaporare», sembra tracciare un’analisi interpretativa che tiene conto del crepuscolarismo e verso di esso si orienta (A. Tilgher, Rocco Galdieri, in Id., Ottocento napoletano e oltre [a cura di M. Vinciguerra], Montanino, Napoli, 1959, p. 55). Tuttavia più avanti, alla fine del suo saggio, il Tilgher mostra (più che dimostrare) una vicinanza tra la poesia di Galdieri, per la sua cifra sapienziale e ricchezza di «vita interiore», alla poesia tedesca e alla sensibilità germanica, concludendo che l’unica area d’Italia capace di offrire poesia gnomica è quella napoletana (A. Tilgher, Rocco Galdieri, cit., p. 59). 8) E. Malato, Rocco Galdieri, in Id., La poesia dialettale napoletana. Testi e note, cit., p. 617. 9) Si veda ancora P.P. Pasolini, Introduzione, in A.A.V.V., La poesia dialettale del Novecento (a cura di M. Dell’Arco e P.P. Pasolini), cit., pp. XXXV. 10) R. Galdieri, Prefazione, in Id., Poesie, Casella, Napoli, 1914, p. X.

11) P.P. Pasolini, Introduzione, in A.A.V.V., La poesia dialettale del Novecento (a cura di M. Dell’Arco e P.P. Pasolini), cit., pp. XXXV. 152 VDBD – n. 2 – nov.2008


12) A. Tilgher, Rocco Galdieri, cit., p. 58. 13) Si leggano, a mo’ di esempio, questi versi: «Tiempo passato: tiempo perduto!/ ‘Na via già fatta c’ ‘a tuorne a fa’?/ Tu pienze a vierno ca se n’è ghiuto, i’ penzo a vierno c’ha da turnà.// Sona ‘o rilorgio? Ma che te preme/ ch’ hê già passata n’ ora cu’ me?/ Tu pienze a’ st’ora ca stammo ‘nzieme,/ i’ penzo a quanno t’aggia vedé.// Pecché ‘sti ccose ca so’ passate,/ quanno tant’ate n’hann’arrivà?/ Nun penzà ‘e vase ca t’aggio date;/ ma pienze a chille che t’aggia da’!» Tiempo, in R. Galdieri, Poesie [a cura di M. Vinciguerra], Edizioni Bideri, Napoli, 1966, p. 119.

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ANTOLOGIA POETICA DI ROCCO GALDIERI a cura di Luigi Metropoli

Da Poesie (1914) ‘E nnuvole - Che guarde ‘ncielo? - ‘E nnuvole che passano… - Cu’ chistu cielo?! - E fosse cchiu’ tturchino! È cielo!? E sempe passa quacche nuvola… … o luntano… o vicino!...

Viecchio - Quant’anne tiene? - Eccuce ccà: so’ nnato ‘o mille… sette… - E mo’ t’ ‘e vvuo’ cuntà?! - E chi s’ ‘e cconta maie?! Che n’aggia fà! Ca j’ ‘mmece ‘e sapè quanto aggiu campato, vulesse sapè quanto aggia campà!

Alleramente… Me ne vogl’ì, cantine cantine, pe’ copp’ ‘o Campo, a Puceriale. Voglio campà cu’ ‘e muorte pè vvicine… ca nun sanno fa male… Nu’ parlano… Nu’ cantano… So’ bbuone… E so’ ‘e meglie inquiline: So chille ca nu’ pavano pesone!… Là m’affitto, cu’ poche denare, ‘na cammarella pe’ me surtanto. 154 VDBD – n. 2 – nov.2008


Che mme ne ‘mporta ca nun veco ‘o mare? M’abbasta ‘o campusanto! Amice? No! M’aggia fa chiatto e ttunno: ll’amice, ogge, so rare. Sulo… quacche cocchiere ‘e Bellumunno. Si vene, ‘a sera, pe’ ‘na partita, sia benvenuto. ‘Nu litro ‘e trenta. I’ mò già penzo che sarrà ‘sta vita, ca mme chiamma e me tenta! Vevo e dormo… E nisciuno me ‘ncuieta… E all’ora stabilita, canta ‘na ciucciuvettola e mme sceta! I’ nun me voglio piglià veleno… Addio, canzone, ca so’ turmiente! Voglio sentere ‘a pala… int’ ‘o turreno… ‘O chianto d’ ‘e pariente… E quanno vene ‘a morte ‘a parta mia, faccio ‘e ll’esequie ammeno: M’ ‘o ffaccio appere… ch’è ‘nu passo ‘e via!

‘Nuncentità! - Comme se legge ccà? – Se legge: “Ammore”. - E che vo’ dì? – Piccerenella mia, che t’aggia dì? Vò dì ‘na malatia, ch’uno, speranno, disperato, more! - E cà… chiù ssotto ccà? – Se legge: “Morte”. - E ch’è ‘sta Morte? – È ‘nu mmedicamento, che tocca e ssana… sùbbeto, a mumento, quanto cchiù ‘a malatia d’ammore è forte!

Chillo che pparla e chillo che ssente Chillo che pparla dice: “I’ sto sicuro ca nisciuno se ‘mmocca ‘int’ ‘o cellaro, pe’ bbia ca tengo ‘o bbrito ‘ncopp’ ‘o muro e tengo ‘o cane ‘e presa ‘int’ o pagliaro…” 155 VDBD – n. 2 – nov.2008


Chillo che sente… pe’ ‘nu muorzo ‘e cane va zuoppo… E tene ‘o bbrito dint’ ‘e mmane! Chi è? ‘Nu remmore ‘nfaccia a’ porta?! Chi sarrà?! Che fusse tu?! Tropp’onore! Ma ‘sta sciorta ll’aggio cchiù? Chi sarrà? ‘Nu carrettiere ca se vene a rreparà? Quacche cane furastiere? Chi sarrà? «Chi è»? Nisciuno! E ‘nu lamiento cupo cupo mme risponne… Chiove forte; sesca ‘o viento ‘nmiez’ ‘e ffronne… Chi è passato ‘a ccà vicino?! Chi ha ‘ntuppato, cammenanno? Quaccheduno fatto a vvino… vatruvanno… ………………………………………… Ma ‘o remmore ‘nfaccia a’ porta ‘n ata vota! Fusse tu? Tropp’ ‘onore; ma ‘sta sciorta ll’aggio cchiù?! Tu nun sì! No. Tu nun viene, comm’ a primma, addo’ stongh’ì… No! Tu vaie da chi vuo’ bene… Tu nun sì! “Chi è?” Nisciuno. ‘I’ che vernata! Lampe e ttronele a zzeffunno… E chi maie cu’ sta nuttata va p’ ‘o munno? Chi cammina a st’acqua e bbiento?… 156 VDBD – n. 2 – nov.2008


