rivista vdbd numero uno

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VIADELLEBELLEDONNE Quadrimestrale di letteratura, filosofia e arte

luglio 2008 – n. 1

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VDBD N°1

STRETTOIE (da pag. 6) Andrea Oppo - NOTE SUL «DIARIO DI UN DOLORE» DI C.S. LEWIS Antonella Pizzo - LE INTERVISTE IMPOSSIBILI: MARY SHELLEY

PIANEROTTOLI (da pag 13) Cristina Contilli - UNA FIGURA POCO CONOSCIUTA DEL RISORGIMENTO: LA CONTESSA MILANESE COSTANZA TROTTI ARCONATI Erika Ranfoni - HANNAH ARENDT: LA VITA E' UN MIRACOLO A DUE VOCI

FINESTRE (da pag.19) Morena Fanti - UNDERWORLD di Don DeLillo – una lettura ‘sospettosa’ Fernanda Ferraresso - LEG(G)ENDA DI UN FILM : TAXI DRIVER di Martin Scorsese Marta Ajò - PATRIMONIO UNA STORIA VERA di Philip Roth,

CAMMINAMENTI (da pag. 28) Fabiano Alborghetti - RIABILITATO COME UOMO. IL LABORATORIO DI LETTURA E SCRITTURA CREATIVA AL CARCERE DI OPERA Emilia De Rienzo - DIALOGARE CON LE PERSONE ANZIANE: UNA DIMENSIONE CHE SI STA PERDENDO Maria Pina Ciancio - RITI ED ARTI MAGICO-RELIGIOSI NELL'ANTICA SOCIETA' LUCANA DEL POLLINO

PONTEGGI (da pag. 39) Valter Binaghi - LA TELEVISIONE DEI LIBRI Paola Pluchino (Foto e testo) - 4 MOMENTI SU TUTTO IL (mio) NULLA (omaggio a Carmelo Bene) Lia Volpatti - TUTTE LE (belle) DONNE DI MARLOWE! Ilaria Ciancilla - LO SPECCHIO INFRANTO: i paradigmi della moda nel Nuovo Mondo

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GIARDINI (da pag. 59) Marco Scalabrino - MARIA FAVUZZA Anna Maria Bonfiglio - AUTUNNO SICILIANO Francesco Marotta - I NOMI DELLA LUCE GIARDINI (Rubrica di Poesia a cura di Francesco Marotta) (da pag. 88) Marina Pizzi - DAVANZALI DI PIETA' Lorenzo Carlucci - LA COMUNITA' ASSOLUTA Federico Zuliani - TRAVELLING SOUTH Francesca Sallusti - LA LEPRE CEDE IL PASSO ALL'ORO

BALAUSTRE (da pag. 117) Sandra Palombo e Lucetta Frisa – PETIT QUESTIONNAIRE POUR JEAN ECHENOZ Marina Raccanelli - L'ARTE DEL RESTAURO FRA ORIENTE E OCCIDENTE - Intervista a Barbara Biciocchi Alessandra Pigliaru - LA FEMMINILITA' RITROVATA. Saggiointervista sul cinema di Alina Marazzi Marco Buttafuoco, ARTE E PSICANALISI. Intervista a Laura Pigozzi

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Gli autori, i dialoganti, gli artisti che hanno collaborato a questo numero:

Fabiano Alborghetti; Marta Ajò; Barbara Biciocchi; Valter Binaghi; Anna Maria Bonfiglio; Marco Buttafuoco; Giusy Calia; Lorenzo Carlucci; Maria Pina Ciancio; Cristina Contilli; Emilia De Rienzo; Jean Echenoz; Morena Fanti; Fernanda Ferraresso; Lucetta Frisa; Alina Marazzi; Francesco Marotta; Andrea Oppo; Sandra Palombo; Alessandra Pigliaru; Laura Pigozzi; Marina Pizzi; Antonella Pizzo; Paola Pluchino; Marina Raccanelli; Erika Ranfoni; Francesca Sallusti; Marco Scalabrino; Lia Volpatti; Federico Zuliani

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VDBD N°1

EDITORIALE a cura di Alessandra Pigliaru “Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato di questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora” [Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, pp. 24,25]

La forma del pensiero e dell’immaginazione può essere rappresentata attraverso la metafora dello spazio. La categoria del tempo gli è infatti già inscritta. Lo spazio, inteso come simbolico riverbero di ciò che si è e di ciò che si vede fuori di noi, appartiene alla dimensione della rêverie, direbbe Gaston Bachelard. Non si è al limitare del sogno, non si è in attesa del sonno. La soggettività è, nello poetica dello spazio, aderente alla veglia. La mente creativa, l’immaginazione che conosce l’inganno completo solo nell’onirica rappresentazione della realtà, avverte l’organizzazione del reale come un affastellarsi di immagini che ne richiamano l’erranza. La rivista di Viadellebelledonne, nel numero 1, si apre a questo vagare individuando quella immensità intima in disparati angoli del mondo. Non c’è stata considerazione di stanze o camere specifiche, ma di luoghi aperti o cosmi del Socchiuso come, sempre Bachelard, scrive circa la porta. Ecco, i rifugi e gli ambienti scelti sono approssimazioni dell’aperto e aperture essi stessi. Ogni spazio ha a che vedere col limite della visione, se non fosse che le sezioni qui pensate appartengono alle metafore di aperto e chiuso, accusandone fin da principio la stridente dialettica. Ogni spazio è un’ulteriore dimora. Nel primo angolo incontriamo STRETTOIE, e il Socchiuso diventa un passaggio obbligato dall’urgenza; allora incontreremo le tagliole del dolore, nella lettura di Andrea Oppo, e l’omaggio storico di Antonella Pizzo con la prima delle interviste impossibili dedicata a Mary Shelley. Nel primo intervento Andrea Oppo, si spinge oltre C.S. Lewis e la lettura del Diario, diventa quasi un pretesto per interrogarsi sulla legittimità della sofferenza umana dinanzi alla morte; la profondità della trattazione, rivela la strettoia più difficile: quella del dolore. Nel secondo intervento, incontriamo una strettoia-altra in cui è la stessa Mary Shelley incalzata da Antonella Pizzo, che ripercorre gli anni difficili della sua formazione letteraria. Attraverso un raffinato esperimento come quello dell’ intervista impossibile, la Pizzo indaga e rintraccia lo scandalo della creazione intesa in senso artistico ed etico. Il secondo angolo è PIANEROTTOLI, in cui le rampe, di diverse inclinazioni, restano al centro e costituiscono l’asse portante della scena e dell’incrocio. Il primo saggio è a firma di Cristina Contilli che tratteggia un profilo bio-bibliografico della Contessa milanese Costanza Trotti Arconati, figura che attraversa le vicende umane, morali e politiche del Risorgimento italiano, entrando in relazione con intellettuali e patrioti di spicco. I quattro interventi che incontriamo in FINESTRE sono altrettanti sensi che si schiudono. La prima apertura è la lettura sospettosa che Morena Fanti fa di Underworld, poderoso romanzo di Don De Lillo, in cui viene offerta un’attenta considerazione in relazione al cambiamento dell’America tra gli anni Cinquanta e i primi anni Novanta. La seconda finestra è offerta da Fernanda Ferraresso nella visione del capolavoro di Martin Scorsese, Taxi driver, attraverso un’indagine meticolosa e puntuale delle sequenze e dei temi portanti seguendo lo sguardo di Travis, tra violenza e alienazione. Marta Ajò legge invece un piccolo e preziosissimo testo di Philp Roth, Patrimonio. Una storia vera, in

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VDBD N°1 cui le vicende di Hermann e Philip, padre e figlio, si intersecano fino a formare una trama fitta di ricordi. CAMMINAMENTI è da leggersi come un percorso, un sentiero che rimanda all’aspetto dello spazio sociale inteso come ricerca o elemento di ricerca sul campo. A questo proposito, il primo pezzo è il frutto di un laboratorio di scrittura creativa all’interno del carcere di Opera, alle porte di Milano. È Fabiano Alborghetti a traghettarci con sé. Emilia De Rienzo riflette invece sull’anzianità e, attraverso diversi riferimenti letterari, considera il rischio del mancato ascolto. Lo studio conoscitivo portato avanti da Maria Pina Ciancio , è nato da una serie di testimonianze e interviste raccolte sul campo sui riti magico-religiosi nell'area sud della Basilicata (il Pollino precisamente). PONTEGGI sono invece saggi in cui l’occhio, aldilà della staccionata, puntella travi issando nuove incastellature. Sono contenuti in questo angolo di mondo il primo pezzo è di Valter Binaghi che, attraverso una critica alla società del consumo, accampa ipotesi di lettura del fenomeno. Il secondo intervento è di Paola Pluchino che, omaggiando Carmelo Bene, costruisce un percorso originale attraverso quattro momenti distinti: il linguaggio, la conoscenza, l’eros e l’arte. Seguendo un itinerario per immagini, le note a margine sono da leggersi come una concettualizzazione delle stesse. Lia Volpatti scrive invece una sorta di divertissement su Philip Marlowe, detective nato dalla penna sagace di Raymond Chandler. Il quarto intervento appartiene a Ilaria Ciancilla con il suo saggio sui paradigmi della moda tra filosofia e linguaggio nel Novecento. Non esistono porte e fessure nei GIARDINI. Esiste al contrario uno spazio conchiuso entro i limiti dello stesso spazio poetante. Qui Marco Scalabrino delinea i tratti di Maria Favuzza, poeta scomparsa nel 1981, autrice di interessanti componimenti. Anna Maria Bonfiglio legge Autunno Siciliano in cui appare la silloge della poeta tedesca Marie Luise von Kaschnitz, approdata in Sicilia nel 1951. Il giardino si manifesta come un grande peripato con la presenza di Francesco Marotta che cura la rubrica dedicata alla poesia contemporanea. Mostra, in esclusiva per questo primo numero, la sua raccolta I nomi della luce, silloge di trentatre poesie. Marotta esordisce invitando alla lettura di Marina Pizzi e il suo Davanzali di pietà, e di tre recenti raccolte a cui affianca diverse note critiche. Gli autori scelti sono Lorenzo Carlucci con La comunità assoluta, Federico Zuliani con Travelling South e Francesca Sallusti con La lepre cede il passo all’oro. BALAUSTRE è invece un lembo di terra gettato sul mondo. Un angolo anch’esso se guardato in una prospettiva differente. Uno spazio che si apre al circostante attraverso l’intervista. La prima, in versione bilingue, è a cura di Sandra Palombo e Lucetta Frisa a Jean Echenoz intorno a Ravel. La seconda nasce dall’incontro tra Marina Raccanelli e Barbara Biciocchi sull’arte del restauro tra Oriente e Occidente. Si conclude con l’intervista di Marco Buttafuoco a Laura Pigozzi sul libro A nuda voce, percorso difficile a affascinante tra arte e psicanalisi. Le fotografie inserite in diversi interventi sono di Giusy Calia e di Paola Pluchino che ringraziamo per averci donato con disponibilità ed entusiasmo le loro opere e averci concesso di farle dialogare con le nostre scritture.

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STRETTOIE

Andrea Oppo NOTE SUL «DIARIO DI UN DOLORE» DI C.S. LEWIS

Nella sofferenza non si può fare altro che soffrire, ma per quanto “stringere i braccioli della poltrona del dentista o tenere le mani in grembo non cambi le cose, perché il trapano continua a trapanare”, i sentimenti da soli sono ugualmente troppo duri da sopportare, e allora mascherarli da riflessione forse può servire a qualcosa. Nel 1961, due anni prima di morire, C.S. Lewis racconta in un diario la scomparsa di sua moglie dovuta a una malattia. Lo fa con un senso profondo di ribellione (arrivando a definire Dio un “Sadico Cosmico”) per ricavare in prima battuta l’unico piacere possibile per chi è tormentato: “il piacere di restituire i colpi” (“...dire in faccia a Dio quello che pensavo di Lui”). E insieme il folle grido “Ritorna!”, l’urlo di chi non accetta di aver perduto ciò che amava di più, di chi non sente d’ora in avanti di potercela fare: perché nulla è più come prima né lo sarà, e il prima e il dopo alla luce della perdita non hanno più valore.

Lamentarsi con Dio rimanda in genere a una questione morale: a un’aspettativa delusa, a un’avversità, a un premio non ottenuto, al corso delle cose diverso da come ce lo si attendeva. Oppure il problema è nel significato: Giobbe si lamenta per un’ingiustizia che non è in grado di capire. Ivan Karamazov dice che se esiste il pianto di un bambino, qualunque ne sia la causa da Dio consentita egli non la accetterà. Il caso di Lewis è diverso. Non è la sofferenza priva di senso a fargli problema, non è la sventura o il

la consolazione della religione, più che con la religione stessa. “Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venitemi a parlare delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite”. Le cose non ci verranno restituite, non in quel modo, non quelle lì, sembra dire Lewis. “Lo sappiamo”, dice, “che non può essere così. La realtà non si ripete”. “Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa. Com’è astuta l’esca degli

dolore del singolo, dell’innocente: la sua rivendicazione è invece quasi di tipo estetico. “Quel momento”, “quel” tempo, “quella” storia non torneranno più, e nessuno li potrà mai riportare indietro. Egli ce l’ha contro

occultisti!”. Si fa strada in questo istante in lui l’idea di un “Dio cattivo”, ovvero di un Dio che cambia in corsa le regole del gioco: fa dono della pienezza e della felicità di questa vita per poi sottrarle in modo

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VDBD N°1 improvviso e irreversibile. In questo senso a Lewis altre sofferenze, perfino ingiuste, appaiono più accettabili di questa. Tutto ma non la perdita irreversibile di ciò che era stato donato come pieno e presente. Il problema è estetico: tutto quello che è stato non ci sarà più in quel modo. E questo è intollerabile, perché tramuta il dolore in paura. Forse il Dio in cui si è confidato non era buono come ci si immaginava, dice Lewis: perché alla fine non è né severo o esigente o punitivo, ma semplicemente beffardo e sadico. Così è colui che sottrae, fa sparire per sempre il bene più prezioso per una persona. Nelle pagine successive di questo Diario, con un maggiore distacco dai primi momenti di dolore, Lewis mette in dubbio qualcosa di diverso. Se di tutto quello che è accaduto in fondo “si era già avvertiti”, perché, prima, visto sugli altri, non creava alcun problema e sulla propria pelle invece sì? La risposta è fin troppo chiara: “Se il mio castello è crollato al primo colpo è perché era un castello di carte”. “La fede che aveva messo in conto queste cose non era fede ma fantasia”. Il primo punto di approdo solido è proprio questo: nulla di vero esiste finché non lo si sente e non lo si mette alla prova. Il resto sono etichette con dei nomi sopra, dove magari c’è scritto “sofferenza”,

“malattia”, “morte”, “solitudine”. “Nel bridge, mi dicono, si deve giocare a soldi, altrimenti il gioco non è serio”. Nella sua autoanalisi spietata l’autore arriva a fare tabula rasa di tutto: di ogni consolazione, di ogni ipocrisia legata al ricordo, della bontà di Dio come della sua stessa fede in Lui, che si riduce a essere finzione, gioco senza alcuna posta, castello di carte. E spesso il ripristino della fede altro non promette di essere se non un nuovo castello di carte, fino al prossimo colpo (una malattia? Una guerra? La rovina professionale?). Ma lo stato d’animo non dimostra nulla. Non è su quello che si può fare affidamento. Non c’è nulla di più semplice da assumere di una posizione materialistica, che non crede in Dio, e trova le sue consolazioni per stare al mondo e per ciò che perde e non riavrà. Ma se fede è, deve essere vera, totale: anche in un Dio cattivo o sadico, percepito tale. “È chiaro che il gatto, sotto il bisturi, brontolerà e soffierà, e cercherà di mordere. Ma la vera questione è se chi opera è un vivisezionatore o un veterinario. Gli insulti del gatto non servono a scoprirlo”. Se il chirurgo ha a cuore il nostro bene, più sarà buono e coscienzioso, maggiormente sarà inesorabile nel tagliare. Se

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cedesse alle suppliche e interrompesse l’operazione prima della fine sarebbe la rovina. L’unico punto è la fiducia in quel chirurgo, non ve n’è altro. Dal punto di vista del paziente tutto è incerto: in fondo l’uomo non sa, e allora è inutile ragionare. Lamentarsi è normale, ma quanto vale davvero scrivere il senso del proprio lamento? Sembra arrestarsi qui la cronaca della sofferenza di un uomo che ha confidato e confida in Dio, sapendo che al di fuori della prova, del giocare con i soldi veri, tutto è un castello di carte. Nessuno aveva promesso che fosse semplice e la fede vera, proprio perché non finge, e perché si affida a chi solo sa come stanno le cose, non può essere consolatoria o facile. Eppure Lewis proprio al termine di questi suoi pensieri fa intravedere una prospettiva ancora più dura ed estrema, dove non risparmia davvero più nulla di se stesso. Da una frase che ripete ogni tanto, durante il racconto, emerge qualcosa di inatteso: “Tutte le fotografie di H. sono brutte”. Il ricordo della moglie è e sarà sempre imperfetto. Le foto assomigliano tanto ai riti dei morti, che sottolineano ancora di più il loro stato di morti, come un processo di mummificazione. L’amore stesso, l’amorericordo, l’amoreattaccamento assomiglia

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VDBD N°1 tanto al castello di carte (“Comincio a capire. Il mio amore per H. era assai simile per qualità alla mia fede in Dio. Ma non voglio esagerare. Se nella fede ci fosse solo immaginazione, o nell’amore solo egoismo, questo lo sa Dio. Io no. Può darsi che ci fosse qualcosa di più: soprattutto nel mio amore per H. Ma né amore né fede erano quello che io credevo. C’era molto, in entrambi, del castello di carte.”). Il castello di carte è un’architettura instabile di simboli che sostituiscono la realtà. “Una fotografia veramente bella potrebbe alla fine diventare una trappola, un orrore, e un ostacolo”. È questo l’inganno estetico al quale l’autore di questo diario sente di aver ceduto. E precisamente da un dubbio di tipo estetico (quel momento storico non tornerà, quell’istantanea non verrà restituita) e dal fatto di tenere a quello sopra ogni cosa che nascono la paura e l’angoscia più forti, e forse la domanda di partenza di questo Diario.

“Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse (non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure costrutti dell’immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un’idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza? L’esempio supremo è l’Incarnazione, che lascia distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono ‘offesi’ dall’iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa accade nelle nostre preghiere private”. Cos’è dunque, per davvero, ciò che non ci viene restituito di questa vita? Cos’è che in realtà il chirurgo sta operando e che l’uomo non riconosce?

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Mandare in frantumi ogni immagine del sacro, bruciare qualunque foto di questa vita, come sola opportunità di essere dentro le cose e non fuori. “Tutta la realtà è iconoclastica” dice l’autore, “e noi vogliamo che sia così”. L’amore che trionfa sull’idea dell’amore, la vita sull’idea della vita, la persona e non l’idea della persona. Così come per la moglie, per Lewis il bene e l’amore più grandi sembrano non possedere una sola bella fotografia. E’ una voragine quella che si spalanca a questo punto, ed è difficile prevederne le conseguenze. Lewis si sbarazza di qualunque stato d’animo: della fede, di Dio, della moglie, e della sua stessa felicità. Brucia le immagini che di tutto questo aveva, per ritrovarlo sotto un’altra specie, nell’unica vera possibilità che ci è data, quella dell’eterno.

*** (foto di Paola Pluchino)

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VDBD N°1 STRETTOIE

Antonella Pizzo LE INTERVISTE IMPOSSIBILI: MARY SHELLEY Signora, cortesemente, potrebbe presentarsi ai nostri ignari lettori? R- Sono in molti? D- Non sappiamo esattamente, ma è probabile che siano una decina. R –Una decina di milioni?! Ottimo, sono quasi quanto gli abitanti dell’odierna London! D- Sorry, so di darle una delusione, ma sono una decina e basta, diciamo quasi quanto gli abitanti del mio pianerottolo. R – Ah… un po’ pochini in effetti, ma almeno sono buoni? D – Of course! Sono i migliori lettori del mondo. Ma ora la prego, non mi faccia più domande: lei ha la R, che sta per risposta; io ho la D, che sta per domanda. Se lei fa le domande mi fa confondere perché le domande le faccio io che ho la D. Allora, riprendiamo. Risponda please a queste semplici domande: come si chiama, quando e dove è nata. Potrà sembrarle un interrogatorio, ma non lo è, le sue risposte ci sono necessarie per imparare a conoscere meglio lei e la sua storia. R – Well, mi chiamo Mary Wollstonecraft Godwin e sono nata a Londra il 30 agosto del 1797. D – Bene, ora potrebbe essere così gentile da entrare nei particolari, immagino scabrosi, della sua vita? Insomma Madame, se può, ci racconti qualcosina di più succulento. R – My father si chiamava William ed era un filosofo, my mother si chiamava come me, Mary Wollstonecraft. E’ stata una delle prime femministe della storia, una donna in gamba, almeno così dicono, io non l’ho mai conosciuta. Incontrò mio padre, iniziarono una relazione, restò incinta, furono costretti a sposarsi, dopo cinque mesi nacqui io. Povera mamma, morì pochi giorni dopo il parto. Mio padre si consolò presto e si risposò con Mary Jane Clairmont. Per un po’ di tempo ho vissuto con loro, con la mia sorellastra Fanny e con Claire, la figlia della mia matrigna. Tutto sommato stavo bene con questa mia strana famiglia, ciò nonostante sono

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VDBD N°1 stata allontanata; daddy diceva che fantasticavo troppo, che mi perdevo nei miei pensieri, che facevo castelli in aria; forse perchè leggevo troppo o perchè troppi intellettuali e scrittori dell’epoca frequentavano la nostra casa, o semplicemente fu una scusa perché la mia matrigna mi odiava. Mi mancava la mia vera madre. Ho sempre provato un forte senso di colpa per essere stata la causa, seppur involontaria, della sua morte ma, nel contempo, provavo rancore nei suoi confronti: la accusavo d’avermi abbandonata, d’avermi fatta nascere e poi lasciata sola. Povera mamma mia, povera mamma, povera figlia, povera io. Soffrivo molto e sentivo che the death mi stava sempre accanto, un’ombra che non mi lasciava neppure per un momento, lei mangiava con me, dormiva con me. D – Questa presenza terribile e costante della morte e dell’assenza nella sua vita le ha impedito di innamorasi? R – Come potevo non innamorarmi? L’amore vince la morte, riempie i vuoti, colma le assenze e le mancanze. Giovanissima mi sono innamorata di un poeta, Percy Bysshe Shelley, my love, era un grande uomo, un grande poeta, anche se come amante valeva poco, troppo cerebrale, complicato. Era sposato e la moglie era in attesa di un bambino, ma il nostro amore era intenso e forte, la lasciò e fuggì con me in Francia. Io non volevo, la moglie era venuta da me a piangere disperata, mi implorò di porre fine alla nostra relazione, mi convinse, non era corretto ciò che stavamo facendo, lo dissi a Percy, lui minacciò di uccidersi e io acconsentii alla fuga d’amore. Anch’io volevo un figlio da lui, non sopportavo l’idea che la moglie avesse dei figli suoi. Feci in modo di restare incinta. Ma poiché avevo commesso la colpa di aver rovinato un matrimonio fui punita, il figlio della moglie sopravvisse, Clara, la mia bambina, nacque prematura e dopo quindici giorni morì. Io feci morire mia madre e poi feci morire mia figlia. La morte mi accompagnava, era comparsa con la mia nascita e continuava a non lasciarmi in pace. Mi vietava la felicità. Non potevo dargliela vinta, l’amore può vincere la morte, l’importante è non abbattersi, non arrendersi, così dopo un anno nacque il mio secondo figlio William, fu nel gennaio del 1916. A maggio partimmo con Percy e andammo in Europa, un viaggio che durò tre mesi, ci fermammo in Svizzera, sul lago di Ginevra, con noi c’era anche Lord Byron, mia sorella, altri amici, fu lì che nacque la Creatura. Il 29 agosto, il giorno prima del compimento del mio diciannovesimo compleanno, tornammo in Inghilterra, ci tenevo a festeggiarlo lì, ero felice, o quasi, in ogni caso provavo qualcosa di molto simile alla felicità. Durò tutto troppo poco, la morte continuava a perseguitarmi. Quell’anno accaddero due terribili disgrazie, mia sorella Fanny si suicidò e la moglie di Percy fu trovata morta. Percy era libero, ci sposammo a dicembre dello stesso anno. D- E’ evidente dal suo racconto che lei è stata una donna che ha molto sofferto ma che nello stesso tempo ha molto amato, nella sua vita ci sia stata tanta luce e tanto buio. R – Questo è solo l’inizio delle mie sciagure. Nel settembre del 17 partorii per la terza volta, diedi alla luce Clara Everina. Nel 1818 ripartimmo, visitammo Italia, Venezia, Roma, Pisa, Livorno e Napoli. Lo stesso anno Clara Everina morì e l’anno seguente morì anche William. A Firenze nacque il mio quarto figlio, Percy Florence, l’unico che ci sopravvisse. Nel 22 ebbi un aborto spontaneo, rischiai di morire, lo stesso anno Shelley partì alla volta di Livorno per salutare Leigh Hunt, giunto dall'Inghilterra, durante il rientro fu travolto da una tempesta e annegò. A 24 anni la mia vita era finita. D – Sono senza parole. R – La vedo pallida, vuole che le faccia portare dalla mia cameriera rumena della Transilvania un bicchiere d’acqua? Non abbia paura di lei, è una brava ragazza di campagna, non sa nulla di vampiri, sono invenzioni nostre, i soli mostri che lei conosce si chiamano fame

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VDBD N°1 e povertà. Le faccio portare un rum, un gin, un cognac, un thè? Vuole farmi qualche altra domanda? La faccia, vedrà che starà meglio.

D – Mi scusi, è stato sento già meglio. un romanzo che, a romanzo precursore

Come potevo non innamorarmi? L’amore vince la morte, riempie i vuoti, colma le assenze e le mancanze. Giovanissima mi sono innamorata di un poeta, Percy Bysshe Shelley, my love, era un grande uomo, un grande poeta, anche se come amante valeva poco, troppo cerebrale, complicato.

un mancamento passeggero. Mi Cosa significa per lei aver scritto detta di molti, è considerato il dell’odierna fantascienza?

R- So che oggi il romanzo è definito in questo modo, in passato è stato definito romanzo gotico, allora questo genere letterario era molto in voga, era quel genere di letteratura caratterizzato da una forte presenza di macabro e di ambiguo, si proponeva di suscitare nel lettore un grande senso di terrore. A tal scopo si faceva ricorso a certe atmosfere tetre, a paesaggi nebbiosi, a un’ambientazione cupa, una trama complessa anche se priva di causa ed effetto; era un genere di romanzi che raccontava storie di fantasmi, di monaci assassini, di fanciulle innocenti sgozzate, di sangue che sgorgava a fiotti. Si producevano mostri che facevano paura quasi fosse un antidoto per paure ancora più profonde, inconsce, che erano prodotto di certezze solamente esteriori, paure prodotte dalla fede nella ragione. C’era un desiderio non confessato di mondi incantati, di simbolismo, di emozioni e suggestioni, quelle emozioni e suggestioni che la ragione rifuggiva. Ma nonostante la presenza della creatura, non it, non he, il mio non è un romanzo gotico come non è romanzo di fantascienza. D- Se non è romanzo gotico e non è fantascienza, secondo lei appartiene?

a quale genere letterario

R – A nessun genere letterario, non sopporterei il contrario, ma se proprio dovessi definirlo in qualche modo potrei definirlo un romanzo filosofico oppure profetico, psicologico, certamente non gotico, fantascientifico o appartenente ai generi moderni dell’Horror o del Fantasy.

D - Signora Shelley, qualcuno dice che voi facevate esperimenti poco chiari, che con Lord Byron, con Polidori, con Percy, suo marito, con Claire, insomma che lei e il suo gruppo di amici praticavate lo spiritismo, che avevate contatti con le forze del male, forze occulte, che facevate festini e orge, che facevate quello che banalmente qualche anno fa veniva chiamato l’amore di gruppo, la coppia aperta, lo scambio di coppia, che avete avuto anche esperienze omosessuali, che suo marito era un guardone e Lord Byron pure, insomma che praticavate anche altre perversioni sessuali che qui, per rispetto ai miei dieci vicini di casa, gente buona e semplice, non specifico. R - Abbiamo subito tutti le influenze di Lord Byron, era un essere spregevole, Lord Byron incarnava alla perfezione quella che, col tempo, sarebbe divenuta la tipica figura del vampiro succhia sangue. Anche Goethe lo definì un individuo demoniaco, destinato ad affascinare un’epoca, e ad esserne, al contempo, escluso. Il suo aspetto, il volto pallido, gli atteggiamenti ieratici, lo sguardo allucinato lo facevano sembrare un demonio. E lo era, era dispotico e duro, e nello stesso tempo era seducente, come un angelo del male.

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VDBD N°1 D – Signora Shelley sono ancora molto turbata da quello che mi ha raccontato a proposito della sua vita, immagino che per lei sia molto doloroso rinvangare il passato, equivale a riviverlo. Avrei però delle altre domande da farle, si racconta che l’idea del racconto sia nata in Svizzera, in una sera estiva e piovosa, lei era con suo marito, con voi c’era Lord Byron e il suo… R- Mi spiace d’averla turbata, davvero, mi scuserei con lei se potessi, ma farlo significherebbe ammettere che le morti e le sciagure che mi hanno perseguitata dipendano in qualche modo da me. To be or not to be, this is the question. Quello era un dilemma. Anche il mio lo è, sebbene di diversa natura. Da una parte credo di non aver commesso nulla di male per meritare tali castighi, dall’altra mi sento in colpa per come ho vissuto e quindi sento di meritarli. Perché sono morti i miei figli? Perché è morto Percy? Ogni volta che pensavo d’aver afferrato l’amore e la gioia scappavano via non appena appariva lei, the death, la morte. Ma la prego, parliamo d’altro, mi chieda quello che mi chiedono tutti, mi chieda se è vero che ho rubato l’idea del mio più famoso romanzo. Ho scritto chiaramente che una notte ebbi uno strano sogno: 'Vidi uno studente pallido inginocchiato dietro alla cosa che aveva costruito. Vidi il fantasma orribile di un uomo che si allungava mentre alcuni potenti macchinari si stavano muovendo. All'improvviso la cosa dette segni di vita, e lo studente spaventato corse via mentre quella cosa aveva già aperto gli occhi ed era già riuscita ad alzarsi e a camminare con le sue gambe'. Avete ragione, ho mentito, quella frase fu aggiunta da Percy. E’ vero che la storia è nata da una storia vera. Esisteva a Mannheim, in Germania, un castello di Frankenstein, lo visitammo con Percy nel 1914, lì era nato Konrad Dippel, vissuto tra il 1673 e il 1734, era un alchimista molto conosciuto all’epoca al punto che fu invitato alla corte di Caterina II, zarina di tutte le Russie, che era curiosa di sapere qualcosa di più circa i suoi esperimenti che riguardavano il segreto dell’eternità e che comportavano il furto e la cottura di cadaveri. Produceva infatti un siero di sua invenzione, l'olio di Dippel, un elisir di lunga vita ottenuto macerando ossa di morti con acido prussico. Tutto ciò è vero ma il mio Frankenstein non è quello che voi tutti credete che sia, non è l’alchimista Dippel, non è il moderno Prometeo. Frankenstein è mia madre, e io sono la Creatura, formata dai pezzi di tutte le persone che sono vissute prima di me, porto dentro i segni dei miei progenitori, le persone che non ho mai conosciuto, sono anche i pezzi delle persone che ho amato, che ho conosciuto, da cui sono stata amata e che porto dentro di me, con le quali sono stata forgiata, e ho bisogno d’amore e di comprensione anche se tutto quello che tocco muore, ogni fiore che accarezzo muore, ogni filo d’erba che guardo muore, ogni persona che amo muore e poi dopo morta diventa un mio braccio, una gamba, un pezzo di me. Io volevo l’amore, volevo amare, ma la gente ha paura dell’amore vero, quello che proviene dal profondo, anche se che la Creatura all’apparenza era orrenda era buona. Era la purezza. La bontà spesso si nasconde in un corpo orrendo, così come la cattiveria invece si può nascondere in un corpo piacente e piacevole. E allora dico che forse la Creatura di Frankenstein rappresenta ciò che avrei voluto essere, e che non sono stata, ciò che ero veramente e che mi sono rifiutata di essere. La nuova Eva, il nuovo Adamo. La Creatura è una vittima, distrutta da noi, dal male che noi pratichiamo. *** (foto di Paola Pluchino)

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VDBD N°1

PIANEROTTOLI

Cristina Contilli UNA FIGURA POCO CONOSCIUTA DEL RISORGIMENTO: LA CONTESSA MILANESE COSTANZA TROTTI ARCONATI.

Nata a Vienna nel 1800 e morta nella stessa città nel 1876, la contessa milanese Costanza Trotti Arconati ha attraversato tutto il risorgimento italiano, vivendo insieme al marito Giuseppe (1797-1873), sposato nel 1817 a Milano, un lungo periodo di esilio in Belgio, durato dal 1821 al 1846, anno, in cui la coppia rientra in Italia, stabilendosi prima a Firenze e poi a Torino. Costanza Trotti Arconati è oggi ricordata quasi esclusivamente per la sua amicizia con la famiglia Manzoni e per il giudizio negativo dato sul secondo matrimonio dello scrittore. Durante il periodo delle lotte risorgimentali, Costanza è stata, invece, considerata una “fata” degli esuli italiani (Giovanni Berchet, Giuseppe Masari, Giovanni Arrivabene,

Pietro Borsieri, etc), che ha sostenuto sia moralmente sia economicamente, come testimoniano le lettere di molti patrioti dell'epoca, ma come dimostra anche l'appassionata dedica che le fece Giovanni Berchet (1783-1851), in apertura del suo libro di traduzione delle "Romanze spagnole". (g. berchet, Opere edite e inedite,

pubblicate da Francesco Cusani, Milano, Pirotta, 1863; v. gioberti, Ricordi biografici e carteggio, raccolti per cura di G. Massari, Torino, Tipografia eredi Botta, 1861; a. spinosa, Italiane: il lato segreto del Risorgimento, Milano, Mondadori, 1994). Dopo aver perduto, nel giugno del 1839, il primo figlio (Carlo), Costanza ne aveva avuto un secondo (Giammartino), nato nel novembre dello stesso anno, che potrebbe essere non del marito, ma dello scrittore milanese Pietro

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Borsieri (1788-1852). Giovanni Berchet, che si era innamorato di Costanza nel periodo dell’esilio londinese (18221824) e l'aveva poi raggiunta in Belgio, divenendo precettore di Carlo, l’aveva, infatti, rimproverata più di una volta, nelle sue lettere, di avere contemporaneamente più “passioni” e di non trattarlo come il suo unico amico e confidente. La diversità di temperamento e la difficoltà di portare avanti il loro rapporto avevano fatto, nel corso del tempo, diminuire l'amore di Berchet per la Arconati, come testimonia una lettera del 1839, in cui lo scrittore le confida i propri sentimenti, senza chiarire, però, il motivo che aveva fatto spegnere in lui la passione d’amore: "Ma l’ho amata un tempo e ciò che me l’ha fatta disamare non ebbe mai suono di parola sul labbro mio, che una volta sola tra Oxford e Blenheim, il che equivale a non averne mai parlato con nessuno. Ma che altri avesse sospettato! Oh mi dica che Carlino, che nessuno sa di questo. Ma se non è vero, non me lo dica.” (g. berchet, Lettere alla marchesa Costanza Arconati, Roma, Istituto per la storia del risorgimento, 1956).

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VDBD N°1 era tornato a Milano, andando a vivere con la sorella Francesca (“Pietro Borsieri. Tra martiri e letterati”, Pescara, Edizioni Aternine, 1961).

Forse la causa del disamore del Berchet era proprio la presenza accanto a Costanza di Pietro Borsieri, che era giunto in Belgio, proveniente dagli Stati Uniti, il 27 marzo del 1839 ed era stato ospitato dai coniugi Arconati nel loro castello di Gaasbeek. Il secondo figlio di Costanza, Giammartino era nato, infatti, a novembre dello stesso anno, otto mesi dopo l’arrivo di Borsieri. All'inizio del soggiorno in Belgio, Costanza aveva stimolato lo scrittore ad occuparsi di traduzioni dall’inglese con dei buoni risultati, ma successivamente si era lamentata nelle lettere agli amici, perchè Borsieri, che aveva un carattere generoso, ma incostante, stava passando nei primi mesi del 1841 uno di quei periodi, in cui a livello letterario non concludeva nulla, e così, sentendosi, probabilmente, offeso dai rimproveri di Costanza e pensando che non poteva continuare a vivere sulle spalle di lei, lo scrittore aveva lasciato il Belgio ed

Nel 1848 Pietro Borsieri e Costanza Arconati si erano ritrovati a Milano, dopo le Cinque Giornate (a cui sia Borsieri sia Berchet avevano partecipato attivamente) e la cacciata degli austriaci dalla città. In questo periodo era ripreso probabilmente anche il loro rapporto, come fa intuire una lettera del 1849, in cui Borsieri ringrazia Costanza della sua “sempre calda ed amatoria amicizia”. Nel 1849, da quello che racconta Pellico, che aveva frequentato Borsieri, durante il periodo dell'esilio torinese, lo scrittore era, infatti, ancora in buona salute, come dimostra anche il fatto che aveva partecipato come volontario alla Battaglia di Novara del '49, nonostante avesse ormai 61 anni (s. pellico, Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1856). Giammartino, che aveva ereditato il carattere generoso ed incostante del padre, dopo aver viaggiato fuori dall’Europa, sia per passione sia ricoprendo degli incarichi diplomatici, sposerà, nel 1873, Marye Peyrat, figlia di un giornalista francese di

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idee socialiste, dopo la morte di Giuseppe Arconati che non approvava il matrimonio e morirà, a sua volta, tre anni dopo, nel 1876, a causa di una malattia, contratta durante un viaggio in Arabia. (g. arconati visconti, Viaggio in Arabia Petrea, Torino Loescher, 1875). La storia d’amore di Costanza Arconati e Pietro Borsieri si intreccia non solo con quella tra Silvio Pellico e la poetessa inglese Luisa Boyle, ma anche con quella tra Silvio Pellico e la nobile milanese Cristina Trivulzio. Sono due storie d’amore poco conosciute, la prima databile tra il 1832 (la data della dedica della copia de Le mie prigioni, donata dal Pellico alla Boyle) e il 1833 (la data della pubblicazione dell’epistola in versi dedicata dalla Boyle al Pellico, riprodotta in traduzione nella prima edizione dell’epistolario pellichiano), la seconda nata nell’estate del 1819, interrottasi bruscamente nel novembre dello stesso anno in seguito al matrimonio di Cristina con il conte milanese Giuseppe Archinto, rinata, dopo molti anni, nel 1836, grazie all’incontro tra Cristina e Silvio in un albergo di Torino e conclusi nel 1847 con il matrimonio tra i due (r. barbiera, Passioni del risorgimento. Nuove pagine sulla Principessa

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VDBD N°1 di Belgioioso e il suo tempo con documenti inediti ed illustrazioni, Milano, Treves, 1903; c. archinto trivulzio, Poesie scelte, a cura di Cristina Contilli, Lulu.com, 20083; s. pellico, Poesie inedite, Torino, Tipografia Chirio e Mina, 1837). Al di là delle differenze di temperamento e delle diverse scelte di vita (Borsieri, dopo l’uscita dallo Spielberg, cercò di mantenersi facendo traduzioni dall’inglese in italiano, mentre Pellico accettò di andare a lavorare presso i marchesi Barolo di Torino, tornando alla condizione di “servitore”, in cui si era già trovato, prima dell’arresto, come precettore dei bambini del conte Luigi Porro), Silvio Pellico e Pietro Borsieri rimasero sempre amici, come testimonia questa lettera del 1852

(pubblicata nell’edizione dell’epistolario del 1856) in cui il Pellico scrive: “Ei si recò in luglio a Belgirate, sperando vantaggio da quell’aere, e pensava quindi d’andare a La Spezia. Preso da straordinario indebolimento, morì in Belgirate il 6 d’agosto 1852. Era uomo d’animo rettissimo, pieno d’amore per tutto ciò che è bello, per tutto ciò che è virtù. Benché io sappia che bisogna rassegnarsi a qualunque perdita, la morte di Borsieri m’ha profondamente addolorato. Qui in Torino egli era fresco, animato, vivissimo; non avrei mai pensato che toccava a me, così travagliato da infermità, di sopravvivergli.”

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“Ei si recò in luglio a Belgirate, sperando vantaggio da quell’aere, e pensava quindi d’andare a La Spezia.

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VDBD N°1 PIANEROTTOLI

Erika Ranfoni HANNAH ARENDT: LA VITA E' UN MIRACOLO A DUE VOCI

“E' come se determinate persone si trovassero nella loro propria vita talmente esposte da poter essere paragonate nello stesso tempo a punti di incrocio e a oggettivazioni concrete della vita” (1 Lettera n.15 del 24 marzo 1930 a Karl Jaspers, in Carteggio Hannah Arendt-Karl Jaspers, Feltrinelli Milano 1989, p.32).Punto d'incrocio:due parole per indicare un'essenza, quella di ogni singolo individuo, quella di ogni singolo uomo. Incrocio per essenza, punti fermi di contaminazione tra diversi istanti, tra diversi luoghi. Incisione di uno scorrere senza fine, punti netti di una trama, di un incipit narrato ma non conosciuto: ecco l'uomo per Hannah Arendt. Nata nel 1906 ad Hannover, figlia di una famiglia di ebrei riformati, Hannah Arendt attraversa la storia più buia del Novecento con la forza di una Protagonista del suo tempo. La sua vita, come sostiene Julia Kistreva nella biografia della filosofa, è intrinsecamente esposta, ossia aperta al gioco intenso della storia che diviene carne viva e pulsante, nel momento stesso in cui si realizza come incrocio di pensiero ed azione, tanto nella sua opera quanto nella sua vicenda personale. Studentessa di filosofia prima a Marburg e poi ad Heidelberg, allieva di Heidegger e di Jaspers, Hannah Arendt concepisce la facoltà del pensare come dimensione propria dell'uomo, come quel luogo in cui si attua l'evento miracoloso della storicità,ossia come quello spazio in cui l'uomo pensa la realtà, si accorge di essere da essa pensato, con essa comunica e su di essa agisce. Nel 1929 porta a termine la ricerca di Dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin”, Il concetto di amore in Sant'Agostino, un'esperienza intellettuale, questo confronto con il Filosofo della cristianità, capace di segnare nel profondo tutta l'opera della Arendt, costituendone, in altre parole, il segreto e costante patrimonio di significati e sensi. Perchè scegliere Agostino, all'alba di uno dei momenti storici più drammatici per l'umanità?Comprendere questo, significa scoprire il filo rosso e pulsante del pensiero forte ed attuale della Arendt. Agostino, uno dei maggiori costruttori, nel senso reale della parola, del pensiero cristiano, e Hannah Arendt hanno qualcosa in comune: l'orma del Tempo. Il contesto storico in cui nasce un pensiero, costituisce la sua herkunft, ossia la sua radice, il suo luogo di provenienza, un elemento inalienabile e imprescindibile. Ogni sistema filosofico, in altre parole, porta su di sé, trasporta il profumo e l'aroma dell'epoca in cui si forma, anche quando nasce contro di essa. Uomo prima che filosofo, Sant'Agostino conosce e sa cosa significhi la parola crisi d'identità, ricerca disperata di una risposta alla domanda che gli scuote la mente e gli percuote l'anima: Dove si trova il vero?

