n.100 20 dicembre 2012
veritĂ egiustizia
La newsletter di liberainformazione
>>editoriale
Un anno di Libera Informazione di Santo Della Volpe
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ibera Informazione pensa in grande per il 2013: per questo, con questa Newsletter di fine anno di Verità e Giustizia, vi propone una scelta del lavoro che abbiamo svolto nel 2012,quasi ad offrire una “strenna” condensata degli articoli e delle notizie di questi 365 giorni. Una scelta che è anche una panoramica di quelle ‘resistenze’ alle mafie che si è sviluppata nei mesi scorsi, reagendo alle intimidazioni mafiose, alle penetrazioni nell’economia e nel lavoro legale. Ma quello che vi proponiamo è un mosaico giornalistico che ha anche il sapore della legalità, la soddisfazione di vedere la ragione, la spiegazione e la proposta in ogni articolo del nostro sito Internet, quel piacere della conoscenza che ci fa forti di fronte alle violenze e prepotenze mafiose. Il piacere di ritrovare nelle terre strappate alle mafie e tornate alla coltivazione per mani giovani e forti, il sapore del futuro che verrà, del lavoro che dà soddisfazione; il piacere della terra che risponde al lavoro libero e liberato offrendo quella vitamina in più ai prodotti genuini : la vitamina della legalità. Che le mafie siano forti e ricche, soprattutto in questo periodo di crisi economica, che siano pervasive e ramificate nell’economia come nei territori, è un dato di fatto: ma l’esistenza stessa della
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rete di associazioni come Libera e delle tante iniziative che promuove nelle scuole; delle cooperative di Libera Terra, della nostra Libera Informazione, delle migliaia di giovani che si impegnano quotidianamente per la legalità, sono il segno che racket, usura, corruzione, appalti truccati ed ecomafie si possono battere; anche se ci vorrà tempo. Ma quello non ci manca. Quello che vorremmo per il 2013 è un più forte impegno delle Istituzioni, dei governi,locali e nazionale, per dare forza agli strumenti della legalità, siano essi repressivi che costruttivi e propositivi. Partendo da un vero rafforzamento di quella legge contro la corruzione che è timidamente nata dopo tanti passi indietro di fronte alle molte speranze iniziali, per arrivare ad una migliore e più agile legge sulla confisca dei beni mafiosi che ne agevoli l’assegnazione e la restituzione alla società. La denuncia della corruzione,in ogni suo aspetto, sarà uno degli impegni maggiori che prendiamo per il prossimo anno, parte integrante del nostro futuro giornalistico. Così come quello di riprendere in mano la bandiera della riforma della legge sulla diffamazione che deve cambiare non solo per evitare il carcere per i giornalisti; quanto per evitare che le “querele temerarie” milionarie siano usate
come minacce contro l’informazione democratica ed antimafia dei e dai territori,per impedire che le notizie vengano pubblicate,per tappare cioè la bocca ai molti giornalisti coraggiosi che scrivono di mafie e di corruzione, di illegalità, di tangenti e di ruberie. Due impegni precisi che prendiamo per i nostri lettori e per la rete di nostri corrispondenti dai territori: a questi ultimi chiediamo di lavorare ancora e sempre insieme nella battaglia per l’informazione libera e pulita, ben sapendo che senza di loro Libera Informazione sarebbe monca e sterile; ma chiedendo loro uno sforzo lungo un altro anno e altri anni a venire. Perché, soprattutto con la nuova veste grafica che ci siamo dati, il nostro sito Internet avrà ancora più spazio e maggiori responsabilità. Quindi ancor più bisogno di professionalità ed entusiasmo. La bellezza e l’importanza del nostro lavoro non ci sfugge. Soprattutto con una promessa che ci sentiamo di fare ai lettori, alle Istituzioni ed alle Associazioni antimafia tutte: saremo ancora più puntuali e precisi nelle nostre valutazioni e denunce giornalistiche. Per applicare sino in fondo l’Articolo 21 della nostra Costituzione e far emergere quella grande voglia di legalità che sentiamo salire dalla base del nostro Paese. Perché l’informazione o è libera oppure non è informazione.