………………………………………… N’ata vota?! E mò cchiù fforte! «Chi è»? Nisciuno! ‘Nu lamiento… Fosse ‘a Morte?! Chiove Lucene ‘e titte pe’ ddò ll’acqua sciùlia e l’aria addora pecchè ‘a terra addora… ‘Na figliola, currenno, ‘ncopp’ a ‘n’asteco, sponta ‘nu panno e ll’ate ‘e lasse fora… Ma tutt’ ‘e vvote c’aggio visto Napule ‘nfosa e lucente, dint’a primmavera, nun aggio ditto maie: Putesse schiovere! Pecchè vedevo a te: ‘nguttosa e allera!... Da Nuove poesie (1919) Friscura Friscura d’ ‘a matina, che faie tremmà caruofene e vviole, tutta ‘ndurata ‘e sole, frizzante e leggia, prufumata e fina, primma ‘e tutte ‘e ffeneste d’ ‘o quartiere s’arape ‘a mia, pecchè nun dormo ‘a notte, tante d’ ‘e penziere, e me metto ‘nfenesta e aspetto a tte! Ah! Comme me fa bbene ‘stu rrisciatà! Mme leva ‘a freva e ssana. I’ sento ogne campana, e conto ll’ore, ‘a notte, ca tu viene. E comme ‘o cielo se fa cchiù turchino e ‘a luna se nne va, i’ levo ‘a capa stracqua d’ ‘o cuscino e m’affaccio ‘a fenesta a risciatà. Friscura d’ ‘a matina, ‘sta notte ‘abbrile aggiu passata trista! 157 VDBD – n. 2 – nov.2008


Sì! Ajere ll’aggiu vista… Sì ‘A veco ‘n’ata vota stammatina… Ma che vo’ di’?… Si mai cu’ mmico resta, (c’arrassumiglia a te!) ‘ncopp’a ‘stu marmo friddo ‘e ‘sta fenesta, cchiù friddo ‘na matina truove a me! Sapienza “’A vita – dice l’ommo sestimato – è ‘na butteglia ‘e vino prelibbato. Si m’astipo m’ ‘a trovo; si m’ ‘a vevo unu sciato, cumpagno… ce ‘o vvedimmo a vvino nuovo!”

Prurenza Quanno nun vide annanz’ a te addò vaie, fèrmate! Resta addò staie. ‘O marenaro, quanno è neglia, veglia.

Penziero appaciato Fuma. L’ommo che fuma, o ‘nu mezzone, o pure ‘nu sicario furastiere, nun penza manco a fa’ malazzione, e s’appacia c’ ‘o core e cu’ ‘e penziere. Fuma! E si hê avuto male ‘a quaccheduno, fuma, ca scanze ‘o carcere, si attocca. Nun aggiu visto ‘nfino a mo’ nisciuno c’ha acciso a n’ato c’ ‘o sicario ‘nmocca. Lusinga Ca tu me dice a me: «Tengo ‘e denare!» Nun si’ felice! E ca tiene ‘a salute? Manco felice si’! Quanno te pare ca tutt’ ‘è ccose ca vulive hê avute, 158 VDBD – n. 2 – nov.2008


quacc’ ata te ne manca!... Attuorno… Dinto! Nuie? Simmo comme a chi sta lindo e pinto, pronto p’ ascì; ma – ttà! – sente ‘na botta… E se spezza ‘na fettuccella E se ne cade ‘nu buttone… ‘na furmella d’ ‘o sotta – cazone… Penziero ‘e frate - Mammà, dimanu mmatina torna Carluccio d’ ‘o fronte. Zitto! E tenimmoce pronte tutt’ ‘e risposte… Nannina… Nannina? A Torranunziata… Dicette zì Federico: “Chesta m’ ‘a porto cu’ mmico, ca sta ‘nu poco sciupata”… Vuie… senza lacreme e strille… E… niente lutto! Redite… Parlate!... E… si ve tignite ‘nu poco poco… ‘e capille… Scampagnata Vogli’i ‘ncampagna c’ ‘a Morte! M’a faccio assettà a tavula cu’ mmico. Mangio! Ch’è, nun mangiavao? I’, benedico, tengo ‘nu stommaco forte! ‘O vermiciello, ‘o crapetto, ‘o fritto ‘e pesce… e doppo – addo’ ce azzecca ‘o bicchierello – ‘a noce e ‘a ficusecca… Se n’ha da ì’ nu peretto! Voglio sta allero e cuntento, ca nun ce abbado si mangiammo ‘nzieme. Le voglio fa avvede ca nun me preme ch’è tutt’essa a ‘stu mumento! 159 VDBD – n. 2 – nov.2008


A voglio ridere ‘nfaccia! ‘A voglio fa stunà ‘cu suone cante… E quanno ‘arciule ‘e vino so’ vacante, me l’astregno forte ‘mbraccia… E strillo: “- S’è ‘mbriacata! Gente, vedite d’ ‘a puté fa scema… Vedimme si se scioglie ‘stu problema. Si vene st’ora aspettata!” E nun ‘mporta – ‘o bbenedico! – Si doppo, quanno ha alliggeruto ‘o vino, me dice a me, truvanneme vicino: “ – Mo’ vienetenne cu’ mmico!” Da Canzuncine ‘a l’amico malato (postume) ‘A veglia - Amico, ‘o ssaie ch’è ottobre? È giovedì, fatte ‘na passiata p’ ‘a campagna. Mo’ ce stongh’io; tiene chi t’accumpagna… Iesce… Risciata… Nun t’appucundrì. Guarda che sole! Autunno, è comme fosse ‘na primmavera. ‘E ffronne so’ lucente. E ‘ncopp’ a chella loggia – tiene mente – ‘e ffronne verde se so’ fatte rosse. Iesce… cammina… Va. Mo’ nun se suda comme ‘o core ‘e ‘stà. ‘Nce steva ‘o ppoco ‘e viento e s’è calmato… Iammo. ‘Nchiuso ccà dinto, amico mio, te pierde ‘o meglio. E comme si’ ustinato… Me faie sentì currivo… Pare… - ‘Nu muorto? - No! Pare ‘nu vivo ca fa veglia a ‘nu muorto… - Ca songh’ io!

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Note su Fabiano Alborghetti di Stefano Gugliemin

La distanza immedicata, in origine, si doveva intitolare L'opposta riva. Anche Fabiano Alborghetti aveva già pronta L'opposta riva. La sua, era davvero opposta, stando di là del Mediterraneo, a sud, a est, e segnando la via del dolore con maggiore evidenza della mia. Anche il libro di Fabiano, uscito per Lietocolle nel 2006, racconta di una distanza immedicata, di uno scarto fra luoghi e culture, fra promessa e bisogno inscritti negli occhi dei naufraghi sui gommoni e in quelli dei cittadini italiani, ma anche fra realtà e legalità, tra l'epica in cui li canta il poeta e i silenzi smarriti dei migranti. La cosa sorprendente è che il suo primo libro di poesie, Verso Buda, parla di un beato confine, come il mio, di un luogo dove la storia si fa a braccia e vigna, a casa e memoria, e nel quale ritrovarsi. Il mio beato confine indicava metaforicamente una soglia da abitare, lontano dai saperi consolidati, in cui l'identità diventasse luogo condiviso, terra dove far crescere il pensiero che salva. Verso Buda porta in seno questa speranza, questo "spazio che tracima" incarnato nel paesaggio dell'Oltrepò Pavese. Fabiano ha bisogno di toccare la sua mente, di darle forma concreta, oggettiva, magari in situazioni contrapposte: ecco la casa di Buda ed ecco il viaggio dei senza-casa, il racconto dell'iniziazione al bene da parte di un'anima inquieta e lo "Spoon river dei vivi", dove anime monologanti e clandestine cercano "un senso" nuovo. Alla singolare affinità che lega la nostra opera si è intrecciata un'amicizia bella come un tralcio nella campagna di Buda o una mano stretta sul ponte di una nave affollata e dolente. Oltretutto, non gli ho dedicato lo spazio che merita in Blanc de ta nuque, recensendo almeno uno dei due libri; tutte buone ragioni, credo, per averlo scelto quale compagno in questo spazio prezioso. *** 161 VDBD – n. 2 – nov.2008


Antologia poetica di F. Alberghetti [a cura di S. Gugliemin] da Verso Buda (LietoColle 2004) Antologia poetica di F. Alborghetti [a cura di S. Gugliemin]

da Verso Buda (LietoColle 2004)

*

Una mescolanza di vino travisa lo sguardo: aldilĂ del confine il lume d'ingresso, l'altra casa rimandata in odore di pane e figli.