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VDBD N°1 Passa, come un viandante perseguitato dalla sua stessa ombra, dalla visione dicotomica del manicheismo a quella follemente relativista dello scetticismo. Corre, torna indietro, ricomincia a correre, cade, si rialza e poi ecco l'approdo: “Quaestio mihi factus sum” (2 Agostino, Confessioni, X 33 50 ) L'epoca storica delle incertezze con lo scetticismo ellenistico, la nascita della filosofia cristiana, la rivoluzione del concetto del libero arbitrio e dell'umanità divina, la crisi del dubbio. Una sola la risposta: fare di se stessi un oggetto di ricerca, perchè la verità risiede in ciascun Io. Agostino attua, pertanto, una vera e propria rivoluzione gnoseologica, ponendo un nuovo crucialeinterrogativo: Chi sono io? La domanda presuppone un postulato di base, ossia la affermazione dell'identità tra l'Io e il Vero. Si potrebbe obiettare che già i greci, con il Conosci te stesso socratico, avessero teorizzato questa fondamentale identità . La presunta obiezione sarebbe però superficiale, costituendo un temerario parallelismo tra due concetti storicamente non sovrapponibili. L'Io greco differisce in un particolare essenziale dall'Io agostiniano, ossia nel nascere e permanere solo come un Soggetto. La sfumatura differenziale dell'Io agostiniano, a livello ontologico, è sottile ma fondamentale e risiede nel fatto che esso è Oggetto di Creazione(concetto sconosciuto ai greci), che tradotto nel lessico di Agostino significa essere Soggetto di Inter-esse, di Amore. Ecco la rivoluzione gnoseologica: l'uomo conquista lo statuto dell'esistenza perchè desiderato, amato e pertanto erede di un'identità, quella divina. L'uomo si realizza in relazione alla capacità di riconoscere in sé l'orma di questa paternità amorosa, la cicatrice indelebile di ogni Verità. L'uomo scopre, in virtù di tale cordone amoroso, di avere un privilegio assoluto: quello di poter essere un Miracolo. “E' nella natura del cominciamento che di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti.(...) Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici e quotidiani corrisponde alla certezza; il nuovo appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l'uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perchè ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità.” ( 3 Hannah Arendt,Vita Activa,p. 129, Bompiani 2004) Stati Uniti 1958, Hannah Arendt è negli Stati Uniti,attivista della comunità ebraica tedesca di New York, e, impegnata nella vita sociale e politica della nuova potenza mondiale, sua nuova patria spirituale, pubblica Vita Activa, fondamentale opera in cui si dispiega tutta l'anima della scrittura arendtiana. All'indomani di uno dei periodi più bui della storia contemporanea, il drammatico periodo del secondo dopoguerra, la Arendt riprende, tra le linee complesse della sua scrittura, il destino dell'Uomo e lo rilegge, lo scruta, lo penetra e lo ama fino a svelare il nocciolo segreto della sua stessa Anima, e lo fa proprio quando l'Uomo stesso aveva forse dimenticato di averne una:l'Uomo è l'unico Essere capace di fare di sé un Miracolo. A secoli di distanza risuona nelle parole della Arendt, la rivoluzionaria affermazione di Agostino, ossia l'affermazione dell'uomo Soggetto d'Amore, Fattore di vita. La Arendt penetra nella tragica umanità contemporanea, soffre e patisce le sue ferite e le sue cicatrici e poi squarcia il velo oscuro della resa, portando alla luce l'Herkunft, il luogo di provenienza, la radice inalienabile di ogni individuo: la sua radicale storicità, il suo essere capace di Azione storica, fautore di un'Incipit sempre diverso, sempre nuovo, sempre miracolosamente nuovo. L'Uomo, Essere creato e voluto nella sua singolarità ed unicità, afferma la Arendt, segna con la propria nascita l'incipit del miracolo di una nuova esistenza Personale, che si dispiega nel suo assaporare ogni istante, nel suo rapire ogni attimo del tempo donatogli, rendendolo traccia irripetibile del suo sé, trama da intrecciare con le sue stesse dita. “Il carattere rivelatorio

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VDBD N°1 dell'azione come la capacità di produrre vicende e di diventare storica, (...), insieme formano la fonte da cui scaturisce il significato che illumina l'esistenza umana.”(4 ,Hannah Arendt,Vita Activa,op.cit., p.170) L'Uomo come Miracolo, dunque, ma ad una condizione: che egli non dimentichi mai quanto il suo luogo di nascita è non solo la sua unicità, ma anche e soprattutto, la sua socialità, la sua natura intrinsecamente politica. La vita come racconto dell'improbabile si realizza solo se la volontà d'azione è capace di coinvolgere l'Altro da Me, se lo rende soggetto d'amore, di inter-esse. L'azione è nulla se si traduce in un'imposizione oggettivante e totalizzante. L'azione miracolosa è l'azione pensata con l'altro, è appello e domanda all'altro, coinvolto nella costruzione di uno spazio e di un tempo storicamente unico ed irripetibile. “Nietzsche aveva invocato una filosofia della vita da viversi pienamente. (...) Hannah Arendt è a modo suo, forse, l'unica filosofa del XX secolo a realizzare questa filosofia della vita in quanto filosofia specificamente politica(...) poiché, la Arendt con Aristotele ne è persuasa, esiste solo la vita politica, e poiché , la Arendt ne è convinta con Agostino, non esiste vita, bios, che nella rinascita narrativa.” (5 Julia Kristeva, Hannah Arendt, La vita e le parole, Donzelli Editore,Roma 2005,p.125). Questa la vita dell'uomo, un incrocio di pensiero e azione, spirito e carne, volontà e ascolto. Questo l'Uomo, riscoperto da Hannah Arendt: un miracolo raccontato a due voci, quella pensata del Sé e quella amata del Tu. Due voci e una Storia senza fine.

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VDBD N°1

FINESTRE

Morena Fanti UNDERWORLD di Don DeLillo – una lettura ‘sospettosa’

ragazzino un passo più in là, nel Bronx.

fino al crollo Sovietica.

Nel romanzo di DeLillo i passaggi di mano della mitica palla servono da pretesto per la costruzione di un gigantesco quadro dell'America… ”.

Fin dal prologo Il trionfo della morte, nato come racconto autonomo e uscito su Harper's nel 1992, DeLillo mostra già le prime connessioni e disegna i molti rimandi alla narrazione successiva, facendo uso di grande abilità nella cura dei dettagli.

Sono sempre diffidente verso un libro di ottocento pagine, e il libro stesso, intuendo il mio sospetto, si affida con riluttanza alle mie mani. Mi domando cosa mai avrà avuto da scrivere l’autore, per riempire tutte quelle pagine. Che razza di storia può svolgersi e mantenere l'attenzione del lettore per così tante parole?

“Il 3 ottobre 1951, al Polo Grounds di New York, si gioca una leggendaria partita di baseball tra i Giants e i Dodgers. Della palla con cui viene battuto l'altrettanto leggendario fuoricampo che assicura la vittoria del campionato ai Giants si impadronisce un ragazzino nero di Harlem, Martin Cotter. La palla viene via via rubata, venduta, regalata: la ritroveremo molti anni dopo in possesso di Nick Shay, un waste manager, dirigente dell'industria dello smaltimento dei rifiuti, che nel 1951 era a sua volta

Non sarebbe più saggio, e anche più produttivo, per un romanziere dividere il suo prodotto e farne tre libri da trecento pagine ciascuno? Soppesando Underworld di DeLillo (Einaudi) la domanda è immediata, suscitata dall’enorme mole di pagine, parole, fatti e personaggi. La storia – una palla da baseball che passa di mano in mano – è il pretesto che lo scrittore ha scelto per mostrarci l’America e i suoi cambiamenti, dagli anni 50 fino all’inizio degli anni ’90, dalla guerra fredda

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dell’Unione

Il romanzo è montato come un film, con tagli accurati e sequenze ‘rovesciate’. La scrittura è un quadro anch’essa, una grande varietà di linguaggi diversi multirazziali e di personaggi che viaggiano tra realtà e fantasia, tra Bronx e quartieri alti, tra New York e il Deserto dell’Arizona, tra feste al Plaza e montagne di rifiuti. E proprio di rifiuti e del loro smaltimento – tema quanto mai attuale - si occupa Nick Shay, l’ultimo possessore della palla da baseball. Nick ha fatto dello smaltimento e del recupero dei rifiuti una fede: “Io e Marian dividiamo la nostra spazzatura secondo le istruzioni. Sciacquiamo le lattine e le bottiglie vuote e le mettiamo nei rispettivi raccoglitori. Dividiamo la latta dall’alluminio. Usiamo sacchetti di carta, schiacciando quelli più piccoli e sistemandoli dentro quello grande che abbiamo tenuto da parte a questo scopo.

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VDBD N°1 Impacchettiamo i giornali ma non li leghiamo con lo spago”. Ma Nick è anche l’uomo che afferma: “La maggior parte dei nostri desideri non si avvera.” e ancora: “ Vi dirò cosa desidero di più, tornare ai giorni del disordine, quando non me ne fregava un accidente o un cazzo o non davo un centesimo”. DeLillo interpreta, con una scrittura magistralmente e dannatamente naturale, angosce e contraddizioni della nostra epoca. In ogni pagina del libro si percepisce l’immersione totale e profonda con i protagonisti e la storia: dal capo della CIA a Frank Sinatra, dalla povertà di un ragazzino di colore alla borghesia annoiata alla famiglia di Nick, ai bambini del Bronx e alle miserie dell’animo umano, DeLillo ci mette davanti un’umanità in cui è inevitabile specchiarsi e riconoscersi. Ma DeLillo è anche un anticipatore, e non solo nella scrittura: la copertina di Underworld è inquietante, anche se quando il libro uscì nel 1997 non lo fu di certo. L’immagine raffigura le Torri Gemelle del World Trade Center di New York avvolte in una nube di fumo, una croce davanti e un’aquila, simbolo dell’America, che vola di lato. Lo scrittore scelse la foto come copertina e la impose agli editori di tutto il mondo. Ed eravamo ben lontani dall’11 settembre 2001…

“I più grandi segreti sono quelli spalancati davanti a noi”: questa frase è all’interno del libro ma sembra che sia lo stesso Don DeLillo a dirla con le sue visioni surreali, mentre ci racconta di Brian che davanti alle montagne di rifiuti incombenti sulla città – le Torri Gemelle visibili sullo sfondo, in uno dei ‘richiami’ tipici di DeLillo e sui suoi abitanti (“chissà se la gente, sentendo un rumore di notte, si chiedeva se la montagna stesse franando, scivolando verso le case, come una creatura onnivora da film dell’orrore che avrebbe tappato porte e finestre?”) immagina di vedere un brandello di colore cangiante, forse appartenuto al bikini di una segretaria di Queens, e addirittura la sogna dipingersi le unghie e accettate i regali che lui le porge, in una sorta di recita immaginata, tra il lezzo della montagna di spazzatura. “Penetrare il segreto”. Ma non c’è segreto: la società va sempre più alla deriva mentre perde tutto ciò che aveva, annegando nel mare di cose senza valore di cui si ricopre, e diventa un’America sempre più grande, multietnica e globale, ma anche sempre più corrotta e deviata. Noi non siamo più ciò che produciamo ma neppure

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ciò che consumiamo: noi siamo i rifiuti che creiamo. Il legame tra il consumare e il produrre spazzatura è stretto tanto quanto quello tra consumare e esistere. “Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura. E finisce tutto nella pattumiera.” Nella stratificazione delle trame che corrono parallele e finiscono con il sovrapporsi, formando un mosaico di vicende, modus operandi che DeLillo applica spesso ai suoi romanzi anche a quelli meno corposi, rincorriamo avvenimenti raccontati e poi ripresi, con frasi ripetute e elencate come un mantra propiziatorio. Anche la punteggiatura segue regole inusuali: DeLillo abolisce completamente i puntini di sospensione anche nei dialoghi. Si ha così un effetto di respiro mai troppo sollevato, un avanzare secco e energico. In Underworld niente è lasciato al caso, è tutto perfettamente calibrato al millimetro, dalle sequenze temporali e narrative ai personaggi, ma ciò che veramente affascina e avvince, è la scrittura e l’accuratezza con cui DeLillo fa sembrare tutto casuale. Quelle sequenze tagliate e ‘incastrate’ a regola d’arte, i dialoghi perfetti, le ripetizioni a volte ossessive di frasi, come un ritornare sui pensieri e un ripartire, i tempi e i luoghi così mirabilmente intrecciati,

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VDBD N°1 fanno diventare questo romanzo, quel tomo di quasi 900 pagine che si è affidato alle mie mani sospettose, un oggetto di leggerezza e a tratti di poesia. DeLillo ha momenti di scrittura onirica, in cui le frasi diventano versi e immagini ardite: “Era l’estate delle prugne succose e bluastre…” “… li farò tremare dentro le scarpe nuove…” e coniuga queste visioni con altre, tanto surreali da parere fantascientifiche, di un mondo futuro in cui basta spingere un tasto del pc e si vedono miracoli, come visioni di un mondo alieno quasi a se stesso: “Con il velo e la tonaca, suor Edgar era praticamente un volto, oppure un volto e un paio di mani ruvide. Qui nel ciberspazio si è spogliata di tutta quella stoffa stirata col ferro a vapore. Non è precisamente nuda ma è aperta – esposta a ogni possibile collegamento sulla rete mondiale. […] Il ciberspazio è una cosa dentro il mondo, o il contrario? Quale contiene quale, e come si può esserne sicuri?” I personaggi di Don DeLillo sono ben definiti: da Nick Shay a suor Edgar, la suora con le ossessioni maniacali per la pulizia, che lava le mani con il sapone dopo averlo lavato – se lavi le mani con il sapone sporco, come potrebbero venire pulite? E chi lava la spugna che serve per lavare? Dovremmo candeggiare spazzole e pettini e spugne –, fino agli abitanti del Muro, ragazzi senza nulla da

dichiarare, se non sogni impossibili e senza speranza, che dipingono epitaffi dei bambini morti con bombolette spray – angeli rosa o azzurri a seconda del sesso - e corrono nascondendosi da ogni essere umano, nell’assurda speranza di salvare se stessi e forse noi da un orribile incubo chiamato miseria, umana e spirituale. Il romanzo stesso è una corsa nel tempo e nei luoghi ‘interni’, per indicarci che tutti noi scappiamo, rincorriamo, fuggiamo: da un ricordo, da vecchie foto, libri, palle da baseball. E tutto per permetterci di sentirci ancora vivi, come nei “ giorni in cui ero giovane sulla terra, guizzante nel vivo della pelle, imprudente e reale”. In questo libro il passato segue il presente e lo spiega e il presente anticipa il passato citando luoghi, eventi e persone che ritroveremo in seguito. DeLillo costruisce una rete di rimandi e riferimenti, con connessioni complesse e sotterranee, in questo percorso umano lungo mezzo secolo, in un crescendo di consapevolezza: Epilogo, Das Kapital, annuncia l’ultimo capitolo che dipinge un’immagine spietata del nostro tempo, tanto attuale come neanche DeLillo, nel 1997, avrebbe potuto desiderare.

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La diffidenza iniziale si è stemperata nella rete che l’autore mi ha teso: Underworld è un romanzo da leggere e da rileggere. Sono sicura che una seconda lettura svelerà altri dettagli e connessioni. “Tutto sta scivolando indelebilmente nel passato”. “Una parola appare nel luccichio lattiginoso e argenteo del flusso di dati. Lo vedi sul tuo monitor. […] un’unica serafica parola. Puoi esaminare la parola con un clic, rintracciare le sue origini, il suo sviluppo, il primo uso conosciuto, il suo passaggio da una lingua a un’altra, e puoi chiamare la parola in sanscrito, greco, latino e arabo…[…] … e puoi guardare fuori dalla finestra… […] una parola che diffonde un desiderio attraverso la distesa viva della città e oltre i ruscelli sognanti e i frutteti, fino alle colline solitarie. Pace”.

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VDBD N°1

FINESTRE Fernanda Ferraresso LEG(G)ENDA DI UN FILM : TAXI DRIVER di Martin Scorsese

Partono subito i titoli di testa. Nessun prologo, siamo già in piena azione. Il taxi sbuca da una nuvola di fumo ed esce di campo a sinistra, compiendo una traiettoria simile a quella del famoso treno dei Lumière. Come allora, a noi spettatori si chiede di aprirci a una nuova visione. Mediata però da un preciso sguardo: quello, inquadrato in dettaglio, di Travis Bickle, colpito dalle colorate luci della metropoli mentre si guarda intorno. La visione dal parabrezza del suo taxi è di una New York infernale, tra schiere di poveri dannati che popolano i marciapiedi, fumi che fuoriescono dai tombini, luci e insegne dai vivi e spinti colori primari. La metropoli di Scorsese è innanzi tutto una creazione visiva originale, che si distacca sia dalle scenografie distorte dell’espressionismo tedesco e dalle ombre dei noir anni ’50, chiamati spesso in causa dal cinema di quegli anni. La New York di Taxi Driver è infatti una città scritta, dove la violenza è stata portata alla superficie, diventando cultura e spettacolo.

Basta leggere le insegne dei cinema davanti a cui passa il taxi di Bickle: sono film che grondano sangue o violenza come “Non aprite quella porta”, “A muso duro”, o, ancora, “Assassinio sull’Eiger”, il tutto accompagnato da un’indimenticabile colonna sonora, opera del maestro Bernard Herrmann. Ecco che, tramite questa unione di immagini e suono, guidare il taxi diviene metafora del nostro stesso guardare al cinema come una “guida alla conoscenza”. Ciò che un tempo veniva demandato ai libri nel mondo contemporaneo, oggi insomma, viene affidato al cinema o alla musica, soprattutto quella dei cantautori. All’ufficio assunzioni Travis si autorappresenta, mette in scena la propria ambiguità: non è difficile restare ammaliati dal suo affascinante e conturbante, perché ambiguo, sorriso e dalle risposte spiazzanti date all’impiegato della compagnia dei taxi ("Precedenti?", "Puliti. Cristallini. Come la mia coscienza."). Intanto Scorsese, all’uscita dall’ufficio assunzioni, con una panoramica a 360° totalmente slegata dall’azione, continua a ricordarci anche della portata del discorso linguistico del film: oltre lo sguardo di Travis, c’è

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anche lo sguardo della sua macchina da presa. È già iniziato il subdolo gioco del film: farci identificare con Travis perché è facile condividerne l’alienazione nella grande città e sposarne la visione disgustata per il lerciume metropolitano ("Vengono fuori gli animali più strani la notte"). "È una cosa che io chiamo il filmare monoculare", disse Schrader, "avere un personaggio che veda il mondo con un occhio solo, come attraverso un unico lungo tubo, fino a che anche lo spettatore si convinca che quello è l’unico modo di guardare il mondo. Anche il vecchissimo mito di Platone, assume la sua perfetta valenza all’interno del cinema in cui si proietti questa pellicola. Alla lunga si finisce per credere alla ombre di Travis. Si rimane costantemente all’interno del mondo del personaggio, perché una volta che se ne esce può capitare di rendersi conto di quanto questo mondo sia stupido, o poco gradevole. È una parzialità necessaria dello sguardo. Il pubblico, sposando la visione del protagonista, partecipa anche delle sue ossessioni patologiche". Importante cambiamento: il lungo dialogo della sceneggiatura è ridotto della metà. Tutto risulta così più rapido e incalzante, perde di teatralità, non di realismo, tutto ci appare più “vero” e credibile. Anche la sceneggiatura più accurata, se corretta, può essere dunque migliorata. A dirlo è il regista stesso: - La

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VDBD N°1 sceneggiatura più giusta è quella che esprime meglio, fin dal principio, il carattere che volevamo dare al protagonista. Il film vuole parlarci di come la solitudine e il vuoto esistenziale diano forma a una patologia diffusa che nel nostro personaggio sfocia nella violenza più dissennata. Questo non è tema da rimandare a dopo. Ciò dev’essere chiarito subito. Fin dalle prime immagini dobbiamo entrare nel clima, sentire che stiamo assistendo a un film inquietante.Entrando per un attimo nello sguardo di Travis, vedendo il mondo come lo vede lui, possiamo cogliere il suo stesso delirio. Nella prima sequenza Scorsese inquadra, di Travis, soltanto ciò che gli preme sottolineare: gli occhi, il suo sguardo da insonne, spalancato sul nulla, il muoversi delle sue pupille da un lato all’altro, senza soffermarsi su nulla in particolare. Solo un mondo fatti di luci, di suoni non ben distinti ma confusi tra loro. E’ il delirio totale di un personaggio che è immerso in ciò che vede, di cui sente l’odore, ma al tempo stesso è solo, agganciato al suo taxi, che rappresenta una sorta di filtro fotografico attraverso il quale Travis vede. Successivamente, in ufficio, vediamo il protagonista, in prima persona, lo sentiamo parlare. E’ una caratteristica di Scorsese quella di saper miscelare con tecnica

suprema tutti i modelli rappresentativi per offrire un ritratto a tutto tondo. Ma ciascun modello di rappresentazione va piazzato al punto giusto. Il più forte espressivamente (la soggettiva del protagonista) fin dall’inizio. Gli altri dopo, a sottolineare, rimarcare, spiegare, aggiungere dettagli. - Il pubblico va subito preso per la gola, senza attese. Le prime immagini devono essere forti, dare immediatamente il senso di cosa stiamo raccontando.- Così , senza ombra di dubbio, afferma il regista a sostegno delle sue scelte.

LA FORTUNA CRITICA Inizio con un se, che si trasformerà, alla fine del percorso, in un sé. Se il film appare inevitabilmente collegato al filone violento, per le cruente e vistose scene riportate, la violenza dell’opera, come correttamente ha riportato Franco La Polla ( “Il nuovo cinema americano”.19671975, Lindau,Torino 1996), sta invece nel rendere possibile la costruzione di una barriera culturale, che sprofonda nel pozzo di un inferno dantesco persino gli angeli. Travis, infatti, è l’angelo in cui il plagio di una cultura senza

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profonda consapevolezza, mischiata con pellicole e riviste facilmente consumabili agli angoli di ogni strada di New York, ha costruito un demone di cui Travis non è consapevole, che lo manovra mentre lui crede di guidare la sua vita tale e quale il suo taxi. Il continuo movimento, all’interno del labirinto della città, si trasforma in una fissità del micro-mondo in cui Travis vive. Casa, auto, e ogni strada: sempre l’interno dell’auto, una specie di autogiustificazione continua del vivere fermi nello stesso punto, senza evoluzione. L’unica a muoversi è la macchina da presa, come fosse un dispositivo che l’occhio spersonalizzato di una cultura del potere mette in giro, come succede anche oggi nelle nostre città, per tenere sotto osservazione le sue pedine, nella scena che essa stessa ho costruito, manovrando e costruendo ideali che nascondono il vuoto su cui sono s-tesi. Il mito pionieristico della legge e dell’ordine, tanto caro agli americani, ma anche al potere che spesso lo annovera tra i propri valori, innesca in Travis , in una falsa ricostruzione storica della salvaguardia dei valori, una trasformazione, una specie di travestimento ritualistico che ricorda quello degli indiani Mohawk, come ricorda Tullio Kezic in Taxi Driver- “Il millefilm, Il formichiere,Milano 1977. Travis è il “primitivo” nato ideologicamente e non

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VDBD N°1 storicamente, criticamente, per cui , nell’ applicare al mondo attuale il suo arcaismo finisce con l’affogare egli stesso nel suo stesso sangue. La giustizia che egli compie è su quelli che, come lui, subiscono un potere che è culto della forza, di una giustizia a mano armata, compresa quella che si identifica come giustizia legalizzata. Il labirinto ha un accesso, ed è un eccesso, ma è impossibile uscirne e questo mette in crisi l’individuo e il suo relazionarsi con gli altri, individui anch’essi, nel senso originario del termine e dunque tutti “isolati” o isolabili. Non c’è distacco tra la macchina da presa e il personaggio, come se la macchina( da presa e l’auto che Travis guida, ma anche la cultura di cui il cinema è parte come le altre espressioni e tutti i linguaggi) fosse la vera guida. La cultura capitalistica, infatti, attraverso le sue sintesi e i passaggi logici, si auto- crea e semina, in chi la consuma e/o la produce, un meccanismo che include ogni cosa ed esclude l’unica possibilità di salvezza: uscire dalle sue maglie. L’uomo macchina, ideale efficientistico di una società a capitalismo avanzato, come sostiene, Lodovico Stefanoni, Scena 1976, non è il motore di se stesso, per cui percorre strade come un automa teleguidato da altri/altro, a loro

volta teleguidati anch’essi dal profitto. Ne risulta un degrado della relazione e dell’umanità dei personaggi che producono solo la propria distruzione e perciò il crollo di quella civiltà (ma è davvero civiltà?) che questo, il capitalismo e la sua ideologia, ha voluto e determinato. Siamo dunque arrivati al sé, inteso come ognuno di noi che, da una nascita, vista come momento della verginità o del paradiso, in cui vivono solo creature angeliche e/o primitive in senso di purezza, senza la coscienza indotta da moralismo o morale ( variabili di mode temporanee), passando attraverso la forca della “cultura”, si trasforma in un selvaggio senza purezza e senza capacità di porsi dialetticamente in relazione con il mondo che lo ospita. Robin Wood ( “The Incoherent Text, in Hollywood from Vietnam to Reagan”, Columbia University Press, New York 1986) ricorda e mette a confronto Travis, con i capelli tagliati alla Mohawk, con Sport, con i capelli lunghi e una bandana da Apache, facendone risultare quella ambivalenza tipica dell’atteggiamento Americano verso la terra vergine, intesa come giardino dell’eden- natura selvaggia, e gli indiani

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nobili native- angeli- crudeli selvaggi. La purezza di laghi e foreste dei Mohawk contro la polvere della prateria degli Apache, ed è in questo che possiamo leggere la metafora prima descritta. Per la nostra società il mito dell’ America, intesa come luogo in cui tutto è possibile, il nuovo paradiso entro i limiti del pianeta terra, spinge moltissimi nella stessa situazione di Travis, identificandosi in lui, vedendo in lui un eroe e non un perdente. Nemmeno il nostro paese è avulso dal quel suo modo di fare giustizia-briko, un fai da te che finisce per livellare tutte le forme di ingiusta giustizia in verità, false, falsate e falsanti ad ogni racconto della medesima storia attraverso i media o i racconti orali, da persona a persona. Da qui e da ora la violenza che Travis ha subito dal sistema è invisibile, poiché tutti subiscono la sua stessa violenza e tutti, non trovando riferimenti nella società, ricercano nei miti, quelli contemporanei sono costruiti attraverso filmografie e giornali, ciò che meglio e più direttamente rappresenta lo spirito guida più forte, non già il più giusto o il più vero.

SPUNTI PER L’ANALISI

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VDBD N°1 Considerazioni sull’elaborazione, la visione e la lettura del film.

Dopo l’escursione nel Sud Ovest, con Alice non abita più qui, Martin Scorsese recupera con Taxi Driver gli ambienti familiari della sua New York. Il ritorno sull’East Coast avviene attraverso la mediazione di una sceneggiatura non sua e, più significativamente, attraverso il filtro di una narrazione compatta. Travis è solo un lontano parente di Charlie e Johnny Boy, gli psicopatici protagonisti di Mean Streets. In lui le annotazioni riguardanti il suo essere sono assenti. Travis non ha radici né passato: viene da una città non identificata, ha dietro di sé un passato misterioso trascorso nei marine, lavora di notte e di giorno, non dorme. Scorsese non si limita più a calare le proprie intuizioni in un contesto realistico, ma confronta il suo protagonista con avvenimenti che hanno o vorrebbero avere uno spazio e un tempo tutto loro. Tutto ciò libera il film dal lirismo e dall’aneddoto, dall’autobiografia e dalle suggestioni, dalle metafore e dalle folgorazioni variamente presenti in Mean Streets. Il rispetto di una tessitura esterna esige uno sforzo di concentrazione, una verifica alla luce di dati esterni. La contraddizione irrisolta tra la vocazione

documentario-narrativa e la soggettività del protagonista, cui in definitiva è ricondotto ogni giudizio, è l’indice involontario, e in quanto tale autentico, del malessere sociale registrato con la macchina da presa. Lo spettatore è chiamato a impersonare il regista. Scorsese ci fornisce di New York un quadro espressionista, con forti vibrazioni di colore, nel quale ognuno, per appropriarsene, deve rintracciare i tratti fondamentali del disegno, selezionare le tinte, filtrare i suoni. Taxi Driver non ha la pretesa di esaustività di Nashville, né offre la metafora rigorosa di Zabriskie Point, ma resta fedele all’impegno di andare a fondo, nella propria ricerca. Scorsese non ha paura di aggregare materiali all’apparenza eterogenei. Le escursioni notturne di Travis tra i marciapiedi e i soffioni infetti della città sono una discesa agli inferi del vizio e della droga, orchestrata in scene potentissime, eccezionali. L’auto gialla, colta immobile attraverso alcuni suoi elementi (il parafango, lo specchietto laterale ecc.), mentre la strada si staglia sullo sfondo, ha la fisicità di un icona di un nuovo potere; comunica, nel suo anonimato, la paura dell’irrazionale. Scorsese accumula sensazioni e

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subito dopo le sottopone a verifica. La casa di Iris, nella scena del massacro, dapprima viene percorsa dalla macchina da presa attraverso brevi e convulsi piani dalle più estemporanee angolature; subito dopo, compiuta la strage, da piani sequenza che mostrano lo stesso itinerario in senso inverso, scandendo con la massima lentezza, quasi a ripercorrere a ritroso le tappe di una tragedia consumata troppo in fretta.La regia ama le citazioni e i contrasti. Le mani di Travis, inquadrate dall’alto contro la scrivania di Betsy, squarciano lo spazio come quelle del Pickpocket bressoniano. L’obiettivo, talvolta, inquadra, attraverso un gioco di occhi e di specchi, una miriade di piani, talvolta provocatoriamente si sofferma su uno (l’Alka Selzer, le pistole sulla valigia) dandogli la fisicità di un quadro iperrealista. Anche la grammatica viene abbandonata: la macchina da presa riprende immobile, da una stessa angolatura, Travis che percorre a piedi la propria strada. Il materiale di repertorio degli anni Quaranta è consumato senza ritegno. Per dare l’impressione di una compattezza indistruttibile Scorsese usa,forse troppo spesso, dissolvenze incrociate, sonore e visive. Anche la musica di Bernard Hermann, musica enfatica e dissonante, con stru menti a percussione e arpeggi, classica di un thrilling più che esprimere la confusione psicologica del protagonista, o offrire il presentimento di

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VDBD N°1 una catastrofe imminente, disorienta lo spettatore. Taxi Driver dapprima si propone come reperto sociologico, dopo commedia, poi dramma sociale, quindi tragedia, infine parabola sarcastica. Tutti questi elementi segnano veramente, nel loro naturale svolgimento, il trionfo della regia, dello stile, del virtuosismo tecnico

CONCLUSIONI. E’ un mondo e un cinema alla rovescia quello di Taxi Driver. Un cinema la cui libertà nel rovesciare le attese, nel mandare a monte ogni lettura rassicurante, difficilmente sarebbe concepibile oggi, in un’ epoca di invadenti strategie di marketing e di politically correct. C’è una purezza nelle visioni di Travis che è il fondo dello specchio in cui si riconosce non tanto la debolezza del protagonista quanto quella di un intera società in cui, in un mondo realmente rovesciato , il vero è un momento del falso. Karl Marx diceva: “Gli uomini non possono vedere nulla intorno a sé che non sia il loro proprio viso: tutto parla loro di loro stessi. Anche il paesaggio ha un’anima.”. Forse Travis, che vive in sequenze concatenate, è nella sua vita un personaggio da film, vive un film, ha dentro sé dei punti morti che vivono

di insoddisfazione come unica realtà, vivono senza un giusto montaggio in moviola, che ricapitoli tutte le scene, dia loro un senso profondo, non solo metri di pellicola come pelle.. La funzione del cinema, come riconosce Debord, è presentare una falsa coerenza isolata, drammatica o documentaria, come surrogato di una comunicazione e un’attività assenti. Le riprese di questo film potrebbero essere una demistificazione del cinema documentario, che dissolve, con una ricetta ben consolidata in cui tutto ciò che non è detto per immagini, viene ripetuto, altrimenti il senso avrebbe potuto sfuggire agli spettatori. I tempi morti risultano quindi momenti di pieno, i momenti perduti restano i paesaggi urbani attraversati senza fine e organizzati secondo percorsi che falsamente collegano l’uno all’altro gli uomini e le loro realtà sgretolate, lasciandole dominio dell’oscurità. Si può riconoscere un tentativo anche politico,oltre che artistico, una tensione costante per riportare sotto la luce dell’obbiettivo la memoria di una realtà che non soddisfa, una realtà che tracima il cadavere della cultura e lo prepara per tavole rotonde in cui si

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manifestano tutte le ipocrisie del potere. “ Lo spettacolo- usando ancora una volta una frase di Debord - è la realizzazione tecnica dei poteri umani in un al-di-là che corrisponde alla scissione compiuta all’interno dell’uomo ormai espropriato del mondo”. Forse è questo che spinge ciascuno, in questo caso Travis, a cercare fuori dal suo orticello infinite possibilità fatte di sogni, illusioni, idee fuori stagione che cercano di colmare le distanze tra interno ed esterno, nel poco spazio lasciato alla libertà di ognuno. Ciò che appare è ciò che è. Un fondo, una New York infernale dove in dissolvenza appaiono dal buio immagini di oggetti proiettati. Ciò che appare sarà “senza spessore”. Ciò che è coincide con ciò che appare e, proprio a causa di questa conciliazione, viene a prodursi paradossalmente una frattura insanabile. Cito ancora una volta Debord, per concludere questo percorso che mi ha portato a vedere il mondo sotto una luce diversa, forse proprio quella luce che in Taxi Driver mostra e non mostra, elude alla vista oggetti pensieri parole. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.”

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VDBD N°1

FINESTRE Marta Ajò PATRIMONIO UNA STORIA VERA di Philip Roth, Einaudi

«Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l'altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. E l'agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre - tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy -le due imponenti terminazioni della lettera. Si, quella che spicca sulla foto è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità!» . Herman è il padre di Philip Roth, quello da cui egli erediterà il patrimonio degli esempi, delle decisioni, della semplicità, dell’amore per la vita. Herman è un padre testardo, forte, amorevole, di cui il figlio, l’autore, stenta ad accettare il declino, la fine, combattuta fino all’ultimo dalla sua prepotente voglia di vivere e di combattere. Di quest’uomo, la narrazione guarda ed accompagna con ansia e dolore l’ultimo percorso mentre la mente ricorda, colma d’amore, tutti quelli fatti insieme nella vita.

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Da quando bambino, si drizzava insieme al fratello, sotto la Vetta di un padre che li sovrastava e li proteggeva, a formare la V metaforica del loro amore. Un libro, si, ma una storia vera, raccontata con maestria da Philip Roth, di cui si scopre, ad ogni pagina, ad ogni paragrafo, l’umanità che ce lo fa sentire più vicino, pur senza indulgere sui sentimenti, scarno e pragmatico fino alla fine:“Morire è un lavoro e lui è un gran lavoratore. Morire è orribile e mio padre stava morendo”.

* Foto di Giusy Calia

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VDBD N°1 CAMMINAMENTI

II – ascoltare, parlare

Fabiano Alborghetti

Dall’interno l’ho vissuto – seppure brevemente – quando sono stato invitato in seno al Laboratorio di Lettura e Scrittura

RIABILITATO COME UOMO Il laboratorio di Lettura e Scrittura Creativa al carcere di Opera

anche negli anni passati – voci “esterne” che interagissero coi corsisti (chi frequenta il Laboratorio non è chiamato né detenuto, né allievo). Un giorno di Marzo il mese della primavera - ho

I – o si guarda o si vive Quando si viaggia in treno, incrociando un treno che corre in verso contrario, quello che viene percepito guardando dal finestrino è una frazione di presenza di qualcun altro che ci si palesa nell’infinitesimale correre parallelo reciproco, terminato il quale ognuno resterà con sé stesso, i passeggeri del proprio scompartimento e la direzione verso la quale stà viaggiando. Per capire la vita dell’altro treno, bisognerebbe esserci. Visto cosi, en-passant, è un treno e basta, nulla più di un dato. Lo stesso mio ragionamento lo ha fatto Valerio Onida, presidente della Corte Costituzionale, in uno scritto in cui rifletteva sul peso rappresentato dall’essere in qualcosa ma parlando della vita in carcere: «per valutare un sistema penitenziario ci sono due strade. Una è quella del legislatore che guarda dall’alto attraverso lo studio e l’applicazione del corpo normativo. L’altra, invece, comporta un esperienza dal basso, dal dentro: il carcere reale si capisce solo dalla parte sbagliata delle sbarre». O dall’esterno o dall’interno.

Creativa tenuto da Silvana Ceruti al carcere di Opera, iniziativa che Silvana porta avanti come volontaria da dodici anni ogni sabato mattina (e con il lungimirante placet dell’amministrazione carceraria). Per l’anno 2006 e parte del 2007, gli si sono affiancate Diana Battaggia e Maddalena Capalbi cosi come l’Editore LietoColle portando – secondo quanto perseguito da Silvana

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passato le mura di un carcere per la prima volta. Di esclusione potevo anche avere una qualche preparazione, pensavo: per tre anni avevo infatti vissuto coi Clandestini e su quella specificità era preparato, avendo vissuto di persona. Attraversando i cortili interni del carcere per arrivare all’aula ecco però un caleidoscopio di dubbi, domande: da un lato la curiosa morbosità di

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VDBD N°1 trovarmi faccia a faccia con chi ha commesso un crimine e non una sola persona, ma tante; dall’altra l’apprensione verso il linguaggio: che linguaggio si usa con chi è detenuto? E ci sono parole fuori luogo o riferimenti che possono essere sgraditi? Infine: in una situazione pubblica, in questo mio caso il tenere una conferenza, è possibile rivolgere il proprio dire verso uno stato di attenzione comunitario ma protetto da una barriera dove io sono aldilà, al sicuro. Il mio lavoro è di norma rompere quella barriera per cercare di entrare ma è anche vero che posso ritrarmi, rientrare nel guscio se nervi scoperti vengono sollecitati. E qui invece? III – si impara?

insegna

o

si

Entrato nell’aula, sono rimasto in piedi aspettando che arrivassero i corsisti, in piedi ed in imbarazzo perché non sapevo come comportarmi. Poi sono arrivati tutti, abbiamo preso posto al grande tavolo al centro della stanza e sono stato presentato cosi come mi sono stati presentati i corsisti, un nome dopo l’altro senza altro dettaglio. E sono arrivati gli occhi, tutti quegli occhi incassati dentro una moltitudine di domande. Tutto è saltato: si è verificato un cortocircuito dove tutte le domande (o dubbi) elevati a protezione si sono frantumati; questo sarebbe stato un’incontro alla pari, nessuno sarebbe stato al sicuro dietro una barriera,

nessuno avrebbe prevalso. Ognuno sarebbe stato in gioco con piena onestà e in prima linea, mettendo da parte loro il maternage dato dall’istituzione e superando - io individuo il meccanicismo dell’esecuzione del compito di ruolo. Assieme, formavamo, in quell’esatto momento, una microcomunità sganciata dalla consuete regole, una “anomia” come parte di un processo d’autonomia ritrovata. Riprendendo quanto detto da George Pòr, noi si stava incarnando quella capacità superiore di risolvere problemi, di pensiero e di integrazione attraverso la collaborazione e l'innovazione applicando inoltre quanto teorizzato da Danilo Dolci trattando la sua nuova maieutica (che Silvana Ceruti applica nel proprio Laboratorio da anni e in maniera del tutto inconsapevole): una ricerca ed un apprendimento che non ha al suo centro un corpo di verità pre-stabilite, trasmesse dalla cattedra o attinte dal manuale – cui adeguarsi. Al centro dell’attività maieutica vi è un problema, che viene posto a tutti i presenti e su cui ciascuno è invitato a riflettere e a comunicare agli altri le sue riflessioni. IV – salire sul treno I corsisti – mi renderò conto durante l’incontro -

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non solo valicano un confine dato dal riassumere ed usare la propria lingua per la comunicazione scritta, superando quindi il confine dell’oralità, ma quel confine ancora più grande che è l’avere una doppia assenza: quella dal mondo (sono rinchiusi) e quello della comunicazione dove per comunicazione non si intenda solo l’espressione di domanda/risposta che vige nell’ambiente sociale in cui vivono. Questa mancanza di comunicazione suppongo possa arrivare ad una patologia di non comunicazione o – peggio – ad una comunicazione costretta per difesa: chi si “assenta” dalla propria lingua, congiunge con uno stato d’innocenza verso terzi, mettendosi in pari, trovando quindi un equilibrio dove necessariamente la propria voce interiore va soffocata, va disertata, spesso va tradita “per quieto vivere”. Per mezzo di questa mutilazione, si indeboliscono per rafforzarsi e facendolo, appartengono finalmente alla comunità, alla tribù sociale del carcere ed al vicino di branda.. Il compito riuscito a Silvana nel Laboratorio è stato prima di tutto ritrovare il senso originario della lingua rendendo al corsista la propria condizione di uomo, rinsaldando quindi quella frattura nello spirito e suturando il vassallaggio al silenzio. Il silenzio sottintende un segreto ed il segreto – in questo caso – è

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VDBD N°1 non manifestare appieno sé stessi. Passo successivo è stato decidere di fare incontrare ai corsisti persone che portano la propria esperienza (di vita e di scrittura) dall’esterno all’interno, mettendo però in relazione le due opposizioni, rendendole parallele e non conflittuali. Nessun merito assoluto, quindi, per chi proviene dall’esterno, nessuna sacralizzazione, bensì un apporto reciproco, uno scambio. Ecco allora che le due lingue e i due modi di usare la poesia s’incontrano: l’autore esterno è una parte del processo di comunicazione tanto quanto lo sono coloro che frequentano il Laboratorio. Ognuno, al termine dell’incontro, ne esce arricchito e lo scrivo sapendo come questa frase suoni trita quanto incomprensibile fuori dall’esperienza personale del non avere provato. Bisogna, insomma, salire sul treno. V – monodie L’armonia non è immediatamente percepibile, specie se il metro sono valori strettamente orizzontali o verticali. Ancora: l’armonia non si percepisce solo dall’esterno ma deve dapprima essere compresa all’interno. Il problema, come detto, è quando i due stati si separano, quando uno sviluppa a spese dell’altro. Il lavoro fatto al Laboratorio poi - non è un meccanismo che produce uno spettacolo (quindi non c’è spettatore né attore), cosi come non è una macchina umana per creare

effetti sostenuta dall’efficacia dei testi prodotti. E’ una dimensione che può essere articolata solo in forma parziale, codificando il proprio apprendimento e inserendosi nell’emotività del soggetto non rapinandola, ma facendola propria: è per questo che oltre al soggetto, bisogna anche accogliere la sua dimensione culturale e sociale, che è solo apparentemente visibile per l’ambiente in cui si è ospitati (il carcere). L’onestà nel rapporto deve però essere duplice e reciproca. Da parte nostra prevede il dismettere quanto non ammettiamo, quanto si nasconde pericolosamente: il pregiudizio, l’intrigante curiosità, la morbosità. Da parte loro deve invece giocare l’accoglienza della nostra presenza non come assistenza sociale bensì come rapporto uomouomo.

tributato un riconoscimento possente. Come direbbe André Breton , sarà grazie a «queste meravigliose monodie, miracolo giunto dalle età più remote, alla stessa stregua del canto della fenice, che consuma tutti gli ardori e stana l’aurora da un cespuglio di lacrime… » che uno dei corsisti[1] poco prima di leggere le proprie poesie, dirà all’intera platea di sentirsi - ora e finalmente – riabilitato come uomo.