Resta al tatto un abbaiare di cane e lavoro spento un confine sopratutto, che varco col fiato moltiplicando la vita concessami stasera.

*

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Come una cura la notte e graduale il luogo battesima e prende tregua dal giorno, dal tormento cosĂŹ come dallo sguardo anche e dalle mani:

tutto si rinnova pare e invecchia se il vento cede e replica il silenzio di ieri sera. Di domani.

*

Disegna una diversa lingua anche se non dissimile dalla specie, il vicino. Questione di retaggio, d'insegnamento alla vita:

antagonista nelle abitudini è stretto nel medesimo tempo condiviso, da impegni senza intrusioni. Non cosi io,

di passaggio, in ozio ciarliero.

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*

Successivamente accade quella luce che traduce in sera ma quietamente. Già dilatano le forme in ombra oltre

il primo sguardo, gli argini dell'aia. Come mai niente visto prima e meglio uno dopo l'altro a fermare: assidua nelle palpebre

per combinazione dischiuse, un'opera lenta.

*

Tra poco una calma desolata, dopo tutto: la minaccia si vive l'ultimo giorno computando le ore che restano indietro

e dove accorda già la vita ricorrente e distingue 164 VDBD – n. 2 – nov.2008


i confini delle due diverse dimore. In quel mezzo restiamo, dietro la quarta di palcoscenico

che taglia la voce e cresce. Si risparmiano i gesti s erviranno domani. Domani dall'altra parte.

Da L'opposta riva

E dove altro credi possibile la mia presenza se anche la mia terra è contro? Non rimane niente altro che la cancellazione ripeteva un dirsi presenti

anche senza il luogo. Adesso conta diceva fai la somma dei rimasti. Sottratti gli urti i lampi i sacchi senza nome o le cataste di arti e bocche colme

di vuoto avrai la misura del rimanere, l'innominata ampiezza.

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*

La diversa forma dell'apprendista stupiva il lavorare la carne quel tanto al chilo il fabbricarne senza smaltire: come lui in tanti diceva

improvvisati ovunque nel corredo lordo a entrare in casa nella figlia nel vicino con il corpo o un appendice. Bastava aprire l'uscio o il ventre:

fare un buon lavoro diceva che Dio ci guarda.

*

PerchĂŠ correndo diceva avevo perso,, non il chilometro ma il crinale, non la meta arrivando tra i molti tutti ultimi alla fine

ma l'origine. Là vivevo, e segnava un punto 166 VDBD – n. 2 – nov.2008


impreciso. Per questo non capisci: tu mi vedi ora non prima tu mi senti adesso

con la voce che ha giĂ perso. Ma che voce rimane nella distanza: non quella incolume di chi nasce nei letti ma quella bassa che fa tutt'uno cogli occhi, coi piedi

e fa rumore e ferma e sporca dove non vuoi, dove non voglio io...

*

Riconoscevo il luogo solo prima di partire: visitando le case in sequenza i nomi i soprannomi le porte senza impedimenti. Ma ora

chi abita e dove, tolte le croci in terra la piana senza vie?

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Da una riva all'altra separo solo la paura dell'inizio una mancanza di traccia: cosa lascio indietro

se vado diceva che memoria trovo?

*

Allestiva improvviso all'ora data il ritrovo per l'arrivo del furgone con le cose: a lato stazione due volte al mese la consegna e il ritiro

le buste pronte coi vestiti da inviare alla casa oltre frontiera. Rassicurava l'autista l'attenzione a chi del paese poteva dire le persone in comune o parentele: a destinazione

le paghe e i beni e qui il ritorno della posta agli ultimi senza dimora. Il corriere univa cosĂŹ gli opposti per la cifra pattuita ma senza garanzie: alla dogana o nel tragitto

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certe somme da versare, certe incognite impreviste ripeteva. Senza altri mezzi il flusso perdurava stipando il vano e ritirando chi chiamando casa già per dire dell'arrivo chi guardava

la stessa sorte dell'uomo e delle cose, di nascosto trasportate...

*

Nessun aiuto ho giurato dover chiedere ancora dopo il primo documento allo sportello: già la vergogna basta dell'assistere come un mendicante e dipendere

dall'altrui comprensione... Così alla scuola di italiano per mesi nel dopolavoro, allenando gli occhi a cercare come chiedere suono dopo suono il vitale. Nella rincorsa

mi dicevo: non più di frodo la lingua definitiva per come parlo chiaro e tutt'altro equilibrio va formando ora. Reclamare il diritto con la voce ho imparato sfinisce eguale

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ma con meno impotenza...

*

L'amore ma come e quale in questo stato? c'è chi vede il semplice moto, di me il lavoro mi diceva e chi resta in guardia per i fatti dei giornali: come difendo

dal silenzio incompreso come spiego l'abitudine diversa? L'altra cultura è la questione, spaventa e ingrossa la disparità vede bene, indica a piene dita l'angolo concesso in cui resisto:

a ospite o negletto mi disegna a residente o assassino...

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Francesco Marotta – Nella pupilla immaginale del mondo. (Una lettura di Chiusure, di Gianluca D’Andrea.)

I. Una caratteristica di questo splendido libro (un vero e proprio oggetto alieno nel panorama omologato e privo di respiro della poesia che in genere oggi si pubblica e si legge), rintracciabile immediatamente in tutte le sezioni in cui si articola (stanze/stazioni di/in un ciclico percorso di rinascita e rifrazione del mondo attraverso gli specchi del corpo), è la tensione costante, ininterrotta, a un’estrema rarefazione del linguaggio, delle sue strutture e dei suoi nessi costitutivi, in chiave deliberatamente allegorica: la costruzione ricorsiva di una vera e propria sintassi immaginale, tutta legata alla terrestrità in cui sorge e declina la vicenda degli esseri da cui scaturisce e di cui rappresenta il confine. Credo che all’origine dell’opera vi sia nell’autore, a livelli di più o meno chiara consapevolezza in fase progettuale, una lunga consuetudine di studi e di riflessioni che, in parecchi testi (alcuni veramente di pregevolissima fattura, di grande fascino, spessore e maturità espressiva), concorre a saldare, in un abbraccio claustrale (il titolo è, e non certo a caso, eloquente anche in questo senso), il fervore e lo stupor mundi della poesia delle origini, con le più scoperte, e tendenzialmente opposte, opzioni filosofiche ed estetiche che sono state elaborate nel corso degli ultimi decenni sulle ceneri del moderno. Nello stesso tempo, non è difficile ipotizzare un incessante, puntuale e contrapposto labor limae, su ogni singolo testo e sull’insieme, un lavoro artigianale di cesello teso a riportare la materia poematica esattamente all’istante della sua accensione primigenia, cercando di salvaguardarne al massimo il nucleo ideativo dalle stratificazioni e dalle suggestioni culturali attraversate, rielaborate e poi disposte ai margini. In sostanza, D’Andrea prende le mosse, in questo suo elaboratissimo, discensionale itinerarium mentis ad res, dalla piena consapevolezza, con tutto il carico, il peso e le ferite che comporta (il Rimbaud, richiamato in un esergo, ne è una esplicita conferma), dell’implosione, al fuoco generatore/demolitore della sua stessa illusoria immagine, di ogni ipotesi di unicità, e di conseguente razionale fondazione normativa ed ermeneutica del reale, fatta propria da un pensiero che non solo, aristotelicamente, esclude il tertium, ma azzera totalmente, alla luce di questa rimozione preventiva, anche qualsiasi opzione, di natura dialettica o, a specchi rovesciati, dichiaratamente contemplativa, che ponga in essere, pur da opposti orizzonti, l’esistenza di una alterità naturale, ineludibile, contrapposta al piano della pura concettualizzazione. Il bersaglio, mai esplicitamente dichiarato, ma ben presente di fronte al mirino critico e all’operato creativo del poeta, è grande e facilmente identificabile; altrettanto generoso il 171 VDBD – n. 2 – nov.2008


tentativo di colpirlo al cuore: gettando i semi di un agire della/nella scrittura (un ritorno al poiein originario) che faccia terra bruciata degli alfabeti, parimenti agonizzanti per ipertrofia, della mimesi e dell’ascesi. I suoi testi vengono a prefigurare, quindi, una distesa frastagliata, un campo a balze irregolari, per molti versi affatto nuovo e sconosciuto, che si annuncia allo sguardo quasi interamente da esplorare, prima ancora di essere arato e messo a coltura: un terreno dove il tertium espropriato dalla modernità e dai suoi furori assolutistici cerca di ridefinirsi come corpo in movimento che aspira a farsi volto, proprio mentre si osserva, e si lascia osservare, nel suo costituirsi in forme sempre aperte alla metamorfosi (in primis del sentire): e già con la sua semplice presenza, appena intuibile o solo vagamente udibile e percepita, illumina i segni (la pagina, l’inchiostro e le parole) di una luce diversa. II. Il piano allegorico si realizza in un percorso ellittico di accensioni e di stasi riflessive, alla cui base sono rintracciabili e ricostruibili in ogni momento, in modo particolarmente evidente nella sesta parte dell’opera, i fondamenti teorici e le intuizioni di poetica da cui muove e in cui si risolve. A ulteriore riprova, tra l’altro, della necessità di un pensiero che indirizzi e guidi il lavoro di scrittura, e che si definisca, si arricchisca, muti pelle all’occorrenza, nel farsi stesso dell’opera: che diventa completamento e costruzione in altre forme del dato interiorizzato dal pensiero, da una parte, e, dall’altra, superamento, senza possibilità di ritorno, del dettato da cui è scaturita la prima traccia. Alla luce di una siffatta visione dell’atto stesso della scrittura poetica, tutta dominata, e tutta risolta, dal/nel “gioco semplice dell’origine ormai sgravato da incombenze metafisiche”, la “chiusura” diventa l’estremo azzardo della visione, tra “adorazione” e “separazione”, di un universo colto nella dimensione inafferrabile (indicibile e indecidibile) del suo perpetuo nascere e trasformarsi: tra le pieghe, gli anfratti, i dirupi, gli abissi e i voli di un mondo storicamente dato, che si organizza, da sempre, proprio in funzione della loro negazione, estranei e refrattari come sono – in quanto luoghi fisici e figurazioni dell’erratica oltranza che conservano - alla logica del controllo (del “possesso”) e della normalizzazione. Ne emerge il disegno di un’etica aurorale, di ascendenza chiaramente nietzscheana, ma priva, scientemente, di qualsiasi pulsione superomistica, che risospingerebbe la parola nel cielo ciclico delle ipostasi sapienziali altrimenti mascherate. E infatti, è proprio la “sproiezione d’origine”, “l’incredibile varietà del reale”, “l’insensato”, a sostanziarsi a contatto del “sentire migrante del poeta”: ed è una sostanza ancor essa in perenne mutazione, in inquieta e irrisolta ricerca di dimora, nell’alternanza di forme che ogni volta rinascono, in sembianti nuovi e diversi, dal loro stesso negarsi: l’ethos poietico è ascolto di ciò che trascorre, è trasformazione intuitiva, senza mediazioni, di ogni io/sé in noi: l’attimo che ci rimanda nel mondo con gli occhi colmi di un mondo nuovo intravisto ad ogni svolta di respiro, alla prima radice del pensiero e della parola: tra “abbandono” e “distanza”: come “ascoltare la carne / che rimpolpa per la scossa di uno stimolo / e schiuderne il senso in una gabbia di luce”: una luce “vera”, reale e concreta, “come l’erosione continua / che ci vive / l’espulsione che ci trasforma”. III. 172 VDBD – n. 2 – nov.2008


Ho accennato precedentemente alla letteratura delle origini (l’infanzia della scrittura) per uno scopo ben preciso, dettato unicamente dagli echi e dalle risonanze udibili all’interno dell’intero percorso poetico. Il riferimento, comunque, si presta a molteplici interrogazioni/interpretazioni, non ultima la ricezione (possibile) del libro come una costellazione di senhal di natura amorosa (in cui è riconoscibile l’istanza della spinta conoscitiva quale tensione fondante), quasi un mosaico costruito dalle mani e dall’immaginazione insatura, allo stato nascente, di un bambino: segni di diversa origine e natura, sicuramente, anche contraddittori, reiterati al fuoco della percezione di minime sfumature, che trovano la loro esatta collocazione nel piano complessivo del libro: un vero concept, anche se definibile tale, a parametri rovesciati, solo a posteriori. E, infatti, mi piace pensarlo e vederlo costituirsi a tappe, in corso d’opera, soggetto a smottamenti e rimescolamenti successivi (nel dettato, nel timbro, nei colori, nel ritmo segmentato, nell’alternanza di scoperta e riflessione, nell’invenzione) fino all’approdo alla sintesi, necessaria, sgrossata dell’inessenziale, che ogni testo contempla e propone, comprese le note di poetica dell’ultima parte, che non costituiscono una più o meno utile e luminosa chiosa dei testi/tracce lasciati sul sentiero, ma sono materia e sostanza esse stesse di accensioni liriche senza vocazione di canto, essenziali distrattori/attrattori di una sottile, sotterranea corrente erotica da cui ogni verso si genera: “nella distrazione è rappresentato il solido ancoraggio di una libertà infantile. Ogni riflessione sulla poesia parla di una creazione, di un’immagine che si sviluppa da lacerti analogici (astratti?) o metaforici, in una parola: da uno slancio d’amore”. IV. “Chiusura/e”, dunque: clausura, claustrum: il massimo della contrazione e della riduzione dello spazio immenso, compreso quello interiore e quello, indefinibile, della scrittura, a un dove abitabile e vivibile, a misura di finitudine e divenire; e, nello stesso tempo, il massimo dell’apertura possibile, proprio in ragione della finitudine, rispetto all’infinito-nulla che, inesorabile, spinge, con gli esiti tragici che conosciamo, a trascendere la datità, e il limite ontologico che ne è la cifra. Il risultato è l’artificiosa gerarchizzazione degli enti e la loro definizione e riduzione in chiave di utilità e di possesso, l’espropriazione delle forme del desiderio, ridotte a simulacri, deprivate di radicalità e reificate: all’interno di un quadro astratto che si perpetua, immutato e immutabile, con effetti devastanti sullo sguardo che muove, per legge non scritta di natura, verso ogni cosa che vive. Solo la poesia che sa farsi corpo e abitacolo senziente dell’evento che trascorre, e nel quale, ignari, noi stessi trascorriamo, trapassando di giorno in giorno in altre forme e in altre voci, ha la capacità/possibilità di ricordare che “la pupilla è l’argano / il meccanismo di un’altra costruzione”: ed è questa “memoria”, incisa a caratteri di fuoco nelle sue cellule e in ogni suo tessuto vitale, che va riportata alla luce, e fatta agire: con l’ostinazione di chi scava la roccia alla ricerca dell’unica goccia che lo salva, perché sa che la pietra conserva sempre, come suo orizzonte ultimo e destino, tracce di ogni trascorsa acqua. “L'acqua s'incanala / sulle teste vegetali, / la pietra resta / e comunica l'attrazione / di distanze incidenti, / traiettorie cosmiche”. V. 173 VDBD – n. 2 – nov.2008