[1] Vladimiro Cislaghi * Foto di Giusy Calia

Solo in questo caso avviene davvero lo scambio, non solamente per come avviene l’andamento degli incontri il sabato al Laboratorio, ma anche in occasioni più “aperte” come è stata la sede di una larga presentazione dei lavori editi dei corsisti, alla Mondatori di Milano dove, oltre alla presenza delle istituzioni che nel progetto hanno creduto, c’era il pubblico che al lavoro fatto dai corsisti, hanno

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VDBD N°1 CAMMINAMENTI Emilia De Rienzo DIALOGARE CON LE PERSONE ANZIANE: UNA DIMENSIONE CHE SI STA PERDENDO Karen Blixen, nella Mia Africa, racconta una storia che le veniva narrata da bambina: “una notte, un uomo che viveva nei pressi di uno stagno viene risvegliato da un terribile fragore: è l'argine che sta cedendo. Si precipita a tappare la falla correndo di qua e di là e, quando ha finito, se ne torna a letto. Al mattino, affacciandosi alla finestra, vede che i suoi passi disordinati hanno creato sul terreno il disegno di una cicogna. O per meglio dire la bellissima immagine di una cicogna tracciata sul terreno dal suo arrancare affannato e scomposto nel buio. "Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?" si chiede la Blixen. Penso che questa domanda ce la facciamo in molti soprattutto quando si comincia a fare un bilancio della nostra esistenza. Ma quando si diventa vecchi la domanda si può fare più pressante e insistente. Spesso mi capita di vedere mia mamma pensierosa, a volte i suoi occhi si inumidiscono, le sue labbra tremano come se volessero dire qualcosa e le parole si fermassero senza riuscire ad essere pronunciate. Le chiedo cosa sta pensando: “niente di particolare mi risponde”.

Sento, invece, che la sua mente corre indietro, lontana nel tempo, percepisco tutta la sua malinconia per la vita che se ne sta andando, per un mondo che non esiste più, per quello che forse avrebbe voluto fare e invece gli è sfuggito per sempre. La guardo impotente. Non so trovare parole e, abituata alla donna forte e combattiva che è sempre stata, non riesco ad accettare la sua palese fragilità. Mi fa male, troppo male. E’ difficile descrivere cosa provo. Sono a disagio. La porto allora pian piano a parlare di quando era giovane e bella, di tempi lontani che del resto lei ama ricordare. E’ così si lascia andare ai ricordi, ma qualcosa rimane in sospeso ed io vigliaccamente so che lo riprenderà in solitudine e che da sola piangerà. Uscendo da casa sua, mi porto dentro quella tristezza che non ho saputo consolare né ascoltare. Non sempre è facile tra una madre ed una figlia. E’ difficile accettare l’invecchiamento di chi ci ha cresciuto e da cui ci si è sentiti difesi o protetti e a volte è impossibile ritrovare quel dialogo e quella confidenza che non ci sono mai state prima. Ho pensato allora a Iza, il personaggio del libro "La ballata di Iza" di Magda Szabò, che nel rapporto con la mamma, rimasta vedova, si sente

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impotente, incapace di comprendere o di dare risposte ai suoi bisogni: sbaglia e continua a sbagliare senza mai riuscire ad uscire da questa trappola. Il libro mi ha commossa, mi ha fatto pensare, mi ha fatto entrare nella storia, nella vita di ogni personaggio, me li ha fatti capire e comprendere. Mi ha ricordato mia madre, mio padre, i miei rapporti con loro, ho pensato alla loro storia e alla mia. Mi ha fatto riflettere sul fatto che si può essere certi di amare chi ci è caro, ma si può ugualmente non comprenderli. Ho capito che può capitare che le vite che si intrecciano, un giorno possono non incontrarsi più, che si può fare del male convinti di fare del bene ed essere in assoluta buona fede. E ho sentito quanto il passato si incida nell’anima di ogni persona e si trasformi in qualcosa di diverso in ognuno. Quando degli individui condividono buona parte della propria vita, la morte di uno di questi può scompigliare le carte e tutto viene rimesso in gioco. Quello che funzionava prima può non funzionare più. Iza è un medico, è contenta del suo lavoro, ha un amante, uno scrittore e all’apparenza non sembra mancarle nulla; in realtà non è felice. Ha avuto un’infanzia difficile che l’ha costretta a crescere troppo in fretta, a diventare forte ed assennata. Quando era ancora ragazza ha visto mettere al bando suo padre Vince, un magistrato esautorato dal regime

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VDBD N°1 fascista degli anni ‘30 perché non si era piegato al regime. Per questo Iza, fin da piccola appoggia il padre e si costruisce addosso un’armatura, pronta a difendere “come un soldato” se stessa e i suoi da ogni attacco della vita. Tanto Iza è estremamente controllata, riservata, incapace di esprimere i propri sentimenti, quanto sua madre Etelka è fragile, delicata, semplice, attaccata alle tradizioni e spaventata dalle novità. Quando perde il marito, compagno di una vita, la sua esistenza cambia totalmente e prova il più assoluto disorientamento: la sua vita sembra non avere più radici né riferimenti eppure sua figlia c’è, è presente, si

privata delle sue abitudini, pian piano sprofonda in un baratro da cui non riuscirà più ad uscire. Si sente in balia delle decisioni altrui, senza possibilità di cambiarle o di esserne partecipe. Del resto, ella ne è consapevole, “Iza è una figlia perfetta, colma di attenzioni, Iza ha predisposto tutto, Iza ha deciso tutto”: quello che può tenere e deve buttare, quello che può fare e deve evitare, dove può stare e dove non deve immischiarsi; Iza sa cosa si deve fare. Etelka vive nel suo appartamento moderno, arredato con mille agi, con la lavatrice, il frigorifero e i termosifoni, ma rimpiange

occupa di lei. Etelka va ad abitare con lei a Pest. Lontano dalla sua casa,

la sua casa, le sue cose e la nostalgia corrode la sua voglia di vivere, vorrebbe

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poter condurre la sua vita ad una velocità minore in modo da poterla ancora controllare. L'incomprensione che si manifesta giorno dopo giorno allontana la figlia dalla madre e viceversa. L'una le offre conforti materiali, le vuole semplificare la vita all’insegna dell’efficientismo, mentre l'altra cerca presenze vive, vuole sentirsi utile, vuole rallentare il tempo. L'una segue itinerari solitari; l'altra vorrebbe un dialogo impossibile, vorrebbe ritrovare un suo ruolo che appare ormai perduto per sempre. Iza priva la mamma di qualcosa di cui mai nessuno dovrebbe essere privato, del proprio passato, della possibilità di decidere sulla propria vita, di sentirsi ancora utile a qualcuno: ed invece si sono invertiti i ruoli. Iza d’altro canto non riesce a entrare in sintonia, la sua vita viene scombussolata, la sua libertà di nuovo messa in discussione. La mamma si ripiega in se stessa, quasi non sentisse più di esistere, quasi volesse annullare la sua presenza e rifugiarsi in un mondo ormai perduto. “Possibile che fosse morta anche lei e semplicemente non se ne fosse accorta? Possibile che una persona morisse prima di rendersene conto?” Spersa e sola, in un mondo che non riconosce più: anche quando tornerà a casa non ritroverà più né luoghi né se stessa. La solitudine di Etelka è la solitudine che vivono molti anziani oggi, che si

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VDBD N°1 percepisce, per assurdo, proprio quando si fa parte di quei grandi formicai che sono le megalopoli. La vita personale del vecchio è troppo spesso ridotta a poche, minime attività prive di contenuto sociale, la sua validità non è riconosciuta soprattutto dalla fascia più ampia dei giovani e degli adulti socialmente attivi. Ed è proprio questa mancanza di un ruolo, di un riconoscimento sociale che provocano spesso disorientamento e confusione. Non sanno più chi sono e per cosa stanno ancora vivendo. Nel libro di Doris Lessing, Il diario di Jane Somers, Jane, la protagonista, alla domanda che le viene posta “A cosa serve la gente vecchia”, risponde: “Quello che Jim aveva detto era quello che tutti dicevano: Perché non sono tutti in un ricovero? Bisogna toglierli di mezzo, metterli dove la gente giovane e sana non li possa vedere, perché non sia costretta a pensare a loro”(…) “ E fu allora che pensai come valutiamo noi stessi? In base a quali criteri?” “A che cosa serve Madie Fowler? Stando ai criteri che mi sono stati inculcati, a niente” Il libro ci racconta l’incontro tra Jane, una ricca borghese, cinquantenne, dinamica e giovanile, redattrice di un giornale femminile che la impegna tutto il giorno e Maudie un'anziana signora sui novanta, molto povera, isolata dalla famiglia, scontrosa ma con una grande

dignità. Jane incomincerà quasi casualmente ad occuparsi di Maudie ma non c'è pietismo nell'azione di Jane, non c'è spazio in lei per i "buoni sentimenti", c'è una forte tensione che la porta spesso allo scontro con Madie e con se stessa, con pensieri contrastanti e inquietanti. Il libro è anche il racconto di un profondo cambiamento esistenziale e morale, di come l'incontro con l'altro può cambiarci dentro, può renderci persone migliori. Jane incontra Maudie in farmacia e dalla farmacia escono insieme: “Le camminai accanto. Era difficile camminare così piano. Di solito io vado velocissima, ma non lo sapevo, me ne accorsi in quel momento. Lei faceva un passo, poi si fermava, guardava il marciapiede, e faceva un altro passo”. L’incontro vero incomincia proprio da queste parole, dalla immediata percezione di Jane che doveva “adattare il passo” a quello di Maudie se voleva entrare in contatto con lei. La fretta è nemica di qualsiasi relazione, lo si capisce bene con i soggetti più deboli a partire dal bambino, al portatore di handicap, all’anziano. Ma la fretta è nemica anche di noi stessi, che non sappiamo più camminarci accanto lentamente per lasciarci il tempo di intessere un dialogo interiore che ci aiuti a capire quello che siamo,

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quello che vogliamo veramente. La fretta ci impedisce di ascoltare e di relazionarci uno con l’altro. La fretta rende impossibile qualsiasi dialogo o rapporto umano. La fretta ci impedisce di guadare dentro ai problemi, di affrontarli e di crescere anche nella sofferenza, guardando dentro noi stessi, senza paura di leggere quello che non ci piace. “La mia vita fino al momento in cui Freddie cominciò a morire era una cosa, poi diventò un’altra. Fino a quel momento mi ero considerata una brava persona: come tutti, voglio dire, questo lo so. (…) Ora so che non mi ero mai posta la domanda di come fossi in realtà, che avevo solo preso in considerazione il giudizio degli altri” Perché è di questo che troppo spesso ci preoccupiamo, di piacere, di essere come gli altri ci chiedono di essere…E scansiamo così i problemi della vita, crediamo forse ingenuamente che a noi non succederà mai o che per noi sarà diverso. più semplicemente non ci vogliamo pensare. Maudie insegnerà molto a Jane anche quando la fa arrabbiare e sembra volersi separare da lei. Maudie vive in solitudine; per orgoglio rifiuta l'assistenza pubblica e non vuole essere aiutata come un bisognoso; prima ancora di sentirsi vecchia e povera Maudie si sente persona che non vuole perdere la propria dignità; una persona che ha ancora molte cose da dare agli altri, da raccontare, da insegnare.

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VDBD N°1 Jane scopre con Maudie che la vita non è solo luccichii, colori, belle persone curate nell'aspetto, quella vita che trova spazio solo sulle pagine patinate, lucide, colorate, piene di belle fotografie del suo giornale. Grazie all’incontro con Maudie e all’amicizia che ne scaturisce, Jane intraprende un percorso di scoperta della vita e della sofferenza, un cammino che non era riuscita a fare accanto al marito malato e alla madre morente: “d’altra parte alcune settimane fa io non mi rendevo nemmeno conto dell’esistenza degli anziani. I miei occhi venivano attratti dalle persone giovani, belle, eleganti, piacevoli, e “vedevo” solo quelle. Ora è come se un velo fosse stato steso su quelle immagini, e sopra il velo, tutt’a un tratto, ci sono i vecchi, i malati....” Non vado avanti nel racconto, perché il libro bisogna leggerlo per intraprendere un viaggio con la Lessing, bisogna leggerlo perché si incontra tanta umanità, quella che forse non ricerchiamo più o per lo meno mai abbastanza. Dobbiamo leggerlo, perché ci dà la forza di guardare dentro alle nostre paure, ci invita ad uscire da noi e ad affrontare il limite che c’è in noi, la fragilità, l’emozione. Ci può rendere più sensibili… La fragilità non è qualcosa da cacciare, ma qualcosa con cui convivere e da cui imparare. Non dobbiamo averne paura, perchè in lei risiedono i valori più profondi. Solo se si sa intessere un dialogo vero, profondo che

guarda al di là delle apparenze, che incontra l’altro nella sua vera essenza allora si può capire, comprendere la vita in tutti i suoi mille risvolti e mille sfumature, in tutta la sua ricchezza di cui anche la sofferenza fa parte. Anche dentro un corpo fragile c’è ancora tanta vita: “Può darsi che Maudie sia solo pelle e ossa, ma il suo corpo non ha quell’aspetto distrutto, sconfitto della carne che affonda nelle ossa. Maudie era gelata, era malata, era debole – ma sentivo qualcosa pulsare dentro di lei: la vita. Com’è tenace, la vita. Non ci avevo mai pensato prima; non l’avevo mai recepita in quel modo, non come in quel momento, mentre lavavo Maudie Fowler, una vecchietta arrabbiata e indomita. All’improvviso ho capito che tutta la sua vitalità risiede in quella rabbia. Non devo, non devo assolutamente risentirmene, non devo reagire violentemente. ....le ho lavato le parti intime, e per la prima volta ho pensato davvero al significato di quella espressione. Maudie soffriva orribilmente proprio perché una sconosciuta stava invadendo la sua intimità”. Maudie scopre in questo passaggio quello che molte persone anziane vogliono e che Maudie dice esplicitamente: “mi chiamo Mrs Medway. Non

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voglio che mi si chiami Flora. E non ho intenzione di farmi trattare come una bambina. Quando arriva un’infermiera nuova e le si rivolge chiamandola cara, carina, tesoro o Flora, lei dice subito “non mi tratti come una neonata, sono abbastanza vecchia da essere la sua bisnonna”. ... correggendole con fermezza e decisione. Abbiamo proprio perso l’abitudine all’ascolto, all’ascolto non solo del linguaggio, ma degli sguardi, del gesto, del silenzio. Non ascoltiamo più perché non conosciamo più la ricchezza di saper essere lenti, di quella lentezza che sola può restituire dignità e significato alle parole che hanno bisogno di trovare una dimora nell’altro. I tempi rallentati del vecchio gli impediscono di comunicare spesso con noi, perché siamo sempre in corsa, viviamo troppo spesso solo la dimensione del presente perdendo i nostri legami col passato che solo potrebbero restituirci anche la capacità di progettare il nostro futuro. *** (foto di Paola Pluchino)

Abbiamo proprio perso l’abitudine all’ascolto

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VDBD N°1

CAMMINAMENTI Maria Pina Ciancio RITI ED ARTI MAGICORELIGIOSI NELL'ANTICA SOCIETA' LUCANA DEL POLLINO

Nella magia il sacro, il potere che sta nelle parole e l'efficacia che discende da gesti appropriati, consente all'uomo di realizzare, in modo soprannaturale, ciò che i suoi mezzi e le sue abilità pratiche sono incapaci di compiere […] Nella religione, il sacro agisce come una forza vitale che stringe i membri di un gruppo e, con lo stabilimento dei valori morali, opera un'integrazione della mente degli individui nelle crisi della vita, morte, pubertà, matrimonio e nascita. (Bronislaw Malinowskj) Nei tempi passati la medicina era spesso legata ed intrecciata alle arti magicoreligiose. Questo perché, per una società piccola, chiusa, lontana dai grossi centri abitati, a volte era impossibile ricorrere alla scienza medica o addirittura ad un semplice medico generico. I riti e le arti magiche entravano allora nella vita quotidiana della gente, diventavano l'unica e possibile arma di scongiuro e di difesa contro le forze "misteriose ed occulte" che minacciavano o invadevano il corpo. La simbologia, i segni,

la magia, erano sempre e solo frutto di un "bisogno" che affondava le radici nelle alcove più nascoste dell’animo umano: mondo affascinante e misterioso, a volte oscuro, legato all'ingenuità popolare, ma anche alla difficile esperienza di una vita vissuta all'insegna della lotta tra il bene e il male. L'affascina è un esempio di come le forze religiose e magiche si intrecciavano misteriosamente fino quasi a confondersi. Questa sorta di preghiere e formule magiche recitate in silenzio, che serviva ad allontanare il malocchio, continua ancora oggi a tramandarsi tra la gente più anziana e il fatto che i tentativi di svelarne la "segreta formula" siano stati pressocchè vani e inefficaci, dimostra quanto ancora sia forte e radicata questa credenza che si perde nella notte dei tempi e che sopravvive all'era tecnologica dei computer. "L'affascina, rito magicoreligioso che serviva ad allontanare il malocchio, si manifestava con forti mal di testa, mal di pancia, a volte anche sonnolenza. La persona che toglieva l'affascina, prima di iniziare il rito, faceva il segno della croce, segnava sulla testa dell'affascinato una piccola croce con un coltello e infine cominciava a recitare la “sacra” formula in silenzio. Quando iniziava a

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sbadigliare era segno che l'affascina c'era, e il momento dello sbadiglio, per molti, indicava anche il sesso della persona responsabile. Dopo questo primo momento, quando la fattura era forte o durava da più giorni, si riempiva un catino d'acqua , vi si immergevano tre pizzichi di sale (a volte anche tre oggetti metallici e tre carboni), e in esso l'ammalato doveva lavarsi il viso per tre o per un numero dispari di volte. L'acqua veniva poi gettata in mezzo a un crocevia, dove il primo passante raccoglieva il malocchio." In effetti l'affascina non era solo la iettatura, cioè l'influsso malefico e cattivo esercitato dalla presenza di alcune persone su altre, ma anche una sorta di seduzione vera e propria, frutto di forte ammirazione, fascino e incantevole meraviglia esercitata nei confronti di chi veniva affascinato. E' importante notare l'uso di oggetti metallici durante il rito (in particolare del coltello) e la ripetizione di determinati gesti per tre volte o per un numero dispari, comunque multiplo di tre. Non si tratta certo di una scelta casuale, essa è legata a una tradizione che associa da millenni il numero tre al simbolo religioso della Santa Trinità. L'acqua che veniva buttata in mezzo a un crocevia (luogo di incontro di più vie e quindi di maggiore passaggio) diveniva simbolo scenico di purificazione, rappresentava

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VDBD N°1 l'allontanamento del male e delle "forze occulte" dal corpo. Anche ne Il fuoco di Sant'Antonio le scintille provocate dallo sfregamento di una particolare pietra bianca con un oggetto metallico (cavo e con un'impugnatura) rappresentavano una sorta di esorcismo al male. "Il fuoco di Sant'Antonio o “fuocu muortu” era un rito dal forte senso scenico: serviva a curare un eritema (foruncoli e bolle) che fuoriusciva nella zone dell'addome, ma che spesso si spargeva anche su altre parti del corpo, srgno probabilmente di un male che deturpava non solo lo spirito, ma anche il corpo. Il rito (insieme magico-religioso) si svolgeva in un ambiente abbastanza ampio per tre mattine consecutive. Al centro della stanza ardevano, in tre bracieri o contenitori, tre fuochi. Il guaritore e l'ammalato dopo aver fatto il segno della croce, in processione (il primo avanti, l'altro immediatamente dietro) iniziavano l'atto purificatorio girando tre volte intorno ad ogni fuoco. Durante ogni giro, il guaritore sfregava per tre volte l'oggetto metallico con la pietra, così da produrre scintille, mentre ad alta voce pronunciava le parole: “fuocu muortu vatinni a du vivu” (= fuoco morto vattene dal vivo). Terminato il primo giro intorno ai fuochi, si iniziava da capo, fino a compiere un totale di tre giri completi."

Questo "rito purificatorio", diversamente dall'affascina, aveva un effetto spettacolare e fortemente suggestivo, sia per i fuochi che già di per sè rappresentavano l'elemento di contrasto al male, sia per la processione che ricorda tanto un pellegrinaggio religioso. Come nell'affascina, la ripetizione di determinati gesti per tre volte, assumeva un'importanza fondamentale (tre mattine, tre fuochi, tre giri intorno ai fuochi, tre scintille, ecc.). Anche la cura de Il male dell'arco, come Il fuoco di Sant'Antonio, era caratterizzata da un forte senso scenico e simbolico. La malattia che si manifestava con perdita di colore e giallore, si credeva colpisse alcune persone durante il manifestarsi del fenomeno atmosferico dell’ "arcobaleno". "Il rito della guarigione si svolgeva all'aperto, vicino a un canale o rigagnolo di acqua corrente, per tre mattine consecutive. L'ammalato si disponeva con le gambe divaricate sul rigagnolo formando con il corpo un arco sull'acqua. A questo punto, il guaritore, munito di un oggetto d'oro e uno di piombo, dopo aver fatto il segno della croce cominciava a recitare ad alta voce la formula di scongiuro al male, che veniva ripetuta tre volte."

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Questa malattia, come abbiamo detto, che si manifestava con un colorito giallo smorto e con la perdita del colore naturale, era associata alla percezione del fenomeno arcobaleno come condizione precaria della natura, come deformazione dei colori in archi sfuocati, pallidi ed evanescenti. Solo riproducendo le stesse condizioni di insorgenza del male (l'ammalato stesso diventava simbolo di un arco sull'acqua) si riteneva possibile l'allontanamento delle forze del male imprigionate nel corpo, mentre l'acqua corrente ne rappresentava l'elemento purificatorio vero e proprio. Il chiodo solare infine era una sorta di affascina, che serviva a curare un particolare mal di testa, che si manifestava al nascere del sole e scompariva al tramonto. "Questo rito come il precedente avveniva all'aperto. All'alba, quando i raggi del sole spuntavano all'orizzonte, l'ammalato e il guaritore si rivolgevano ad esso. Dopo aver fatto il segno della croce, il guaritore cominciava la recita di preghiere e formule segnando piccole croci sul capo dell'ammalato. Il rito durava tre mattine, a volte veniva eseguito sia al sorgere che al calare del sole." Rivolgere lo sguardo al sole significava invocare la liberazione e la purificazione direttamente da ciò che si credeva fosse la causa diretta del forte e continuo mal di

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VDBD N°1 testa durante la giornata. Secondo gli anziani il male cominciava a scomparire lentamente fin dalla prima mattina. A questo punto è opportuno ricordare che lo studio e l'analisi di riti e fenomeni sospesi a metà strada tra la realtà e l'immaginazione rappresentano oltre che una pura speculazione intellettiva, un momento di indagine fondamentale che ci consente da un lato di cogliere gli infiniti nessi sociologici tra il presente e il passato e dall'altro di penetrare l'immaginario collettivo di un popolo vissuto per millenni nell'isolamento, tra i misteriosi e sconosciuti monti del Pollino. Un popolo che ha radicato e sviluppato uno spirito di grande forza e sacrificio, di fiducia in se stesso e negli altri, segno di una vita non facile, vissuta per millenni all'insegna della lotta tra "il bene e il male", tra paure, superstizioni e profonda solitudine.

Appunti sui riti magicoreligiosi nell’area del Pollino lucano Indagine conoscitiva, da una ricerca sul campo San Severino Lucano, 1992

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PONTEGGI Valter Binaghi LA TELEVISIONE LIBRI

DEI

Un’amica redattrice, mi ha proposto un’intervista per una web-tv dove si parla di libri. Ho chiesto del tempo per pensarci. Non sono un Amis incistato alla svizzera rurale del settecento, ho fatto già interviste radiofoniche e mi sono pure piaciute. Con un paio di clic ci ho fatto un giro: ho visto uno spottino di uno scrittore che stimo che dice due cose valgono nella vita, una è leggere. Punto. Tu pensi: quale sarà l’altra? La figa, Dio, la Champions League? E subito dopo pensi: brillante il tipo. Brillante o no, comunque è uno che sta al gioco, perchè la televisione è questo. Insomma, mi si è scatenata una riflessione sul mezzo. Qualunque decisione prenderò, queste considerazioni restano. Due o tre cose alla buona, e anche già dette, per giunta: le ripeto solo perchè all’uomo mediamente colto di oggi può accadere di sapere vita morte e miracoli di Carlo Lucarelli e niente di Marshall McLuhan. Quando questa canadese mente sopraffina diceva che

“medium is message”, intendeva che un mezzo di comunicazione nel suo messaggio non solo definisce il mondo in un modo o nell’altro, ma che soprattutto definisce la definizione, il contesto percettivo, e finisce poi per organizzare un mondo

sociale che renda il contesto percettivo non solo comprensibile ma plausibile. L’invenzione di Gutemberg, ad esempio, non ha creato solo il libro come oggetto, ma anche la solitudine come ambiente di lettura. In precedenza, il libro è un esemplare raro, letto o meglio recitato a voce alta per un pubblico pre-disposto, come i monaci in un refettorio o i cortigiani ad un banchetto, o gli allievi ad un seminario. Un’autorità oggettiva lo seleziona e lo riveste, quella della cattedra o del trono. La nuova tecnologia ha reso possibile la copia

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per ognuno, e con essa la nascita di un tempo del leggere e di un luogo, e di un’elaborazione, un punto di vista individuale. C’è un uomo al mondo più felicemente solitario di un lettore di romanzi? Con la radio e la televisione, coi media elettronici in generale, si torna al tam tam tribale che chiama a raccolta, un’assemblea diversa, meno carnale ma più intima, frequentatori distanti nello spazio ma la cui prossimità è garantita dall’ideologia: il linguaggio appunto, le categorie, i termini della rappresentazione del mondo che il media fornisce. La televisione è essenzialmente rapido movimento di suoni e immagini che appaga il mimetismo febbrile del telespettatore. Il significato che si dipana nel comprendere, invece, che è la sola e unica vita del libro, cammina con altri passi. Negli ultimi cinquant’anni l’homo videns e audiens (leggasi Audience) ha soppiantato l’homo legens. Rassicuratevi, sono ancora tutte sottospecie dell’homo sapiens, ma anche no: in natura esistono forme degenerative. Nella scrittura libera e nella lettura solitaria c’è l’unico

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VDBD N°1 antidoto all’inferno mimetico di un mondo interamente esposto in vetrina, cioè la solitudine strategica di un’anima che si ritrova, una dimensione che l’uomo di oggi ha un bisogno disperato di coltivare, se non vuole dissolversi nello spettacolo della propria esistenza. Una tv che parla di libri e di autori ma li esibisce più che recensirli, può creare un popolo di simpatizzanti o denigratori, e anche la conventicola più colta, di un gusto più raffinato, e chi ha detto che è un male? Ma non mi pare che porti acqua a quel mulino. Una tv che invita al libro, dovrebbe invitare al ristoro di una solitudine, alla purezza di uno sguardo: cioè suicidarsi come tv, visto che essa si sostanzia di tutt’altre disposizioni dell’utente. La vetrina mediatica è un’archivio di file video e file audio della durata media di tre minuti, una dignitosa presentazione per facce, dichiarazioni d’intenti, e slogan identificativi, ma dove l’unica cosa che pesa e distingue un libro, cioè l’ampiezza del senso, non può entrare per definizione. Il popolo dei lettori se va bene è un partito, se va male un salotto. Il lettore, l’anima solitaria che specchia la sua vita in un simbolo, è altrove.

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VDBD N°1

PONTEGGI

Paola Pluchino (Foto e testo)

4 MOMENTI SU TUTTO IL (mio) NULLA (omaggio a Carmelo Bene)

(…)Il sonno mio - pure io dormiente non è sonno: è continuo (un) pensiero ostinato(…) Sapere è patire. Sventura è la scienza. Coloro che più sanno più amaramente devono piangere il vero fato: l'albero della scienza non fu mai l'albero della vita.

Filosofia Meravigliosa Scienza Conoscenza del mondo Idee sovrane tutto provai. Tutto compresi e tutto abbracciai col mio genio. A nulla valse. Vano fu il tutto.(…) Da “Manfred” di Lord George Gordon Byron

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MOMENTO 1 IL LINGUAGGIO

Nasce dal seno d’un’esigenza intrinseca dell’individuo: il comunicare. Sistema imperfetto entro cui abitano le pulsioni, le spinte, le volontà umane. Sovrastruttura perenne (ma non immutabile) del pensiero. Ci affanniamo a creare sempre codici nuovi, nuovi contenitori entro cui poter manifestare la propria coscienza, universi affabili in grado di percepire e di rendere un’idea. Ma non avete mai pensato che dal percorso che va dalla germinazione dell’idea alla sua resa, sia essa grafica, musicale, pittorica, il suo stesso senso si trasfiguri? Cioè che per mostrarsi si corrompa, deformandosi? Il linguaggio dovrebbe essere strumento di scoperta, non già d’autodeterminazione, né tanto meno lanternino di consenso. Adattarsi ai sistemi conosciuti è vero, aiuta nello sviluppo e nell’allargamento della conoscenza comuni, produce “sapere condiviso”, ma se a questo non si associa una ricerca tutta interiore che prescinda dalle strutture imposte a priori (volente o nolente basate su cose già dette), la ricerca della conoscenza(e il suo comunicarlo) si riduce a mero esercizio ripropositivo, a lotta tra pensiero e sistema che lo supporti che stagna nel già detto per paura di dire.

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MOMENTO 2 LA CONOSCENZA

Uniforme difformità dell’esistere. Continua ricerca di forme da adattare ai contenuti. Morsa accecante tra coscienza e conoscenza. aGo della bilancia che oscilla sempre, da una parte e dall’altra, scandendo il tempo, tempo innaturale dell’essere. Moltiplicare i punti di vista equivale confondere il proprio; Guardare solo al proprio significa scempiare il sapere. Dov’è che allora sapere ed essere si incontrano? Qual è lo sfondo privilegiato in cui il magma delle viscere si scontra col fulgido baglior Prometeo? Infrattati entro un sistema di segni che mostra vie e giustappone significati molteplici alle cose, agli oggetti alle dimensioni, ci invaghiamo spesso della prosa altrui. Ma dire, comunicare, non è forse solo un residuo (seppur concreto) d’un sistema valoriale molto più ampio che non sempre è possibile sciogliere entro le righe?

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MOMENTO 3 L’EROS Eros e Thanatos sono le due forze che governano il mondo tutto. Passione e morte. Forza imperiosa dell’agire umano condiziona sovente le nostre scelte, alimenta tanto le nostre colpe quanto i nostri desideri. Parlare dell’eros senza scottarsi è pressoché impossibile, non esserne coinvolti è un privilegio (o un sacrifico) riservato a donne e uomini di Santa virtù. Per noi comuni mortali è fonte inesauribile di scoperta, di sostanza, di simulacra. Materia poliedrica e difficilmente controllabile è sublimazione dei corpi, resa nuda delle anime. È un piacere che usa la carne per trascenderne, che si manifesta nell’apparenza sensibile, per essere nell’immateriale. Ma non è dalla carne che esso diviene, così come non è dal corpo che si sviluppa il pensiero. L’eros è piuttosto una trasmigrazione d’impulsi, razionali e non, in essenze comprensibili e manifestabili. E’ e dovrebbe sempre essere lucciola indiscreta tra l’oscura e matematica razionalità, dovrebbe colmare lo scarto che passa tra il pensiero corretto e quello geniale. L’eros esiste a se ma non deve mai manifestarsi per se. La vanità, devia. Se, in concerto con un sistema valoriale sano si in semina il germe della passione ecco che esso fa esplodere una miriade colorata che, come in un effetto domino, investe tutto ciò che incontra. Allora non è più soltanto trasfigurazione in bianco e nero, ma movimento cromatico che permea la rigida tela, che dipana i confini dell’universo, che suggella l’emozione di guardare una vita a colori. L’amor che move il sole e l’altre stelle.

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MOMENTO 4 L’ARTE

Non esiste mezzo di comunicazione più forte del sogno. Non esiste forza visionaria paragonabile a questa fulminazione. Moto spasmodico dell’anima, che attanaglia, sconvolge, smantella nessi apparenti per collegare ragione all’animo. La produzione artistica (fatte le debite distinzioni) è il più potente riflesso della coscienza. Anche qui il discorso è simile: avere un pennello in mano ,o una piuma d’oca tra le dita, o dei tasti vestiti in bianco e nero, schiude le porte d’universi onirici, melanconici, inimmaginati. L’arte non dovrebbe illuminare dall’alto, proiettando solo ombre qui giù, ma irradiarsi tra le piaghe umane, palesare risvolti antitetici, sintetizzare lunghi e tortuosi processi di pensiero, demolire luoghi comuni, strapparci dall’affanno della quotidianità. Evocarci ma non imporci. Non è l’artista che dovrebbe sforzarsi pur di farsi comprendere (il più delle volte svendendosi) ma il fruitore, cercando i nessi (reali) con la sua realtà (immaginata). Non è questa una totale forma d’anarchia artistica, è piuttosto la sua forma e il suo movimento naturale a cui tende intrinsecamente in quanto arte. Essa non ha altresì bisogno di categorie fenomeniche che la imprigionino poiché si risolve in se, ed in se stessa trova la sua “direzione”. Travisare, nell’arte, è concesso. Lo spettatore può, anzi forse deve, ricreare, rivisitare ciò che osserva, caricandola coi suoi valori, aggiungendo cioè nuova linfa a quel prodotto che, venendo alla luce ha esaurito le sue stesse capacità interpretative, compiendosi. E’ solo il cadavere d’un pensiero che fu vivo ma che non è più. Ecco perchè il rapporto che dovrebbe instaurarsi è quello d’un incontro e d’una ricommistione dialettica. Creare ponti è l’unico modo che abbiamo per travalicare ciò che siamo. A me non interessa essere migliore degli altri, a me interessa essere migliore del me stesso precedente.

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PONTEGGI Lia Volpatti

TUTTE

LE

(belle)

DONNE DI MARLOWE!

Erano pressappoco le undici del mattino, mezzo ottobre, sole velato, e una minaccia di pioggia torrenziale sospesa nella limpidezza eccessiva là sulle colline. Portavo un completo blu polvere, con camicia blu scuro, cravatta e fazzolettino assortiti, scarpe nere e calzini di lana neri con un disegno a orologini blu scuro. Ero corretto, lindo, ben sbarbato e sobrio e me ne sbattevo che lo si vedesse. Dalla testa ai piedi ero il figurino dell’investigatore privato elegante. Avevo appuntamento con quattro milioni di dollari…. E’ il famoso, mitico incipit, de Il grande sonno di Raymond Chandler, che con questo romanzo, nel 1939 è piombato sulla scena letteraria americana come una bomba dirompente abbattendo vecchie strutture di maniera, stereotipi, artificiosità sulla scia della grande lezioni impartita da Hammett. E dando un definitivo imprimatur alla scuola hard-boiled. E nel nome di Chandler, a 120 anni dalla sua nascita, si è aperta

quest’anno l’ottava edizione del festival bresciano A qualcuno piace giallo, organizzato, curato, gestito da un fantastico quadrunvirato femminile (Magda Biglia, Sonia Mangoni, Milena Moneta, Carla Boroni, con a latere la dolcissima Luisa… e sotto l’occhio vigile e attento del grande fratello Alessandro Toselli).

Questo romanzo segna anche l’inizio di una grande avventura umana e letteraria, perché contemporaneamente nascono personaggio e creatore, Chandler e Marlowe, padre e figlio, paradossalmente coetanei, che iniziano un

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cammino parallelo attraverso una serie di sette romanzi, più uno incompiuto, alla ricerca di un’identificazione reciproca, di quel punto di sutura per cui il romanzo diventa autobiografia e l’autobiografia romanzo. Ma nel corso del cammino, le parallele divergono. Perché l’unica cosa che alla fine li accomuna è il whisky. Ma mentre

Marlowe, essendo un duro per definizione, lo regge bene, Chandler se ne lascia distruggere. Diverso è invece il comportamento nei confronti della vita, dell’amore e delle donne. Chandler va alla deriva, “viveva sulle soglie del nulla”, Marlowe agisce e n. 1 - luglio 2008 Registrazione c/o Tribunale di Sassari n° 45408


VDBD N°1 combatte come può i mali e i vizi della “grande corrotta sordida metropoli”, è l’eroe romantico, è il don Chisciotte con l’impermeabile di Humphrey Bogart, è il paladino della giustizia, è in sostanza ciò che Chandler forse avrebbe voluto essere. Chandler ha avuto solo tre grandi amori, la madre con la quale ha vissuto fino all’età di trentasei anni, la moglie Cissy, sposata l’anno stesso della morte della madre, e di ben diciotto anni maggiore di lui e infine la gatta Taki, la persiana nera, alla quale dedica parole appassionate. Di altri amori, flirt di gioventù, ammesso che una gioventù possa durare fino a trentasei anni, non si sa. Mentre Marlowe… be’, povero Marlowe anche lui non è messo tanto bene. E con le donne è un po’ sfortunato. Già è un lupo solitario, un malinconico e nella sua tana di tre stanzette e mezzo spesso, troppo, solo il bicchiere gli fa compagnia. E i rimpianti, forse per le rose non colte. E poi il suo mestiere non l’aiuta, perché le donne che incontra, anche se tutte sarebbero disposte a buttarsi tra le sue braccia, sono delle dark-lady, ambigue, belle, seduttive ma senz’anima, e sempre coinvolte in torbide vicende criminali. E il suo

motto è “mai con le clienti”. La sua prima impresa è, abbiamo detto Il grande sonno, e quindi le sorelle Sternwood, eredi di un generale ricco e malato che così descrive all’investigatore le proprie figlie: suppongo che abbiano praticato e pratichino ancora tutti i vizi più diffusi… Convocato dal generale perché ritrovi il marito scomparso della figlia maggiore, appena entra nella ricca dimora incontra la piccola Carmen, che si diverte a strappare le ali alle mosche. E’ una ragazza di circa vent’anni, e cammina fluttuando… mi sorrise coi piccoli denti aguzzi da bestia da preda, bianchi come l’interno di una scorza d’arancia fresca… in uno sfavillio di labbra sottili…e subito, piroettò su se stessa, lentamente e flessuosamente e me la ritrovai tra le braccia. La scelta era sorreggerla o lasciarla andare a frantumarsi il cranio sul pavimento…” Gentile… Per fortuna a risolvere la situazione arriva il maggiordomo avvezzo a tali performance della padroncina. Ben altra classe la primogenita Vivian. Frequenta biscazzieri e trafficanti, ha alle spalle le macerie di tre matrimoni, si gioca il patrimonio di papà sui tavoli verdi, ma si atteggia a gran dama. (Nel film,

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Laureen Bacall, perfettamente in ruolo)… La guardavo… era senz’altro calamitosa. Se ne stava allungata su una sedia a sdraio… era scalza e metteva in mostra le gambe inguainate in un paio di calze di seta più che velate… Ma per Marlowe le campane della seduzione suonano invano. Anzi si comporta come un cafone. …Non me ne frega niente che mi facciate vedere le gambe… sono belle e sono lieto di fare la loro conoscenza. E’ il primo dei tanti scontri con questa donna che alla fine gli dirà: siete l’animale più freddo che abbia mai incontrato, Marlowe. Piuttosto popolato il mondo femminile di Addio mia amata ma la firstlady, Velma, è la grande assente. Velma che cantava in un locale, aveva i capelli rossi, era bellissima, bella come le mutande col pizzo… eravamo sul punto di sposarci, quando mi presero in trappola… Chi parla è Malloy che dopo otto anni di carcere si butta, con l’aiuto di Marlowe, alla ricerca della sua ex- bella che pare svanita nel nulla. Alla caccia partecipa una giornalista intraprendente, bella come un violino di valore… rossa, irlandese, gran pistolera. E’ sempre presente nel posto sbagliato al momento sbagliato come il giorno in cui si intrufola nell’ufficio

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VDBD N°1 di Marlowe e quando lui arriva alzò gli occhi e mi sorrise. Portava un vestito a giacca color tabacco e sotto un maglione accollato. I capelli alla luce del giorno erano castani e sopra aveva un cappello con una cupola grande come un bicchiere di whisky, una falda in cui si sarebbe potuta involtare tutta la biancheria di una settimana per la lavandaia… Aveva occhi azzurri con sfumature dorate e un bel sorriso… ma nonostante tutto ciò Philip la butta fuori. Poi abbiamo la straricca… sono tutte stra…queste donne. Stra in ogni senso… Povero Philip, se ne avesse incontrata una diciamo normale, forse gli sarebbe andata meglio. Ma anche questa è una bionda affascinante con occhi di lapislazzuli, i capelli avevano l’oro dei ritratti antichi. Aveva un insieme di curve e di forme che non potevano essere artefatte e questa persona stava dedicando a me uno dei suoi sorrisi… Insomma è un altro esemplare dei “mammiferi modello 103” celebrati da Buscaglione… Ma niente da fare perché è coinvolta in una storia molto sporca. Comunque, dopo una serie di avventure e disavventure, Marlowe riesce a trovare la fantomatica Velma… che bruna (finalmente) e fascinosa, dai capelli e dalle sopraciglia nerissime cantava con l’anima in un

locale di Baltimora… Alle sue spalle un passato da dimenticare e davanti un futuro improbabile. Infatti è ormai troppo tardi per tutto e Velma sigla la fine della storia suicidandosi mentre Marlowe recita uno dei suoi mesti finali. Era una giornata limpidissima e si riusciva a vedere lontano, lontanissimo. Ma Velma era andata più lontano ancora… E arriviamo a Il lungo addio, romanzo dalla trama pressoché indecifrabile ( come quasi sempre del resto e se non ci avesse aiutato il cinema…) sul tema dell’amicizia. E con un paio di prime donne d’eccezione. Eccone subito una a bordo naturalmente di una Rolls Royce, Sylvia, la moglie di Terry, quel giuda che poi tradirà Marlowe. Chioma tizianesca e sorriso remoto. Le fasciava le spalle un mantello di visone azzurro che quasi faceva sembrare la Rolls Royce una macchina qualsiasi… Sylvia però esce presto di scena assassinata dal maritino. Marlowe medita su questa storia in un bar ed ecco la seconda epifania. … era esile molto alta, portava un abito a giacca bianca con una sciarpa bianca a pois neri sul collo. Aveva i capelli d’oro pallido di una principessa delle fiabe, gli occhi erano di un colore fiordaliso, un colore raro

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celati da ciglia lunghe fin troppo bionde… Una visione tanto sconvolgente che Marlowe sprofonda in considerazioni psicofilosofiche sulle bionde. … ci sono bionde e bionde… c’è la bionda piccoletta e furba che cinguetta e l’imponente bionda statuaria che con uno sguardo azzurro come il ghiaccio ti mette con le spalle al muro. C’è la bionda che ti guarda dall’alto in basso e ha un buon profumo ed è tutta vibrante di luminosità che ti si attacca al braccio ed è sempre stanca quando l’accompagni a casa (ahi!). C’è la bionda tenera e accondiscendente e alcolizzata che non si cura di ciò che indossa purché sia visone purché la meta sia un night e vi si possa bere champagne… c’è la pallida esangue affetta da anemia di tipo non letale ma incurabile, è molto languida e parla con una voce che pare venire dall’oltretomba e non puoi toccarla neppure con un dito. (ancora ahi!) E infine c’è la bionda sfarzosa e spettacolare che seppellisce tre gangster e poi sposa due miliardari e conclude la sua carriera con una villa rosa pallido a Cap d’Antibes… Be’, amiche bionde, è chiaro che una qualche stra-lametta bionda è rimasta in gola a Marlowe, perché qui trapela tutto il disprezzo che in fondo lui nutre per il gentil sesso in quanto, ( com’era la storia

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VDBD N°1 della volpe e dell’uva?), in quanto l’unica cosa che riesce a consumare sono le parole e il whisky. E il disprezzo alla fine si palesa ancor più forte quando galantemente dice a una cliente… mettetevi un po’ di rosso sulle guance, siete pallida come una vergine che ha passato la notte con l’equipaggio di un peschereccio… Però torniamo al sogno seduto di fronte a lui nel bar. Non appartiene a nessuna delle categorie sopra-elencate e forse neppure a questo mondo… era inclassificabile. Una donna remota e limpida come acqua di montagna. Elusiva come l’acqua di fonte e parla con una voce fatta con la stessa sostanza che serve a foderare le nuvole estive... Ma benché attratto Marlowe non va oltre il bacio. Forse inconsciamente sa che la donna del destino deve ancora arrivare e infatti arriva, è Linda, sorella di quella Sylvie assassinata dal marito. E’ anche stramiliardaria. Un’altra stra… Un’altra bambolona bionda. I due si innamorano e arrivano alla insensatezza di sposarsi.