Nella cornice allegorica dell’opera appare, attraverso tutta una serie di segnali e di indizi, intermittenti ma concreti, disseminati ad arte, chiaramente leggibile in tutta la sua estensione, soprattutto quando emerge con piena forza e in piena luce, il refe simbolico (“il filo che conduce al globo d’acqua / oltre l’immagine raccolta”) col quale la mano del poeta cerca di assiemare le tessere del mosaico (“Ogni fibra è un tassello, un abbraccio / che la carne non trattiene”); anche se, come è facile intuire, date le premesse, il suo sguardo è naturalmente rivolto verso il basso, verso la componente materiale, la parte visibile e tangibile del symbolon stesso. E infatti, del simbolo/archetipo per eccellenza della metamorfosi e della rinascita, della fenice bachelardiana (ogni “icona” è una “fenice inarginabile”), che pure lascia imprimersi fra le pagine il profumo e l’eco dell’ultimo volo consumato prima delle fiamme, l’autore preferisce contemplare la cenere, nella quale immerge a fondo le mani, piuttosto che levare lo sguardo verso l’alto, alla ricerca di un inesistente chiarore, di un barlume, una scintilla del rogo ormai estinto: perché è dalla cenere, dalla consunzione contemporanea della dimora e delle ali, così come, di riflesso, dalla percezione carnale della limitatezza del pensiero e delle sue immagini usuali, orizzontali (quelle che definiscono i reticoli di un illusorio possesso di ogni attimo e di ogni spazio del vivente, e trasformano la sua rappresentazione in forme esasperate e utilitaristiche di fruizione-possesso) che la ri-generazione può aver luogo: nell’abbraccio, nella “fusione in assenza di punti”: nella “luce” strappata dall’ombra, la luce superstite a cui l’ombra recisa strappa ogni “cavia adescata dalla luce” stessa (Yang Lian). VI. In che modo è possibile restituire sulla pagina il profilo migrante di queste intuizioni, con quale inchiostro dare voce e volto alle domande inesprimibili che si trascinano? A quale alfabeto, che non sia pura idealizzazione e trascendenza del dato, finzione di innocenza, è necessario far ricorso, in assenza di altri sguardi oltre il nostro? E’ proprio qui, nel fuoco di queste domande essenziali, nella scelta decisiva del medium espressivo, che l’intuizione iniziale si fa scrittura visibile, traccia vivente della copula tra soggetto e mondo: il poeta, infatti, dispone il suo corpo, in tutte le sue articolazioni senzienti, dal più piccolo degli organi e dei recessi epidermici alla complessità elementare/elementale del pensiero, in posizione fetale, di abbandono, di totale e assoluto ascolto di ogni riverbero, di ogni più lontana e profonda vibrazione del reale, come una membrana docile e flessibile che si lascia attraversare e modificare in ogni sua fibra da ogni suono esistente, da quelli che arrivano ad ondate, solitari o simultanei, a quelli di cui è dato percepire solo la possibilità di essere e di affidarsi all’aria, così come alla carne, perché già, o nonancora, o non-mai stati. Ogni testo è la trascrizione per barlumi, per immagini frante, di questo amplesso, di questa immersione, di questo ascolto in cui anche il pensiero e la parola sono parte integrante del moto, parte agente e agita nello stesso tempo, occhio che guarda e visione che nasce, e si offre, all’occhio della metamorfosi incessante dell’esistente. Un processo nel quale “la carne piana si spegne / … / nel nodo del trapasso”, il maschile si travasa nel femminile e il nuovo corpo è un essere plurale, un’unità duale: che si fa radice che spunta al primo albore, e arbusto che declina al tramonto; seno che allatta se stesso nell’altro che tende le labbra; o pietra che resta e resiste, in piena corrente, perche vi si àncori il senso, prima che il senso stesso, e il 174 VDBD – n. 2 – nov.2008


pensiero che lo produce, siano di nuovo soglia di trasformazione, fuoco che alimenta certezze e cenere che dalle certezze, ormai spente, ri-plasma il colore che avvicina ogni essere al confine più prossimo allo sguardo: lo allontana, lo perde, lo riabbraccia, lo possiede per un attimo, perché in quell’attimo si possiede - senza nessun possesso: come se “…schioccassero perle / ad ogni flusso del sangue, / un cielo prezioso si adagiasse / su un minuto sereno del mondo / e il mio corpo / fosse la costellazione del tuo viso / la più intima cellula del cosmo”. VII. Non c’è nessuna voluptas panica che muove, indirizza e dispone questi versi, nessun indizio che rimandi, a qualsiasi titolo, alla preminenza del ruolo del poeta all’interno della struttura profonda del vivente, alla sua funzione di veggente la cui pupilla restituisce bagliori del mistero indicibile che lega tutte le cose. Illuminata dal lampo terrestre di un “misticismo carnale”, la poesia non è altro che un “abbraccio tra due forme di materia che, entrando in contatto, modificano il conforme e provocano una trasformazione del reale. La poesia è libertà di essere il mondo”. Qui il poeta non ha saperi da rivelare o verità ultime da rendere chiare allo sguardo di chi legge: solo lo stupore, senz’altra finalità che essere, e essere corpo in un verso, di chi si dispone a farsi attraversare dal mondo senza finzioni e senza nessun altro schermo che non sia l’innata, dis-coperta tensione all’ascolto, la disposizione aurorale di chi si osserva mutare in quel ciclo incessante di trasformazioni, di opposti che si rovesciano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Egli osserva non solo il suo corpo diventare altro e le voci mutarsi in visioni, ma lo stesso pensiero cambiare pelle, ritornare ogni volta nudo alla sorgente del suo farsi radice di comprensione senza oggetto, con in più la consapevolezza, acquisita nella traversata, di essere cosa- tra- le- cose, di dovere ad ogni accensione, nella de-cisione che ordina e rende trasparente e leggibile il reale, immergersi nella libertà senza confini del suo rovescio, del suo fondo oscuro. Anche la figura femminile (le figure: molteplici volti di uno stesso corpo) che attraversa le pagine trascinando di verso in verso il carico di una sensualità diffusa, prorompente erotica vitalità e cura materna di ogni cosa allo stesso tempo, altro non è che una figurazione carnale, concreta, agente, del respiro profondo del mondo chiuso nella dimora delle sue perpetue e cangianti trasformazioni, una dimora che si dilata ad ogni nuovo soffio fino a comprendere e a diventare uno con tutto ciò che esiste: un senhal di impronta platonico-stilnovistica (penso in particolare a Cavalcanti) , forse, ma senza nessun contenuto, nessun anelito ideale o trascendente, solo l’estremo bagliore che segna, nella durata interminabile di un lampo, la coscienza e il confine di una ontologica mancanza e di una irripetibile e indicibile pienezza. VIII. Se l’oggetto del libro-visione è il mondo, percepito alle soglie del suo primo apparire, nell’attimo in cui si dispiega in molteplicità vivente, senziente e desiderante, l’opera di trascrizione non può che risolversi nella lineare complessità della creazione stessa, con tutta la costellazione di simboli (anche in questo caso, nell’esatta accezione di cui si è detto sopra) che ne reggono e orientano la struttura. 175 VDBD – n. 2 – nov.2008