Ma questo avviene in un altro romanzo, l’incompiuto Poodle Spring, completato nel 1991 da Robert B. Parker. I due sposini vanno ad abitare in una megareggia da far invidia al sultano del Brunei, un trionfo del kitsch più spudorato, e che tra le altre meraviglie vanta una piscina dove potrebbe ormeggiare una portaerei e un letto matrimoniale dove si potrebbe giocare la finale di Wimbledon. Eccessi che al lupo solitario fanno uno strano effetto. Anche perché, Linda, con la classe che la distingue, non gli risparmia nulla… i tuoi tuffi mi costeranno milleduecento dollari al mese…. Oppure … ho depositato un milione di dollari ma tuo nome, puoi farne ciò che vuoi… Ma Philip Marlowe non se ne fa nulla. Anzi riprende a fare il suo sporco lavoro, a 25 dollari al giorno più le spese e l’unico lusso che si concede è quello dell’onestà. Infine decide di divorziare tenendosi però Linda come amante. Finale parkeriano ma

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forse un’idea geniale per far durare un rapporto. Finisce qui la carrellata anche se altre donne incontra Marlowe lungo il cammino. Però il cliché è fisso, sono, come abbiamo visto, per la gran parte bionde con occhi color del cielo e vestono tutte evidentemente dallo stesso stilista. E sono anche una bella congrega di delinquenti, perciò lui passa oltre. Il suo cuore però sanguina davvero solo nel finale de Il lungo addio quando si rivolge all’amico che lo ha tradito con queste parole: E’ stato bello finché è durato. Arrivederci, amigo. Non vi dico addio, vi dissi addio quando significava qualcosa. Vi dissi addio in un momento di tristezza e di solitudine quando sembrava definitivo. Be’, honni soit qui mal y pense, sembrerebbe, anzi è, la più bella dichiarazione d’amore mai uscita dalle labbra del nostro eroe. Foto di Giusy Calia

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PONTEGGI Ilaria Ciancilla LO SPECCHIO INFRANTO: i paradigmi della moda nel Nuovo Mondo I luoghi sfiorati dalla moda, siano essi la città, il mare, la montagna sono sempre luoghi assoluti, sono quell’ “altrove” di cui si deve afferrare di colpo l’essenza “diversa” che facilita il gioco del sogno. Umberto Galimberti, Il corpo.pag.211

La riflessione filosofica sulla postmodernità di fine Novecento e i filosofi che da essa partivano per affrontare, attraverso nuove chiavi di lettura, il presente, annunciavano

senza sosta la fine della modernità come concezione filosofica e antropologica capace di rischiarare orizzonti di senso e profili individuali. L’universo moderno stritolato dalla morsa di una economia e di una ipertecnologia sempre più globalizzate, alimentato dal primato della scrittura e dalla logica del pensiero razionale, sembrava sempre più assomigliare ad una foresta pietrificata. Oggi, il tramonto di quel mondo è giunto a

meglio dire nuovi padroni in grado di scardinare ciò che in passato costituiva il punto fermo sul quale costruire esistenze, certezze, ideologie e dogmatismi. Un concerto di nuove forze ha di fatto generato un orizzonte non trascendibile o aggirabile. Economia, tecnologia, scienza e soprattutto comunicazione sono le basi conclamate e acclamate sulle quali si regge il nostro sistema, capaci di dettare non soltanto le regole del consumare

conclusione.

quotidiano all’interno dei mercati globali, ma anche di intercettare pericolosamente i modi e i ritmi della nostra vita, invadendo non solo le labili barriere di esistenze

L’universo contemporaneo che alcuni definiscono post-umano, ha trovato definitivamente nuovi alleati o forse sarebbe

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VDBD N°1 sempre più parcellizzate, ma anche scardinando ogni concezione sociale e sicurezza professionale. Un universo attraversato, fin nelle sue fibre più profonde, dalla tecnologia: <<archivi di bit al posto di libri, scaffali sostituiti dai server elettronici, gallerie che lasciano il posto progressivamente a musei virtuali, teatri come infrastrutture di intrattenimento, scuole organizzate come campus virtuali, ospedali trasformati dalla telemedicina, prigioni sostituite da programmi di controllo elettronico, banche diluite nei servizi bancomat, grandi magazzini come centri commerciali elettronici, case ridotte a snodi elettronici>>.1 Un mondo quindi non solo più rapido, più controllabile e decifrabile da chi detiene le leve del sapere tecnologico e quindi governa i passaggi dell’economia digitale, ma anche e soprattutto un universo modellato e piegato inevitabilmente alle leggi del mercato e allo studio sistematizzato delle abitudini del consumatore. In una società alla ricerca di nuove frontiere scientifiche e di conoscenze da utilizzare per garantire lo sperimentalismo tecnologico e gli standard del consumo globale, la comunicazione con il suo bisogno pulsante di

emettere segni, di farsi segno per la ricettività altrui, diventa il medium privilegiato attraverso il quale il sistema mediatico veicola messaggi e immagini. Questi, correndo lungo le vie comunicative senza incontrare ostacoli devono bersagliare e imbrigliare ogni atto e pensiero dell’essere umano. Per l’individuo d’oggi non c’è più storia che valga, valore che conti, destino che pesi, ma soltanto la frontiera del nuovo. E’ possibile in una società come quella appena delineata, concepire un futuro alternativo? Isolarsi e rifuggire il modo attuale servirebbe a qualcosa? Sarebbe solo una obsoleta fuga dalla realtà. Dando per assodato che buona parte della società contemporanea vive e si alimenta di tutti i meccanismi sopra descritti, sarebbe meglio per l’uomo di oggi, non più “ad una dimensione”, affrontare il presente e il futuro accettando regole che non ha creato e ruoli che non ha scelto. Ma tutto questo ad una condizione: è necessario andare alla ricerca di spazi individuali di libertà e di creatività da costruire e da ricostruire. Il fenomeno della moda con il suo linguaggio, si inserisce pienamente in questo contesto e per le

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sue caratteristiche peculiari può essere un interessante tratto di snodo da studiare, un confine su cui analizzare criticamente le vie di questo nuovo mondo, una finestra aperta capace spesso di consentire uno sguardo sul futuro, in grado di offrire per la sua valenza simbolica e antropologica un ottimo punto di osservazione a discipline come la filosofia volutamente estranee ad un mondo che via via si è imposto. Adam Smith fu uno dei primi filosofi che si occuparono del fenomeno moda. Quest’ultimo sosteneva che oltre ad avere a che fare col gusto esercitasse una forte influenza anche sulla morale, anche se in maniera considerevolmente inferiore. Kant si occupò marginalmente della moda, fornendo una descrizione incentrata sui cambiamenti generali nelle abitudini di vita della gente. Di altro segno sembrano invece essere le sue abitudini e preferenze in materia di abbigliamento; pare infatti che il grande filosofo fosse noto nella sua città come “il maestro elegante”, che passeggiava indossando scarpe con fibbia argentata e camicie di seta. Il primo che dedica però un intero libro a questo argomento fu Simmel che nel suo La moda nel 1904 distingue tra moda e abiti,

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VDBD N°1 considerando la prima come un fenomeno diffuso applicabile a tutti i campi sociali, dove la moda non sono che un’istanze tra le altre. Gli abiti restano il punto focale della sua disquisizione, anche se l’uso della lingua, dei gesti e simili è anch’esso sottoposto alla moda. Una posizione simile assume il filosofo Gilles Lipovetsky, fornendo una definizione molto ampia della moda in cui si sottolinea con precisione come si tratti di un meccanismo sociale generale e non limitato solo ai vestiti. L’abbigliamento è secondo il nostro solo una delle tante manifestazioni della moda. Un’altra riflessione interessante è stata fatta dal semiologo Roland Barthes che pensa gli abiti come la base materiale della moda, mentre la moda in sé è un sistema culturale di significati. D’altro canto la moda non si limita a dominare superfici prive di profondità come gli abiti, ma si addentra anche nell’arte e nella scienza. Non solo, come osservò Simmel, esiste anche un forte collegamento tra moda e identità. La sua tesi è nota: i vestiti non sono solo una componente forte nella costruzione sociale del sé, ma sono qualcosa che noi dobbiamo scegliere in forza del nostro ruolo di consumatori, in quanto l’identità non ci viene più data dalla tradizione.

L’abito diventa così parte dell’individuo non qualcosa di esterno alla sua identità. Non solo più scudo per i corpi, gli abiti, come asserisce Helene Cixous, funzionano come il suo prolungamento. In un mondo in cui il sé diventa sempre più fluido, si tenta di esprimersi attraverso le apparenze esteriori e tali espressioni, non possono non dialogare con la moda. Oggi si è elevato la moda a principio? Forse, ma se è verissimo che esistono luoghi sulla terra dove le persone si sottraggono alle sue leggi, è vero altrettanto che noi viviamo in un contesto storico ed economico nel quale è impossibile restare immuni dal suo influsso. Penso perciò che la filosofia debba riflettere sul fenomeno moda, cioè debba analizzare criticamente sia il ruolo avuto dalla moda nelle modificazioni epocali fin qui intervenute sia e soprattutto sul linguaggio da essa adottato. Il risultato potrebbe essere una più approfondita visuale sul reale e un modello su cui riflettere per indagare il futuro.

Haute couture e sistema sociale I libri dedicati alla moda sono zeppi di definizioni del fenomeno, analisi sociologiche, stilistiche ed estetiche. In genere all’inizio o alla fine di

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ciascuno di questi testi, l’autore proclama il Novecento l’epoca della moda per eccellenza. Uno per tutti:<< Il secolo che abbiamo alla spalle è stato davvero il secolo della moda, del suo grande trionfo. Non probabilmente il secolo dell’eleganza, che forse fu il Cinquecento, né quello del lusso e del capriccio ( il Settecento), ma quello della moda, delle grandi oscillazioni del gusto guidate e dominate dalla personalità dei grandi sarti, couturier e stilisti. Le donne floreali di Poiret, le garconnes degli anni Venti, le immagini ingannevolmente semplici di Coco Chanel, i tulipani umani di Dior, le femministe con la gonnona a fiori e gli zoccoli, le donne manager di Armani…non c’è stato altro tempo con la stessa ricchezza di invenzione e analoga fantastica capacità di metamorfosi collettiva>>.2 L’ analisi di Ugo Volli evidenzia come la moda, dopo secoli di marginalità e funzioni decorative, ornamentali, nel Novecento comincia ad entrare nei meccanismi della riproduzione sociale. Prima di questa epoca vestirsi assolveva a due funzioni: coprirsi, cioè riparasi dal freddo proteggendo le nudità dallo sguardo altrui e segnalare lo status sociale, l’appartenenza ad una tribù, ad una cerchia, ad

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VDBD N°1 una classe. L’aspetto estetico naturalmente non era bandito, ma era tipico di un abbigliamento elitario e, comunque, non era mai fine a se stesso,l’eleganza di un cortigiano cinquecentesco certo riluceva, abbagliava, seduceva, ma soprattutto segnalava confini, distanze. Nel Novecento tutto cambia. La modernità industriale impone una riformulazione moderna di una tendenza tipica delle tribù: il feticismo. Il fenomeno, avversato dalla psicoanalisi e dal positivismo, assume come oggetto, nella società di fine Ottocento e inizi Novecento, le merci. Per Marx, il feticismo è il segno della cattiva coscienza di una classe che non si riconosce come tale e che pertanto cede dinnanzi al potere seduttivo delle merci, per poi trasformarsi in pubblico organizzato intorno alla pianificazione dei luoghi del consumo. Siamo agli albori del consumismo e la pulsione verso gli oggetti trasforma le cose: da realtà inanimate utili per un qualche uso, diventano feticci in grado di incarnare desideri, passioni, aspirazioni sociali. Una tendenza che si afferma in maniera decisa e che sul fronte della moda impone in maniera sempre più forte il ruolo estetico dell’abito. Vestirsi serve sempre a

segnalare un certo status, e una ricercata eleganza richiama l’appartenenza ad un particolare strato sociale, tuttavia, soprattutto a partire dagli anni Venti, la mano degli stilisti emergenti inizia a tratteggiare costellazioni di senso, non semplici geometrie per indumenti. Coco Chanel, in questa direzione, in questa direzione, è fondamentale. La stilista francese rivoluziona il modo di pensare << il busto e libera il movimento, scegliendo una linea pratica e funzionale, aliena agli ornamenti, che privilegia i materiali poveri come il jersey, e i colori neutri, il bianco, il blue, il beige. E fa dell’artificiale un valore, con l’uso barocco della bigiotteria e il privilegiamento dei profumi sintetici. Inventa uno stile e con esso un nuovo tipo di donna e di corpo, partendo da se stessa, dalla propria storia, dal proprio gusto>>.3 Per la prima volta, in maniera decisa, la moda ha un referente, l’universo femminile, non sovrapponibile ad una specifica classe sociale, per la prima volta le creazioni di una stilista riescono a scardinare la stretta relazione tra appartenenza sociale e vestiario. Gli abiti di Chanel non rientrano nello spettro di senso offerto dalle appartenenze di classe, il mondo gerarchico e verticale salta

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per aria e la stilista francese si rivolge direttamente a tutto l’orizzonte femminile. Per la prima volta la moda non ha una funzione tautologica rispetto alle grandi matrici di senso che hanno fatto la storia, ma traccia un segno autonomo, deciso, apre definitivamente il solco che distingue la moda dall’abbigliamento, la libera interazione di segni, sensi e senso dalla funzione razionale allo scopo. Chanel opera per ibridazioni, decontestualizzazioni, immette nel vestiario femminile elementi prelevati dal mondo del lavoro(tute), dal mondo maschile(il colletto alla marinara, il taglio corto del cappello), dal mondo della guerra ( le calotte che rimandano agli elmetti dei soldati), dallo sport (la gonna corta, i pantaloni). Insomma, contaminazione, incroci di genere e forme, una vera offerta di senso che passa per oggetti che vanno incontro ad una riclassificazione semantica e che offrono nuovi significati. Chanel apre u n danza destinata a segnare il secolo e a svolgersi compiutamente almeno fino agli anni novanta del 900’. Il primo ad accorgersi della forza semantica e filosofica della moda del Novecento è Roland Barthes. Per lui non vale il concetto di matrice

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VDBD N°1 marxista sul sex appeal dell’inorganico, sul feticismo delle cose, sull’uomo massa vittima della temperie consumistica, alienato in un mondo che lo sfrutta. Teorie filosofiche critiche, in linea con la psicoanalisi nel relegare il rapporto con gli oggetti nell’ordine della patologia psichica e sociale. Per Barthes la moda è un sistema che si differenzia dall’abito, oggetto di un sapere tecnologico, dall’ornamento, oggetto del gusto estetico. La moda è l’elemento comunicativo, il velo di senso che si posa sull’abito e sull’ornamento, un sistema di significazioni che si posa su oggetti inerti. Insomma, un vero tramite dalle cose al senso, una sorta di irradiazione. <<Nel codice vestimentario l’inerzia è lo statuto originario degli oggetti di cui la significazione è destinata ad impadronirsi: una gonna esiste senza significare, prima di significare; il senso che essa riceve è irradiante ed evanescente>>.4 La potenza del sistema moda è tutta racchiusa nella capacità di tradurre qualcosa di fisico, di oggettuale, di organico,in linguaggio,offrendo un’anima semantica alle cose, insufflando significato nel significante, usando attraverso il mondo della pubblicità e dei media, più piani

linguistici( tratto che la differenzia dall’arte).

Il trionfo dell’individuo

Il significato effimero e leggero del mondo della moda è destinato ad oscillare perennemente in una dimensione atemporale, estranea al passato e al futuro. Il corpo è investito in pieno dall’ondata di senso che promana dalla moda, anzi per Barthes è il vestito a dare senso al corpo, a farlo esistere. Il vestito non nasconde, non mostra, ma allude, valorizza, non esibisce, come una gonna corta che non ha la semplice funzione di mostrare il corpo, ma quella di imprimere in chi la guarda l’idea dell’audacia. Il corpo perciò per Barthes non preesiste al vestito, ma entrando in contatto con la moda assume una nuova natura, una seconda naturalità. Con la moda del Novecento, dunque, nasce una costellazione di significati, un linguaggio fatto di immagini, colori, parole, che coinvolge il corpo, l’immaginario e crea un percorso di senso che si inserisce nel mondo della comunicazione e va ad affiancare altri mondi di significato come l’arte, l'economia e la filosofia. Un cosmo parallelo che come vedremo, a partire dagli anni ottanta inizia a sconfinare e permeare altri linguaggi.

Gli storici della moda tendono a dividere il Novecento in tre fasi: la prima, quella analizzata in precedenza, caratterizzata dall’haute couture alla Chanel e capace di resistere fino alle soglie del 1968. A partire dalla temperie sessantottina fino agli anni ottanta si sviluppa una seconda fase caratterizzata dall’esplosione della moda giovanile, delle tribù metropolitane, dell’impegno politico con le sue divise d’ordinanza e i suoi strappi alle regole anche dal punto di vista del vestire. In questa fase la moda non ha un ruolo importante, infatti, in questo giro d’anni, il sistema moda non muta aspetto, anzi perde terreno per l’imporsi dei linguaggi dell’ideologia, di cogenze e temperie poco inclini all’effimero e all’apparenza, e molto orientate ad intercettare le concrete linee del divenire storico e materiale. Più utile, indagare un decennio cruciale per la moda: gli anni ottanta. In questo periodo si assiste ad una rivoluzione che ha al centro una nuova forma di individualismo, alimentato dall’esplosione della tecnologia e dalle prime mosse dell’informatica di massa. Per la moda si apre una fase decisiva. L’alta moda

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VDBD N°1 volge al tramonto e albeggia l’era del pret à porter : gli abiti degli stilisti, carichi di significati che, come abbiamo visto, Barthes gli attribuiva, fuoriescono dai circuiti vertiginosi ed elitari del passato ed invadono la società. Esempio più rilevante della nuova scuola è Giorgio Armani: la destrutturazione della giacca è la principale mossa dello stilista italiano, accompagnata dalla scelta dei colori tenui. Obiettivo: creare un nuovo modo di vestire, simile a quello di un dandy, per cui<<con l’abito ciò che viene proposto è una nuova identità, e un nuovo modo di pensare il corpo, che acuisce morbidezza e sensualità, un corpo giovanile, femmineo. Per questo Armani è stato definito negli Stati Uniti il primo stilista postmoderno, dato che il postmoderno destruttura l’opera d’arte, l’architettura, i linguaggi, i saperi>>.5 Armani più che una moda propone uno stile, un total look, classico e immutabile nel tempo. Il gioco linguistico della moda in questa fase diventa pervasivo, alimenta sogni e fa della griffe una luccicante matrice identitaria. Sulle rovine dell’impegno politico, sulle spoglie del sogno di poter dettare il ritmo agli eventi storici, prende vita un mondo segnato

dall’effimero, dal brillio fatuo del disimpegno a sfondo estetico, con la moda a scandire le stagioni del nuovo corso. Gli stilisti non parlano più alle elites, ma costruiscono senso per tutti o quasi. Parlano un linguaggio che non è più caratterizzato solo dalla scrittura, dalle didascalie,( come pensava Barthes che analizzava il sistema moda in un periodo ancora segnato dal prevalere della cultura scritta) ma si giovano della spinta offerta alle loro creazioni dal medium televisivo e dal pressante battage pubblicitario che si imponeva grazie al nuovo dominio della cultura iconografica. Il cinema in quegli anni non si dimostra impermeabile al linguaggio della moda. In American Gigolo Richard Gere veste Armani, e, non solo ha un rapporto quasi feticistico con i capi griffati, ma:<<giacche, camicie, cravatte, prima tolte con amore di cassetti, poi allineate con ordine sul letto e accarezzate ripetutamente dalla macchina da presa, fanno qualcosa di più che esibire la loro morbida e invitante sinfonia di tesuti, colori, sfumature e istituirsi come oggetto del desiderio: si animano, prendono forza prima di venire indossate, cominciano a vivere di vita propria e, grazie ad un ribaltamento del punto di vista della macchina da presa, sono loro a guardare Julian>>.6

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Insomma un decennio segnato dal dominio assoluto del mondo dei segni, del linguaggio, anche per la debolezza degli altri universi di senso e per il complessivo ritorno al privato degli individui. Negli anni Novanta la tendenza sembra invertirsi, soprattutto nel primo quinquennio. Ma è solo un’illusione ottica. Certo le grandi firme che hanno popolato l’immaginario collettivo nel decennio precedente hanno perso quota a favore di un minimalismo che rifiuta ogni luccichio e cerca una nuova dimensione sottotraccia. Sui giornali fa capolino l’idea che il sistema moda sia arrivato al termine, che uno dei principali fenomeni degli anni ottanta stia tramontando per lasciare posto a nuovi modelli sociali, più direttamente legati alle istanze materiali del vivere civile e meno vincolati ad un sistema che fonda se stesso su un fuoco di fila di segni pervasivi. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che giocano a favore della moda e che nel nuovo secolo esploderanno con tutta la loro forza: informatica, televisione sempre più dominata dai messaggi pubblicitari, diffusione a tutti i livelli di tassi altissimi di tecnologie.

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VDBD N°1 Il nuovo secolo: tutto è moda Nell’introduzione a questo lavoro abbiamo tratteggiato i confini del sistema dominante la società del nuovo secolo: le certezze del sapere scientifico si traducono in scelte tecnologiche che pervadono in maniera sempre più intensa il vivere quotidiano, il tutto all’insegna di una ragione economica senza più confini, capace di spaziare nel contesto globale grazie ai vecchi e nuovi media. Questo sistema ha una subdola potenza creativa: genera modelli sociali, monopolizza il tempo libero, crea immaginari plurimi, frammentati. Non siamo di fronte ad un fenomeno di massificazione e omologazione, come la vulgata marxista temeva, ma all’esplodere delle differenze e alla definitiva implosione di stili di vita coerenti. Il tutto però all’insegna di precise ragioni di mercato. Il moltiplicarsi dell’offerta economica e il pullulare di sistemi informativi capaci di proporla e differenziarla, ha richiesto la parallela esplosione di stili di vita e di consumo. Comunicazione, rapidità, leggerezza, sono i valori cardine della nuova temperie. Ma, soprattutto, l’essenza della rivoluzione tecnologica si condensa in un fatto molto semplice: gli oggetti ci parlano, ci

controllano, ci curano. La tecnologia ha vinto la sfida contro l’inorganico, ha donato l’anima alle cose. Barthes negli anni cinquanta parlando di un nuovo modello della Citroen scriveva:<< C’è facilmente nell’oggetto una perfezione e insieme un’assenza di origine, una chiusura e una brillantezza, una trasformazione della vita in materia (la materia è assai più magica della vita), e per dir tutto un silenzio che appartiene all’ordine del meraviglioso>>.7 Ebbene, la tecnologia elettronica non solo trasforma la vita in materia, ma opera un secondo passaggio, dalla materia alla vita, tanto che le creazioni su base informatica hanno ormai ottime capacità di interagire con gli esseri umani e alcuni ipotizzano per il futuro, stili di vita totalmente assorbiti dal rapporto con elementi informatici. Poste queste ulteriori premesse dobbiamo chiederci in che rapporto stia la moda con questo sistema. In primo luogo va detto che anche la moda del nuovo secolo è andata incontro ad un processo di destrutturazione paragonabile a quello dell’identità individuale: le griffes un tempo polo identitario per i più, continuano ad esistere, ma sono state assorbite dal pullulare degli stili. Tuttavia la società del consumo si è giovata del

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meccanismo d’attribuzione di senso tipico della moda. Se venti anni fa il linguaggio della moda era fondamentale ma pur sempre settoriale, adesso si può dire che ogni settore del consumo, dai beni ai servizi, opera una risemantizzazione dei prodotti che offre. Oggi consumare non significa più andare alla ricerca di beni, ma di segni, come accadeva a chi indossava abiti alla moda nella visione di Barthes. Gli oggetti del vivere quotidiano sono ricoperti da una patina di significati:<< Abito, pettinatura, trucco, diventano segni spettacolari dell’affermazione dell’io, nuova sensibilità estetica del modo di abitare e fare vacanze, estetizzazione dell’esperienza>>.8 Ogni merce comunica, esprime un insieme di messaggi che va oltre il concreto uso che di essa si può fare, come accadeva ai vestiti liberatisi dal rapporto referenziale con lo status sociale e con l’uso. Le esperienze del nuovo sono fatte di sensazioni plurime: immagini, suoni, profumi, piaceri tattili. Insomma, pare non contare più testimoniare appartenenze sociali ormai divelte, né orientare il consumo razionalmente allo scopo, ma entrare in una nebulosa di segni, lasciarsi trascinare in un gioco di

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VDBD N°1 rimandi sensoriali culturalmente del tutto effimeri, ma comunicativi, condivisi, veicolati dai media e in grado di definire gruppi accomunati dal medesimo orizzonte. Infine, ogni esperienza offerta dal mondo dei consumi, è destinata a durare poco, a diventare opaca in maniera repentina, a perdere capacità comunicativa. Siamo di fronte ad un eterno presente, unica categoria temporale adatta a questo universo senza tempo, dove vivono uomini sradicati ormai dalla storia, dalle tradizionali appartenenze culturali e anche politiche. In un mondo di questo genere, appeso alla leggerezza delle immagini, al ritmo veloce dei saperi, della moda in senso stretto che ne è stato? Se la società ha prima subito l’invasione della moda, per poi diventare moda, di quest’ultima è restato qualcosa? Il sistema della moda è ormai distinguibile dalla civiltà della comunicazione, del consumo e della tecnologia?

La moda oltre il presente La moda ha senso soltanto se sporge sul futuro, se incarna, come abbiamo visto per il passato, nuove prospettive. Allora, se da

un lato il mondo della comunicazione e del consumo si orienta nella direzione “esperienziale” di cui prima, sviluppando nuovi stereotipi capaci di essere analizzati dalle analisi di marketing, d’altro lato l’universo moda guarda già oltre e prende di mira l’ultima frontiera rimasta in piedi: la distinzione dei generi. <<La moda gioca allo scambio delle identità sessuali, sviluppando modelli androgeni…si fa pura indistinzione,libera sovrapposizione di stili>>.9 Gli stilisti sanno di non poter parlare più attraverso i simboli di una volta sanno che una costellazione di senso che si rifà alle griffes è al tramonto anche se i pubblicitari non se ne accorgono. Chi fa moda oggi pensa già all’uomo del futuro e lo vede inclassificabile socialmente e sessualmente, frutto di contaminazioni esasperate. Non è un caso se ogni sforzo tecnologico sia volto ad individuare meccanismi di controllo capaci di creare una rete immateriale per prevenire ogni movimento di un uomo sempre meno sondabile. Non è casuale se anche certi settori della moda offrono accessori dotati di congegni ad alta tecnologia. Ebbene, se una parte del mondo della moda punta sulla tecnologia e sul controllo, gli stilisti più all’avanguardia sanno che

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tra qualche anno diventerà impossibile delineare i confini degli individui, classificarli e capirli. Cercando di moltiplicare all’infinito i tipi, i segni, la moda ha capito di esser di fronte ad una generazione che ha iniziato a fare segno, a farsi portavoce del proprio stile in modo autonomo. Il fenomeno moda è arrivato al capolinea? Se il mondo del consumo svolge in questa fase una funzione conservatrice volta a preservare modelli o a crearne di controllabili, grazie ai famosi studi sui consumatori, il mondo della moda, ed in questo consiste forse la sua unica indipendenza rispetto al mondo economico e consumistico, non teme di andare incontro ad individui inclassificabili proponendo contaminazioni al confine con l’anarchia estetica.

Conclusione Percorrendo a grandi linee il mondo della moda del Novecento abbiamo potuto vedere come questo sia andato incontro a numerosi cambiamenti, all’inizio profondi e poi via via sempre più settoriali. Il linguaggio della moda in questa epoca ha cambiato più volte il suo potere semantico. Se gli abiti all’inizio potevano rimandare ad una certa appartenenza sociale e

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VDBD N°1 costituire un mezzo per la costruzione del proprio sé sociale, nella seconda metà dell’epoca considerata questo orizzonte di senso capace di esprimere ancora ruoli, appartenenze, regole condivise, implode inesorabilmente, aprendo il sistema moda al mondo della comunicazione e della pubblicità, dilagando nell’immaginario attraverso il sistema delle griffes, e perdendo la sua profonda vicinanza con il mondo dell’arte per soggiacere a precise ragioni economiche e commerciali. Un sistema

che oggi è arrivato al suo culmine e sembra sempre di più dialogare con il mondo della tecnologia e degli oggetti, della comunicazione e delle sue derive. In acuto contrasto con il timore dell’omologazione, espresso dalla scuola di Francoforte, la moda oggi, opera un criterio esattamente opposto: un iperdifferenziazione. Di fronte ad una società liquida, dove ogni orizzonte di senso sembra ormai segnato dall’effimero e dal

molteplice, la moda assiste senza prenderne le distanze al decentramento del soggetto contemporaneo e alla dissoluzione della sua identità. Sembra ormai finita l’epoca del linguaggio della moda così come lo concepiva il semiologo strutturalista Roland Barthes e sembra invece ormai alle porte la costruzione di un nuovo non-linguaggio che dice che viviamo in una realtà sempre più fittizia, che coltiviamo la superficie e abbiamo un’ identità sempre meno durevole e circoscrivibile.

* Foto di Giusy Calia Note 1 Patrizia Mello, Meditazione tecnologica e carattere di transitività degli spazi, Mimesis editore, Milano,2000, pag. 126-135 2 Ugo Volli, Block Modes, Lupetti,Milano, 1998, pag.8 3 Eleonora Fiorani, Abitare il corpo: la moda, Lupetti, Milano, 2004, pag.56 4 Roland Barthes, Il sistema della moda, Einaudi, Torino, 1970,pag.15 5 Eleonora Fiorani, Abitare il corpo: la moda, Lupetti, Milano, 2004, pag.108 6 5 Eleonora Fiorani, Abitare il corpo: la moda, Lupetti, Milano, 2004, pag.109 7 Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino,1994, pag.147 8 Eleonora Fiorani, Abitare il corpo: la moda, Lupetti, Milano, 2004, pag.171 9 Eleonora Fiorani, Abitare il corpo:la moda, Lupetti, Milano, 2004, pag.206 Fonti bibliografiche Lars Fr. H. Svedenson, Filosofia della moda, Ugo Guanda Editore, Parma, 2006 Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli,Milano, 2002 Franco La Cecla, La moda rende felici, Ponte alle Grazie, Milano,2007 Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, BUR,Milano,1995 Georg Simmel, La moda, Editori Riuniti,Roma, 1985 Gilles Lipovetsky, L’impero dell’effimero, Garzanti, Milano, 1989

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VDBD N°1

che la lettura dei suoi lavori ci ha sollecitato. Rosanna Sanfilippo, nel suo intervento GLI SCRITTORI DI SALEMI, nelle circostanze del Convegno POESIA, NARRATIVA, SAGGISTICA IN PROVINCIA DI TRAPANI organizzato

GIARDINI Marco Scalabrino MARIA FAVUZZA Maria Favuzza nacque a Salemi TP il 24 Dicembre 1901 e morì il 14 Febbraio 1981. Il tempo nondimeno, i 26 anni trascorsi dalla sua scomparsa, non ne hanno affievolito l’affettuoso ricordo in

quanti l’hanno conosciuta e amata, né ne hanno sbiadito la levatura del poeta. Privilegeremo, giacché questa sede e questo ruolo ciò richiedono, il profilo culturale della Nostra, con specifico riferimento alla sua poesia in dialetto, appellandoci, per la “ricostruzione”, alla pluralità dei suggerimenti

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dall’I.S.S.P.E, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, presieduto dal compianto Dino Grammatico, convegno svoltosi ad Erice il 10 Giugno 2001, la omaggiava in questi termini: <La sua è una poesia semplice ed immediata. Sentimenti e figure di vita paesana e familiare vengono raccontati rendendo partecipe il lettore di ogni più piccolo gesto rituale.> Ma già nel 1976, a riconoscimento della validità del suo dettato, Gioacchino Aldo Ruggieri l’aveva inclusa nella raccolta di poesia dialettale inedita o poco nota dell’Ottocento e Novecento da lui curata e titolata AMORE DI SICILIA, assieme con nomi all’epoca quotati quali: Emanuele Angileri, Liborio Dia, i Fratelli Giangrasso, Mariano Lamartina, ed altri. E nel medesimo anno 1976 aveva visto la luce a Palermo la sua silloge POESIE, dalla cui prefazione traiamo: <I suoi versi esprimono la rievocazione nostalgica di

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VDBD N°1 un mondo che ha cambiato volto, dove non c’è più posto per gli ingenui incanti che una volta consolavano le esistenze semplici e affaticate.> Per ostili congiunture sulle quali sarebbe fuori luogo indugiare, Maria Favuzza non poté conseguire, come le sorelle, il diploma di Maestra. Impiegata presso l’Ufficio Registro di Salemi, seppe comunque dotarsi dei mezzi linguistici e culturali atti ad esprimere in un buon Italiano la propria Weltanschauung. Ebbene, perché il Dialetto? La risposta credo sia semplicemente perché <quell’arcobaleno di ricordi, variegato di tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita>, quelle poesie, nate col deliberato proposito di fissare esperienze e sensazioni, sono state concepite giusto così, sono state scritte in Siciliano perché il suo sentire era siciliano, i suoi pensieri nascevano in siciliano, il suo animo era convintamente siciliano. D’altronde da tempo gli studiosi ribadiscono che il dialetto “come alternativa semantica alla caduta di potenziale espressivo della lingua e della letteratura ufficiali, non è più portatore di cultura subalterna, che si è innalzato alla ricerca di contenuti e di forme su più vasti orizzonti di pensiero, che non costituisce più una ragione di isolamento. Anzi, l’urgenza espressiva

del dialetto tende a capovolgere i rapporti con la lingua illustre e ci appare oggi su posizioni più autenticamente rivoluzionarie rispetto ai logori, stereotipati moduli dell’ufficialità letteraria.” E pertanto la sua predilezione del Dialetto è da stimare una opzione pienamente responsabile. MUDDICHEDDI, la sua opera più apprezzabile sia per la quantità che per la qualità dei contributi e dei temi, di cui per stralci discorreremo, pubblicato nel 1985, risulta essere un libro postumo. Un omaggio, vedremo, doveroso quanto meritato. Il titolo, ad un primo acchito, parrebbe discendere dall’omonimo brevissimo testo a pagina 75, nell’accezione di briciole, piccolissime dosi di checchessia; ma, invero, esso ritengo abbia inteso delineare l’atmosfera minimale che regola l’antologia nella sua interezza; quantunque, constateremo, i rimandi, le seduzioni, le prerogative travalicano poi di fatto quella esteriore etichetta. Sostenuto dalla famiglia dell’Autrice, la quale ne ha evidentemente voluto rispettare la volontà: <Non strappate il mio mondo fatto di carta. Ogni parola, purificata nel silenzio, allontana ogni colpa, diventa fiore azzurro bagnato di cielo>, MUDDICHEDDI, con prefazione di Calogero Conforto, è stato

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stampato, a cura del Circolo di Cultura “Buoni Amici” di Salemi, dalla Cored Edizioni di Mazara del Vallo. Il libro si apre con il componimento A SALEMI, nove quartine di endecasillabi (verso, l’endecasillabo, che Ungaretti definì “la combinazione elegante delle nostre parole”) con rime alternate ABAB. Un idilliaco messaggio d’amore e di appartenenza alla sua città, <muntagnedda duci / c’hai l’aria frisca …. chi porta … ciavuru d’erva, menta, alufareddi ... (e) lu celu assunnateddu lu talia>. Un testo manifestamente tenero, in ciò assecondato da un copioso ricorso a diminutivi e a vezzeggiativi – peraltro largamente diffusi in tutta la sua produzione – il cui programmatico utilizzo palesa la connotazione di leggiadria, di indulgenza, di benevolenza nonché di intimità, riservatezza, infinito prossimo da cui scaturiscono i versi. E con questa accentuazione invero essi ci vengono offerti dall’Autrice, ancorché l’ortografia, con qualche particolarità di cui tra poco diremo, esibisce sostanziali accuratezza e coerenza; fattori questi che consentono loro di aggirare le insidiose secche del vernacolo. Il tema, benché con un taglio più squisitamente storico, è

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VDBD N°1 ripreso nel testo dal titolo LU ME PAISI: <Scunfittu e assicutatu lu Burbuni, / la prima dittatura pruclamata / di Garibaldi assemi a li Picciotti, / Salemi, frac e tuba, l’ha firmata.> L’argomento tuttavia non è, per Maria Favuzza, di quelli che si esauriscono sbrigativamente, ed ecco un terzo componimento, CENA DI SAN GIUSEPPI, viene indirizzato a Salemi, <lu caru me paisi> colto stavolta all’insegna del fervore religioso, della devozione spirituale che si combina alla larga adesione popolare. E Maria Favuzza allestisce una minuziosa e baluginante descrizione della Cena di San Giuseppe, celebrazione che si svolge nel giorno della festa del santo il 19 Marzo e che lei rende dinamica, icastica ai nostri occhi, ben oltre qualsivoglia depliant turistico: cena di <fidi, oduri, / grazii. Di fulcluri tramannatu, / di genti timurata.> Ma, scontato il fatto che “l’essere siciliana” è la dimensione in cui i fatti della sua poesia avvengono e che il Dialetto è l’essenza che tale “dimensione” incarna, quali sono i contenuti e le forme della sua poesia? Che rapporti ebbe con l’ambiente dall’agone linguistico che vivacizzò il panorama della poesia siciliana tra gli anni Cinquanta e Sessanta con

le querelles, allora assai avvertite e adesso pressoché sopite, su Koiné, Rinnovamento, Ortografia e sulle questioni letterarie che ne conseguivano? I testi immediatamente successivi a quello d’apertura investono subito il nucleo dei motivi che più hanno fatto vibrare le sue corde: gli affetti e il focolare domestico, la “roba”, il lavoro e tutto quanto a questi mondi collegato. La naca … lu cucchiaru, la piattera, li luma, la campana …, e poi tazzi, bucala, cicari, bicchiera … ‘nciratina … gli oggetti della vita familiare, la “misura” dell’esistenza quotidiana. Realtà dura, <Setti rispiri dintra na casuzza / si spartinu lu lettu / e lu panuzzu>, che è sì povertà ma anche dignità, che sa coniugare la drastica pratica con un atteggiamento di fiducia, nella quale la Natura con il suo variegato campionario di flora e di agenti naturali: nuvole, vento, cielo … domina e il sole, astro primeggiante, nel suo vessillo di luce, di calore, di vita dunque, rischiara, riscalda, rincuora. Habitat che mi fa sovvenire un altro autore a me caro: il castellammarese Francesco Leone, nei metri del quale come in Maria Favuzza, si ravvisano, in tutta la loro spietata crudezza, i tratti eloquenti di un sofferto

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vissuto, specie negli anni tra le due guerre, marchiato da <miseria, disoccupazione, emigrazione>; <tempi angariusi> quando, annota Francesco Leone, il pranzo consisteva di <un peri di brocculu e pampini, taddi e civu di lu trunzu p’aumintari la dota.> E, malgrado la vita sia <na giostra chi stenta a girari>, <dintra la casa, ridinu li cosi>, <Annea la pasta e nta lu vugghiu abballa>, <c’è ciavuru di sarsa e finucchieddu.> Lo sguardo di Maria Favuzza avvolge carezzevole, elenca, nomina quelle cose, la sua penna le ferma, le scrive, le imprime sulla carta, nella volontà, nella responsabilità di perpetuarle, più che per sé per gli altri, per quelli che verranno dopo, per coloro che a quel contesto storico, sociale, culturale non sono appartenuti o sono appartenuti solo di striscio, e non avranno perciò modo di conoscerlo, di viverlo tranne che ripercorrendolo nel verbo immortale del Poeta (“può morire Giove – Carducci docet – ma l’inno del poeta resta”). E, dicevamo poc’anzi, il lavoro, in un’epoca in cui le macchine erano un miraggio e l’uomo svolgeva le proprie occupazioni, che connaturate alla oggettività rurale del territorio e del tempo erano principalmente

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VDBD N°1 quelle dei campi, con il solo ausilio degli animali: uno per tutti LU SCICCAREDDU DI LA SENIA, remissivo, pasinziusu, <cu l’occhi binnati>, che un giro dopo l’altro <sciogghi na canzuna a lu silenziu di la sira.> In tale clima, lirico quanto realistico, nostalgico quanto attento alla ineluttabilità del mondo in travolgente evoluzione, concreto quanto orientato alle istanze dello spirito, si innesta il recupero di un lessico svigorito o di imminente declino: iffula (matassa), caiuna (dirupi), pilusci (pellicce), chiumazza (materassi), ragnola (grandine), balacu (violacciocca), sciavateddri (mufuletti), sagnaturi (mattarello), ammartucata (debilitata), mirriuni (fazzoletto annodato alla nuca), trubeli (tovaglia da tavola), lungo il monito di Pietro Tamburello per cui <ogni palora persa / ‘n‘anticchia di Sicilia si ni va.> Ci sono delle immagini ricorrenti nella poesia di Maria Favuzza: <lu patri (chi) torna versu sira>, <lu cani (chi) abbaia>, la pasta <stisa a li canni>, a comprova che questi frangenti attenevano a quel vivere, al vivere suo e a quello dei suoi coevi. La figura sociale del padre, peraltro, è ben assidua nella sua produzione al pari della

figura della madre. Quanto a questa, la quale <tinia d’occhiu lu porcu, li addrini, / lu furmentu>, il fare la calza con gli aghi, <busi (che) chiacchiarianu … agghiuttinu cuttuni> e fanno crescere <la quasetta>, non ne alleviano la pena allorquando, come spesso avveniva e tuttora avviene alle nostre latitudini, lei vede il proprio figlio andare via, emigrare in cerca di fortuna. Quel cammino della speranza piuttosto, quella “fuga” in terra straniera, quell’andare <senza turnari chiù>, è da lei percepito col dolore di chi sente calpestare la propria persona, diviene <lamentu longu, senza na palora>, <chiantu / chi si sicca nta la manu>. Ma il suo è un caleidoscopio riccamente mutevole: una affascinante, femminile, riedizione mitologica della Sicilia, in base alla quale essa ha avuto origine da uno scialle che la luna <avia supra li spaddi> e che un <ventu vagabbunnu … c’un sciusciu> fece cadere sul <mari cristallinu> dispiegandolo a forma <di tri pizzi arriccamati>; <lu trangulu>, da “tranguliari” nella nozione di scuotere con forza, scrollare, traballare, il tipico movimento che accompagna, all’armonia delle <cianciani> e delle <canzuni>, il passo del carretto, <trufeu anticu>,

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tirato dal cavallo impennacchiato e condotto dal <carritteri cu la zotta ‘manu>; la malinconica percezione, non esente da una vena di rimpianto, di un mondo agreste che non è più: <lu trappitu, la mola, l’aratu, li vamperi, la rasula, lu tripporu … li casi di lu feu petra su petra / caderu a pezzi, ‘mmezzu la campagna>, e di esso, <chi di biancu vistia amuri e cori>, <sulu lu riordu tampasia>. Quanto detto parrebbe a sufficienza promuovere la poesia di Maria Favuzza, ma … <È la forma – sostiene Attila József – che fa l’arte, benché il carattere artistico essa lo riceva dal significato, dal contenuto>. E allora sfogliamo insieme alcune delle formulazioni della sua poesia: l’immagine graffiante di <La terra vugghi / di caluri e ciàvuru>; l’illustrazione dei giochi innocenti dell’infanzia, fatti di poco, quando non addirittura di nulla e, cosa più di ogni altra, condotti all’aria aperta: <na nuvula ... cuntenta chi na petra … po dari tanta gioia ad un nuccenti … na stidda … caduta di lu celu … fatta di lanna lustra di pignata>; il quadro immaginifico per cui, partendo da spunti esili che le virtù del poeta elevano a dignità d’arte, <nta na stratuzza funna e silinziusa>, il sole scende

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VDBD N°1 ammirato a giocare con un gruppo di ragazzi. Un componimento, NTA NA STRATUZZA, di grande perizia, da leggere con dedizione, con coinvolgimento, con riguardo alle scansioni, al fine di assaporarne la tensione lirica, penetrarne i gradi di invenzione, condividerne la meraviglia della icona. Un convinto plauso a uno tra i testi migliori della crestomazia al quale nella sua interezza vi rimandiamo e di cui, solo a mo’ di assaggio, si riporta una quartina: <Nta na stratuzza funna e silinziusa, / c’è sciamu di picciotti ed alligria; / lu suli scinni a fari assemi un gniocu, / s’assetta a lu bastiuni e li talia.> E per arrotondare questa rapida rassegna: <lu pani di casa … (chi) ogni simana ‘n casa si facia.> Una festa di gioia e di bontà da seguire passo passo, in cui, nelle circostanze delle festività: Natali, Pasqua, Carnalivari … che nel corso dell’anno si susseguono, si imbandiva <lu tavuleri> con <ficusicchi, sfinci, cucciddati, tagghiarini, stufatu …>, e leggendo e vedendo, e calandoci senza resistenza in quell’ologramma, ne seguiamo ed apprendiamo il procedimento di preparazione, ne percepiamo la fragranza, ci sale l’acquolina in bocca, sentiamo e cantiamo,

stando a ridosso del forno, la supplica che accompagna il culto con l’invocazione dei santi Antonu, Zita, Sidoru, Antuninu, Ati e Nicola. Ma il rito è propizio per manifestare agli altri, alla <vicina incinta>, alla <cummari c’avia figghi>, attorno al pane, ai cuddrureddra, sciavateddri, miliddri … quei sentimenti di solidarietà, amicizia, calore umano che contrassegnavano la fetta più sana delle nostre comunità; Curcatu lu silenziu supra un ciuri / svigghiava na nuttata di suspiri, / svigghiava na nuttata di duluri / e larmi, persi mmezzu a tanti spini>; <lu sicchiu pinnìa / supra lu puzzu … stancu di li scinnuti e l’acchianati.> Seducente il fotogramma <lu sicchiu … stancu di li scinnuti e l’acchianati>, come se fosse il secchio – ve lo figurate! – a dovere autonomamente procedere su e giù per il pozzo e non già il volere dell’uomo ad obbligarlo a forza a quel compito e a quell’andirivieni, non fosse viceversa l’uomo a provare quella spossatezza che, magari a causa delle condizioni di canicola estiva, tale attività determina. E arriviamo, zoomando tra le pagine sia di MUDDICHEDDI che di POESIE, agli esiti più

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allettanti e a qualche peculiarità. <Lu jornu ... s’attacca ‘ntesta un fittu scuru velu> e un uccello cerca di <biccarisi lu celu / cadutu nta na zotta chi spicchia.> Strabiliante affinità con le soluzioni cui pervenne Nino Orsini: <Na zotta d’acqua … (è) sbalancu di celu a li me’ pedi>. Chi è Nino Orsini? Suo contemporaneo, del 1908, è stato uno dei protagonisti della stagione, tra il 1945 e la metà circa degli anni Cinquanta, contraddistinta dal movimento di giovani poeti dialettali palermitani e catanesi, denominata RINNOVAMENTO DELLA POESIA DIALETTALE SICILIANA. Indice esplicito

che taluni artisti, nel loro individuale iter di ricerca – non mi risulta difatti, dalla mia frequentazione letteraria di Nino Orsini, che quest’ultimo e Maria Favuzza si conoscessero o conoscessero i rispettivi materiali – approdano sorprendentemente, per maturazione artistica non dissociata dall’“umore” dei tempi, a risultati innegabilmente simili. <Pinzeri virdi>, <scruscinu l’anni e comu chiummu pìsanu>. <Pinzeri virdi>, parafrasando una memorabile frase, è “un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per la poesia dialettale siciliana”. Una, tra virgolette, rivoluzione legata sì alla

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VDBD N°1 fase della realizzazione, della scrittura, della traduzione del concetto in superficie vergata, ma che è compiuta già prima, e più, nel medesimo istante del concepimento dell’inconsueto accostamento tra pinzeri e virdi, nella specialità del timbro, nella suggestione, nella rigenerata energia che dalla aggregazione tra pinzeri + virdi si statuisce. Un sovvertimento, nella concreta esecuzione del suo “strumento necessario”, nella locuzione autenticamente siciliana, nell’efficace dispositivo analogico, nella sublimazione del frasario quotidiano: <na casa / ntilarata di lacrimi e di risa>, <lu ventu arruzzulìa la megghiu vita, / dintra ‘na lanna vecchia ammattucata>, ovvero: <Scinnia la luna cu scarpi di sita>, <trova lu ventu mazzi di risati>; <La primavera dormi tra li ciuri.> Parole. Ma, parole che nell’alchimia del Poeta si animano, s’ammantano di costrutti che eccedono la loro semplice lettera; lemmi comuni che nel loro inusitato codice compongono scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente singolari, assurgono a originale tramite retorico con cui il Poeta restituisce – l’affermazione è di Viktor Borisovic Šklovskij – la <visione autentica del mondo>.

<La luna a la finestra di lu celu / spampina leggi veli di palluri.> Molti incipit di Maria Favuzza sono incisivi sotto il profilo dell’estro, del richiamo fonico ed emotivo, della enunciazione innovativa della cifra poetica. C’è una felice combinazione, che di certo non poteva essere casuale, un mix avvincente che nel trapanese ne fanno per l’epoca un raro, se non esclusivo, archetipo di autore incline a destreggiarsi fra la solidità della tradizione, fatta di rime, prevalente uso dell’endecasillabo, valori che pescano (bene) nel solco e nella saggezza della poesia popolare, e lo spirito, l’attitudine ad innestare in quel solco le piantine che daranno nuovi frutti, quindi forme, e nuovi colori, odori, sapori, quindi contenuti. La suddivisione, ovviamente, non è così netta e le due anime convivono fianco a fianco nello stessa cartella, si ammiccano a distanza nella stessa selezione, coesistono scambievolmente tollerandosi: in sintesi, tradizione e formalizzazioni liriche avanzate che si frappongono. TEMPU DI NATALI. Questo componimento a pagina 55 di MUDDICHEDDI è altresì compreso, in una stesura diversa, nel più lungo e

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articolato componimento racchiuso nel volume POESIE dal titolo LI FICUSICCHI, di cui è la sezione conclusiva. Come ne fosse un estratto, spicchio pregevole tanto da emanciparsi e da spiccare il volo in solitaria. E, giacché ci siamo, un ulteriore testo: ANTICU CANTU, appare su entrambe le antologie, pure esso con delle differenze. Nessuno scandalo! Non è forse l’assillo dei veri poeti non reputare mai del tutto licenziata la propria opera, tendere ad un costante esercizio di revisione a fronte di accresciute conoscenze, emendate sensibilità, adeguati entusiasmi, compiere una incessante auto-analisi stilistica ed ideologica al fine di “sgriciari la pirfizioni”? Già per Orazio vigeva la norma del limae labor et mora, per Rolando Certa: <La poesia è un continuo divenire, una ricerca costante e insopprimibile>, e a parere di Giuseppe Zagarrio: <al poeta compete lo stesso doverediritto dello scienziato in laboratorio: quello della ricerca, la più ampia possibile.> Non staremo qui a dilungarci, a riportare esempi ed esempi, ma limitandoci ad un paio di mirabili casi, uno per la poesia italiana, l’indiscusso capolavoro quale è l’idillio L’INFINITO di Giacomo Leopardi nelle successive fasi di avanzamento, e uno per il

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VDBD N°1 Siciliano, taluni testi di Paolo Messina inclusi nel suo florilegio ROSA FRESCA AULENTISSIMA se confrontate la stesura finale del 1985 con le precedenti versioni del 1957 edite nell’antologia POETI SICILIANI D’OGGI, se mai vi foste imbattuti in quegli elaborati … quanti rimaneggiamenti! In aggiunta a POESIE e MUDDICHEDDI, gli organizzatori, nelle persone di Rosanna Sanfilippo, del preside Salvatore Angelo, della professoressa Mirella Angelo, hanno messo a mia disposizione due complementari documenti: l’antologia del 2002 PI ANNATI E VANEDDI, che ospita brani estrapolati dalle citate pubblicazioni e due brani inediti: QUANNU LU SECULU ERA ANCORA NFASCI e FRAMMENTI, un fascicolo che Mirella Angelo che lo ha curato definisce intriso di <umori culturali autentici della gente di Sicilia>, esposto in un <dialetto spontaneo e fresco nel lessico, generoso di rime e assonanze … intelligente di una sorvegliata ironia>, nonché una seconda antologia, denominata UN PRESEPE DI POESIA, stampata nel Natale 2001 in occasione del centenario della nascita di Maria Favuzza, a cura di Rosalba Angelo e promossa dalla Città di Salemi e dalla Associazione Pro Loco. <Un presepe di parole –

asserisce ancora Mirella Angelo – (volte) a rappresentare, con vivido realismo, segmenti di vita di una comunità antica, solidale nell’adesione ai riti sociali e religiosi, coesa nella condivisione dei valori.> Anche questa selezione, distribuita appunto in venti segmenti, offre componimenti rilevati dai summenzionati due titoli principali e scritti inediti, in linea logicamente con i propositi specifici della pubblicazione. Il titolo, RAPI LA FINISTREDDA, che apre la raccolta POESIE ci offre il destro per una aggiuntiva riflessione riguardo ad una peculiarità del dialetto siciliano: la dd, che costituisce uno fra i suoni più caratteristici della lingua siciliana: dda/ddu/ddi, il cui suono è cacuminale mentre quello di d è dentale, da non confondere con la “doppia d” che è un segno diverso. Derivante dal tardo-latino (capillus, caballus etc.) è talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di due d. Infatti la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri, mentre quella di cavaddu è ca-va-ddu. Non sono mancati nel tempo i tentativi di sostituire il segno dd con ll, ddh o ddr, e con i puntini in cima o alla base di dd, ma gli uni e gli altri si sono

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arenati.” In POESIE, del 1976, Maria Favuzza perciò in vita, il segno, registriamo, è reso con la dd, finistredda, stiddi, capiddi, eccetera, ma altresì con la ddr, aneddri, picciriddra, vaneddra, cuteddru, sintomo che una scelta non è stata fatta; e financo in taluni passi di MUDDICHEDDI, del 1985, successivo pertanto alla sua morte, i curatori hanno talvolta usato il segno ddr, cuddrureddra, miliddri, beddru. Una ultima notazione, ma ben più ad un approfondito esame si potrebbe sviscerare, concerne, precipuamente in POESIE, la nostra “c” dolce strisciante, sovente graficamente resa col segno “sc”: scipressi, adasciu, stasciuni, dusci, cunnusci, eccetera. Segno, la “c”, massimamente quella derivante dal fl latino, flatus, flos, flumen, e di conseguenza in Siciliano: ciatu, ciuri, ciumi, che altrove e in altri tempi – già Lionardo Vigo nella seconda metà del 1800 ne sollevò il problema della determinazione ortografica – è stato graficamente reso con la “x”, “xh”, “ç”, o per l’ appunto con “sc”. La poesia di Maria Favuzza trapela della identità dell’Autrice: semplice, radicata nel proprio territorio, dignitosa, rivelazione di sé, del suo tempo e della

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VDBD N°1 sua gente, nel cui linguaggio, ancorché guarnito dalla creatività, dal talento, dal “mestiere” di cui il Poeta è detentore, distilla pulsioni, vicende, inquietudini. Nell’avanzare del progresso tecnologico, <aggeggi moderni … chi fannu li sirvizza … senza pallari né curiusitari>, che ci trova impreparati, ci destabilizza, ci crea ansia per il futuro, <la casa nun mi pari chiù la stissa … a bidiri li mura cu fili e buttuna>, in contrapposizione ad una condizione sociale vieppiù imperante di solitudine e prostrazione, <eu sempri a lu scuru ammartucata>, Maria Favuzza si fa portavoce dello status di una generazione, delle vicissitudini, del costume, dei trasalimenti di una civiltà al tramonto e, nel clima rarefatto della rievocazione, la salva dall’oblio. Si avverte una grazia tutta femminile nel dettato, un garbo remoto, di quando in quando una vena crepuscolare, <vita passeggera, / gemma chi di biddizza si cumpiaci, / rosa chi ciurisci / e ridi allera … tu sicca mori … e ti sperdi lu ventu / c’un suspiru>, <lu tempu pilligrinu / fa di lu ventu un chiantu>, <l’urtimu cappottu / chiusu cu lu buttuni di la cruci>, un tocco ognora rispettoso della “materia” che lei va a trattare, maneggiare, strutturare, perché lei

presagisce (noi sappiamo) essa è materia fragile, preziosa, materia in via di estinzione che il tempo ha reso unica, irripetibile. Maria Favuzza è una vera scoperta o, per coloro che l’hanno conosciuta, apprezzata, letta, una fausta riscoperta. L’odierna commemorazione, della quale dobbiamo essere orgogliosi poiché la sua testimonianza per la cultura, la poesia, la storia siciliane assolutamente non debbono andare perdute, intende dunque proporsi quale l’opportunità per far riappropriare la poesia dialettale siciliana di una Autrice che dà lustro alla propria terra, che merita di essere <La luna a la finestra di lu celebrata per celu / spampina leggi veli di favorirne, ben palluri.> oltre questa essenziale <lu tempu pilligrinu / fa di lu disamina, uno ventu un chiantu>, <l’urtimu studio critico cappottu / chiusu cu lu buttuni rigoroso e la di la cruci>, ristampa organica delle opere. * Foto di Giusy Calia

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VDBD N°1

GIARDINI Anna Maria Bonfiglio L’AUTUNNO SICILIANO DI UNA POETESSA TEDESCA

Verso la tarda metà del Settecento ebbe inizio in Europa quel fenomeno che ancora oggi viene ricordato con la denominazione di Grand Tour. Una “moda” di carattere culturale, nata dall’esigenza di scandagliare le istanze del neoclassicismo, che spingeva aristocratici ed intellettuali ad intraprendere lunghi viaggi verso Italia. In principio il percorso si concludeva a Napoli, oltre la quale, era credenza comune, sorgessero le Colonne di Ercole. Ma in seguito all’esperienza del barone von Riesedel che, sollecitato da Winckelmann oltrepassò lo Stretto, si verificò in Sicilia un forte incremento di viaggiatori. L’Isola, che i compilatori cosmografici del Cinque e Seicento avevano descritto come terra selvaggia di miniere e caverne di zolfo, cominciò a vivere in quel periodo la stagione mitica della sua riscoperta, un’età felice che si sarebbe conclusa nei primi anni del Novecento con il dissolvimento delle due ultime dinastie

commerciali: i Florio e i Withaker. Fino a quel momento la Sicilia aveva ospitato nomi illustri di artisti, di scrittori e di regnanti. Numerosi e prestigiosi furono soprattutto i viaggiatori di lingua tedesca quali, solo per citarne alcuni, Goethe, Freud, Wagner. Quest’ultimo dimorò a lungo a Palermo dove, chiuso in una camera del raffinato Grand Hotel et des Palmes, che a lui avrebbe intestato in seguito una delle sue grandi sale, completò il suo Parsifal. Nell’autunno del 1951 arriva in Sicilia la scrittrice tedesca Marie Luise von Kaschnitz. L’Isola le si presenta nella realtà di un dopoguerra che la vede dilaniata, sì, dai bombardamenti, ma ancora custode di un

passato di arte e di civiltà che nessuna guerra avrebbe potuto cancellare. Da questa esperienza di viaggio nascono nove poesie che alla fine del secolo scorso sono state

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pubblicate dalle Edizioni della Battaglia con il titolo di “Autunno Siciliano” e con la traduzione di Maria Teresa Galluzzo e Fabio Oliveri. Nove poesie ciascuna delle quali ritrae e racconta alcuni dei luoghi dell’isola. Se Jean Houell aveva saputo cogliere i colori e le atmosfere dei paesaggi e dei palazzi nobiliari; se Norman Douglas aveva denunciato la misera realtà dei carusi delle zolfatare; se August von Platen era stato ammaliato dalla sacralità della bellezza classica e Goethe aveva cantato la terra dove “umil germoglia il mirto, alto l'alloro...”, Marie Louise von Kaschitz riesce a coniugare lo splendore della civiltà classica con lo squallore e

il degrado post-bellici. La silloge si apre con un testo che tratteggia il profilo dell’isola:

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VDBD N°1 “Vi disegno il profilo. Un’ala come dalla spalla d’una dea della Vittoria. Lo schizzo, una zolla di monti rocciosi rimasta in piedi sotto il fulgore del sole, mentre con alga e sabbia e moto dei pesci il mare ricopre le dolci pianure.” Sei versi nei quali l’aspetto geografico viene delineato come da una esperta matita d’artista. E continua addentrandosi nei particolari attraverso una scelta semantica che ne esplora colori, contorni, riti, dominazioni: “Questa dalla terra ferma, questa dall’Africa, questa dalla Spagna, questa dal Peloponneso: ecco le vie dei navigli dei conquistatori stranieri. Ora sollevate dal sentiero del giardino i ciottoli bianchi a due, a tre. risplendono

Non vi

simili a templi e duomi nella luce lunare?” Oltre l’annientamento bellico ecco rifulgere le vestigia delle antiche

civiltà che nulla riesce a cancellare. Le pietre perdono la loro valenza di detriti rimasti ad indicare lo sfacelo e la distruzione e assumono valore di testimonianza nei confronti di un passato di arte e cultura rimasto inciso nel tempo.

Kaschnitz è luogo di miseria ma anche crocevia di luoghi e figure che hanno lasciato il segno. Agrigento, Siracusa, Selinunte; Pirandello, Aretusa, Empedocle.

Dieci distici e un quadrisillabo finale raccontano Palermo in sequenza ossimorica: Palermo che luccica di chiese e gelsomini e Palermo di tanfo di morte e germogli color carne; Palermo “arcobaleno e nave arrugginita”, “tunica ridotta a polvere corona e spada”. Nessun’altra parola poteva dire meglio la duplicità di una contraddizione radicata nel tempo e nella storia.

nel duomo d’Agrigento.

L’atmosfera autunnale induce la poetessa ad indagare la natura e le cose. Nelle gocce di pioggia respira l’arcobaleno, gli uomini sugli asini “cavalcano ai margini del cielo”, nelle capanne rurali si dialoga di pene antiche e miseria, ma infine il sole che “risucchia dal fango fattorie e vetri” risplende come “piccola luce rossa”. E via via tutto viene incluso nel dettato poetico: banditi e cattedrali, templi e miti, rovine e splendori, vivi e morti, una tassonomia in cui non si classificano generi e specie ma nella quale si riconosce il segno della potenza affabulatoria dell’autrice. La Sicilia che si presenta a

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“La tempesta ha spezzato il cavo. Non c’è luce

Solo candele intorno al rigido catafalco e le preghiere grigie delle ombre.” Un incipit che immerge subito nell’atmosfera mistica e al contempo spettrale di un luogo sacro in cui si ritrovano figure religiose e personaggi della mitologia greca: “Fedra nella luce delle candele, l’Addolorata esce dal Ippolito.

sarcofago

e

Gli zoccoli scalpitano e la santa camera ancora risuona del folle lamento d’amore.” A Siracusa Kaschnitz ritrova “la ninfa /che vaga tra i rami, ricoperta/di frutti di martorana” “Ti prenderanno, Aretusa? Già mormori di nuovo colori di muschio pallido papiro,

nel

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VDBD N°1 già si muove il tuo indocile amante, riversa oltre il muro nella luce dell’alba onde di schiuma salata. Ma trova parole di pietas anche per il bandito “che ha concluso la sua vita come Gesù Cristo/per mano di un traditore”, nel quale ci è consentito individuare quel Salvatore Giuliano ucciso nel 1950. E’ la Sicilia che ancora e

sempre vive nella contrapposizione, nel contrasto stridente, nell’antitesi, e che questo poemetto ha consegnato ai lettori di due secoli quale prova illuminante di come la poesia possa rendersi anche documento storico. Marie Luise von Kaschnitz nacque nel 1901 a Karlsruhe ma ancora giovinetta si trasferì con la famiglia a Berlino. Nel 1925 sposò l’archeologo Guido von Kaschnitz-

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Weniberg e con lui nel 1941 si stabilì a Francoforte sul Meno che considerò sempre come la sua vera “patria”. Compì molti viaggi e soggiornò a lungo a Roma. Scrisse poesie, romanzi, saggi e biografie e conseguì diversi premi letterari. Morì a Roma nel 1974.

* Foto di Giusy Calia

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VDBD N°1 GIARDINI

FRANCESCO MAROTTA

I NOMI DELLA LUCE

Ferma lo sguardo il viaggiatore stanco sulle rive del fiume e sulle pietre erose dal moto e dalle maree che implacabili sfrangiano la costa e distruggono i profili certi disegnati da viaggiatori antichi, cerca la parola che spiega e che chiarisce, che mostra il volto e il vero nome della luce. E’ tempo di fermarsi, tempo di capire e di aprire le viscere della terra, d’aprire le frontiere, tempo di scavo, tempo di miniere a cielo aperto. Che si squarci il cielo e che si tolga il velo che annebbia la pupilla. Ce la farai? Avrai il coraggio d’andare fino in fondo? Di scendere nel pozzo brulicante di vermi e di anguille fangose, di sanguisughe, di apparenze melliflue e velenose, di pietre coperte da muffe millenarie? C’è tempo dici e dici che è questo il tempo, tempo di aprire la bocca e il labbro, il mondo è pronto a ricevere il seme germogliante che uscirà come filo di discorso logico e tesserà la storia che è già scritta prima ancora che lo fosse e che aspetta chi la decifra. Tempo di fine, tempo di gridare e di andare dove nasce la pietra e sgorga il masso, dove la montagna s’allarga e si protende verso il cielo. Arriverà la tua lingua così in alto? Sarà capace di lambire le cime e di catturare vocali e consonanti ? Antonella Pizzo

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VDBD N°1 (foto di Giusy Calia)

Nei versi di Marotta vi è una spinta inesausta di ricerca di senso. È un cammino, potremmo dire, quasi un percorso per tappe e innumerevoli visioni. Un cammino di conoscenza del sé profondo e del prisma luminoso che affranca il creato. Marotta racconta della caducità e dello stordimento umano dinanzi all’eventualità dell’alfabeto, della nominazione, potremmo dire, di ciò che vede all’orlo dell’occhio. Quello che si apre appare in un tempo percepibile da più sensi. Come se il senziente-lettore potesse cogliere il grido e l’ombra rispettivamente della parola e della luce. L’occhio si trasfigura nella rifrazione della visione avvertendo il diritto e il rovescio degli enti. Lo avverte ontologicamente, si potrebbe azzardare, in quanto capace di sinestesie metafisiche. Così la pupilla di grandine diviene il rifugio e il porto da cui salpare, ogni volta. L’iridologia sta nella memoria dell’occhio che, simile ad una mappa, racconta di sottosuoli e luci che nascono come semi nella terra e che, sebbene fisicamente invisibili, irradiano. Eppure nella raccolta di Francesco Marotta sta un’ineludibile consapevolezza del paradosso. C’è sempre un’ombra /che ci somiglia,/rinserrata in noi, nelle pupille,/come cenere nell’urna,/come una vela nel porto/alla fine d’una lunga traversata./La strada degli occhi/è costellata di onde/che il giorno visita una ad una/prima di immergersi nella purezza/di quarzo degli abissi. Occhio come fine delle cose del mondo. Pupilla come pellicola di luce che si fa lanterna magica. È uno specchio, la pupilla, un’impressione che col solvente diventa altro-da-sé. Ciò di cui si ha memoria nella traccia ottica risente dell’ora debole. E’ cammino di voci/che bussano alle tempie/in cerca di dimora,/è fiochi grani di pollini/vaganti in reti di alveare,/è lingue di sorgente in attesa/del deserto in cui svanire./Pensa una rosa di nessun luogo,/la rosa dei miraggi,/nella cui luce il tempo/schiuma unguenti di destino,/e senza suoni/guarisce la ferita delle sabbie. E ancora: Siamo in quest’attimo sospesi,/in questo vento deserto/che nessuna fiamma/potrebbe sbrinare./Siamo la memoria che cresce/su resti di bivacchi solitari –/il fiore oscuro/che sorveglia il canto/illuminato a giorno/dai silenzi che trascina. Come ricorda Severino, “solo l'uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli eventi che l'hanno provocato”. Così Marotta setaccia l’ombra e ne capta la sostanza. La luce così, nel suo ascolto, richiama il peso dell’assenza e del silenzio. Richiama forse lo scacco linguistico del non saper più dire l’ulteriorità, rifacendosi ad un principio di trascendenza (mancata). Luce/nel cavo di una mano/che traversò l’estate/col suo carico di foglie –/figlia dell’acqua,/madre delle fonti,/soglia seminata d’albe/dove anche il buio/si fa prodigio di bagliori,/scrigno di presenze,/calice di sogni/dove il dio che cerchi/è l’ombra in forma di lampo/che beve alle labbra/del tuo desiderio –/illumina le strade/di chi ha occhi/capaci di sentire/l’eco inavvertita dei suoi passi. Quell’alfabeto misterioso inscritto non solo nell’uomo ma nella natura tutta fa della parola poetica di Marotta una radura di cui si riesce ad avvertire il bagliore. Se anche le pietre hanno un'anima mundi, il principio unificatore sta nella parola, nella capacità di chiamare la molteplicità tutta a sè. In un unico palpitante vociare. Alessandra Pigliaru

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VDBD N°1

(foto di Giusy Calia) E’ un fermarsi, una pausa tra i passi del giorno, il respiro poetico di Marotta. I passi della vita si fermano in riva al fiume e le soste sono momenti di riflessione e di ‘scavo’. E’ tempo di parole/che al vento ricrescono/come ali di ghiaccio, così sono le parole del poeta in questa raccolta: parole che ricrescono e che ci portano a: Le parole della notte/crescono fin dentro il palmo,/costringono il respiro/intorno al suo asse azzurrato. Ma le parole sono anche materia che riempie e colma: Le parole per dire/la distanza incolmabile/tra gli steli e la mano/le possiede il silenzio. Tutto nasce e si forma tra le sillabe e i suoni che formano i pensieri. Anche le pietre hanno pupille/che cercano la luce – e la luce è materia fondante di questi versi, il trait d’union tra passaggi e respiri, ombre e echi, sillabe immobili “mentre le labbra ascoltano/i passi dell’aurora”. La luce è ciò a cui tutti aspiriamo, è il movente del nostro arrestarci per guardare oltre, è il segnale del mutamento ma anche il sottolineare idee e concetti, ma soprattutto è Poesia. Nel sigillare parole, nel diluire sillabe, nel frazionare versi, la luce è uno spiraglio che si intrufola e che fornisce ritmo al respiro e ampiezza ai pensieri. Ritrovarsi dopo il cammino e cucire frammenti di luce in cerca dell’unica grande vera Luce. Il poeta illumina gli angoli bui, i sottoscala della mente e li unifica a sprazzi d’azzurro, siano lembi di cielo o pozze d’acqua di fiume che corre verso la verità e la profondità dell’essere. Morena Fanti

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VDBD N°1

I

NOMI

DELLA

LUCE

Se potesse lo sguardo consumato dalla febbre del cammino, fiume senza requie di memorie, fermarsi a rimirare gli orli feriti delle immagini che costellano le rive, e osservasse le pietre dove frange la marea dei giorni come un uccello fissa il proprio volo negli specchi del cielo, anche il nulla di cui fa fede la risacca illimitata dei miraggi sarebbe un silenzio che bordeggia cinto di deserti rifioriti, il mistero che si schiude dal grembo di neve dell’aurora, la gemma che s’annuncia nel respiro profondo della pioggia, l’astro delle stagioni che fascia i calici dell’anima. Sarebbe voce stagliata su orizzonti di vertigine, alfabeto di fuochi in fondo al mare, e i nostri volti, tutti, gli infiniti nomi della luce.

Pupille di uragano nel lievito ondoso di fanghiglie innevate e fiori cicatrizzati nell’abbraccio color muschio delle pietre – scroscianti palpebre di sere in lenta fiamma davanti al grido vanescente di uccelli di nebbia. E’ tempo di parole che al vento ricrescono come ali di ghiaccio, lingue accampate in cavità di tempo,

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VDBD N°1 un labbro sopra l’altro come chi assiste al rito di vele alla deriva incantate da immobili maree.

Sul volto di una pietra levigata da lingue di sorgente, i segni di luoghi aperti a venti di visione – le orme del tempo e l’acqua, a immagine del cielo, che si avvicina a cavità di quarzo con mani colme del lume delle fonti. Domani sarà un flauto che risale l’aria e incastra suoni nelle lettere del mondo, una guglia accesa su cattedrali d’alghe, oppure uno sterpo, un rivo di sabbia dove l’ombra s’imbevera d’azzurro come una foglia arsa all’apice dei sogni. Domani sarà albero o stelo di granito, pupilla in volo o cieco affluente di memoria, sarà fiamma, pioggia, luna trapassata d’echi, forma indefinita, pulviscolo, pensiero – domani sarà una rosa, verdissima linfa che soffia luce all’alba.

Nidifica nel silenzio degli occhi la luce albeggiante partorita da un cielo tuttostelle – luce che vigila la piaga risanata delle ombre, indecifrabile volo di ali non scritte, invetrate di simboli, respiri al traino di spazi senza notte.

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VDBD N°1 Il canto ubbidiente del buio rovescia immagini morse d’immenso nella clessidra dello sguardo – paesaggi seminati di brine, gemme eternate nel sogno millenario delle sabbie.

Pensa un istante sottratto a dimore d’inchiostro, una sillaba refrattaria a immobili eternità di alfabeto. Pensa una figura che s’immilla e s’inoltra in sconosciute migrazioni d’esilio, in terre silenti di un tempo fuggito dal seno di meridiane estinte. Pensa. E poi pensa. Il nulla che attraversa la mente e rovescia in cristalli di sonno lo sciame lunare di un grido, ha il volto schiarito dell’ultima pagina conquistata a fatica – è una lacrima che traghetta fuochi, pupille di faro colme del gelo di astri mai nati.

Fossimo lo sguardo che si arena in un guado sorvolato d’astri, una parola svanita nell’eco di insondabili richiami, che si nasconde agli specchi mentre naufraga l’inverno in torbe di silenzio. Nel disgelo che esala millenarie devozioni di fuochi, quieto si arresta il volo

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VDBD N°1 alle porte di una gemma che negli occhi rosseggia.

Luce nel cavo di una mano che traversò l’estate col suo carico di foglie – figlia dell’acqua, madre delle fonti, soglia seminata d’albe dove anche il buio si fa prodigio di bagliori, scrigno di presenze, calice di sogni dove il dio che cerchi è l’ombra in forma di lampo che beve alle labbra del tuo desiderio – illumina le strade di chi ha occhi capaci di sentire l’eco inavvertita dei suoi passi.

Sera insaziabile di una luce ebbra esplosa in lampi di roseto, sera divampata nella speranza di una seconda nascita in forma di pupilla. A noi basta sapere ciò che nell’ombra accade, quando nell’esile inciso del tramonto si staglia un fiore partorito dalle ceneri del giorno. A noi compete solo il bagliore illune della spina, memoria raggelata di petali e di linfa – ormai lontana, sul sentiero che conduce alla dimora delle origini,

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VDBD N°1 la chioma illuminata, coronata di presenze, dell’altro che nel silenzio ci cammina al fianco e si fa notte per contenere la chiarità dei passi.

Schegge di suono rapite alla luce delle messi – l’eco che sfocia a delta nel crepuscolo è traccia vociante per la notte in attesa, rifluita estasi di grani separata dall’onda grigio oro dove la morte frange. Stormi leggeri sospinti da venti di memoria ricoprono il tramonto, stille di mille ali cresciute come lacrime nel palmo, già trascorse pupille di sorgente nel lontano.

Erbe al passo delle fonti, con nomi d’alberi e di stelle iscritti in libri d’ore, segnati dal labbro rossofuoco del deserto. Domani porta con sé reliquie di respiro, il lampo immutato di occhi risanati con linfe di visione. Le parole per dire la distanza incolmabile tra gli steli e la mano le possiede il silenzio – indicibili rose d’abisso germogliate all’insaputa degli occhi tra le pagine d’ombra di memorie mai scritte.

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VDBD N°1

Mani che annaspano nell’aria dietro ombre salpate al richiamo di un faro – mani che stringono le stesse parole mute che il polline semina nel vento per salutare l’esilio della foglia dalla spina. Mani arrese a un volto che si scioglie come la terra d’autunno in un abbraccio d’acque, come la notte a un passo dall’addio che marchia il cielo col rosso del suo sguardo, prima di immergersi per legge di silenzi nella luce improvvisa di non visibili tracce.

Anche le pietre hanno pupille che cercano la luce – schiumano muschi e pozze di salnitro, innervano fonti e sonnolente eredità di lune, solchi baciati da lampi d’umidore, acque sonore sul labbro d’ombra dove respira il migrare delle ore. Aprono soglie in lenti di granito, tratti di mare imprecisati che insistono di risacche sull’orizzonte di una vela, aiutano le nevi a farsi fiamma, custodi dell’oro degli sguardi in scrigni d’ali, reliquiari segreti delle lacrime del cielo. Forse vivere è soltanto specchiarsi nel volto d’una pietra, generare desideri di luce da immobili siti di sabbie assiemate in un grido – scoprire che la luce è una distesa infinita di cristalli di volo, sostanza delle origini evasa dal diluvio per librarsi in forma di chiarore e risalire lungo derive d’anni fino al silenzio dove dio si sogna.

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VDBD N°1

Le parole della notte crescono fin dentro il palmo, costringono il respiro intorno al suo asse azzurrato, arrese all’eco profonda che incanta le dita – vele silenziose nel lampo intermittente di ombre protettive, inquiete di incomprensibili visioni disserrate dalla pupilla di uno stormo attardato. L’estate che dalle ali sciama verso il buio, indolente riposa in certe sillabe di mai disperse nevi – s’aggruma oltre il margine che sbrina nel chiarore, risale l’acqua di un antico sole stringendo in bocca alghe dal luminoso stagno delle ore.

Nessun fiore nello spazio sabbioso di urne di canto – solo la polvere dice di un astro venuto a lambire per strade di fiamma la sorgente dove lo stelo si veste d’immenso e s’affila nell’orbita di cieli scoperti per caso. Nessun fiore racconta alla voce le sue storie di un giorno covate tra febbri e radici – quando sporge oltre i bordi bagnati di luce a contemplare la chiarità di una morte sapiente, il colore dissolto nel fango di un’acqua ormai cieca.

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VDBD N°1 Lascia incolti gli specchi del silenzio la pupilla di un fiume – antica, perpetua nel suo sottrarsi alla carezza evocata da ciò che non ha voce. Chi grida speranze dalla cenere immobile del tempo, attende che il suo vaso si colmi dell’anima di un fiore – dei suoni d’acqua che inconsapevoli corrono alla caduta nella tenebra del mare. La luce che lievita con lo stesso nome, declinando aggiunge fiamme al fuoco, ore alla clessidra – prima che il labbro della sera strappi corde chiare dall’arco del suo canto.

L’occhio segreto di una rosa innevata di giorni contempla sui bordi del cielo sciami di luci alate partorite da spine di pietra, s’immerge nella purezza d’acqua del silenzio. A te che attendi dalla misericordia dell’aurora il dono di un fuoco fiorito, una sorgente accesa tra le sillabe di sabbia del tuo volto, l’inudibile dio che libera nell’aria il vento del disgelo colma la pupilla di presenze, un concilio di immagini raccolte in taciti, liquidi cristalli di sale. Tu le chiami lacrime, schegge di mondo che il nulla strappa a un grido – ma il nulla è nella mano di chi sigilla il varco, cancellando quelle tracce d’infinito dal suo ciglio.

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VDBD N°1

Il cielo della sera si riconosce da albedini di canto consacrate a una lingua d’incontrollabili voli stagliati sul confine delle ombre – traspare da un occhio di mare preso d’assalto da grani lunari, ombre migranti che dalla sua pupilla a schiere si addensano a simulare angeli annottati, miniati nel libro d’ore del risveglio. La rosa che cresce nell’eco di richiami cristallini, tra parole sognate in più terrestri fibre d’esistenza, somiglia una stella, evasa dal ghiaccio, che si distende in geometrie di luci, pulsa in corolle smeraldine di scintille, s’insinua in cicatrici oblique di visioni, s’arresta nella mano che costringe la rotta del migrare in angoli di pace. E dura. Sussurra oltre il tempo delle labbra - il tempo che avanza alla carità dei pollini per rianimare pozze d’acque assenti.

Il calice inviolato di memoria su cui talvolta posano le labbra al lume d’invisibili presenze, conserva la neve segreta sposa dei boschi, il bagliore dove dio si mostra nel vento sempreverde di una gemma. Il suo occhio che d’un tratto s’illumina nell’eco sotterranea di una fonte, fruga tra le brume fumanti l’ombra dalle mille braccia nella cui stretta farsi corpo, albero, eternità migrante

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VDBD N°1 in un respiro.

Specchiata nel lume ghiaccio della notte, lingua e canto di terre azzurrate in pozze di luna, la costellazione invisibile di un seme. Nessun colore lo trattiene, la sua sola memoria è un passato votato a diventare foglia nel silenzio materno dell’ombra. Corre come olio evaso da lampade di tenebra, annaspa nella vertigine fonda di una zolla, schiude dimore d’oasi tra i sassi – inaccessibile respiro dell’anima che si fa voce e parla dalle labbra della luce.

Sotto il flutto che inebria sillabe levate in volo verso terre senza ritorno, pietre votive accendono lampade di muschi tra le cui reti si disseta un astro – occhio di mare sospeso nel lampo di una voce. La mano che tremante traccia il solco, per chiudere entro margini d’inchiostro pagine interminate di deserto, strappa al vuoto bagliori di cometa, brucia distanze, si accampa nel grido di stagioni increate da varcare – scopre che il cielo con altre immense dita sta colorando l’alfabeto dei suoi segni, l’enigma che brilla nel migrare.

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VDBD N°1 Renitente mattino invernale – i passi assonnati si trascinano frammenti di ieri, segni illeggibili di mappe chiazzate di neve, presenze intraviste al lume del freddo che agli occhi rimanda immagini di non sai quali paesaggi, sentieri. Siamo in quest’attimo sospesi, in questo vento deserto che nessuna fiamma potrebbe sbrinare. Siamo la memoria che cresce su resti di bivacchi solitari – il fiore oscuro che sorveglia il canto illuminato a giorno dai silenzi che trascina.

C’è sempre un’ombra che ci somiglia, rinserrata in noi, nelle pupille, come cenere nell’urna, come una vela nel porto alla fine d’una lunga traversata. La strada degli occhi è costellata di onde che il giorno visita una ad una prima di immergersi nella purezza di quarzo degli abissi. E’ cammino di voci che bussano alle tempie in cerca di dimora, è fiochi grani di pollini vaganti in reti di alveare, è lingue di sorgente in attesa del deserto in cui svanire. Pensa una rosa di nessun luogo, la rosa dei miraggi, nella cui luce il tempo schiuma unguenti di destino, e senza suoni guarisce la ferita delle sabbie.

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VDBD N°1 Il salice che sussurra alla fonte parole affrancate dalla morte, ha occhi bambini consegnati a legami d’amore, penetrati di luci ineludibili fiorite in terre di ogni dove. Salice – fuoco azzurrato di chiarori ribelli agli specchi dell’aria, dove gli astri s’incontrano e si scambiano gli occhi senza riconoscersi – ala fraterna venuta da cieli di diluvio per farsi ramo, abbraccio di radici, fronda flessuosa china fino alle labbra di chi dispera il sogno, l’ombra di un volo, e vive, creatura dei tramonti, il legame perenne, indissolubile, col dolore che sale dalle zolle.