Il libro-mondo è diviso esattamente in sei parti (i giorni della creazione) che si richiamano, si rovesciano e si confondono in ogni testo, lasciando ognuna una traccia di sé nel ciclico dispiegarsi e trascorrere delle altre: per cui, alla fine della lettura (soprattutto se la lettura si è fatta essa stessa ascolto degli echi profondi della parola-evento, e si è disposta alla stessa erranza metamorfica che ne è la materia e il respiro profondo), si può anche rintracciare il momento genetico dell’opera nella sezione che sembra apporre il sigillo definitivo: momento genetico che, a ulteriore riprova della circolarità del moto che i testi accendono, può essere di nuovo individuato in una qualsiasi delle stazioni centrali dell’intero percorso. IX. “Svista d’origine”, il primo movimento dell’intera sinfonia in calando, dissonante, a ritroso e a rovescio nell’universo dell’udibile-dato, immerge immediatamente il lettore nella dimensione del pensiero che si interroga sull’illusione di poter restituire lo sguardo aurorale dell’origine senza entrare a far parte, res inter res, della genesi in cui tutte le cose si danno col loro primo, impronunciabile nome: dove-quando “lo scarto è un polo di luce, / un globo d'acqua che scivola / dalla scarpata impassibile”. Perché ciò avvenga, non può che deporre le categorie di cui è motore e sintesi, in primis la sintassi che ordina e riduce l’ente a oggetto e la sua unicità e irripetibilità ad anello seriale della catena dell’utile (“Il gesto della luce opporre / alla focalità del disegno”), e, restituito alla sua potenzialità intatta, libera da qualsiasi sovrastruttura finalistica, ideale o materiale che sia, disporsi all’ascolto del suo stesso mostrarsi, e mutare, sul pentagramma del reale: una nota, un suono semplice ed elementare, nel silenzio dell’incessante, inestinguibile concerto del mondo. “Religio”, in assoluto una delle parti più belle e strutturalmente seminali dell’opera, individua il punto, all’interno della pupilla immaginale del mondo, dove il legame si costruisce e si salda “su una trama di equilibri instabili”. E il legame auspicato si definisce, subito, nella dimensione interrogante, di matrice blochiana, dell’anelito e della speranza, non certo come un postulato di certezze: “Se religio fosse blocco di parola / che assorbisse il possesso / ancora il nostro corpo improprio / invece della luce inarginabile / l’esterno di una libera impotenza”. Il legame è il percorso, il transito, l’immagine che il corpo si trascina di sentiero in sentiero colmando di passi il vuoto che attraversa: è il senso di ininterrotti passaggi di stato (di essere) – migrazioni – alla ricerca di un’altra immagine nella quale perdersi, fondersi, per colorare di suoni altri tratti di nulla: “sarà renderlo il corpo / il dono slabbrato oltre il dolore / l’altra materia”. Nella terza parte, “Rivoluzione”, pensiero e poesia sono già parte del processo metamorfico che li rende inconciliabili e incompatibili rispetto a qualsiasi categorizzazione o definizione d’uso comune (sempre altra, del resto, rispetto all’in-sé in cui si esprime l’assoluta libertà di essere in quanto e in quello che sono). Sono già altrove, infatti, avendo perso, inglobati nelle maglie trasparenti del processo, l’uno, la sua funzione d’ordine (i testi sfuggono al controllo, declinano in lente, vertiginose sottrazioni di senso, dovute alla rarefazione dei nessi logici e dei funtori che regolano l’immediata fruibilità ordinatrice – il possesso – del reale e la sua riduzione all’universo parziale della frontalità e dell’oggettualizzazione); l’altra, la sua univoca dicibilità in funzione, escludente ogni altra opzione, esclusivamente di canto. Il risultato è la consapevolezza e la tenuta, salda, dei meccanismi teorici e della tra-duzione del dettato in versi: un colpo, di notevole forza, calmo e feroce nello stesso tempo, portato, 176 VDBD – n. 2 – nov.2008