La morte si rivela sostanza di silenzi, se al suo passaggio spezza il legame coi volti che vivono al traino della voce – la morte è muto labbro di ghiacce albedini d’abisso, ombra senza volo partorita dalla cenere di un lume – è calce che indossa il colore dell’erba per incantare l’alba e murare gli occhi nelle dimore della neve. Eppure il suo passo non cancella l’eterno turbine che dal cerchio di immagini spente al giorno fa rifiorire nuove sillabe in luce d’acqua – la morte fugge da sempre lo spazio sacro delle fonti.

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VDBD N°1

Nell’ascolto della luce la voce per dire l’indicibile del giorno sprofonda nel peso di silenzi senza eco, corre a ritroso il cammino delle sue ferite, margini brinati dove sanguinano mute le stelle, gli alberi, il canto intraducibile che sorregge un volo, il fuoco, l’ombra – cancellati nello specchio finito di ciò che è semplice fiato, calco rovesciato dell’alfabeto misterioso, inviolato della vita.

Ramifica intorno alla voce l’iridescente muschio verdebuio, occulta arsura galleggiante nel pozzo delle mani, ultimo porto di luce nel declinare aspro dell’estate. Presto anche il polline troverà dimora in estasi di tuono e una parola, tremula luna in respiri di passaggio, allaccerà i suoi occhi alle vene rosseggianti di una foglia – parola àncora in acque inavvertite di piovasco – indicibile come il lampo che cava dalla pietra un grido e trapassa il silenzio appesantito d’ombre della rosa che imbianca sul crepuscolo. I fiori dell’autunno ci parlano dal cupore fondo

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VDBD N°1 che ha il luccichìo dell’anima dei morti.

Sigilla nella purezza del gelo l’alfabeto sulle cui ali attraversi i giorni, trascinando di soglia in soglia il dolore di una luce che non ha più parole. L’estasi immillata di presagi di un petalo che cade nell’onda di risacche d’erba, il faro sempreluce racchiuso nello scrigno di un grido di gabbiano, cercano il porto in carità di nevi, si fanno vela nel vento che stempera il fuoco dei pensieri, e da maree di tempo cercano la lingua dei tuoi occhi.

Pupilla di grandine che accende il fuoco antico delle messi, pupilla dove rimpatria il pane raccolto dal vento, impastato con mani di sillabe notturne – la luce che sprofonda in te, nelle tue ghiacce arterie, riemerge stringendo nel pugno breviari per il giorno e spine dove si aduna l’acqua – luce, lingua di seme che sbuca da cunicoli di zolla per annunciare all’aria nuove stirpi d’ali, i segni rivelati di chi dalla morte risale portando in bocca il lume degli abissi, lettere indelebili di fiamma.

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VDBD N°1 Risonante ombra frammezzo gli occhi di una stella incisa a punta, a strali, o sulle ali offerte in voto a un angelo di marmo – ombra che regge la repentina luce che nomina, oscurandoli, i ceri di un grido e della sera. Qualcosa sbarra il passo a transiti di luna – stellalbe deserte sul ciglio di una rupe o gli occhi del cielo rilucenti di schiuma verdefaro. Qualcosa d’incompiuto, nell’ora che s’innalza come una preghiera sul margine più quieto di silenzi arresi a interminabili, luminosi baratri di gigli.

Riconoscere la veste di sabbia che serve al dolore per mascherare il silenzio della lingua, il deserto che sibila dune abissali sulla pagina degli anni listata di ferite. Ma ciò che guardi è neve scivolata in calici di fiamma, in un lontano di assenze scavato come un solco tra le ciglia – neve solidificata in grani di rimpianto, il corpo d’acqua murato, incapace di varcare soglie di clessidra, farsi grappolo maturo a una preghiera che sa di fame, al volo a spirale, planante, degli uccelli del giorno. Acqua che non conosce, non nomina, non cura, non immagina,

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VDBD N°1 non si accosta, ma vacilla, si allontana, si spoglia, si rinserra – non mai si nega all’arsura che urla dalla riva.

Echi di dislagate foci, fronte di stelle rese invisibili da sigilli d’acqua e fiori cifrati di marea. L’altro nome di una foglia, l’altra spina di un nome, è tempo di sillabe immobili, quasi un delirio dell’albero che graffia respiri di luce dalla brina che aggruma le radici in sterpi di rogo senza fiamma. Echi di foci e stelle, nell’istante, sconosciuto agli occhi, in cui la voce valica i confini della sua dimora, s’immette ignara in terre d’increato, mentre le labbra ascoltano i passi dell’aurora.

S’inarca il fuoco di un fiume mareggiante d’ali trattenuto dal vento a un passo dalla foce, dialoga con la notte dai pori accesi dei suoi mille occhi, e l’eco riporta cristalli azzurrati di perdute sorgenti,

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VDBD N°1 l’infanzia offerta in dono alla sete della terra e delle stelle. Dalla sua ombra prendi solo quanto basta per farti mondo e orientarti su strade d’uragano, camminare tra spine di boschi pietrificati e luci che fuggono al riparo delle pietre, lo sguardo filtrato da corpi trasparenti in bilico nell’aria che tace di faville, e ti apre il varco alle distese di un canto senza voce.

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VDBD N°1 GIARDINI. RUBRICA DI POESIA A CURA DI FRANCESCO MAROTTA

arcuato di una dimora senza pareti e senza stelle. Tra le tue dita, la rosa del vespero cresciuta all’ombra di una pietra – per disperare la morte col chiarore di quel fiore mai nato. Tu che a ogni pagina insegni il sentiero per risalire il deserto, e ancora semini nel bianco suoni di strane erbe, tracce di inudibili radici ad ogni passo nell’aria che preme all’altezza dello sguardo, nel pozzo prosciugato dove le parole di ieri precipitano lingua e ossa.

– sbarrata a ogni altra immagine di voce. Di fronte al silenzio che riprende corpo e sangue al tuo passaggio, anche l’alfabeto delle stagioni sarebbe un respiro che si arrende al nulla di storia polvere che attraversa la terra trascinando nei giorni acqua senza memoria di sorgenti. *

(foto di Paola Pluchino)

Per chi ha visto ogni piuma ferita farsi neve nel grembo (Su Davanzali di pietà, di Marini Pizzi, 1-15) di Francesco Marotta “Tue le spighe macchiate di sangue” Ti guardo mentre sollevi adagio il viso, soffiando via dagli occhi la sabbia dell’ultima caduta – stringi il lampo vocale che coltivi da sempre nel fuoco

Scrivere, per te, è naufragare in consapevoli brame di memoria. Sottrarsi all’opaco che di natura è filo di sutura, per consegnarsi intatti al sangue della spiga – alla bocca che grida al cielo la mappa precisa di una piaga. Inabitabile il n. 1 - luglio 2008 Registrazione c/o Tribunale di Sassari n° 45408

E avanzi – lentamente. Simile a chi, già parte del vuoto, al vuoto offre il riverbero di un’eco, la cadenza senza orizzonte e senza rotta della luce segreta a cui si accompagna nel cammino. Solo la tua bocca è chiusa

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VDBD N°1 tempo, tutto il tempo che trascorre su un quadrante privo di radici, senza attesa – se il destino è queste mani, intorno, che chiamano a spartire fortune di docili prede. Che ignorano lo sguardo del lupo, la pupilla che accarezza la neve e rende leggibile la traccia che vi dimora. Raccolta sotto il segno della falce, tu componi l’ora fraterna che rimane – l’acerba vertigine di ogni grano reciso che si offre in pasto all’ombra del suo stelo. * E ti levi dai tuoi stessi accenti – come fa l’alba al richiamo senza voce di un lume morente. Ma come il lume, ripensi ogni volta il mare di luce che ti cancella al giorno. Ne conservi l’afrore e la spuma in ogni sillaba, sai il morso dell’onda che recide sillabe alla mano, al volto le lune che sciamano in spasmi intorno agli occhi. Non è forse il tuo respiro, assorbito nell’estasi che allo sguardo fa sangue dall’iride, la mappa sognata da chi non sa più riconoscere il suo nome? Oltraggiosa è la notte rivelata che ti sbarra il passo, oltraggiosa la cecità di chi ignaro l’attraversa – la notte dalle dita di vetro che ti costringe alle fitte del volo, alla caduta nello stupore lacerante del bianco. All’abbandono indocile all’abbraccio materno di Marina Pizzi

un rivo - mentre intorno, dalle labbra del mondo, non fiorisce che sabbia. * Tu soffi vento e sillabe dalla stella malata che nella gola costruì il suo nido. Di ogni cielo che ti precedeva, hai respirato l’ala che semina grani sulle rive segrete dei morti. Ecco, diranno, mentre la calce cola a fiotti dai loro occhi appannati – ecco chi seguita a battere note nei vuoti arsi del sangue. E a chi allunga la mano, per strappare alla tua lingua le rose che allevi senza radici, rimane la scia del tuo inquieto migrare oltre il sonno, oltre il lampo. Ora dormono – bruciano. Arresi alla fiamma di parole svuotate di seme. Non sanno lo schianto alla foce del fiume che, armata di voci, costringi tra i rovi delle loro ceneri sparse – tu che raccogli macerie nel corso, frammenti di vite, per farne alfabeti, argille fiorite sul labbro del nulla. Non sanno il tuo incanto di madre che ha visto ogni piuma ferita farsi neve nel grembo. * Una luna straniera ha piantato la tenda nell’oasi invalicabile delle tue pupille. E se è nel tuo sguardo che ha scelto per sorte di allevare rami, intrecciare con le foglie un

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sentiero tra gli specchi roventi del giorno e il tormento delle mani assetate, lì ti incammini, da lì tu sporgi in attesa del passo dell’ ultimo uragano. In ascolto della marea che si annuncia e di nuovo ti sale dalle labbra. Fuori è silenzio. Una macchia di oblio, tesa e tagliente come un filo di lama, su cui misuri l’arco della veglia. La terra si colora, non teme il fuoco che la tua parola ardente porta in dono – cenere contro la cenere, perché dall’impatto si levi il grido taciuto che insemina il foglio di chiarori. * Sentinella che vigila sul transito degli anni – anni di occhi che partoriranno sabbie, se stretta al vetro di inauditi accenti la tua lingua non germoglia fuochi, la passione che albeggia alle tue spalle. Solo la clessidra che curva al tuo passaggio muore del privilegio di chi, franando, scopre la bocca della sua sorgente – vi si immerge. Ieri è questa guerra, ancora, che in ogni verso si combatte tra il fango e la rosa – tra il fiotto di sangue che si aggruma e l’esilio che è madre di ogni verso. La terra senza promessa, increata, l’attimo tra naufragio e volo dove dimori – seme di silenzio pronto

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VDBD N°1 mondo. dorma con te il sillabario inutile dentro la bara l’accademia della terra senza padrone con l’androne carico cuspidi del deserto amiche. 6. i castelli nelle isole sanno rendere giustizia alla stivale infangato al bivacco della valle al varco di sterminio. Joséphine Baker era una patriota contro il nazismo. qui finisce un ritmo di venia verso il sogno che nulla sa far di cambio. io preciso la ronda affastellata in ogni truppa senza il paciere di mosaico di lettere. 7. in giro sotto le stoppie ha avuto il merito di non bruciare vivo. le donne lo seducono con un ardore tragico. la malia del vuoto lo sostiene al guinzaglio. lupo navigato senza astio sistema lo zaino in un cespuglio ardente senza la brace. nonostante il fato è rimasto un ragazzo di zattera per gazze ladrone che spogliano ladroni. 8. nel balbettio la chela del disperso il passaggio a livello del tormento. toc toc il sasso della specie il cielo vile il berretto dell’arresto il toccasana all’uncino macellante. nel lato d’io il pane avvelenato legato dalla tonaca del boia per la caligine vessante dentro gli occhi. 9. l’acrobazia del sonno quando ne gemi stazione sotto scorta di gran massi arenoso sospiro di non devoto viso del culmine in un cielo basso squarciato spesso da una daga senza trovarvi nemmeno la decenza di un bel complotto atto ad invenzione almeno di un aquilone stortignaccolo. 10. con un gerundio di sasso l’elemosina cordicella del dito fa resistere strenue rupi nude cerimonie in palio l’aquilone che non lontana né sé né le celle di bagliore. l’appena nuda crisalide dell’occhio

DAVANZALI DI PIETA' 2008-

1. la lira nella toppa ma non sa aprire che passeri dal becco senza cibo o avvisaglie botaniche di cadute giù dall’albero tutte piuttosto verdi primule d’ansia una verità d’accetta. eccetto il padre delle funi qua si celebra l’ingorgo del declino verso le barche con buchi a fontana. poco ne resti il vanto della brama mano migrante in tasca di vandalo. 2. le ire delle fionde le altalene in pericolo il foro nel coma del risucchio nessun vedente. alla primula sputerò l’ultimo dente agli spini della pianta grassa l’ultima gravissima grazia. tue le spighe macchiate di sangue. 3. ho imparato l’acredine del dado tratto l’olio rancido della fiaccola nelle tenebre che sono già state. la pietà del breve è un long drink da piazza senza stazione. il pedone dell’agorà mi bacia perché penzoloni ruota l’ultimo degl’impiccati. i credi acefali del cardo sono violacei ma non sanno morire. le maree dell’inguine inarcano le fosse per la vita. cantica del faro la faccenda in casa dell’appestato. 4. le sazietà del palo sanno uccidere la stanza perduta nella creta. tale e quale il noviziato del ciottolo sa di regalo per il bambino vizzo bacato dalla ronda della zona intorno. torni da te la larva della gioia questa persiana logora di sangue in braccio alla cometa in naftalina. 5. le foglie hanno accudito le gimcane dei morti le doglie in carne del canile lager le donne nude non per erotismo ma per sisma finalmente un altro

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VDBD N°1 un io comanda fuso nano il tempo divieto vieto vita a tutto tondo. 11. la stanza dei giorni lesi tabella di marcia marcia, almanacco di sbircio. 12. con l’eroe alla foschia non ho timone né moratoria al calice del torto sotto il blindato di corsari per le parsimonie del regno. addì le statue possono correre verso le stanze delle donne sole arguite dal comignolo del vento. 13. ho precisato che mi appoggio al giogo della goliardia della fontana nera alla tana della nenia del ripetente temprato dalla zattera che ingorga gare di zuffe con le onde. a piedi sulla misura della cima male mi alleno con la lente d’ingrandimento e la parrucca contro le cose che non sono aperte né dentro il cielo né sotto la somma dell’angelo assunto nell’ingranaggio dello zerbino ai piedi. qui m’impiego nel ripostiglio nano, tizzone di nemico. 14. il turno della ronda è il mio ritorno al bando, al dolo nero di rompere clessidra, da questa strada che domina verdetti di mitra tra le bave delle lumache chete, pietosissime di scie. il cielo vedovo manca la manna e la sirena è piena di lutto al boato, l’olio devoto del vulcano in fiore. 15. che faccia il verso al tuono l’arsenale del sangue questo stipendio astuto quanto cieco miscuglio di carabattole con sorpresa, non si sfianchi il colore della sorte l’alba macchiata da chiodi di dispense a corto di scialuppe di salvataggio. ìmpari greto dover risalire il sale che travasa da se stesso paramenti di lucciole morenti. 16. salute di comete poter la morte luce del tempo finalmente libera da spessori di mutamenti. il rombo della lotta da corsie di fame.

tu ne arrendi un comignolo di fuga, lo otturi con ghirlande di spine, piaghe di cosce che non saranno madri né rapidità del cosmo, modo di cortesia il limbo della botola. 17. la teca è spoglia sotto le resine delle dimenticanze, il tic come tale di resistere. nel corridoio del nodo scorsoio so il desco di scomodare gli spettri paffuti, le muffe senza limiti di età. la pianta grassa non chiede proprio nulla eppure è strafelice in una feritoia di terra di riporto. così il rito scarnissimo del sonno modo al dorso di piegarsi al dondolo. 18. stati disadorni dolo l’attimo con l’arrotino che grida per coltelli senza banchetti né cialde di bambini intenti e seri. Roma da ieri è alla stiva dell’ultima valenza. in tutto un orto di licenze e fosse l’attrito del sangue di coagulo. 19. il sillabario sulla sedia il laboratorio elabori agli albori quando la fune fuggì ladrocinio in cima al cipresso sposo di cimasa, dove il musico d’osso del far sì ingannò la capsula del boia. 20. le vitali stravaganze della nuca quando lo sguardo va oltre la calce verso gl’ingegni delle vestali che premono dominio di sorriso. tu che ti giovi di una cisterna secca per premere a stecchetto l’orizzonte, sappi che lo scheletro del mare sa l’inchiostro che incontra le maree. 21. vado a piangere la foggia delle foglie le giungle al pugno che non sfondano il muro. la malinconia del dado in un incendio di dio atto a non darsi. lo stipo della pagina si serra rapidità della pallottola, lotta prismatica madre di resistenza. 22. nelle scartoffie a nudo lo stormo a giostra delle rondini

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VDBD N°1 il tempo scotto di spostare il verbo verso le erranze delle celle. 23. le rondini offuscate dalle rocce la fatuità del fuoco nella nullità che scarta sé nella pienezza del vero. lontani dal coro delle gioie i manufatti del sale le fratture che cedono per orfane. fannullone l’acrobata vincente sa far regalo di una zona in anima di faro di festa di gran girotondo. 24. nelle ortiche del vespro le faccende delle truppe il fantoccio che fa da petto alla nullità del ciclo. un po’ alla volta il calamaio del sangue gira di trottola, torna a far di volta questa gimcana credula del gelo la venia della stoffa che si lacera. la retrovia della nuca dà dolore alla rarità del ritmo levante. 25. e non sari che l’aria della sfinge l’arca in cappio di perdere innocenza. 26. allegrezze del sale il canto dell'angolo, istinto di autunno il nome del mattino. 27. cane avvinto, avvinto allo spavento del cappio l’io di guardia senza la, giù, salvezza malvezzo di colui che fu soltanto tradito dalle svendite, svestito dal capestro delle dita dalla fandonia inacidita al dolo di una ventola di morgue. 28. ti dà fiato d’alluvione traguardo panico questo dovere di dado già tratto questa fandonia che duole più del dopo scarto con le lancette magari all’orizzonte. il letargo del guado è stato inciso comunque, gorgo ferito dal rito della cecità. domani è spranga per la galera che guarda elemosine e morie. 29. portami un distacco che sia un coma

una rotula da far girar il mondo selvatico encomio di se stesso voltaggio di airone per un somarello alla cava addetto, snello dirupo. voltami la nuca verso un occiduo duello d’ilarità in far d’amore, rema con me questo cipresso appresso appresso re della sua resina, sistemami un apolide nell’occhio china avvezza a smisurar le zattere. 30. l’urlo sovrasta la mezzanotte pendolo straccione perno scalcinato museo chiuso senza restauro. in una busta le conchiglie che raccogli stanno alla china della stasi la cattiveria dell’odore non più di mare. la gola rantolante della rotta appena sotto squarcio ha un colloquio lampo con le tombali borchie di ogni borgo. 31. sale la botola all’apice del grano diverbio in tasca scantinato e basta. 32. ho visto una rondine storta sopravvivere al vetro citrullo trasparente falso d’aria, con i jeans storti ad afa di paura giovanissima clandestina in rima di puledro o somarello candido gli occhi nel dito di sangue. 33. alludo ad un sapere solitario un taxi senza licenza un abbaìno nano soprasotto il crollo. uno spunzone da pianta grassa disarmante bonomia di un attacco. 34. e non sarai che l’aria della sfinge l’arca in cappio di perdere innocenza. 35. alla giuria chiederei la vanga per seppellirmi. sfinge di occaso un soldo sulla lingua per braccare le origini devote. alla genìa del baro che mi osserva la valvola del gas per far cagnara.

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VDBD N°1 per te che sei il letterato standard presto la veronica per baciarti i piedi. 36. dolore di soppiatto newton della mela marcia stampella di acredine alla volta dell’impero del tormento torre del sonno. la giusta luce dal panno del sudario dal nome che stona sullo stretto. un esule in trionfo verrà a leggere le giare del sangue il seno in nodo della bàlia. 37. sotto la volta di un nodo di stoppia barcolla il trave della cella. il veto del sole sotto l’alluce indica la strada del dietrofront. l’azzurro mendìco del cielo nero al bar del coro non grida mai. appieno vuoto questo dividendo la sa con pena la promessa livida. 38. le preistorie dell’acciaio furono nidi benesseri di arrivo al varo di aurora. culle di germoglio il fato che si addica al mormorio del sale fato salino il rovescio da devolvere al moto dell’orologio ad acqua. qua la chiosa del diverbio la sabbia con la terra fa capienza gran musica di baracca la gran pena. 39. sul piglio della rotta il naufragio inarginato sfregio nello sguardo dovuto alle carabattole del giro fatuo. nel tempo da perdere per refuso il dolore del vuoto. 40. viaggi di perdenti questi cerini reclamati dal ritmo della foce dal delta di ricamo tra pozzanghere. le lotte delle fionde hanno scalmanato i fiori modernissimi di cieli. il coltello dalla parte della lama ha tagliato il treno in loculi. dove il sole si conturba si fa di ghiaccio il gerundio perpetuo il tuono della disfatta. 41. nel tiretto del mio rigagnolo

vado a spasso regista del mio loculo. per miglioria curo un balcone coatto contro il muro tanto per fingere la genesi del petto a mo’ di rondine. la foga per la perla della rotta la lascio alla bàlia carica di latte. 42. nell’idillio del polso con il cuore nel covo delle luci che non servono la nuca muore. in realtà un manico di sangue aiuta a resistere col senso sovrano sull’arietta della diva vanissima. un sillabario corto sparisce nella tasca del pezzente tedio, di te non so dire nemmeno il nome meglio del teschio nella scodella che c’insegue. 43. una miserrima rotta di condotta con santità al minimo dell’office, qua tale rimane lo zero nudo dottore di sé senza guarire né tori infilzati né lucertole al buio. io altrove svellerei l’angolo verso stoviglie di leccornìe strapiene se del burrone è frutto il piede desto. 44. il loquace animaletto della sostanza ha il braccio breve non inaugura né il salto né la stretta, quasi imbroglia la sopravvivenza con l’anfiteatro del livido del parco coma. 45. come si fa a lucidare gli stivali se il fango è così prossimo? 46. ha le origini del fossile un giro antico cremato. 47. imperio di domanda starti accanto dove quaggiù si arena la gimcana nell’ordine malevolo del vero. plettro di compieta panici del verbo l’erettile fatuo le rovine delle rondini le giacche delle fosse le nicchie delle fole le rondini del ferro. 48. nessuno ha rotto il calice del sangue

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VDBD N°1 stracolmo mondo un tavolo di morgue 49. ho un cortocircuito che mi sposta il petto e la cintola del sonno: è grave indizio di ultima stecca. appena ti vedrò a mano stretta allora la natura della borchia avrà capienza per porgerti una pietà salina da alambicco. 50. aggiungimi al cipresso casalingo alla gola dell’intima bravura al sapientone enigma del mare aperto dove troneggia un apice di cellofan che ha ucciso una tartaruga. in gara con la fronte contro l’onda dammi lo scacco che possa sorriderne senza la rima pendula del branco. un dubbio trama ad ernia di sfinge spingendo contromano la marea per un unguento di volta finalmente verso la torba del fiore principesco. 51. saluto di ricettacolo il coma materno sulla furia del lutto. càpitano le comete che non premiano né nominano la natura del giardino. 52. dammi un tuono ch’io possa evincere il dizionario cortese del nome la scossa in mano ad un apice di vento il cielo nero con l’azione vinta. un sillabario non fatuo tutto d’embrione potentissimo acrobata barca di salto oltre la rotta stabilita beltà del varo. 53. mi rammarico del costato quando l’aurora si gonfia di morti ed erigibile lo scisma del dolore dà man stretta al caso dello stato. 54. mi dolora il frullo del salino la sventura del nomade stanziale in un lucernario di stoppie per capire cerbottane di sguardi che non incontrano che tramestio i ciottoli di astio. meringa floscia questa primavera azzerata dalle gare delle sciabole in bora di respiro. 55. al sole sulla piazza avrò vent’anni (il ladrocinio dello zigomo serrato

dall’ombra netta dello scopo in atto: lo zaino del limbo lo porto tutto con la febbre che sconsola le cimase). 56. le corse delle zattere sul limbo un’altalena che coniuga serpenti col frac della gran soirée. il fascino del crac è sempre avanti bestemmiato da scie di malmessi antidoti di non senso. 57. tra le girandole del basto la serra della nebbia la lebbra al fiume di serbare resistenze appena in opera tra le teche d’osso. 58. morte lungo l’asse dei bisogni dove si arena il teschio della vanagloria e la girandola soqquadra in un dono di eclissi tra le veglie delle spose che non vengono che raggrinzite. stipate statue senza la clessidra. 59. almeno scoprirò che sono affetta da danze di ecchimosi e moti neri morosi con i sì con le conchiglie d’echi. in mano alle credenziali delle pigne avrò verdetto senza alcun pinolo per la torta della nonna o il forziere in zero a tutta accetta. 60. malinconie di anello quando al porta sbatte per la credula faccenda del vento per la durata del credo dove c’è disperso. il buffone della spina è arrivato carico di polpa. dal letto all’alzata lo stonarsi in una tana di bora in bora. 61. un codice di nero un avvistamento dentro la stanza del cordolo domestico agguato ad ogni giorno. le premure dell’àncora stamane hanno indipendenze non servono il lato della musa reliquiaria. lo sgombero per potere le distanze in terra di anomalia la grande gioia se finalmente taccia il sì della caccia.

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VDBD N°1 62. dove si sta termini di eclissi vige la nenia nell’agonia del minatore. il torto assiso dentro la nicchia dell’ulivo a mo’ di demerito con zattera del sale. il leggio del rantolo trovi la giostra del miracolo del gioco. a terra per il mito ti vedrò lo sguardo di natale. 63. in un mare di corsa corsaro la sassaiola di un io di flagello flagellato. a ritmo di neve la verità di andarsene se questo è il dazio se questo è il gelo che fa cantone il mondo. in officina il fatuo ripetente ha teschio in cima alla sorveglianza che veglia di moribondi il fatuo piatto. 64. finalmente avrò l’accattonaggio del sonno l’erta fumida dell’aria da buttare contro il tranello del seno nudo che fa svoltare le curve per mentire il tiro del cipresso verso il cielo. 65. nel lutto che sconquassa tutta la voce l’avaria del varo, il lungo vano che ammaina la rendita del sangue che il guado innalza senza la partenza. ricamo a marmo questo soqquadro tenente l’irriverenza dell’acqua marcia finalità del pane la muffa in far d’affanno. 66. con la carta sulle spalle vado in rovina correndo a vista tutti i precipizi d’intonacate aureole di dèi morti nelle soldataglie del fuoco nel cratere dei vinti. 67. il genio che colora la gran morte la giuria del ponte 68. ha un sudario che le fa da impero perfette amnesie del troppo ricordo, morirà con i lacci ben stretti, chi la irriderà sarà pettegolo gomito di catrame, gomitolo di sterco. 69. alla fuga che fa tresca nella fuga

la dedica del numero dei morti. con meno amore di un circuito bruciato la scala senza scalini. la fortuna che non assiste lo stalliere ieri fumava con dio tutte le ore. 70. Plettro di compieta la penuria del tramonto è stare al mare rovesciate barche di disuso. zattera di pietra il traino dell’ora combusta nel marciume dello stadio ennesimo. sì ti accalori per un caso da troppo protetto dalla pazienza della resistenza. sarebbe bello uccidersi a tranello, senza saperlo, un incidente di beneficenza, tetto di vendemmia mummia del vortice dismaterno. 71. in saldo all’acqua grama il dondolio del pozzo l’ernia del condotto. balorda la genia del coltello in te avvenga felice il dolore la lorda lorda aureola del Gange nei corpi dove regola mortale sventura il credo nella tacca a far distanza. 72. aiutami a sillabare un torso un pegno duro da fiaccare il viso e la trottola del lascito che sta ad aspettare l’interprete. la bombola d’ossigeno non salvò mio padre steso a dieta fredda, il dado tratto sta sull’altare: è stato riconosciuto da adorare in fondo alla scarpata. 73. ho una gerla di monastero che mi confisca le rondini scaraventandole dove si addormenta il grido. ma non è pace né mente di diorama qui massacrare il sasso comunque infisso più della penuria del fulcro della rotta. venga qui la trama del crocicchio a far da apologhetto finalmente al miglior miglio della fine. 74. dove ti bacio il viso è farti vita dalla cancrena dalla lebbra di bramosie che smettono la gioia

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VDBD N°1 in tono con il torto della trottola insanguinata dal moto di non smettere a modo di guida alla resistenza. 75. nella mèta che sconvolge il cielo l’augusta pena che sta per stare vuota nomea d’indice noto almanacco il coma. 76. sono scalza e devo stare attenta al manubrio contorto della zattera al lutto del filtro che s’intasa motivo del senza casa zonzo del mito di vederti appena presto prima dell’andarmene sottosopra alla mina della ruggine rossa del ponente all’esponente. 77. la sibilla età del sillabario vuoto briciolo di grido dondolio del cerchio! poi venne inverno del barattolo vuoto la salsa acida di eludere il sangue la bellezza del fungo velenoso sicario patrio. andò la nenia oltre l’impostura scovando un atrio di glicine nel cigolio del pianto il piangere della resina di brace. la mano tesa ingentilì la cicca. 78. cronistorie di palude perdita d’indirizzo scompiglio d’ombra a fior di sasso la mansueta maniglia che ti apre devoto impasto di un abbecedario ceduto al ponte senza più trovare il fiume. di me non resta che il tempo di finire il nido della stoppia per bruciare il giogo vizzo delle care foto quando qualcuno è carico d’intenti e la cicala applaude se stessa. 79. in un torto di erba marcia la cicca di vestirmi scalpore della polvere. la calce viva si fa scodella sul tavolo d’inedia tra bacche chiuse e voli di ricaduta. tu dove andasti stimmate di brace cecità d’amore? modero il controllo foggio un altro verbo botanica mi faccio e caccio la mia faccia calabrone di sé.

80. ho un recidivo avverbio che devasta cornicioni e nidi di proclive lievito di avvento. e l’assenza del cielo scompiglia le stazioni nell’ozio delle aste del ventaglio. toglimi da questo stelo e tagliami la nuca per la bontà del mito e la contamina della maretta arsa in tanto imbroglio. 81. in culle di chilometri e disdette qui la penombra tacita del corpo la poca equità le labbra dispari col palo della luce fulminato. imitato dal gorgo questo disguido preme al ponte levatoio al vano del comignolo spezzato dal gomito del lutto sul ricamo. teca di fune il ritorno caso di fuga nomea di sé. 82. pennichella allora è vedervi assisi dentro i simboli per viottoli di sismi a dar le credenziali a chi voglia denutrire i mali. 83. ha un miglio di scarpe per non camminare né sopra stoppie né sopra musive vestali di scorribande ricche di babilonie erettili le lingue del divino sperpero. qui al Campidoglio dell’ultima fregata c’è una grata di ruggine un bastione per le foga del lutto cittadino. 84. aculei di non viso starti a cercare lungo le bisacce delle voglie salse compiute da chiunque nelle spezzature di dar convinti i vili. l’arresto della nenia non ha navate né viali all’opera d’amore davanti allo stordimento a far di veglia le lanugini nei giri delle spore. tu che sprechi ai tarli i tuoi graffiti stammi alla rotta ben fermo capitano tana libera tutti davvero tutti. 85.

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VDBD N°1 con traguardo e fossa do paese all’unghia di graffiare contro il secolo il senso di forca la sorpresa del martoriato alunno contro il muro. se per elicottero avvisti le conserte teste del pianto in ordine sparso, dimmi almeno un coma di virtù che sia felice all’eco dello sguardo. 86. le pagliacciate dell’ombra tra baraccopoli d’inedie zuppe di ciottoli. in mano alla cronaca pestifera s’intoni un verdetto di comando verso il ghetto per comodo diorama. si stacchi l’intonaco si faccia breccia questo scantinato chino dentro di sé breviario almeno di una lepre presta. nottetempo sbocci la crisalide la lite interna dello zero in tasca faccia la folla degli angioli scamuzzoli tutti all’intorno in terra di gran pregio. 87. adornami le ciglia con la meraviglia del vicolo scivolo che scema in lentiggini. prendi per me la scherma del colpo diretto al cuore, mandami al valore della logica carica del varo della notte decifrabile. fragilità del conto tendere le braccia. 88. amore al manto di scostarsi oltre moria o sillaba. baricentro nel trono della melma, me dispersa alzata delle nuvole convesse e senza zona emorragia comunque a questa questua tutta che sa di sale lenta lente giammai del focale. 89. con al collo un amuleto di scompiglio regge la forca del suo gran danzare con l’analisi fioca della ruggine con il liso antipasto di giù vivere viso d’uncino cicca di restauro. 90. Appena avrò saccheggiato la stazione finalmente un atomo di sfinge mi bloccherà le vene, tornami, ti prego, cercarmi in testa

nelle darsene delle isole sterrate nelle capriole dei ricci che si salvano. punta la nuca in un abaco di comico sì che possa ridere la cattura il senso al servo delle demolizioni. 91. lapidi di stelle muraglie di marzapane stanziare animule nel raglio dell’asino da fatica. in crudo l’antro della stufa tutta caligine, il giro del mondo in una girandola di pira per la brace di cadaveri. dove il caso avvenne la ventola non basta per l’afrore forsennato di tombola di non vincita né ciclo appeso ai cantieri in uso accanto alle speranze di uno spazio a nuovo. 92. torno sul cordone di morirne ritmo alieno nome di dolore estro di giugno con le spighe oltre ghetto libere. bere a schiera l’intrusione del diavolo. il viottolo d’arma armonizzerà cadute. 93. vattene, in assoluto, voglio morire sotto le stoppie sulle creste dei galli nelle gole delle forbici. in bilico al commiato che non aspetta nessuno né le tragedie né il solito scherzetto della vacanza in corso di congedo. egemonie dell’ago stare a galla nella rettitudine sicaria del sole grande elemosiniere elementare idiota. 94. lo sguardo dove guardano gli uccelli la groppa arsa crosta di foce diamine devoto il cesto della voce non dia la pace al manico di scopa al perno franto della nicchia in darsena. domani vienimi nella rotta della fanga nella stazione che tacita per vanvera divieto. l’armonia dell’asse non è la formula che smania per la rotta di discapito la pendenza massima dell’orto. 95. ho un collo di ruggine ginestra nel giro di una ruota che deflora salti di marmi gelosie di niente. 96. nel suono delle spore arrendersi

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VDBD N°1 idioma mansueto mare musico cieco, lapidarsi. lapidi di stelle, lapidarsi ora si racconti la gioia della fionda a dar di dadi tratti la concreta darsena di speco. 97. nell’ora che rincorre le persiane il dì del rancido è tutto fatto a darsena con le pazienze che sporgono chimere abbandonate. in ordine alla fossa si compiace il vento in ordine alla mitraglia del panciotto che si compiace la pena del crocicchio delle strade. 98. pernòttati nel lembo del dispatrio dove vengono i vagoni morti tutto azzerante l’alloro delle rondini. soppésati con passi da gigante sicché volare sia un gioco da ragazzi dai terrazzini un passo e sei giù nelle rotaie fertili nel tatto delle coste che colmano d’approdo chi non c’è. 99. muto strepito di alunni l’annuario di gradini lutto al riso soglia di sconforto. 100. una stazione di fotocopia la morgue di guerra il cartellino all’alluce beffa che riluce fandonia di terra afa di domanda. 101. quale scontento d’ascia l’ordine alla resistenza la camionetta che porta via lucertole, treni di vettovaglia nel ninnolo del cero che non si accende. l’eresia del fungo velenoso aspetta la revisione dell’ostaggio la taglia di gomiti in giogo corrotti dal piglio di distare. *****

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VDBD N°1 GIARDINI. RUBRICA DI POESIA A CURA DI FRANCESCO MAROTTA Lorenzo Carlucci - La Comunità Assoluta, nota di Claudio Damiani, Milano, Lampi di Stampa, “Festival”, 2008. Testi

senza titolo Senza faccia, ma certo, senza alcun lineamento, tu annunci lo scandalo delle stagioni. Ti seguiamo, tra i campi, e fino alla diga, coi piedi affondati nel fango Ti dobbiamo seguire per perdere noi pure il nome la vita la faccia

insilenzio3 Ora c’è solo un vento smeraldo, un deserto sopra il tuo viso. Una sera che rade al suolo i tuoi passi. Io vedo il tuo viso su una strada deserta, in una pioggia di cenere. Io vedo i tuoi gesti e sento l’eco che fanno fin dentro il passato. A distanza, mia dolce, io vedo i tuoi gesti vicino a una tenda, che noi dividiamo, in mezzo a un deserto in un vento smeraldo. Ci guarda la notte una volpe. Abbiamo anche un capro espiatorio, legato a un paletto. Io ti ho portata qui Perché è dove non hai bisogno di gioielli. Io ti do un orecchino. Tu mi hai portato qui per far crescere piante, anche nella sabbia. Ora la sera ha solo vento smeraldo, un passato infinito, da dirci. Talvolta i tuoi occhi accarezzano le ossa di qualche sciacallo. Talvolta alle labbra mi sale il segreto di un sorso di vino. Ora i nostri corpi si muovono, nel mondo, come i granelli di sabbia: non vi è né distanza né contiguità non vi è spazio ma vi è movimento. Un movimento rituale, sebbene mai uguale a se stesso, le tue mani che vestono il collo ed il viso di gioielli orecchini corone. Ora la sera ha un vestito, ed un velo, bracciali per le tue caviglie. Io sto inginocchiato e ti abbraccio i ginocchi. Tu mi baci le mani. Ora la sera ci prende il respiro, lo porta a passeggio tra dune distanti, lo strappa lungo incisioni che noi non vediamo. Ora i tuoi piedi così dolcemente raccontano ai figli il destino. La sera ha una voce d’amore.

enespace4 Poesia della mia solitudine aperta in un ampio giaciglio Hai rotto l’argine al mondo - l’androne Poesia della rima italiana

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VDBD N°1 aperta in un calmo sbadiglio Ho mani di figlio per l’ambra - l’androne Poesia della mia meraviglia ridotta: giaciglio la tua scapola è la mia incudine vi tendo due mani di figlio Hai rotto l’argine al mondo scoperto il suo limite altèro ripetimi l’anima a bocca e chiudimi gli occhi al mistero Poesia della tua solitudine e delle tue ossa di rosa smarrisci il mio fiato sul cielo ripetimi dove si posa la voce del piccolo uccello che dorme in un ampio giaciglio si sveglia al mattino e ti tocca con mani con bocca di figlio imboccami con la parola la lingua ed il canto di mirra il fiato profuma di sborra poesia della tua meraviglia io sono un coniglio in un prato smeraldo mi adopero all’ampio giaciglio tu fammi strisciare tirando le ciglia con mani di figlio madonna, estratta alla riffa! mi senti gridare d’estate? ho spento la cicca nel ghiaccio baciato le rime baciate non ho un’altra via per lasciare i piedi da soli sul ciglio

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VDBD N°1

riducimi alla betoniera e baciami gli occhi di figlio continua a parlare se il senno riduce la cenere in luce tradiscimi a qualche crocicchio e fammi arrivare la voce ridotto il tuo fiato nel collo che langue con ali di mirra ti parlo vicino in un rutto che ancora profuma di sborra madonna, legata ad un palo! i lividi sulla caviglia: i calci i calci nel culo! ti voglio vedere inciampare e torcersi le tue caviglie cadere cadere e raschiare col mento l’asfalto e le ciglia squillare le ali frullare per terra ti voglio slegare e scadere ti voglio mandare alla guerra madonna, scontata nel piatto! ti amo, con occhi di figlio con mani di figlio, coniglio, nel rogo del mondo colato. - l’androne

insilenzio9 vengo in spagna con te e cominciamo una nuova vita tu trovi il lavoro che vuoi io cerco dei fondi all'università ma più che altro dipingo, e scrivo, scrivo molto, facciamo dei figli i giorni passano passano vuoti e felici grazie alla grande distanza tra noi al tuo cuore irlandese al mio senzanome grazie alla lingua straniera che ci circonda grazie al tuo esser distinta tra le donne del posto, da una pelle che ancora non regge lo schiaffo del sole. io scrivo, dipingo, ogni tanto dimostro qualcosa, la mando a un giornale facciamo dei figli i giorni passano vuoti e felici vuoti e felici grazie alla grande distanza grazie all'oceano che abbiamo lasciato grazie alle rovine che hanno il mio nome coperto da piante e da scritte altri nomi e grazie al tuo nome che è il nome di un paese che sta accumulando ricchezze. io ti riconosco per strada perché sei bionda tra tutte le brune, mi chiami: tutto l'amore del mondo ci scivola addosso come acqua pulita insieme al do lore ci scivola addosso noi non lo sentiamo vivamo in assenza in assenza totale grazie alla grande distanza tra la mia voce e la tua grazie alla lingua diversa tu mi riconosci perché sto al bar e disegno e perché gli spagnoli ti stanno antipatici tutti i desideri ci scivolano addosso scivolano lungo la tua schiena felice che si china alla finestra al mattino a guardare come sono sciocchi per strada gli uomini e scure le donne. i giorni passano vuoti e felici grazie

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VDBD N°1 ad una distanza grazie ad un esilio grazie alla latitanza della malattia del dolore grazie ai figli che crescono imparando una lingua che non conosciamo e che pure ci chiamano mamma e papà. * Ci si risveglia dal sonno, forse perché è nel sonno che la memoria fa più male; è nell’abbandono del sonno che “metz yeghern” dimora, è qui che alleva e dispiega la sua ala di morte, covando la storia in natura di lebbra: una sorgente inquinata che tracima oltre il vetro dei sogni, e già preme alle porte dell’alba per predarne la luce. Ci si risveglia, allora, sempre in forza di un dolore in cerca di requie o di grido sulla bocca dell’aria; in nome del “piccolo male” che ci segna a dito lungo i giorni, e ci imprime l’unica stimmata capace di soffiare convinzione ai passi nell’attraversamento della “frana”. E’ a questa luce razionale, netta, senza idillio, che occhi e mondo devono reciprocamente abituarsi, affidarsi come in un abbraccio soterico, senza nessun’altra redenzione che non sia la consapevolezza di poter creare di nuovo, al tocco della mano, cose vive, restituirle al novero e alla loro sostanza di voci. La “comunità assoluta” è la cronaca riflessa di questa odissea, il “racconto” di questa restituzione al “quotidiano” dei suoi sigilli e dei suoi altari infranti: non la verginità e il senza tempo di un paradiso perduto e ritrovato per incanto e suggestione d’arte, ma la dimensione esatta del taglio e della ferita, cioè il cammino a ritroso, di cicatrice in cicatrice, di lembo in lembo, di sutura in sutura, fino al primo colpo. Fino al “muro di mattoni” dove ogni nome è un volto che “porta gli occhi del padre”; e chi vi si sofferma, si porta via la certezza di somigliare per sempre all’altro che non conosce, né mai conoscerà. (Francesco Marotta)

"(...) un libro granitico, gettato come una colata subito raggelata in bronzo, eppure, nello stesso tempo, lieve. Perché è il battito stesso della vita che si sente leggendolo, così duro e insieme invisibile, astratto, e insieme fatto di puro affetto, carne. Così queste voci quotidiane intorno a me ora, non mi distraggono, ma quasi mi fanno capire meglio questa solitudine (anzi questa comunità) assoluta" (Claudio Damiani)