contemporaneamente, tanto contro la rappresentazione mimetica, che restituisce sempre, di ciò che esiste, unicamente quello che desideriamo, o siamo in grado di, possedere e manipolare, quanto contro la cantabilità fine a se stessa, che nella sua eterna, immutabile staticità, fa di un finalismo consolatorio la sua sola, inutile perché sola, ragion d’essere. E infatti, “qualcuno voleva adattare / le pieghe paziente / attendere un risultato /senza inventare l’obiettivo / ma il salto è forma del tragitto / l’inclusione tragica / l’espansione rivolutiva della carne”. Se “il salto è forma del tragitto”, l’invenzione dell’obiettivo, l’ “inclusione tragica” è la percezione dell’essere in quanto mistero, termine che ci riporta, non a caso, accolto nella sua primitiva valenza etimologica, alla “clausura”, al “clausum” di cui si diceva all’inizio: all’infinitamente grande che si riduce a misura di finitudine, e alla smisurata apertura/argine contro il nulla a cui dispone lo spirito liberato. E’ quanto emerge dai flussi e dai flutti della quarta parte, “Diversi cerchi”, dove l’unità duale osserva se stessa, con occhi prima in-pensabili, nella corrente incessante che riporta ogni cosa a un ordine increato, al prima di ogni significazione escludente (con “gli occhi stretti stretti / che non sanno le parole”): là dove “… non c’è nome che io possa dare” a ogni “scorcio inatteso della pelle”. In “Migrazioni”, quasi a (e)semplificare e a esemplare in figure e profili definiti la ripresa di uno dei temi fondanti dell’opera, la persistenza del legame (religio) si fa cifra ricorsiva, metafora mobile che si innerva, col carico raccolto di soglia in soglia, fino a sciogliersi, in tutta la sua pienezza, nella parola che racchiude, contemporaneamente, il contenuto e la forma del viaggio: l’inizio, forse, di un nuovo alfabeto: “la nostra è religione di contatto / lo scorcio che intravede l’apertura / gli astri nella radura una cascata / di corpi, un abbraccio della distanza / che ti scuote”. Anche la tensione erotica, mai placata, che si insinua in ogni anfratto della visione e delle immagini che contiene, rivela qui il suo vero volto: è l’alterità del reale, il puro suono, il principio metamorfico femminile che è origine di ogni voce, poesia: perché ogni “battito è la sagoma di donna / risuscitata per sempre / esposta nel mondo”. In sostanza, e utilizzando in parte un motivo vicino al primo Bonnefoy, il mondo che nel verso si rigenera e rinasce, si ex-pone al mondo: il punto di coincidenza, cercato e trovato, del clausum col massimo dell’apertura e della visibilità: a dire, con l’estensione (in)finita di tutto ciò che vive. In “Adorazione”, la sezione che chiude il cerchio (e lo ri-apre), l’atto reverenziale d’amore si esprime nella ripresa di voce, nella ri-conquista di una parola che può dire, come in un officium carnale, l’ordine senza possesso del mondo, senza che la lingua, esplosa e rinata alla sua infanzia, si costringa ancora a incanalare, a frammentare, a descrivere e a s-piegare ciò che è irrisolta e irresolubile passione delle cose a essere e passare. L’adorazione conserva intatto lo stupore della prima volta (“Saremo l’abbraccio che resiste /e l’amore della nostra mancanza”), e, nella sua struggente sollecitudine di immergersi e lasciarsi attraversare dalla sua corrente, è raccoglimento, separazione (“chiusura”), rispetto alla sistematica di un esistente privato della libertà di trascorrere e di dirsi nei suoi infiniti accenti: di specchiarsi a ogni sguardo nel coro inesauribile dei suoi riflessi e dei suoi echi profondi. La poesia è lo sguardo plurale che dal cuore del mondo risponde al nostro sguardo e lo contiene: è un “noi” che scrive nei giorni i segni di un “compito inatteso”: “come allacciare canestri / formare le frasi di nubi e bambini /abbracciandone il grembo”.

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ANTOLOGIA POETICA DI GIANLUCA D'ANDREA a cura di Francesco Marotta

[Gianluca D’Andrea, Chiusure, Lecce, Manni Editore, 2008 ]

I. Svista d’origine

La chiusura dell’abbraccio è i grumi di flusso abbarbicati al cacume, attraversando lo screzio, il suono divelto. Come uscire dalla pratica parziale? nel cuore del bambino il raggio sfibrato del contatto perenne, l’illusione d’ascesi. Come vibri la terra sotto la pelle la fusione nell’assenza di punti, un’esigenza dividua l’espropriazione. 178 VDBD – n. 2 – nov.2008


* Ancora i tuoi zigomi elastici improvvisano l’obiettivo e strisciano trascinando la pelle cosmetica l’estasi bisturi. Nella valle del seno un respiro violento estirpa il contatto lo scotto si sciampia ed infuoca l’erba residuo, i ciottoli della deflagrazione sostituendo i frantumi. Le pietre sospendono il paesaggio del volto. * Strizzate le palpebre nel gesto del rifiuto che trascina alla mancanza. La vetta inaccessibile sospesa tra le maglie della pelle. Resto estraneo, per quanto il desiderio stritoli il nodo, la fibra magnetica manipoli il trapasso e il salto si riduca, lo scarto è un polo di luce, un globo d’acqua che scivola dalla scarpata impassibile.

II. Religio

Come sostare in origine se mille grumi assorbono la fatica condensata in scarti minimi a bruciare le pagine, le piaghe del sole trancio, brandello di un organo scardinato 179 VDBD – n. 2 – nov.2008


rappreso e slanciato su una trama di equilibri instabili. * Mio fare non credere alle parole di queste immagini il succo è spessore di mani noi distanti noi tendini legami esterni ben oltre l’occhio di terra pure immersi nei golfi di carne a maciullarne i residui plateali o a dormire esposti. * Non è la scelta dovuta annullare le parole cardare il senso fino a inventare sul vuoto presunto forza accorta disintegrata la pelle modella l’immagine del percorso e la giuntura che scava la carne.

III. Rivoluzione

Un pensiero a incrinare la scelta la vittoria violenta, il paradigma di resistere e dare una preghiera a sbilanciare gli atomi di un risveglio estraneo, qualcuno voleva adattare le pieghe paziente attendere un risultato senza inventare l’obiettivo ma il salto è forma del tragitto l’inclusione tragica l’espansione rivolutiva della carne. 180 VDBD – n. 2 – nov.2008


* Tra due soglie e la pasta rimestata del corpo corre un’ora del pensiero miracolo d’una lucidità sbilenca. L’idillio della febbre, un abbraccio di brividi interni. Questa carne ama farsi del male sono piccoli spazi dentro colmi d’aria dico giù un pensiero resta uno ascoltare la propria invenzione come un panorama. * Chiusure Nella stanza conclusa dell’amplesso nella pelle del bimbo che si estende, trovare le tue mani che slanciano particole di luce. Distanziati in continue mutazioni movimenti indefiniti per restare incollati nell’abbraccio siderale.

IV. Diversi cerchi

La tua terra è bianca minerale il tuo riflesso come schioccassero perle ad ogni flusso del sangue, un cielo prezioso si adagiasse su un minuto sereno del mondo e il mio corpo fosse la costellazione del tuo viso la più intima cellula del cosmo. 181 VDBD – n. 2 – nov.2008


* Poter seguire il tracciato del viso sviluppare l’arco di luce che accende la polpa delle labbra, come una collina e la sua valle il filo che conduce al globo d’acqua oltre l’immagine raccolta. Ogni fibra è un tassello, un abbraccio che la carne non trattiene come un disegno e l’ingranaggio che ne plasma la tecnica. * Costellazione Ora invento la linea il tragitto che unisce i tuoi tratti ora disegno l’immagine legando la trama, amando la tecnica che ti tiene esposta più di un fuscello di ossa ma colla per la retina; seguo i punti ed i fili ma non c’è nome che io possa dare allo scorcio inatteso della pelle le tue labbra carne e pieghe dilatate si gonfiano costruendo la mia volta attuale.

V. Migrazioni

(A) È nel battito degli occhi nei passi illimitati, in questa frazione di luce come un abbraccio morbido nei sensi che si sfrangia il contatto la tua mano è l’elemento disposto ad arginare il taglio 182 VDBD – n. 2 – nov.2008


la distanza magnetica nei passi e il bambino è un filo una tecnica rilasciata elusiva fino allo scontro il rigetto delle tue partizioni l’innesco di punti, scardinati. * I segni nella terra, le tue linee sono la mutazione serena che lava i residui, la pelle appare liscia come un foglio che si sbrecci la carne una filiazione del mito la nostra è religione di contatto lo scorcio che intravede l’apertura gli astri nella radura una cascata di corpi, un abbraccio della distanza che ti scuote. La pupilla è l’argano il meccanismo di un’altra costruzione. * Ascolto Oltre questa parola è un suono esterno tasti che sfiorano tasti filtrando un trapasso lieve come i tuoi gesti ogni azione è un’immagine di luce pensa alla scrittura della tua bocca alla voce di ogni tuo atteggiamento. Niente è banale come un segno o come il meccanismo che ne informa la tecnica. Ascoltare la carne che rimpolpa per la scossa di uno stimolo e schiuderne il senso in una gabbia di luce. Non occorre una risposta è l’esigenza d’incontrarle le tue mani, i polpastrelli che disegnano il tuo ritmo tanto diverso da subirne l’attrazione.

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VI. Adorazione

V Ho ascoltato il rumore delle voci tra le mura e la tua grazia distesa ha il sapore del primo bacio, non è il mio corpo è la voce che sfiora una superficie per divenire un circuito di rimbalzi e posizioni. La stanza vive il proprio ritmo e detta il respiro voglio toccarti per lasciare che pulsi e s’inceppi la carne e sentire l’eco del nostro contatto. Noi è la traccia per un riconoscimento svegliarsi contagiati dall’aria, forme come onde vaganti, un frutto che rotola via e non si cura di essere accolto. * In attesa che l’autunno ci sorprenda coniughi i suoi raggi inclinati illuminando le nostre colline e i castagni e i noccioli e che la luce sgravata e morbida sia l’aurora infinita dei nostri figli come il giglio appena nato o il vento nelle cave e sugli steli l’eco di campanule che si espande nelle grotte di ogni fibra e le spighe crescano spontanee nello slancio di violenza che sempre profuma le foglie. * Spingersi a negare la carne, l’esplosione di un rifiuto che incendia le parole, il tuo viso è di rami che accecano, come il profumo sulla strada di casa, il gelsomino nell’orto, qui, accanto, forse noi nel risveglio imprevisto o il gatto che stride 184 VDBD – n. 2 – nov.2008


le sue effusioni in caviglie e pareti, noi che svolgiamo compiti inattesi come allacciare canestri, formare le frasi di nubi e bambini abbracciandone il grembo. I silenzi ostili dell’incomprensione amorosa di Francesca Pellegrino

Lei sapeva del silenzio che sarebbe venuto poi per questo gli chiedeva "abbassa la voce" pensava che se le parole si fossero fatte simili al silenzio la loro assenza sarebbe stata più lieve, come un bisbigliare oltre una porta chiusa o come qualcuno che senti muoversi nella stanza accanto. "Cambia tono" diceva a lei lui che non capiva e confuso rallentava il passo, cercava un riparo da quell'estate improvvisa, dall'assalto dell'inatteso. Ma fu in quella luce stinta che cominciò a sentire che le cose a volte implodono senza implorare altro e tornano in se stesse e stanno affini al silenzio. Così cedette e abbassò la voce tanto che tacque. [*] C’è un silenzio ostile nel quale abitano le incomprensioni, qualcosa di impalpabile, oltre le labbra, che tace le urgenze dell’amore e di sé. Lucianna Argentino in "Diario Inverso", di quel silenzio ha fatto verità. La sua è la voce di un’attesa sconfinatamene elusa dal reale colore delle relazioni, qualcosa di troppo diverso dal sogno: aspettative di uomini come di principi azzurri, obbligatorio retaggio culturale che le donne si portano dietro fin dall’infanzia. Si pensi ad alcuni spot televisivi, che mostrano realtà fatte di sorrisi imbalsamati, di abbracci, di famiglie perfette e di mamme che servono in tavola la felicità dentro i biscotti confezionati per la prima colazione. Si pensi ai giocattoli in commercio destinati alle bambine: ferri da stiro, bambole di neonati che piangono lacrime artificiali, sposini amorevoli di plastica e tanto altro. Il lavoro nelle coscienze è come il lavoro dell’acqua sulle rocce: scava fin dentro i sogni e li modella a sua immagine e somiglianza, aprendo voragini di insicurezze che finiscono con l’essere "compiute" solo nel riflesso del proprio uomo. Io sono il bianco e lui il nero e da bianco mi avvicinai al suo nero perché si stemperasse un poco, perché sfumasse in una chiarità devota … 185 VDBD – n. 2 – nov.2008


ma il suo nero ha la qualità del bianco: riflette la luce e se ne difende murando vivo il sole - e il mio bianco è come il nero: assorbe la luce e se ne nutre. [*] La realtà è di certo altra cosa e Lucianna ce la mostra in un vissuto che sente i dissapori delle incomprensioni e ne misura i respiri con le distanze che li dividono. La consapevolezza di una prossima e possibile rottura che destabilizzi gli equilibri sui quali è basato il proprio quotidiano, è di certo il primo passo verso la pace interiore. Una precisa volontà a guardare oltre le aspettative e riconoscere a sé stessi la reale incomunicabilità col partner, per accettarla e tentare di sopravviverla. Le dinamiche che ne conseguono, tuttavia, stringono dentro un angolo le proprie incertezze ed evidenziano inesorabilmente il senso di insofferenza verso la propria impotenza. L’incomunicabilità diventa il peso più grande da sopportare e si finisce col disconoscere al tempo il suo ruolo, restando intrappolati in un limbo di vuoto in cui sia impossibile muovere alcun passo. chi può dirmi chi sono se lui non mi è più specchio? Se di coraggio perso è il suo guardarmi e di ritorni severi e di ritardi, se nel suo sguardo disfatti vedo il tempo e me me ridisegnata senza braccia. [*] Un sogno destinato al disincanto ed al silenzio di relazioni che corrono su binari diversi di emotività e di bisogni, restando comunque meta salvifica per proseguire il viaggio infinito che è la vita stessa. Come se l’innocenza infantile dell’ideale d’amore, fosse il tesoro nascosto dentro i "se" ed i "ma", sconfinando dubbi che disintegrano l’io, deformando ogni contorno. Tutto sfocia nella conseguente incapacità di reazione, vittima inconsapevole di un circolo vizioso di paure e desideri che si inseguono all’infinito e chiudono il cerchio esatto di una disperazione "senza braccia" nella quale – paradossalmente – sia ancora possibile sognare. Come se fosse la scialuppa di salvataggio per non smettere di "credere", perdendo altrimenti la più sana delle consolazioni: la fede nel sogno. Se la luce rimpiange l’ombra eccitata da tanto vedere è perché l’ombra smaltiva l’eccesso ingentiliva il cinismo traghettava in quel mare la sua nebbia di casta consolazione. [*] La voce intimistica di Lucianna, parla dei silenzi nei quali si finisce con lo smarrire il senso reale di una relazione per l’ansia disperata di viverla. E’ una voce sommessa, talvolta, di donna che ricerca e ricava la propria forza dalla fragilità delle proprie insicurezze. 186 VDBD – n. 2 – nov.2008


La bellezza del suo verso è nell’integrità nella quale conserva le proprie paure e le trastulla consolandole della poesia stessa. Come se una pioggia nuova cadesse, purificando dove la polvere ha fatto il suo nido di dolore. mi manca la poesia nel giorno sceso in cenere a forzare laica la veglia stanca e irragionevole al dio liquefatto nell’inchiostro fatto preghiera di cose andate e presto ritornate a nuovo uso come la pioggia o la parola accolta in limine all’avvenimento che la dice. [*]

[*] Da "Diario Inverso" di Lucianna Argentino – ed. Manni

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