"Di Lorenzo Carlucci ho appena ricevuto la Comunità Assoluta. Un libro fitto e tuttavia chiaro, dove si dice tutto cio' che e', nulla di piu' e nulla di meno. Sembrerebbe un libro di logica buddhista, dove ogni parola e' 'tathata', dice il 'che e'' del reale, dice il 'cosi'' e basta." (Roberto Carifi sull'ultimo numero di "Poesia")

La Comunità Assoluta [...] è la prima prova in assolo di Lorenzo Carlucci ed è un assolo che colpisce per coerenza e maturità. I testi della raccolta (in gran parte risalente al 2003, quando l’autore allora ventisettenne era dottorando negli USA) si inseriscono infatti consapevolmente nell’orizzonte di una poetica filosofica o, forse meglio, di una tensione etica che diventa visione ontologica. Emblematica di una tale lettura è la sezione centrale del libro, non a caso intitolata “metodi”, dove esplicitamente l’autore dà conto di come dietro il discorso poetico vi è sempre e soltanto il problema del concetto del mondo. [...] Carlucci [...] appare ben consapevole che, per dirla alla Wittgenstein, ogni discorso è rete e che

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VDBD N°1 insita in qualunque ordine, grammaticale e/o sintattico, c’è una “rappresentazione” , e non a caso il titolo di alcuni dei testi è “enespace”, quasi a dar conto di un’inevitabile teatralizzazione della forma poesia palese anche nei numerosi “dialoghi”. E tuttavia “La Comunità Assoluta” prova la via della rete a maglie larghe, dello scheletro a intelaiatura leggera, che non distragga, anzi, si dislochi sul problema del mondo: la libertà e il male simultaneamente offerti agli umani. Su questi “dati” si fonda il precario equilibrio della grazia, la saggezza di un adeguarsi a qualcosa che saggio non è, al fondo la com/passione che affiora carsicamente in quasi ogni testo della raccolta. (Viola Amarelli su VicoAcitillo)

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VDBD N°1 GIARDINI. RUBRICA DI POESIA A CURA DI FRANCESCO MAROTTA

Federico Zuliani, Travelling South (inedito) Non ho mai creduto alla poesia di/per genere, tanto meno all’esistenza di una poesia “generazionale”. Trovo quest’ultima, se possibile, un’etichetta ancora più trita, inutile e vuota tra tutte quelle che infettano e piagano il panorama della letteratura in versi, deprivandolo della possibilità di significare oltre i limiti arbitrariamente imposti e di mostrare l’intero orizzonte degli echi e degli alfabeti di senso che contiene. Distribuendo patenti e innalzando steccati che, apparentemente, cercano di definire uno spazio e la sua presunta specificità, non fanno altro che negare, nei fatti, la possibilità di un ascolto e di una fruizione a tutto campo di quell’inafferrabile atto creativo che fa del polimorfismo la sua ragion d’essere profonda, il suo peculiare e molteplice sguardo sul mondo. Le “generazioni” allora, di fronte alla risonanza che si genera nel tragitto dall’occhio alla parola (o dall’orecchio alla voce), semplicemente non esistono: esiste il testo (o il corpo sonoro), insieme al complesso di ragioni da cui nasce e di cui, nella circolarità dell’incontro, tende a spogliarsi, fino a mostrare, nudo e libero, il bagliore di oscurità che lo alimenta e sul quale si staglia, prima di oltrarsi lasciando il residuo, la traccia mobile della sua finita e terrestre epifania. Il lampo di oscurità da cui si origina l’atto del dire e la rinominazione del reale in nuovi accenti: ecco a cosa ho immediatamente pensato, leggendo e rileggendo “Travelling South” di Federico Zuliani: e lo pensavo all’interno di un crescente stupore di fronte alla lineare, eppure complessa e articolata, costruzione dell’opera; di fronte alla sapiente, a tratti disarmante, tensione che anima e dispone la sua mano nella gestione e nell’utilizzo di strutture consolidate e subito radicalmente svuotate, riplasmate e rimontate in forme inconsuete, forme antiche, evase, per grazia di poesia, dal silenzio della loro inascoltata gamma di riverberi. Gli è bastato, ad esempio, capovolgere i poli dialettici di rapporti razionalmente, e storicamente, determinati e omologati, ampiamente e per lunga consuetudine consegnati alle categorie del dire e dell’agire, quale quello tra veglia e sonno (magistralmente indagato da Lorenzo Carlucci nella sua stupenda nota); oppure, come credo che in questi versi a tratti succeda, e ad alti livelli, lasciarsi guidare da un’intuizione che si realizza e, lentamente, si fa scrittura nel corso di tutta l’opera: utilizzare il proprio corpo come cassa di risonanza, come medium incontrollato, in balìa dei tempi e degli spazi di una geografia altra che, attraverso di esso, si dice, si rivela. Qui non è più la parola che si fa strumento di lettura del reale, a partire dal soggetto che la utilizza per rappresentare ciò che il suo sguardo raccoglie: ma è la realtà/natura/storia stessa che si impadronisce dello sguardo, dell’occhio, del corpo del poeta e lo costringe a vagare tra cecità e visione, tra oscurità e luce, mentre le labbra pronunciano, per la prima volta, i suoni della terra al suo nascere. Stupore, dicevo: quell’attimo di grazia che ti rende partecipe della comunione/comunicazione che la poesia realizza quando si fa corpo di necessità e pienezza in cerca della dimora dell’ascolto. E che questo avvenga per mano matura di un poeta che scrive il suo primo libro a più di sessant’anni, e ci offre il dono indelebile della sua “mente musicale” (cfr. Michele Ranchetti), o per mano incredibilmente matura di un ragazzo poco più che ventenne, che ci regala frammenti di incredula bellezza, la meraviglia ha la stessa identica funzione, lo stesso invariabile esito: ora abbiamo nuovi occhi per ascoltare il nostro suono più vero nell’alfabeto inudibile del mondo. (Francesco Marotta) *

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VDBD N°1 Nota

critica

di

Lorenzo

Carlucci

su

Travelling

South

di

Federico

Zuliani

Per Amleto il dilemma in aut aut, per il desterrado, invece, o per chi è nato e si muove lontano da casa, pare, a leggere Zuliani, il dilemma è in et ac. L’essere e il non essere sono la condizione, per chi è lontano da casa, la forma che regge è quella del dubbio sciolto nella contraddizione. L’essere e il non essere, l’essere qui (nel corpo) e là (nella mente, e viceversa). “My heart is in the East, and I am at the ends of the West; / How can I taste what I eat and how could it be pleasing to me?”, scriveva Yehudah ha-Levi, ma per il desterrado Zuliani la condizione non è tanto lineare, non si risolve nell’essere qui e non essere là. Non è insomma la semplice (in quanto orientata) condizione dell’esiliato, che ha la sua terra (Santa) in un inaccessibile ma ben determinato luogo fisico. In Zuliani “qui” e “là”, quali deittici, perdono di senso quando le coordinate dei loro denotati si invertono, e si ha piena la coscienza che il “Travelling South” si invertirà prima o poi in un Travelling North. Mente e corpo sono pure difficili da tenere distinti, s’invertono anch’essi, per esempio, se il ricordo (e.g. della vita “perfetta, ed eterna / come la vita di chi va ancora all’asilo”, e chissà dove) è più corporeo del corpo presente, in un luogo di non appartenenza; oppure quando il corpo presente è diventato spirituale, quasi un concetto, in un paesaggio che non riesce a individuarlo, che non offre collocazione e dunque non è propriamente un luogo. Per tanto, soltanto la forma della contraddizione, la forma di ‘A e non A’, sembra poter esprimere adeguatamente questa condizione. Zuliani il desterrado è il terzo escluso. “Pianura di campi immensi e di uomini integri, sei la mia fede, il luogo da cui non si parte ma a cui si torna, sempre.” E ancora: “Nel bosco poi la notte senza fine scopre che anche il buio ha fine.” Per questo Amleto, o meglio per questo Iago (“I am not what I am”), una salvezza è - perchance - solo nel sonno, proprio - perchance - la stessa tentazione dell’altro Amleto – “to sleep - / To sleep, perchance to dream”. Un sogno per il desterrado è l’esistenza in veglia, che è tempo onirico e utopico perché speso in una dissociazione tra lingua e orecchio, luogo della mente e luogo del corpo, mente e corpo stessi. Il sonno è allora un “invito a cadere”, e la tentazione a “lasciarsi dormire” soffre di una ambivalenza (ancora, la forma della contraddizione) tra salvazione e perdizione. “e l’Irlanda questa notte è in lontananza arancio, e qui vicino verde quasi un invito a cadere, e a dire basta, o a lasciarsi dormire.” “Tu mi hai guardato, e senza che te lo permettessi hai visto il buio profondo in cui cade il mio cuore lo strapiombo senza appigli dove vado a dormire” Scrive altrove Zuliani: “[...] non penso sia un caso che si parli degli ebrei come del popolo ’che non ha dove appoggiare il capo’. Dormire è per me, più che un’immagine della morte che sarà, è il momento in cui è più palese la nostra fragilità, e al tempo stesso il nostro essere umani. Può essere vinto anche Sansone nel sonno. Anche nelle baracche dei campi erano presenti le tavole dove dormire. Facciamo il letto, lo sistemiamo, lo prepariamo. E poi cerchiamo un posto dove dormire, in n. 1 - luglio 2008 108 Registrazione c/o Tribunale di Sassari n° 45408


VDBD N°1 modo diverso da come ne cerchiamo per mangiare, per esempio. E’ il momento in cui ci affidiamo agli eventi e in cui confidiamo negli altri (c’è sempre qualcuno di veglia).” Il sonno è la prima di una serie di immagini di salvezza, proprio perché è una immagine della nostra fragilità. Dove può stare infatti il primo indizio di salvezza se non nell’agnizione della nostra fragilità? Ma il desterrado non può abbandonarsi del tutto alla culla del sonno, deve levare il capo, e per tanto, oltre il breve ristoro, la verità – l’unico appiglio - è da riconoscersi forse nell’alternanza di sonno e di veglia. Quest’alternanza di sonno e veglia scandisce il tempo di queste poesie. “Oggi, io e te, ancora una volta ci siamo svegliati nella città vuota” “Sogno di te, e di me, (e di altri) in notti che somigliano ai giorni delle isole quando la notte continua oltre il mattino” Da questa alternanza resta determinato, quasi scavato, il luogo reale, la sola permanenza rintracciabile, per l’individuo che ha lasciato la casa, il cui seme è stato seminato lontano dall’origine, ignaro di sé ma consapevole, soltanto, della propria origine, come scrive Zuliani in questi versi splendidi. “chiuso su questo altopiano dove i miei avi hanno seminato perché io spuntassi, altrove, senza sapere più nulla di me, solo di loro.” — Come si esce da questo Purgatorio?, chiediamo allora a Zuliani, quando la morsa del sonno e della veglia ci stringe la gola, comincia a soffocarci come l’immagine di una forma vuota, che non lascia spazio che a sé stessa, una intercapedine dove l’aria si fa irrespirabile. Il travelling south, ormai lo sappiamo, si invertirà inesorabilmente in un travelling north, et sic in infinitum. Quale salvezza, if any, è possibile, oltre la culla scavata tra tempo e tempo? Non alla nostalgia, non all’amore, Zuliani chiede salvezza. Chiede però il conforto dell’amore e della nostalgia, il breve ristoro, perché la voce che canta in questi testi è voce umana, mente e corpo forse indistinguibili ma entrambi vivi e mortali, passivi e attivi. L’amore, sia esso un sentimento famigliare o erotico, non riesce però a redimere dalla pena d’alternanza, compresenza e simultanea assenza di tutte le determinazioni e coordinate. L’amore sembra anzi adagiarsi su questa moto di marea perenne, si vuole addormentare con il desterrado, rende dolorosamente sensibile la contraddizione (“Tu sei laggiù./ Mentre io sono qua. Non ho più magliette stanotte”), e resta per ciò chiaro che serve altro per una indicazione di salvezza. “l’amore che non avevo mi aveva invece trovato, pur rimanendo lontano, e volle addormentarsi con me, ogni sera, quando non ricordavo neanche più d’essere altrove, e credevo invece d’essere a casa” La vicenda di sonno e di veglia è il metro del tempo per l’individuo che non ha luogo, e che è dunque non individuato, per il nostro Iago. Il tempo è allora il solo fiume al quale si possa affidare la poesia-Ofelia, farla flotter “comme un grand lys”. Il tempo, per chi non ha luogo, è il solo panno che tiene insieme le ossa. Il tempo tiene insieme gli idoli della Repubblica Verde, il dio in forma di gatto della Piana da Fal, e l’Europa cristiana, perché “anche da noi / prima di succedere a Pietro i pontefici / erano soliti trarre auspici dai polli.” Il luogo, al contrario, è n. 1 - luglio 2008 109 Registrazione c/o Tribunale di Sassari n° 45408


VDBD N°1 sempre coperto di neve, è privo di punti di riferimento, una superficie non orientata: il luogoidentità, il luogo-viso, è sfigurato, è sbiancato, scolora nel nulla-quodlibet che segue a una contraddizione (ex falso quodlibet). “La faccia di questa estate è come un grumo di neve.” Il tempo è dunque un primo spazio d’una possibile salvezza. Il tempo di Zuliani è il campo sullo sfondo del quale si può toccare, come presente, tutto il passato, si possono toccate tutti i morti (e i vivi che sappiamo già morti, e i morti che sappiamo ancora vivi). Nel tempo, che unisce e non separa, tutto si raggiunge con un “Tu”. Ma anche questo tempo, in Zuliani, non sfugge alla forma della contraddizione. Il tempo è anzi, come per gli antichi, una contraddizione in movimento, la successione impossibile dei “nun”, “l’immagine in movimento dell’eternità” nel Timeo. Anche il tempo ha in Zuliani il suo doppio. L’altra faccia del tempo è, per il desterrado, la lingua. Tempo e lingua sono i campi di salvezza, e stanno come l’amante e l’amata sulla moneta (il simbolo) che il poeta vorrebbe coniare per vincere la morte: “ognuno in rilievo sopra il vuoto dell’altro.” La lingua è la lingua italiana, e l’impossibilità di tradirla, è lo spagnolo come lingua bella in cui è possibile il sogno (e che va, per tanto, abbandonata), è la lingua tedesca, ancora uno spazio che si sostituisce allo spazio negato di chi non ha luogo. “[...] Forse che questa lingua che uso ma non padroneggio (perché per troppi secoli l’hanno parlata uomini ben più indegni di me) – e che è la patria che mi porto dietro e cui torno sempre – mi concederà in ultimo parole migliori” “Mettermi a studiare il tedesco, per me, ha significato rimettermi finalmente sulla via di casa riavviandomi al contrario per una strada nota.” La lingua come doppio del tempo, e, finalmente, nella lingua, l’atomo della lingua, il nome. Il nome è finalmente il luogo, l’hic del desterrado. È il nome il luogo che si sostituisce al luogo fisico, alle coordinate, il nome è anzi il simbolo, il luogo astratto, che determina il luogo fisico, è il totem che pone un limite dove era soltanto indeterminazione, e rende con ciò possibili il movimento e la direzione. “La sensazione di essere, e di poter andare; sino a quel nome, pronunciato a fatica, a quel luogo, in cui mi so ancora aspettato.” Il nome finalmente, come luogo e salvezza dal luogo, ché la parola è un oggetto e un astratto, un token e un type, vive in questa ambiguità insoluta, in un perenne ‘stare per’, in una suppositio, essere/stare per altro. “Quando mi sono innamorato di lui Israele era poco più di un nome” È il nome la terra promessa.

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VDBD N°1 Testi

Ubi tu, ego gaius (formula matrimoniale nella Roma repubblicana) Tampoco sabemos ya rezar porque hemos perdido el silencio y también el gríto (Ernesto Sabato, La resistenciaa)

1. Diretti a sud-ovest, marciando, tra la brina dei campi del Nord dell’Irlanda, quando l’alba è lontana e il cielo morto, d’una morte di venerdì, senza alcuna speranza m’accorgo che di Yeats non ne ho letto abbastanza così che invento per me apocrifi e ritraduco poesie qui che un aviere irlandese prevede la sua morte (e il Donegal si fa scuro, come torba porosa) in una stanza d’ostello riposa una ragazza le cui mano sono come stelle, o bottiglie aguzze di ricoprire muri ora che è passata la pioggia, e ci sono le stelle. Ma la marcia non è cinese, e non è marziale e l’Irlanda questa notte è in lontananza arancio, e qui vicino verde quasi un invito a cadere, e a dire basta, o a lasciarsi dormire.

2. Dopo aver chiamato il mio letto molti letti diversi si è imparato a confidare poco, ma a fidarsi molto. Così questa notte. L’inferno dicono sia fatto di luce, e di acqua. Affinché ci si possa vedere. Faccia a faccia e te, nell’acqua. Ora in compenso maggio è già settembre e il viaggio temuto è passato, trasformandosi in foto e in ricordo. Negli empori d’Africa non si conosce la parola biscotti al massimo ci sono gallette oltre alle liste d’attesa e alle legende in tigrigno a coprire originali italiani mentre il sole di fuori si abbassa e si tramuta in pianura. Qui dove noi abbiamo un passato, ed una colpa. Mentre il sole si abbassa, e compare la luna.

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VDBD N°1

7. C’è qualcosa nella luce stanotte oltre le sponde del fiume. Sono gl’alberi e gl’uccelli dei boschi mentre la macchina si fa più vicina arriva, e si fa più distante. Tu sei laggiù. Mentre io sono qua. Non ho più magliette stanotte bruciato come sono mani e piedi dal freddo. La faccia di questa estate è come un grumo di neve. L’occhio del mondo invece non guarda, e scruta, qui che è capanni in abete, e sdraio d’ottone. Nel bosco poi la notte senza fine scopre che anche il buio ha fine. Come coriandoli d’oro le stelle svengono piano e la luce diventa saggio, sguardo e violenza, contenta.

9. Chi non l’ha mai vista non sa, cosa sia, la Croce del Sud. Mitologia senza dei di chi si dirige in basso laggiù dove si cammina a testa sotto, e si fa tanto sesso e simbolo preesistente di un Dio giunto, profezia e figura. Riassunto celeste di ciò che è il Sud: cinque stelle di cui nessuno sa il nome, nessuna polare nessuna unica. Unicità inesistente in un mondo che ne è altri ma che (non) è (mai) se stesso. Così per quella croce vale la pena addormentarsi in lagune basse o sopra i tetti mai spioventi di una città argentina mentre la notte per una volta non è straniera, ma è madre, e quelle cinque stelle sono te, e tu puoi anche decidere di essere loro.

21. 3/12/2005, a te

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VDBD N°1 Quando nel buio scuro di quando s’è spenta la luce, e ci si è denudati, tu ti avvicini a me e mi offri ciò che sei, e che un tempo fosti anche allora io non ti avrò mai conosciuto sino al giorno in cui - a occhi chiusi – appoggiando le sole dita su di te non saprò riconoscere le ciccatrici profonde che mi nascondi. Ciccatrici di mozziconi spenti in passant e di parole gettate con mala grazia su di noi un giorno quando eravamo più brutti e appena imberbi prima che partissimo, neanche diretti lontano, come barche a vela latina certi mattini di maggio sopra un mare che è lastra azzurra, e vecchia speranza.

24. Il giorno che non sarò più raccoglimi, come castagne vecchie che non mangeremo, in un sacco, e gettami oltre le siepi del tempo, e del pianto. Allora, solo allora, invita a cena i miei amici e dì loro di scegliere tra gli scaffali un mio libro, e di tenerlo, quindi vendi gli altri e va dove vuoi e dimenticami. Fosse per me vorrei solamente svegliarmi un giorno laggiù, dove sai, e dove è bello. Tu, ora che puoi, sposati; solo ricordati di aspettare giugno tra tutti senza dubbio il mese più bello. Bello perché ha notti accoglienti e mattini ampi e ricordi che non saranno più tali quando saremo morti, come una specie di vento.

28. La neve là dove non nevica mai ha la fragranza di un tovaglia di Fiandra sepolta nei cassetti più intimi, e più speciali. Qualcosa di cui s’è mantenuto il mito più che il ricordo e che si è imparato ad immaginare e a non vedere. Sino al giorno in cui una forza inappellabile come una madre la sceglie, e l’estrae. Una coltre bianca e apparecchiata: con sottobottiglia in argento

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VDBD N°1 e cristalli Boemia. Allora, vale la pena alzarsi di notte, uscire dal letto e andare a osservala: prima che ci cadano il vino, la pioggia e il mattino.

36. Svegliarsi quando gli altri dormono è come entrare nella stanza proibita. Allungarsi sulla porta per girare il pomello reggendone il peso perché chiudendo non sbatta quindi respirare a ritmo, e camminare piano. Gelosi più che timorosi del proprio silenzio. Svegliarsi alle 6 significa poter guardare finestre che altrimenti vedrei solo aperte. Accendendo la luce più piccola mi siedo al tavolo quadrato della mia cucina, da solo, e apro il giornale del giorno prima per leggere notizie morte mentre mi sento vivo.

37. Nel momento in cui il lutto diventa vivo il fardello più duro da portare fra tutti è il cambio in corsa del proprio sistema metrico. Rieducandosi a pensare a tre subito (e non dicendo quattro e sottraendo uno), nel pratico: contare i posti in un ristorante o in quante frazioni ridurre una mela. Abituando la mente a un nuovo cambio, a una nuova misura, filosoficamente, a un nuovo modo di interpretare il mondo. Scoprendo le riconversioni quanto poco valgano e quanto spazio abbia l’approssimazione.

39. Per me tu sei i cimiteri, la terra grassa che han concimato le mie ossa. Quando ero lontano mi hai parlato

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VDBD N°1 velandomi gli occhi colle tue fattezze. Pianura di campi immensi e di uomini integri, sei la mia fede, il luogo da cui non si parte ma a cui si torna, sempre. Tu sei i campanili, un barocco dolce per quanto austero; fatto di santi lavoratori conservati con la cura con cui si conserva il pane. Ebbene tu concedimi in ultimo di poter tornare sterco e humus tra i tuoi pioppi, e la tua brina. *** Nota Federico Zuliani è nato a Milano nel 1983 ed è in procinto di laurearsi in Storia presso l’Università Statale della stessa città. A partire dall’adolescenza ha vissuto lunghi periodi all’estero, tra Argentina, Scandinavia e Asia. Ha pubblicato alcune traduzioni da autori iberici e nordici su riviste e in volume (J. V. Jensen, Alla stazione di Memphis, La Pulce, 2005). Travelling South raccoglie testi scritti tra il 2005 e il 2006.

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VDBD N°1 GIARDINI. RUBRICA DI POESIA A CURA DI FRANCESCO MAROTTA

Francesca Sallusti - La lepre cede il passo all'oro – prefazione di Jacopo Ricciardi, postfazione di Stelvio Di Spigno, Forlì, Editrice L’arcolaio, “I Germogli”, 2008. Testi (senza titolo) Luci nel solaio, appena tardi. Si vedono solo le tue mani. Il cinema è a pochi passi, alcuni odori si impigliano al carbone proprio vicino alle tue mani. Non facciamo niente, abbiamo miglio sotto la giacca. Nascondiamo il denaro sotto quella giacca, pensiamo sia il posto migliore. La giacca è dove càpita, senza precauzioni. Buio, non vedo niente, solo l'odore di sandalo e pietra. Tutte le sedie sono di ruggina persino la pioggia e le montagne. Paese di ruggine, paese di creature profumate di giglio nell'orecchio, delle screpolature dorate fragili sulle gote, bronzo tra le lacrime. Non sentono, i suoni sono larve. Paese di padri e figli e madri.

Claudia Vorrei essere la signora di mezza età alla fermata dell’autobus che indica il numero alla sua amica. Vorrei essere la donna con il bimbo in mano ancora gravida. Vorrei essere la ragazza che cerca la via lontana dal suo quartiere. Invece sono una puttana con il suo bambino. Vorrei essere l’uomo che giace e un muro di casa rinfrescato dalla pioggia di fuori dipinto di un colore ben intatto, non rovinato dal tempo e guardare i miei cari mangiare. Vorrei essere la mano che dirige un piccolo veicolo nel pomeriggio mite di un giorno autunnale vorrei essere un individuo caro al tempo.

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VDBD N°1 Parte Prima Sotto il cielo di questa città di questa èra l’amore dirotta trainato da un viso qualsiasi donna uomo madre figlio. .... Ho trovato un angolo questa mattina, a occhi bassi, come quando l’amore e l’aurora erano un unico sigillo negli occhi e contaminavo quel cemento con i miei occhi bassi. .... La luce che entra nei capelli come il ragno nella tela e i passi tra i passi nella città. Un’automobile in fretta sulla strada, come la fine del cielo, più calda della pietra che porti sulla fronte. .... Ho speso tutti i miei soldi per comprare delle rose. Hanno il colore che hanno le rose il loro colore di quelle rose dalla carnagione del cielo al suo finire.

Elefantina Sono madre scalza sulle pendici della terra e levigo un’arma, straniera. La mia nuova terra si chiamerà Elefantina. In omaggio all’obesità dei giorni la mia nuova terra si chiamerà Elefantina. Con lei migrerò in me. Ho riposto le tue ossa nel cielo anche se io non conosco il cielo lo posso vedere aspettandoti. Poi arrivi come l’uccello che migra. Dunque sei la nuova terra che si stende cadendo dalle mie mani l’inchiostro su cui la giovinezza planerà l’orma sulla schiena dell’universo. Il volto che l’idolo dirigerà. Stendi il seme che porto sulla fronte, te lo donerò tra la fine del giorno e l’inizio di un altro giorno ancora quando la luce si sporgerà, e lieve e ordinata attenderà fuori alla porta, appoggiandosi. Tu porgilo sui tuoi occhi.

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VDBD N°1

Il tuo viso è la mia parola Scosta il viso dalla pioggia come il battito nel cuore, la sua pelle sarà la mia nuova vita. Madre sorella figlia. Il tuo viso è la mia parola Rammenda i miei occhi come un tempo si barattava l’orzo bagna la mia fronte come la delizia del primo vento mattutino. Il tuo viso è la mia parola Spargi la mia parola su questa sfera che ha sete, porgi a lei l’acqua dell’universo. Il tuo viso è la mia parola Scrivi, del tempo che si avvicina al tuo corpo e, donandoti il suo passo ti rende indifferente alla sofferenza. Dell’acqua versata sul viso e stesa sulle gote con le mani, quando il caldo impedisce il cammino. Scrivi, della forma breve, come una preghiera prima della notte, del tuo linguaggio. *** Dalla prefazione (”Nell’universo nessuna cosa può mentire“) di Jacopo Ricciardi La sincerità è incanto. Si deve parlare di poesia quando questa è portata con tanta sincerità e quando la sincerità è tanto particolare da porgere un incanto; un incanto particolarissimo e ricco come è quello femminile nel momento unico e privato di una donna che mette al mondo un figlio: questa poesia sembra possedere tutte le doti emotive e propulsive di un animo femminile còlto nel momento di maggiore sensibilità, come è quello, per una donna, della rivelazione di una nascita che si prepara. E questo tema non è per nulla scontato nel panorama della poesia di oggi. E non lo è, proprio per il naturale e privato modo di esprimersi che utilizza, al cuore di una poetessa madre, dall’interno di un sentimento – in un modo che a me, da uomo, sembra molto più intimo di qualsiasi altra poesia maschile. Viene utilizzato il carattere di una innata bontà, che è proprio di una vita che crea dentro di sé una vita che deve venire al mondo e nascere e crescere: è l’inevitabilità della vita, in tutto ciò che è vivo e vissuto vivamente, in un incanto naturale biologico. Questo è sicuramente uno dei pregi di questa poesia: una complicità vitale, quotidiana, anche poetica, nel presente dell’unione più forte tra due individui: il concepimento di un figlio, la vita di quel loro figlio, da quel momento, che trascina e porta insieme le loro vite, l’una per l’altra. Che l’incanto abbia un suo centro preciso e che coincida con il suo stesso sogno e che questo sia la complicità, e che questo stato di cose venga rivelato attraverso il mezzo della

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VDBD N°1 poesia, mantenendolo davanti al lettore vivo e pieno, è cosa che ha del miracoloso, non soltanto per le doti della poetessa, ma per il valore umano trasmesso: un incanto reale, coraggioso. Mi sono chiesto se queste poesie potessero essere apprezzate più e meglio di quanto io ne abbia goduto alla lettura; me lo sono chiesto perché nel caso fosse possibile sarei geloso di quel segreto pensiero, di quel lettore o di quella lettrice. Lo sarei perché qui ci troviamo in un ambito di vita vissuta e di confronto umano, e la lettura in questo caso è quanto mai simile al vivere, e io vorrei viverla e vivere in ogni modo che questa poesia consente. Lo vorrei perché farei della mia vita un evento più ricco e la solleciterei come accade con un evento reale – come se assistessi al valore e al potenziale di una nascita. E da uomo assisto al fiorire del senso drammatico naturale e preciso del senso della femminilità. [...] * Dalla postfazione di Stelvio Di Spigno È una poesia di difficile decifrazione, quella di Francesca Sallusti. E senza voler correre il rischio di applicare etichette incongrue senza centrare l’obiettivo, sarà meglio parlare dei suoi versi come fossero venuti dal nulla, frutto di un talento aristocratico e altezzoso che d’improvviso mostra le proprie credenziali ai nostri occhi, fin troppo abituati a consonanze e detriti di esperienze poetiche consolidate. La lepre cede il passo all’oro è una raccolta di versi nella quale la disarmonia del vivere quotidiano si riempie di simboli preziosi, di chiaroscuri ricchi e viziosi, di echi deformanti, di continue slabbrature che mimano la casualità della vita; la scommessa della Sallusti, quanto mai ardita come il coup de dés di un Mallarmé apocrifo, mira a un significato complessivo originario quanto indefinibile. Questo libro inizia proprio lì dove l’esperienza concreta di un personaggio fittizio e volontariamente abnorme sconta la propria rinuncia a una definizione personale. L’io non intende essere se stesso, individuarsi, starsene buono mentre le ipotesi di leggibilità altrui fanno a gara a immettere per primi una qualche trama di protagonismo a questi versi. Direi di più: Francesca Sallusti conia un vero e proprio anticonformismo poetico, depistando alacremente le buone maniere di una vita fin troppo borghese e abbracciando un’etica capovolta, quella di rinuncia a una identità accertabile. Si tratta di una scelta esiziale, in quanto fonda le coordinate di un esilio coraggioso: quello dalla frenesia della ricerca di un ruolo, nella vita come nella ideazione letteraria. Ma questa mancanza di identità vuol dire anche follia, ascolto delle cose in tutte le loro vibrazioni, poter essere e diventare tutto: madre e puttana, moglie e scrittrice, figlia e madre, alata creatura angelica precisa fino all’ossessione sui propri contenuti. La libertà sofferta e caotica di questa operazione è lo scotto da pagare all’ambizione invalidante del vivere in questo nostro tempo. [...]

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VDBD N°1 BALAUSTRE Sandra Palombo e Lucetta Frisa in PETIT QUESTIONNAIRE POUR JEAN ECHENOZ

Jean Echenoz ha gentilmente rilasciato questa intervista due settimane prima di essere proclamato vincitore della 36esima edizione del “Premio Letterario Internazionale Isola d' Elba – Raffaello Brignetti” con la seguente motivazione : Ravel è un romanzo cui si accede per la porta stretta, dagli esigui margini, della biografia letteraria. La vita del grande musicista francese, genio senza qualità dal carattere enigmatico, viene narrata con una tecnica rigorosa, a tagli squadrati e secchi come sulla materia di una pietra dura, un diamante sfaccettato e scintillante.Ravel è un personaggio ricostruito in una dimensione parallela a quella della vita che fu, nella scansione di alcuni eventi: il viaggio in

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VDBD N°1 America, la composizione del Bolero, la controversia con Paul Wittgenstein, il pianista dal braccio d’oro, il successo planetario, l’indifferenza alla fama, la progressiva malattia, la psicologia deserta di affetti e sentimenti, eppure stranamente misteriosamente umanissima.Un romanzo che è una sfida alla verità imperscrutabile delle vite che sono state grandi e che pure sembrano non avere lasciato tracce, se non nella letteratura.

Maurice Ravel

D- Pourquoi s’occuper de Maurice Ravel? Pourquoi ce choix si particulier? A cosa è dovuto il suo interesse particolare per Maurice Ravel ? R - D’abord parce que sa musique m’accompagne depuis l’enfance. Puis la visite de sa maison à Montfort-l’Amaury a été un révélateur. Ensuite, en découvrant sa vie à travers différents documents, j’ai eu le sentiment d’avoir affaire à un mystère qui m’intriguait, et qui m’a donné le désir de traiter ce personnage réel comme un personnage de fiction. D’autant plus que plus j’apprenais de choses sur Maurice Ravel, plus j’avais l’impression qu’il s’éloignait, comme s’il refusait qu’on l’approche : je me trouvais moi-même, ainsi, dans une situation presque romanesque. Innanzitutto perché la sua musica mi accompagna fin dall’infanzia. Poi la visita alla sua casa di Monfort-l’Amaury è stata una rivelazione. Successivamente, mentre scoprivo la sua vita da documenti diversi, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a un mistero coinvolgente e che mi ha fatto nascere il desiderio di trattare questo personaggio reale come un personaggio immaginario. Mentre acquisivo via via più notizie su Maurice Ravel, più lui sembrava allontanarsi, come se non volesse essere avvicinato: mi trovavo così anch’io in una situazione quasi romanzesca.

D - Dans votre livre, vous avez décrit le protagoniste égaré avec toute une série de tics, de manies, d’obsessions comme celle de ne pouvoir habiter que dans de petites pièces etc. Et vous, quel est l’aspect de ce musicien que vous aimez davantage? Nel suo libro ha descritto il protagonista in preda a una quantità di tic, manie, ossessioni come quella di abitare in piccoli appartamenti. E qual è, per lei, l’aspetto di questo musicista che più le piace? n. 1 - luglio 2008 121 Registrazione c/o Tribunale di Sassari n° 45408


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R - Sa relation à son travail, peut-être: l’extraordinaire décalage entre l’élaboration quotidienne, difficile, presque torturée d’une oeuvre, et le résultat lumineux de cette création. Sa solitude, aussi, liée à cette obsession du travail. Forse il rapporto con la sua opera : lo scarto straordinario, tra l’elaborazione quotidiana, tanto difficile, quasi tormentosa di un’opera e il risultato luminoso di questa creazione. Anche la sua solitudine legata a questa ossessione del lavoro.

D - Votre traducteur, Monsieur Giorgio Pinotti, a fait un excellent travail ; cependant il a declaré qu’il a été assez difficile pour lui de traduire en italien «la musicalité intime» de votre style, de votre language. Qu’en pensez-vous? Giorgio Pinotti, il suo traduttore è stato bravissimo, tuttavia ha affermato di avere avuto difficoltà a tradurre in italiano “la musicalità interna” del suo stile, della sua lingua. Che cosa ha da dire a riguardo? R - Ne parlant malheureusement pas l’italien, il m’est difficile de vous répondre sur ce sujet. Purtroppo non parlo l’italiano, e mi è difficile rispondere a riguardo.

D - Entre «Ravel» et «Au piano» (ce dernier n’a pas encore été traduit en italien) quelle différence y-a-t-il ? Et pourquoi la musique ou bien les musiciens, ou tout simplement les aimants de la musique sont les sujets de ces deux livres ? Il y en a un troisième en cours d’écriture qui parle de la vie pour la musique ? Tra « Ravel » e il libro successivo «Au piano» che non è stato ancora tradotto in italiano, che differenza c’è? E perché la musica o i musicisti o semplicemente gli amanti della musica sono i soggetti di questi due libri? Forse ne sta scrivendo ancora un terzo che parla della vita per la musica? R - Dans «Au piano», j’avais envie de m’intéresser à la question de l’interprète, et de construire pour ce roman un personnage d’interprète imaginaire, en toute liberté. Dans «Ravel», il s’agissait au contraire de partir d’un compositeur réel et de détourner son parcours du côté de la fiction tout en respectant la réalité de ce parcours, donc dans une marge de liberté très différente. La musique a toujours été présente dans mes précédents romans, comme elle est présente dans ma vie, mais elle n’avait pas occupé jusqu’ici le premier rôle comme dans ces deux livres. Pour le moment, je n’ai pas d’autre projet sur ce thème. In «Au piano» desideravo occuparmi del problema dell’interpretazione, e costruire per questo romanzo,in totale libertà, il personaggio immaginario di un interprete. Al contrario, in «Ravel», si trattava di partire da un compositore reale e deviare il suo percorso in direzione della finzione ma rispettando la realtà di questo percorso, perciò con un margine di libertà molto diverso. La musica è stata sempre presente nei miei romanzi precedenti, com’è presente nella mia vita, ma fino a questo momento non aveva assunto un ruolo da protagonista come in questi due libri. Non ho altri progetti di scrittura su questo tema, almeno per il momento.

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D - Vers l’achèvement de l’histoire, Ravel ne maîtrise plus son corps: son âme, son esprit sont prisonniers d’une matière désobéissante. Il ne se souvient plus de la musique, à laquelle il a consacré sa vie, il n’est plus capable de la lire, même la sienne. Ce sont la maladie et la caducité qui vous touchent en particulier? Notamment les maladies nerveuses, les maladies du cerveau qui font perdre à l’homme son identité en l’arrachant à soi-même et à sa dignité? Verso la fine della storia, Ravel non è più padrone del suo corpo : la sua anima, il suo spirito sono prigionieri di una materia che non gli corrisponde più. Non si ricorda della musica a cui ha dedicato la vita, non è più in grado di leggerla, neppure la propria. Sono le malattia e la caducità a colpirla particolarmente? Come le malattie nervose, le malattie cerebrali che sottraggono all’uomo la sua identità strappandolo a se stesso e alla sua dignità? R - Ce n’est pas la maladie elle-même qui m’intéressait. Je voulais décrire la chute de ce personnage, depuis le moment de sa plus grande gloire vers sa disparition progressive. C’est ce mouvement tragique dont je voulais rendre compte. Non è la malattia di per sé che mi interessava. Volevo descrivere la caduta di questo personaggio, dall’apice del successo fino alla sua progressiva scomparsa. E’ di questo percorso tragico che intendevo farvi partecipi.

D- Des écoliers de l’île d’Elba ont lu votre Ravel, des jeunes étudiants qui ont jugé votre livre en tant que membres d’un jury populaire. Ca vous a fait plaisir? Degli studenti dell’isola d’Elba hanno letto il suo libro, dei giovani studenti che facevano parte di una giuria popolare. Questa cosa le ha fatto piacere?

R - Énormément plaisir, oui. Quand il m’est arrivé d’intervenir auprès de lecteurs plus jeunes, dans un cadre scolaire, j’ai souvent été frappé par la pertinence des leurs questions. Si, mi hanno fatto un enorme piacere. Quando mi è capitato di intervenire tra lettori più giovani, in un contesto scolastico, sono stato spesso colpito dalla pertinenza delle loro domande

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VDBD N°1 BALAUSTRE Marina Raccanelli

ammirare ciotole, vasi, statue, bruciaprofumi, strumenti musicali

Si aprono anche scenari insospettati e molto stimolanti sulle abitudini

(perfettamente funzionanti), scatole e scatoline, piccoli mobili, paraventi, specchi, abiti, stampe, una lussuosa portantina decorata, dipinti su rotolo… In occasioni speciali, come questa, vengono estratti dai ricchissimi – mai completamente esplorati – depositi di Ca’ Pesaro, opere recentemente restaurate; vengono esposte al pubblico per un periodo più o meno breve, ed illustrate da specialisti in grado di farne conoscere ed apprezzare l’origine storica ed il livello artistico, oltre allo stato di conservazione che rivela interessanti aspetti dei materiali impiegati e della tecnica usata.

di vita, sulle tradizioni e la cultura del popolo, che esprime queste meraviglie, nate dalla mente e dalla mano di venerati maestri.

L'ARTE DEL RESTAURO FRA ORIENTE E OCCIDENTE Intervista a Barbara Biciocchi Nell’ambito della Settimana della Cultura (25-31 marzo 2008), Barbara Biciocchi ha presentato a Ca’ Pesaro, sede del Museo di Arte Moderna e anche del Museo di Arte Orientale a Venezia, “La celebrazione del mito e del rito attraverso le preziose stampe giapponesi, dal deposito del Museo di Arte Orientale di Venezia”. Questo Museo rappresenta una delle più importanti collezioni di arte giapponese del Periodo Edo (1600-1868) presenti in Europa e si trova nell'antico palazzo della famiglia Pesaro a San Stae; gli innumerevoli oggetti, solo in minima parte esposti per motivi di spazio, derivano da una raccolta che il principe Enrico di Borbone, conte di Bardi, acquistò durante il suo viaggio intorno al mondo, compiuto tra il 1887 ed il 1889. Nelle vetrine delle stanze ombrose del palazzo, appese alle pareti, su tavolini possiamo

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Oggi tocca dunque a Barbara Biciocchi: nata a Roma 46 anni fa, sposata con Giancarlo e mamma di Livia e Francesco (ci tiene a questa precisazione!), dopo il Liceo Artistico ha conseguito il diploma di Restauratrice di beni Librari e documentali ( inserendo nel corso di studi “Tecniche di conservazione delle opere su carta giapponesi” ) presso L’Istituto Centrale per la Patologia del Libro del Ministero per i Beni e Attività Culturali ( 1984 ).

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VDBD N°1 Nel 1986 ha vinto un concorso pubblico nazionale per la qualifica di Restauratore Capo Tecnico specializzato in materiali cartacei, bandito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali: i posti a disposizione erano solamente 4! Fino al 1990 è stata Capo Restauratore

presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari. Nel 1990 ha frequentato il Corso di Specializzazione sulla conservazione ed il restauro delle opere d’arte occidentali e orientali tenutosi ad Horn ( Austria

) dall’International Centre for the study of the Preservation and Restoration of Cultural Property ( ICCROM ) in collaborazione con il Tokio National Research Institute of Cultural Properties. Nel novembre 1990 è entrata in servizio presso l’Istituto Centrale per il

Restauro di Roma, sezione Opere d’arte dipinte su carta; in seguito, nel novembre 2003 è giunta qui a Venezia, distaccata presso il Museo d’arte Orientale di Venezia con la qualifica di Restauratore

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Conservatore Direttore per il settore materiale cartaceo. Nel 2006 ha partecipato al Corso di Specializzazione sulla Conservazione dei Dipinti su Rotolo Giapponesi tenutosi a Tokio, Kioto e Nara da luglio a settembre, unica partecipante italiana ammessa dalla selezione. Ha pubblicato articoli e contributi su testi e riviste specializzate. Barbara accoglie i visitatori abbigliata con una giacca rosso scuro che ricorda un kimono; la sua frangia irregolare le dà un aspetto molto giovane. Le spiegazioni, chiare ed esaurienti, ricche di spunti e stimoli per la curiosità di chi ascolta, vengono offerte con il sorriso di chi ama il suo lavoro, lo fa con passione e vuole comunicare il gusto delle proprie scoperte, il senso della bellezza che emana dalle opere d’arte presentate. Si esprime con un linguaggio elegante e preciso, tecnico solo quanto serve, privo di pedanti pretenziosità. Un breve excursus sulla storia della xilografia in Giappone apre la presentazione di nove stampe di soggetti svariati; come per tutte le forme d’arte giapponesi, l’origine delle tecniche, dei soggetti e degli stilemi risale all’India, il percorso attraverso i secoli poi si snoda attraverso la Cina e si giunge infine in

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VDBD N°1 Giappone attraverso il ponte della Corea. Nel tempo, avvengono numerose trasformazioni che portano gradualmente a quell’iconfondibile stile che affascinò, fra gli altri, Van Gogh e Touluose Lautrec, e che prende il nome di Giapponismo. Introdotte nell’VIII secolo nei monasteri giapponesi, le xilografie, da semplici illustrazioni di soggetti religiosi in bianco e nero, divennero, nei secoli tra il 1600 e il 1800, opere raffinate, dai colori morbidi o decisi, ottenuti con la sovrapposizione di

matrici fino al numero di 20, e con linee sinuose e profili stilizzati; i soggetti si aprono a largo raggio fino a coprire uomini, donne, animali, stagioni, luoghi, paesaggi e dettagli di ogni genere, con una grandissima ricchezza di tipologie, tutti, però, molto legati alla cultura giapponese, per cui ogni persona ed ogni luogo ha un preciso riferimento ad una tradizione, a un mito, un rito. Nulla è affidato al caso, nella scelta del soggetto, nel modo di presentare “quella” precisa

inquadratura, il taglio della scena; col tempo, si codifica anche la posizione della firma, il sigillo dell’autore, la presentazione del soggetto attraverso un’iscrizione; la bellezza dei caratteri ideografici fa parte dell’opera d’arte: a volte i segni tracciati con disinvolta eleganza sembrano cadere dall’alto al basso come i petali dei fiori, sbozzati poco più sotto e danzanti intorno alla sinuosa fanciulla in kimono. L’artista disegna il soggetto sopra un foglio di carta sottilissimo, poi lo incolla con gesti accurati e rituali sulla tavoletta di legno levigato; a questo punto il pittore si limita a sorvegliare l’esecuzione tecnica della sua opera da parte di un selezionatissimo gruppo di collaboratori, ciascuno dei quali specializzato nell’esecuzione di un compito ben preciso (chi si occupa dei volti, chi degli alberi o degli abiti, e così via); la parte più difficile spetta allo stampatore. Il minimo errore comporta la necessità di ricominciare tutto dall’inizio, per ottenere un risultato per quanto possibile vicino alla perfezione. Fra le stampe che ho potuto ammirare in questa occasione, ho apprezzato senz’altro la scelta di tutte nove, ciascuna simbolica di un soggetto, un mito, un pensiero, un ambiente, e ciascuna bella da vedere di

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VDBD N°1 per se stessa; per quanto riguarda il mio gusto personale, come immediato impatto allo sguardo posso dire che la prima e l’ultima mi sono piaciute maggiormente per la perfetta armonia dell’insieme. La prima ha come soggetto il segno zodiacale del topo, ed appartiene ad una serie sui segni zodiacali, per l’appunto: le stampe non venivano acquistate per appenderle alle pareti, ma, collezionate in serie, erano custodite gelosamente in mobili appositi, per poi estrarle godendone con amici e parenti in occasioni speciali, durante una festa, ascoltando musica suonata da fanciulle esperte, ammirando danze rituali, ma soprattutto partecipando alla lenta e stilizzata cerimonia del the. Il segno del topo è rappresentato da una giovane donna vestita sontuosamente, immersa in una gloriosa fioritura di ciliegi; i petali le volano intorno e costituisco anche l’ornamento essenziale della sua complessa acconciatura. La figura femminile è come compenetrata dagli elementi della natura, piegati però anch’essi a rappresentare simbolismi umani; dal punto di vista estetico, le linee curve sono il leitmotiv imperante, che assorbe e armonizza ogni tendenza centrifuga, proveniente dalla quantità di

dettagli…linee più marcate ed importanti, linee più sfumate, dal kimono al petalo minuscolo, è tutto un ondeggiare di segni, e ricordiamo che l’onda è anche il simbolo zen del continuo fluire del cosmo, dell’impermanenza dell’universo intero, di cui fa parte l’uomo. L’onda è protagonista dichiarata della stampa numero 9, “La principessa Ototachibana che si getta in mare”, dedicata ad un’antica leggenda d’amore e di sacrificio: la principessa infatti si gettò dalla nave in cui viaggiava per placare l’ira del dio del mare, e salvare così il marito che era impegnato nell’impresa della conquista delle Terre del Nord. La giovane donna è rappresentata nel momento in cui si sta gettando: onde infuriano ai suoi piedi, una pioggia obliqua la sferza, onde sono anche i suoi capelli sciolti, massa scarmigliata che si muove su di lei e intorno a lei. Nessuna traccia di spavento altera la bellezza del viso: la principessa è già onda anche lei, sembra sapere che un tempio le verrà dedicato a perpetua memoria del suo sacrificio. Anche qui, colpisce la coerenza armoniosa di linee curve, sinuose; poichè la scena si immagina vista attraverso un velo di pioggia, i colori sono tenui, spenti; lo stesso stato precario di conservazione della

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stampa, in questo caso, le aggiunge un fascino dolente. Naturalmente, a questo punto il deterioramento è stato fermato e viene costantemente tenuto sotto controllo, perché una lieve patina del tempo può andar bene, ma non di più. Alla fine della presentazione, Barbara si sofferma per rispondere alle domande delle persone che l’hanno ascoltata, e che non sembrano volersi allontanare, tante sono le curiosità suscitate. Circondata da un gruppo di signore, neppure Barbara sembra aver fretta; anzi, continua a rispondere, ed ogni riposta apre nuovi orizzonti di interesse… Ci ritroviamo in seguito, ed ho il piacere di poterle rivolgere alcune domande. Quando e come è nato il tuo amore per l’arte figurativa? E’ nato in famiglia da piccolissima. Mia madre è un’artista di grande talento che,fino alla pensione, ha insegnato materie artistiche nelle scuole. E’ nata a Genova da una famiglia di origine francese-piemontese. Sposando mio padre, romano, è venuta a vivere nella mia città che amava moltissimo. Stava scoprendo i segreti, la storia e la bellezza di Roma con me appena nata e così sono stata allattata

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VDBD N°1 al Foro e in quel boschetto di querce che esiste da sempre alle pendici del Campidoglio. I primi passi li ho fatti in Villa Adriana di Tivoli e venivo imbambolata, nello svezzamento, con quei grandi fascicoli dei Fratelli Fabbri Editori, i Maestri del Colore, che conservo ancora appiccicosi di stelline e capellini d’angelo. Perché hai deciso di specializzarti nel restauro di opere su carta? Quando ho cominciato ad interessarmi al restauro, agli inizi degli anni ’80, la “moda del restauro” basata sui criteri di scientificità era all’apice ma investiva le arti considerate maggiori: l’affresco, la pittura su tavola e tela, il restauro archeologico di materiali ceramici e metallici e così via. La carta era una branca allo sfondo, che raccoglieva solo le briciole dei finanziamenti. Appassionava una nicchia di studenti ma aveva una grande attrattiva che, personalmente, me la rendeva irresistibile: il restauro dei materiali cartacei veniva considerato dagli esperti più complesso degli altri e più insidioso vista la fragilità di questo materiale. In un restauro scientificamente impostato il margine di rischio è talmente basso che si può considerare quasi inesistente, ma nel

restauro della carta qualsiasi errore potenziale significa il danno irreversibile dell’opera. Il restauro della carta mi ha convinto anche per le maggiori difficoltà che può presentare.

incalzanti di capire che venivano senza sosta dagli allievi. Altri maestri non tollerano troppe sollecitazioni, perché nella cultura orientale questo atteggiamento viene considerato maleducato.

Nell’ambito dei tuoi studi e della tua pratica del restauro, quando è nata la tua passione per l’arte orientale, e giapponese in particolare?

Parlaci della tua esperienza in Giappone.

E’ nata dall’incontro con il mio primo insegnante di tecniche di Restauro delle Opere su Carta Orientali, il Maestro Katsuhiko Masuda, avvenuto nella metà degli anni ’80. Dopo di lui ci sono stati altri maestri e tutti hanno lasciato il segno, ma il primo ha la responsabilità dell’imprinting che, consapevolmente, sa di esercitare sull’apprendista neofita. Solo in seguito ho potuto comprendere che questo primo maestro aveva in più una particolare modestia, quasi una umiltà, nel modo di porgere (e non imporre) i suoi insegnamenti. Questo modo di insegnare corrisponde ad uno stile molto antico. Il maestro Masuda integra perfettamente l’insegnamento con il suo carattere molto schivo, timido e riservato. Non per questo, a differenza di altri grandi maestri, ha mai ritenuto di doversi sottrarre alle richieste

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Sono stata in Giappone alcune volte. E’ difficile essere sintetici nel rispondere. Voglio solo dire che appena si arriva in questo paese si rimane sbalorditi dalla differenza tra le nostre culture, il modo di vivere, il modo in cui sono regolati i rapporti sociali tra gli individui e, in particolare, tra docente e discente. Appare chiaro fin dall’inizio che ti viene richiesto di adattarti,per venire inserito ( a tutti gli effetti, anche se il periodo di tempo è limitato ) nella loro piramide gerarchica. Questa serie di obblighi viene vissuta da alcuni come una sfida, questo è un errore. Va invece valutato e mai perso di vista un altro fattore: se si è arrivati lì è perché si è stati ammessi dopo una dura selezione. Ai loro occhi solo questo valore ci ha resi idonei all’apprendimento delle loro tecniche e con le loro modalità. E’ molto più utile e, alla fine del percorso, enormemente gratificante umanamente e professionalmente, impegnarsi al massimo per meritare di aver

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VDBD N°1 ottenuto il privilegio e la opportunità di insieme a loro, nella loro cultura.

grande difficile lavorare immersi

Nonostante la difficoltà oggettiva di poter comprimere in poche righe tante e tali differenze di mentalità e di cultura, mi piacerebbe, tuttavia, che tu ti soffermassi almeno un po’ sulla figura del “maestro” in Giappone, sui suoi rapporti con gli allievi, ed eventualmente sulle modalità dell’apprendistato in questo paese. Il percorso di apprendistato di un restauratore, in Giappone è inimmaginabile per noi. Le sue modalità sono rimaste invariate da un migliaio di anni e sono a tutt’oggi rigorosamente in vigore. Si rimane nella condizione di apprendista per i primi tre anni; in questo periodo così lungo si rimane in fondo allo studio (in Giappone il laboratorio di restauro si chiama studio) ad osservare il lavoro degli allievi più anziani, non si può parlare né chiedere alcunché. L’apprendista ha il compito di provvedere ad alcune semplici preparazioni e il dovere di mantenere in perfetta efficienza l’attrezzatura e l’ordine dello studio che, al termine di una giornata di lavoro, viene sempre ripristinato.

L’apprendista non soffre di alcun complesso di inferiorità (solo noi occidentali siamo erroneamente portati a pensarla così), perché è consapevole di essere costantemente tenuto in osservazione e sottoposto al giudizio del maestro, che può essere più o meno benevolo. In questa prima parte dell’apprendistato non si ricevono insegnamenti diretti ma indiretti; l’apprendista viene immediatamente valutato nelle sue capacità di attenzione, nella manualità, nella capacità di sostenere la dura disciplina senza compromettere la progressione dei miglioramenti che ci si aspetta da lui. Non tutti resistono. Quelli che ce la fanno hanno ottime possibilità di arrivare al termine del ciclo che, in totale, dura circa un decennio. Per quanto riguarda la pratica del restauro, quali sono le maggiori differenze tra la scuola italiana, ed occidentale in genere, e quella giapponese? Le differenze sono totali come la cultura che ha generato le due scuole per la conservazione ed il restauro delle opere d’arte. La tipologia delle opere rispecchia la visione del mondo che le ha originate, per storia, religione, e per il percorso e l’avvicendamento che le tecniche di espressione

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artistica hanno effettuato nelle diverse epoche, nei diversi paesi del mondo Occidentale ed Orientale. Lo stesso concetto di “restauro” non coincide. Diciamo solo che si usano materiali e tecniche diversissime, utensili diversi dai nostri anche per come si devono maneggiare. In Giappone bisogna anche imparare ad assumere degli atteggiamenti del corpo inusuali per noi, come quando bisogna fare delle operazioni di massima precisione su tavoli molto stretti, lunghi e bassi. Non potendo addentrarmi nella vastità che comporterebbe l’analisi di tutte queste differenze, preferisco fare un accenno al rischio reale rappresentato dalla contaminazione tra le due scuole che sono parimenti prestigiose, senza ombra di dubbio. Le maggiori collezioni di Arte Orientale si trovano nel mondo occidentale ( in Europa, nelle Americhe, in Australia ) e naturalmente la loro tutela è affidata ai restauratori ed ai conservatori dei diversi paesi che ospitano queste collezioni. Si può facilmente immaginare quanta differenza si trova nel percorso di formazione di questi validissimi restauratori – conservatori. Negli anni è nato un processo molto naturale di confronto basato sul massimo rispetto e sullo studio costante ed aggiornato di

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VDBD N°1 entrambe le tecniche conservative. Il confronto ha prodotto una vera e propria “via di mezzo” che io chiamo contaminazione. Questa realtà è veramente l’oggetto della disputa tra i mondi del restauro occidentale e quello orientale ed è ben lontana da una qualche soluzione. La contaminazione delle tecniche c’è, è ormai una realtà. La Scuola Orientale ha una posizione chiaramente contraria a questa sovrapposizione tra tecniche, nel mio piccolo mi colloco senz’altro all’interno di questa posizione. Durante questo corso in Giappone, hai avvertito qualche forma di preclusione nei tuoi confronti in quanto donna, in un mondo di artisti tradizionalmente maschile? Prima di partire per fare questo genere di esperienze, si viene solo in minima parte preparati su quello che si troverà, anche sul piano dei rapporti umani. Che la società giapponese ed orientale in genere sia prevalentemente maschilista è un dato di fatto. Le nuove generazioni stanno però

dando poderose spallate a questo stato delle cose, che sta inesorabilmente diventando più favorevole per il mondo femminile. E’ però un processo lento e difficoltoso, perchè alterna accelerazioni a situazioni dove la resistenza al cambiamento della tradizione è ostinata. Nel caso specifico di allieve donne di tutte le provenienze geografiche, culturali, religiose in visita di studio per merito di accordi bilaterali fra i diversi paesi coinvolti, l’atteggiamento è estremamente rispettoso. Mantengono sempre un certo distacco con le donne, un poco più evidente rispetto al cameratismo che invece si viene a creare tra uomini. (Ma questo è un aspetto che vede tante eccezioni, dipende molto dall’educazione e dal carattere) Invece nel rapporto tra maestro e allieva non si rimane mai in condizione di svantaggio. Se c’è sintonia, rispetto reciproco, e se si raggiungono gli obiettivi prefissati magari superandoli, si crea un legame speciale dal quale le donne non sono escluse. Secondo il tuo parere, per poter meglio comprendere ed assaporare un’opera

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d’arte, fino a qual punto è importante conoscere il suo contesto culturale, storico e sociale? Le opere d’arte sono la ricchezza di tutti e chiunque, a qualsiasi livello culturale, a qualsiasi età ed in qualsiasi contesto, possiede all’interno di se le capacità per goderne. Forse l’età è un fattore che aiuta a scoprire la propria sensibilità verso un’espressione artistica piuttosto che un’altra. Con il tempo si può anche leggere, approfondire, viaggiare, lasciarsi coinvolgere, innamorarsi della forma d’arte che tocca le corde della nostra personale sensibilità. Oltretutto con l’età si cambiano anche gusti, altri se ne affinano e la ricerca è sempre continua. Va bene approfondire, leggere, studiare; alla fine però quello che conta è il brivido che sfiora la pelle di fronte ad un’opera d’arte che ha colpito nel segno, nella profondità dell’anima. Per questo anch’io ho sempre girato per i musei, le città d’arte, i siti archeologici con i bambini piccoli, come facevano con me perché quei brividi li provavo già allora.

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BALAUSTRE Alessandra Pigliaru LA FEMMINILITA' RITROVATA Saggio-intervista sul cinema di Alina Marazzi *

Il corpo della madre. Una costellazione di segni e rugose asperità. Un mondo differenziato dal confine fisico e, al contempo, mappa per la conoscenza di noi stessi. Così quella speculare conoscenza si riverbera nella cognizione del circostante. Il primo Altro è forse il corpo materno, quel femminile archetipico e misterioso Altro che diventa così una traccia. L’unica traccia attraverso cui guardare il mondo. La capacità endoscopica di Alina Marazzi, giovane e brillante cineasta contemporanea, sta nell’aver acquisito una particolarissima e originale lente attraverso cui guardarsi e guardare. Un’ora sola ti vorrei è forse il tentativo di riportare lo specchio in terra, ricomponendolo, e di

mostrare un’idea della maternità attraverso l’elemento medio della macchina da presa. Sa auscultare ogni asperità, Alina. E procede nella conoscenza di sé muovendosi per setacci. Diceva Bergson che “La memoria non è la facoltà di classificar ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. Non c'è registro, non c'è cassetto (...) In realtà, il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt'intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori”. Ecco che nel film della Marazzi si assiste ad una memoria che , chiosando sul presente, percorre le crepe della propria identità. Una ricerca inesausta quella di Un’ora sola ti vorrei, una ricerca personale e resa sapientemente assoluta dalla maestria cinematografica con la

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quale viene rappresentata. Le lettere e i vecchi filmati in super8 utilizzati, sono anche i nostri. In qualche modo appartengono

paradossalmente a tutti. Così la Marazzi riesce a produrre quella empatica fruizione tanto rara nel cinema contemporaneo; riesce a trasportare lo spettatore dinanzi alla propria coscienza rendendola teatrale nel terzo che la osserva. Nel caso di Un’ora sola ti vorrei, a giocare di rimbalzo, sta la consapevolezza del grido; quella stupefacente generosità femminile che accoglie e che dice, piano ma potentemente, cosa si sente oltre la soglia dell’ingannevole tempo che passa. Non solo. Un’ora sola ti vorrei è un film-documentario sul come si possa andare avanti nella perdita. Un doloroso senso di vertigine che la Marazzi rende

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VDBD N°1 poetica del senso mancato, come Moira di se stessa, filando svolgendo e recidendo. [A.P.]: Credo che si possa dire che si occupa di cinema al femminile. O meglio, nelle sue recenti fatiche si intravede una linea conduttrice circa la femminilità e le sue declinazioni. In Un’ora sola ti vorrei la figura materna è intesa specularmene alla conoscenza di se stessa? [A.M.]: Assolutamente si. Come in qualche modo viene detto all’inizio del film in cui c’è questo testo che dice: Adesso ti racconto la mia storia, la tua storia. Quindi raccontare la storia della propria madre, delle proprie origini, sì, è stato un ricomporre diciamo il legame con le origini, con la famiglia, con la propria identità per cui un rispecchiamento nella propria storia.

Il primo viso che riconosciamo è quello della madre. Un viso che, è la stessa Marazzi a ricordarlo, non dimenticheremo mai. Si susseguono fotogrammi e vecchie foto con volti femminili che si intersecano alla storia di ognuna. Volti in bianco e nero che respirano dell’onnipotenza dell’oblio. E poi c’è lei, Liseli, la madre di Alina alla quale il film è dedicato. Un’ora sola ti vorrei è il racconto

della vita di Liseli e Alina, una madre e una figlia legate a doppio filo attraverso la trasformazione del corpo di una nell’altra. Quando Liseli comincia a stare male, Alina è molto piccola. Il percorso è dunque uno scoperchiare vecchi cassetti, piccole porte socchiuse sul perché della perdita e il suo bruciore ritorto nel dolore. Un dolore che però nella pellicola della Marazzi ha tutto il sapore agro-dolce della distanza irrimediabile. Una lente obliqua che consente alla regista di scandagliare e ritrovare infine un senso, il suo personale, e insieme il nostro, nella ricerca della verità singolare e soggettiva. [A.P.]: Affronta un tema abbastanza spinoso come il disagio nella malattia in maniera molto dolce. Mi pare di vedere nelle

immagini che assembla un percorso contrassegnato da una potente e pacificante consapevolezza del dolore. Mi sbaglio?

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[A.M.]: Non lo so, nel senso che ognuno ci mette gli aggettivi che vuole. Sicuramente il percorso personale che io ho fatto è un percorso molto doloroso e di scavo che però se inizialmente partiva con un atteggiamento rivendicativo, nel corso del tempo si è modificato in un

atteggiamento di riconciliazione. Userei queste parole, ecco. Per sempre è il secondo momento della trilogia dedicata alla femminilità. Procedendo attraverso il concetto di corporeità e dinamica esistenziale ad esso correlata, diciamo subito che Per sempre è l’antitesi del percorso fin qui proposto. Rispetto alla ricerca della madre e del suo ordine simbolico, ci si sposta verso una geografia dell’inesplorabile. Così Alina apre le porte alla vita di alcune monache di clausura. Indaga la scelta ma non esprime giudizi. Mostra e documenta l’esistenza femminile seguendo un percorso per niente scontato attraverso precise scelte fotografiche.

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VDBD N°1 [A.P.]: Zavoli nel 1959, dedica un documentario radiofonico alla Clausura. Ricordo che quando lo sentii rimasi stordita dalla potenza vocale di quelle donne che raccontavano senza mai uscire allo scoperto. Anche lei nel suo film-documentario Per sempre, accompagna il percorso di una novizia che comprende di non aver imboccato la giusta strada per sé. Mi rimangono impresse le lettere che vi siete scambiate e la sua voce. Un po’ come se la negazione del corpo corrispondesse ad un trionfo della parola. Paradossale pensare all’affermazione della voce in una condizione che predilige il silenzio dell’introspezione. Come ha vissuto la testimonianza delle monache incontrate? [A.M.]: Il documentario nasce come un’indagine sulla scelta definitiva, una scelta che a noi appare assoluta; per chi non la conosce, una scelta difficile da mantenere; quindi la curiosità era un po’ quella: cercare di avvicinarsi a qualche cosa di apparentemente molto lontano, molto diverso, per capire invece che cosa a livello più esistenziale può essere compreso di questo tipo di scelta, di fedeltà. Il mio era un approccio di tipo esistenziale, filosofico sulla scelta definitiva. L’ultima tappa del percorso poetico è un documentario-racconto in

cui la corporeità, intesa come fisicità e coscienza femminile, arriva all’acme. Certamente in Vogliamo anche le rose, la capacità di introspezione, gioca con le voci altrui. Con tutte le altre voci che la Marazzi incontra e decide di inserire. La pellicola è ricca di innumerevoli filmati d’epoca e frammenti diaristici privati. Quest’ultima scelta è segno evidente che solo con la testimonianza diretta può portare il monologo singolo ad un dialogo fecondo col proprio sé.

[A.P.]: Recentemente ha girato un terzo film che guardo come alla chiusura di un ciclo e all’apertura di uno ulteriore, evidentemente, per lei. Leggo una forte passione in Vogliamo anche le rose. Quasi un’esplosione corale dell’affermazione femminile collettiva. Da dove parte il suo bisogno di raccontare gli anni Sessanta e Settanta attraverso un documentario? [A.M.]: Parte da un’osservazione del presente, della realtà; di come noi oggi, donne e uomini, viviamo le nostre

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relazioni, la relazione con i ruoli di genere, maschile e femminile; quindi mi è venuta voglia di ripercorrere la storia di quel decennio denso di cambiamenti e

trasformazioni, per capire da dove ci arrivano alcune conquiste e modi di pensare e comportamenti e, invece, che cosa è andato perso di quelle lotte e di quella consapevolezza che le persone avevano acquisito in quegli anni. [A.P.]: Il concetto di corpo credo sia uno dei fili rossi che contraddistinguono la sua poetica. Mentre in Un’ora sola ti vorrei lei si avvicina alla conoscenza di se stessa attraverso la mappa della madre, in Per sempre guarda e osserva il corpo dall’esterno. Un corpo femminile totalmente-altro, inesplorabile appunto. In Vogliamo anche le rose invece si immerge completamente nella plurima valenza semantica che il corpo acquista nella storia del pensiero occidentale. Cosa pensa sia rimasto di quel retaggio?

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VDBD N°1 [A.M.]: Purtroppo penso sia andato perso la maggior parte di quello che era stato acquisito a livello di consapevolezza, nel senso che mi sembra che in quegli anni le persone si fossero chieste cosa significasse avere un rapporto col proprio corpo e col corpo degli altri. Mi sembra che oggi si dia molto per scontato il piano dei diritti, per esempio. Mi sembra che il desiderio di sapere e di conoscere anche il proprio corpo, penso alle donne e tutto il sapere che in quegli anni si era acquisito rispetto alla riproduzione e alla contraccezione, oggi mi pare che non ci sia, né come desiderio, né come voglia di trasmettere alle generazioni più giovani. Da un lato c’è una libertà che dà l’illusione di autodeterminazione, dall’altro vedo molta aggressività dalla parte maschile della società (che non vuol dire tutti gli uomini) su questo corpo della donna liberato e quindi anche un’escalation di violenza nei confronti della donna. La decisione di ascoltare ciò che le donne comuni, nelle condizioni più disparate, avvertissero come motto di cambiamento, è la cifra originale entro cui la Marazzi si muove e traghetta lo spettatore. Accoglie, dopo una selezione, tre diari privati, scritti in anni diversi da altrettante donne che non

si conoscevano l’una con l’altra. Li trova nell’Archivio Diari di Pieve Santo Stefano e si accorge subito dell’importanza delle testimonianze. Sono tre storie diverse, perché differenti sono le età delle giovani protagoniste, l’appartenenza sociale, il background di esperienze . La prima, Anita, racconta della propria inadeguatezza verso il cambiamento del corpo e l’educazione rigida che le è stata impartita. Si sente e la fanno sentire frigida, addirittura. Non capisce come si possa amare ed essere amate perché non conosce la libertà. La accarezza forse, la racconta attraverso la sua esperienza presessantotto. Racconta della timidezza e della consapevolezza dell’inautenticità della fede in Dio: «Martedì sono stata alla riunione dei Minimi per preparare la messa. Devo riconoscere che il 99% della mia fede in Dio è provocata dalla paura di mio padre. Dio non esiste, pensavo, o almeno io non ci credo. Un genitore ha detto che la figlia quattordicenne pensa cose orribili, vorrebbe andare a messa quando se la sente e non necessariamente di domenica. Ma lui la trascinerà in chiesa e lei dovrà abituarsi: vedremo se non finirà per credere. Avrei voluto gridargli di tacere, guardi come m’ha rovinato mio padre!» (1). Il

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secondo diario che incontriamo è quello di Teresa al quale seguirà quello di Valentina. Il secondo tuttavia, è forse quello più drammatico. Teresa racconta dell’aborto e di come l’idea della maternità sia mutata con l’andare del tempo. Alla voce fuori campo che legge le testimonianze (siamo attorno al ‘76) si susseguono filmati di repertorio. Si riconosce una giovanissima Emma Bonino, si parla di Adele Faccio (che compare addirittura in sogno ad una giovane e spaventata Teresa) e di tutte quelle donne e uomini che, facendo attenzione, consentivano alle donne di interrompere la gravidanza. L’orribile metodo Karman viene descritto alla perfezione e gli esiti sono nelle ultime parole di Teresa come incubo oscuro: « Mi alzo da un letto l’ospedale, in una lunga camicia da notte bianca. Mi avvicino a una culletta di vimini, deliziosa, tutta rivestita di merletti inamidati. Mi chino, scopro appena il lenzuolino candido e mi appare una testolina incantevole e il bimbo più bello che io abbia mai visto […] Resto incantata a contemplare tanta bellezza e lui mi guarda con quegli occhi sognanti. Mi sembra di averlo già visto un bimbo bello così, somiglia a quella foto di Lù neonato, tra le braccia di sua madre. Vorrei

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VDBD N°1 prendermelo e portarmelo via. Mi accorgo che le nostre camicie hanno lo stesso merletto sul fondo delle maniche…Per me è un segno certo: questo bimbo è mio! […] Mi chino per prenderlo ma solo allora mi rendo conto che, nella stessa culla, alla sinistra del mio, c’è un altro bambino…- e alla sua sinistra un altro e un altro ancora ndr – […] Ce n’è un altro ancora e non è più un viso e non è più nulla, solo un grumo di sangue rappreso, in cui, pure, distinguo due occhi che mi implorano…che orrore! Devo prendere il mio bambino e fuggire. Scopro il lenzuolo candido e sotto…sotto c’è un corpicino dolce, un tenero corpicino indifeso che sorregge cinque teste: il bimbo è uno solo ed è un mostro! Che angoscia risvegliarmi di nuovo con questa immagine terrifica davanti agli occhi e non riesco a mandarla via. Perché Agenda Rossa, questo sogno è tornato a tormentarmi ? Perché proprio ora? Ora che è tutto finito» (2) Dovranno trascorrere ancora due anni affinché la legge sull’aborto, la 194 del 1978 appunto, venga approvata. L’aborto diviene così legale e il dolore non viene più a sommarsi con la pericolosità e il sentimento di clandestinità. Il terzo diario è quello di Valentina. Una riflessione matura sulle scelte

politiche e personali. In questa ultima testimonianza si intravedono le speranze e le ipotesi del movimento culturale nelle sue molteplici eredità: «Bisogna trovare un modello da seguire. Ci guardiamo intorno e vediamo che non ce ne sono. Alcune prendono i soldi dal marito. Qualche altra ha avuto sempre uomini importanti. E ci sono forse le vere emancipate che passano da un uomo all'altro, ma con caratteristiche di stabilità. Parliamo ovviamente di compagne. Quando esce fuori la politica, si torna alla massa indistinta delle donne. Il dissenso si esprime solo con orribili urla al microfono. La passività si generalizza battendo le mani su tutto. È come se tutto quello che è successo di concreto, di nuovo, inedito, nei vari corsi, fosse cancellato di colpo. In albergo leggo il diario di Carla Lonzi comprato prima di partire. Parla di quello che io non so dire, i rapporti tra donne nel femminismo. È pesante, è il diario di una mente. È stupenda l'insistenza della Lonzi sull'autenticità. Ed è affascinante la forza del separatismo. Le donne hanno un coraggio enorme a indagare i rapporti tra donne. Gli uomini non potranno mai dirlo di se stessi. Però poi le donne si sminuiscono perché

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pensano che indagare i rapporti non è politica, è subalternità. Siamo sconfitti, uomini e donne, dopo il '77. Penso che i veri effetti saranno lenti a insediarsi nella nostra coscienza» (3) [A.P.]: Che importanza hanno da un punto di vista etico-politico le memorie private diaristiche che ha raccolto per girare Vogliamo anche le rose? [A.M.]: La storia è fatta dalle tante piccole storie delle persone. Per me era importante, raccontando quegli anni, dare spazio al racconto privato e soggettivo proprio perché, in quegli anni, c’è stata una riscoperta della soggettività dandole valore. È un portare il privato nel collettivo, partendo dal soggettivo fino ad arrivare al piano politico. Parlando degli anni Settanta, era importante per me trovare storie di persone comuni, storie esemplari.

Il pregio di Alina Marazzi è di non aver fatto un documentario propagandistico o fortemente ideologizzato ma anche di saper riconoscere i limiti e le contraddizioni che la lotta per l’emancipazione sessuale porta con sé. Il monito è certamente quello di salvaguardare i diritti acquisiti e qui, la Marazzi, percorre gli snodi decisivi verso la parità tra uomini e donne, almeno da

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VDBD N°1 un punto di vista legislativo, ricordando che solo nel 1966 la contraccezione veniva ancora considerata un reato contro la stirpe; che solo nel 1977 viene approvata la legge sulla parità del lavoro circa i salari; che solo nel 1996 viene approvata la legge n. 66 sulla violenza sessuale, ora riconosciuto come reato contro la persona e così via. Il corpo della madre, quell’altipiano di rugose asperità, nell’ultima fatica

ascolto in lingua materna che, pur rispettando la memoria collettiva, rimesta tutti i cassetti e in un solo grido è capace di dire di no. La notevole capacità poetica della regista sta nell’aver fatto dialogare l’elemento soggettivo con la Storia degli anni sessanta e settanta, in un unico potente arazzo, che ci riguarda tutti e sa parlare ad ognuno di noi.

di Alina Marazzi, rappresenta il luogo della libertà e della femminilità ritrovata e rinnovata. Della capacità di sentirsi da dentro, dal ventre, come mai fino a quel momento era accaduto. Un

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*** NOTE 1 Diario di Anita, 1969, in Le rose, a cura di Alina Marazzi, Feltrinelli, maggio 2008, p. 59. Questo tratto non viene inserito nel film ma è presente nel diario riportato, pur sempre in forma ridotta, nel libro curato dalla Marazzi che accompagna il dvd del film. 2 Diario di Teresa, Bari 1976 23 settembre, in Ibidem, cit. pp. 81,82. 3 Diario di Valentina, Roma 1979. Il diario non è inserito, come invece i precedenti, nel libro curato dalla Marazzi citato alla nota 1. Si possono ascoltare le selezioni all’interno del film, nell’ultima parte. * Ringrazio Alina Marazzi per il tempo che mi ha dedicato.

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VDBD N°1

BALAUSTRE Marco Buttafuoco ARTE E PSICANALISI. Intervista a Laura Pigozzi

“ A nuda voce “ è il titolo di un testo molto suggestivo pubblicato recentemente da Antigone, casa editrice torinese. Ne è autrice Laura Pigozzi, psicanalista, cantante jazz ed apprezzata didatta . E’ un libro che riassume una lunga ricerca scientifica ed artistica e, contemporaneamente, delinea nuovi sentieri, suggerisce nuovi spunti e riflessioni. Un testo che coniuga chiarezza di esposizione e rigore scientifico, acutezza di analisi ed una forte carica emotiva. Ho provato a parlarne con l’ autrice, senza una strategia precisa, lasciando affiorare temi e suggestioni da una traccia quanto mai schematica di intervista. Improvvisando , come si conviene a chi ama il jazz. Un approccio che non dice forse tutto della ricchezza del libro, ma che spero, sarà uno stimolo ad una approfondita lettura. “ Uno dei concetti più interessanti ed inediti di “ A nuda voce “, almeno per un profano, è quello della psicanalisi come arte ; l’ arte , forse, dell’ indicibile ed in questo tanto vicina al canto che tu pratichi” “ Si è detto molto, anche a sproposito, sulla psicanalisi, della quale non esiste probabilmente una definizione univoca e definitiva. Il mio approccio all’analisi come arte segue prevalentemente quello di Lacan, studioso e terapeuta attivo a Parigi negli anni settanta ed ottanta. Lacan individuava nel metodo analitico un “tertium” fra arte e scienza. A differenza dagli altri approcci terapeutici (Psicologia, psicoterapia, psichiatria) il nostro non si basa solo sulla similarità dei sintomi e dei fenomeni ma tiene conto e mette in primo piano quanto di unico e di inedito c’è in ogni esperienza della mente. La psicanalisi quindi non medicalizza il sintomo, non tende alla sua rimozione. Uso un paradosso, un’esagerazione che però può aiutare meglio a capire quanto voglio dire. Il sintomo, la manifestazione del disagio, della sofferenza è spesso un “opera d’ arte”, un unicum che nasce dalla storia irripetibile di un essere umano. E’ il modo imperfetto di fare i conti con una storia personale e con i traumi che questa storia ha prodotto. Ci muoviamo quindi sia sul piano scientifico della ripetitività, della regolarità di certi fenomeni sia su quello “artistico” della unicità del singolo. Trovo che oggi ci sia un preoccupante fenomeno di anestesia dei sentimenti. Sembra infatti che la sensibilità moderna sia sempre più “addormentata” nei confronti dell’ altro, sia esso un

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VDBD N°1 individuo o l’ ambiente sociale in cui si vive. Ora anestetica è dal punto di vista linguistico è esattamente il contrario di estetica. Ecco io vedo nell’ estetica la via per riposizionare un soggetto in un circuito pulsionale. Nel concreto, nell’ esperienza clinica, la ricongiunzione di un soggetto a questo circuito avviene spesso proprio attraverso il recupero di una sua propria e specifica capacità creativa. Certo il risultato è spesso un estetica imperfetta, in divenire. Proprio come quella del jazz , soprattutto quello cantato, arte basata sull’ improvvisazione e nella quale il corpo, quindi l’ eros, gioca un ruolo fondamentale. Così come gioca un ruolo fondamentale quanto c’ è di estraneo, di inedito. L’ irruzione di una nota che non appartiene alla scala che si sta suonando apre paesaggi sonori diversi , indica nuove strade. Allo stesso modo il sintomo della sofferenza psichica può essere la chiave per il disvelamento di un nuovo paesaggio interiore. “ Un grande poeta afro americano, Amiri Baraka ( Il nome inglese è Leroi Jones ndr) ha scritto che l’ arte non africana è basata su una terribile ed innaturale scissione fra corpo e spirito, fra religione e quotidianità, fra materia e pensiero. Cosa ne pensi ?” “ Amo moltissimo Baraka.Lo leggo e nei suoi versi sento una voce, fisica, reale, che grida. Nelle sue parole scritte c’ è un corpo vivo, pulsante. E qui arriviamo al punto centrale della mia indagine. La voce. Che è il suono di un corpo. Perché un corpo, anche se non lo sappiamo sempre leggere, racconta una sua storia.. La voce partecipa della psiche e del corpo. Nella voce si può riassorbire quella scissione fra queste due dimensioni. Una scissione davvero terribilmente presente nella nostra cultura. Una cultura spesso tutta idealista, lontana dal corpo e dalla sua vita reale. L’ artista africano sublima, trasforma in qualche modo la pulsione corporea., la utilizza,. La cultura occidentale e quella asiatica relegano in un angolo buio la dimensione fisica dell’ individuo. L’ idealizzazione è per la psicanalisi la mortificazione del corpo. “A nuda voce “ si sofferma anche sul canto lirico, un arte nella quale le capacità vocali e l’ emotività si dispiegano al grado massimo” “ In effetti parlo della “diva”, dell’ eroina del melodramma. Che è uno dei paradigmi più tipici della disincarnazione che attraversa gran parte dell’ arte occidentale. Il grido dell’ eroina , della diva, trascende infatti ogni limite dato dalla nostra cultura,, deborda nell’ indicibile. Infatti le protagoniste delle opere muoiono sempre…I librettisti ed i compositori , maschi, fanno fatica ad accettare questo sconfinamento. Perché l’ emotività femminile del melodramma partecipa di quel fenomeno misterioso che è il godimento di una donna. Fenomeno non conosciuto anche perché rimosso dalla nostra cultura, non nominato , non accettato. L’ eroina che deborda e sconfina in questi territori misteriosi diventa irriducibile al sentire comune. La morte diventa la maniera per disincarnare questa emotività, questo godimento intollerabile. Questo, al di là delle connessioni con il canto lirico è uno dei punti centrali del mio libro: l’ orgasmo femminile, il suo mistero, la sua rimozione. Quello che non si nomina, dice più o meno un proverbio africano, non esiste. Il godimento femminile, come certi fantasmi mortiferi e mostruosi che agitano la gravidanza di molte donne, non vengono nemmeno nominati in questi nostri tempi. “ Torniamo alla voce, centro e protagonista del tuo libro, nel quale troviamo pagine e pagine, molto suggestive ed emozionanti, sul rapporto vocale fra madre e bambino, fin dal periodo fetale” “ In effetti il feto ascolta la voce materna. Il suono di questa voce è accompagnato dal ritmo del battito del cuore della madre e dai gorgoglii del liquido amniotico. Penso che il nostro

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VDBD N°1 desiderio di musica , il bisogno che abbiamo di cantare, di accompagnarsi con strumenti vari, di darsi un ritmo o suonare con altri nasca da questa esperienza sonora. Non l’ ho potuto approfondire in questo lavoro, ma è un idea che svilupperò. E’ comunque la voce materna che da al feto ed al bambino il primo rapporto concreto con il mondo circostante. Fra madre e neonato si crea un rapporto vocale profondo ed unico, insostituibile, nei primi mesi di vita. Poi la voce del padre aiuta il distacco. La voce paterna insegna il vivere sociale, la legge.

“ C’è un capitolo del tuo libro nel quale si parla del “timbro blu”. Una tua scoperta, direi “. “E’ in effetti una mia piccola invenzione della quale sono molto orgogliosa, anche perché sta cominciando ad essere diffusa fra i musicisti.. Il timbro blu è quella la voce che ci ammalia, che ci cattura intimamente senza un motivo spiegabile. Kandinskij si innamorò della sua seconda moglie dopo averla sentita al telefono. Dipinse subito un acquerello in onore di quella voce.

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VDBD N°1 Il timbro blu e’ magari una suono imperfetto, forse nemmeno necessariamente bello; non è classificabile. Si impone però e può far deragliare la vita dai binari quotidiani. La voce, nella letteratura e nelle stessa psicanalisi,, disciplina fondata sulla voce , è stata sempre trascurata. L’ idealizzazione dei sentimenti e della realtà ha fatto in maniera che la voce fosse un dato secondario nella vicenda umana. –forse perché troppo legata al corpo. Il linguaggio d’ amore, l’ amore stesso nella nostra cultura è idealizzato, disincarnato, angelicato. La voce del castrato è un segno di questo fenomeno : la mutilazione del corpo per raggiungere un ideale di voce angelica. Questa scissione è, a dire il vero, tipicamente maschile. Di qui nascono drammi clinici importanti. Vere e proprie impotenze psichiche. Non si può amare carnalmente un essere idealizzato, una donna resa angelo.

“Chiudiamo con un accenno al bellissimo capitolo sulla voce delle sirene.” “ Sono stata sempre affascinata dal mito che Omero racconta nell’ Odissea, Vedo nel canto delle Sirene un canto sapienziale, di sapienza femminile, dionisiaco che non disdegna la dimensione del godimento, di quel godimento femminile di cui parlavamo prima. Quindi pericoloso. Perché il godimento , a differenza del piacere, che tende alla quiete, ed alla soddisfazione, può aprire degli abissi,, può segnare strade di distruzione. Può partecipare della morte. La droga, ad esempio, è un godimento. Noi viviamo in un epoca in cui il godimento non ha limite ed assume quindi una dimensione mortifera. La questione è il limite. Il godimento proposto dalle sirene deve necessariamente passare attraverso la fase della castrazione, dell’ autolimitazione per essere compreso e vissuto positivamente. Voglio dire che nessuna conoscenza, nessun possesso può essere totale.. Se lo diventa può uccidere il desiderio, che è vita. Molte sirene cantano ancora oggi, e molto intensamente. Poco si sa dell’ orgasmo femminile ma se ne straparla a caso e dappertutto. La parola passione viene usata a totale sproposito dai media e viene privata di ogni suo significato profondo. Il corpo viene semplicemente esibito senza nessuna consapevolezza di esso. Il consumismo stesso è una forma di godimento estremo e ottundente. Non sono catastrofista, ma penso che abbiamo il problema di salvarci. Di difendere i nostri desideri da questo bombardamento di suggestioni equivoche, di darci dei limiti.”

* Foto di Giusy Calia

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