|| Corruzione ||
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essuno sconto,nessuna mediazione è possibile nella lotta alla corruzione, così come nella lotta al riciclaggio ed alle mafie. La convenzione di Strasburgo parla chiaro: la corruzione deve essere sradicata. Quindi il Ddl sulla corruzione in discussione al Parlamento non deve essere svuotato da mediazioni che ne mortificano i contenuti. Nonostante l’impegno, la coerenza e la serietà del ministro Severino, oggi in Parlamento ci sono forze che frenano la riforma e l’attuale Disegno di Legge rischia di non diventare la norma che tutti gli italiani onesti si aspettano per eliminare veramente la corruzione. Mentre, viceversa, questa legge deve diventare un trampolino di lancio di una vera lotta alla corruzione che ogni anno si mangia ben più di quel 3% del Pil italiano, cioè di quei 60 miliardi di Euro denunciati dalla Corte dei Conti. Non è tollerabile una società che ruba a sé stessa,impoverendo soprattutto quelle fasce più deboli della popolazione, sottraendo opportunità di sviluppo delle persone che faticano a vivere e che hanno più bisogno di lavoro,servizi sociali, investimenti nella cultura e nella scuola. Nel Disegno di legge in discussione al Parlamento ci sono alcune “luci” importanti,ma purtroppo anche delle “ombre”: è importante infatti che sia individuata una autorità nazionale anticorruzione che vigila sulla amministrazione pubblica. Ma questo istituzione deve essere potenziata e finanziata per non restare una mera dichiarazione di intenti. E’ positivo il diritto alla trasparenza ribadito nel Ddl anticorruzione come “accessibilità totale e facilitata”. Ma il diritto alla trasparenza in Italia è poco applicato e va dunque non solo dichiarato, ma chiaramente incentivato:la legge deve liberare ogni possibilità di controllo sugli atti pubblici da parte dei cittadini e dell’informazione, creando le condizioni e gli strumenti per poterlo fare. Il Ddl predispone poi la tutela dei cittadini che denunciano la corruzione e gli illeciti, ma questo diritto deve essere effettivo e veramente tutelato dalla legge, altrimenti le denunce pubbliche sarebbero poche, difficili, trasformando il civismo della denuncia in atti isolati addirittura colpevolizzati. Al contrario, invece, la denuncia dei
Corruzione, una legge senza cedimenti di Don Luigi Ciotti cittadini è fondamentale per smascherare quei legami tra corruzione e mafie che si sono rinsaldati negli anni, legando la criminalità organizzata ed i cosiddetti “colletti bianchi” della classe dirigente corrotta. E’ poi positivo che si prevedano, nella legge Severino, pene severe, fino alla carcerazione, anche per la corruzione in imprese private. Ma le ombre appaiono subito, nel Ddl, già all’articolo 8 che si limita a delegare ad un futuro governo, dopo quindi le prossime elezioni, un Testo Unico sulla incandidabilità a cariche pubbliche,politiche e societarie, delle persone condannate con sentenza definitive. Il Ddl attuale di fatto non si fa carico di questa fondamentale riforma. Nella legge si deve subito prevedere l’esclusione dei condannati da qualsiasi carica elettiva pubblica! Le deleghe di riordino sono state troppo spesso disattese e non attuate. L’altro aspetto negativo nel Disegno di Legge in discussione, riguarda la visione ristretta del limite riformatore: cioè,pur aumentando le pene per la corruzione, resta difficile dimostrare la corruzione con prove certe perchè non vengono
reintrodotti i reati come,ad esempio,il falso in bilancio che favorirebbero le indagini e l’accertamento degli atti corruttivi. Di conseguenza, se è quasi impossibile dimostrare il reato di corruzione, l’aumento delle pene diventa un inasprimento di facciata. Nonostante questi punti negativi, il Ddl Severino DEVE essere comunque approvato: ma, diciamo con forza, senza quelle mediazioni che impedirebbero di sradicare il fenomeno corruzione in Italia. Su questi temi non si fanno sconti e non sono accettabili compromessi. Serve un cambio di passo delle politica che torni ad essere veramente servizio al bene comune. Serve una più incisiva forma di cittadinanza che vuol dire responsabilità individuale e corresponsabilità collettiva. Serve la forza concreta dei fatti. Se il Ddl Severino passasse con incongruenze, alcune delle quali qui segnalate, significherebbe dimostrare d’esser sordi al grido di 1 milione e 200mila cittadini che con la petizione al Capo dello Stato del 2011, hanno chiesto la piena applicazione della Convenzione dell’Unione Europea per la lotta alla Corruzione. verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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|| Diffamazione ||
Diffamazione e diffamati di Santo Della Volpe
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on si può e non si deve finire in carcere per un articolo di giornale, qualunque sia: non è da paese democratico dove l’equilibrio dei poteri è essenziale e dove la voce della stampa deve essere libera, sempre, di esprimere opinioni o visioni diverse dei fatti. Non si può andare in carcere per una opinione in un paese che ha nell’articolo 21 della Costituzione Italiana il proprio punto di riferimento. Anche se l’opinione espressa è brutta e inquietante, anche se infamante, anche se falsa e sbagliata: anche se scritta da una giornale,come quello diretto da Alessandro Sallustri, che ha “deriso” e combattuto con il proprio giornale chi invocava proprio l’articolo21 della Costituzione per chiedere la fine del conflitto di interesse. Anche se era una opinione, espressa dietro pseudonimo, avallata ( forse pur avendola controllata) da chi ha difeso il metodo del fango contro gentiluomini come l’allora direttore dell’Avvenire Boffo. Proprio in nome della superiorità del diritto sulla forza, in nome del principio del giornalismo pulito contro il fango, l’uso del carcere non è solo spropositato: è un occhio per occhio che
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uno Stato di diritto non si può permettere, tanto più per un omesso controllo su un articolo. Tante altre possono e devono essere le sanzioni, sia di autodisciplina dell’Ordine dei Giornalisti, di un Giurì composito, oppure regolate da una legge dello Stato che deve tutelare i cittadini diffamati dai giornalisti. E deve farlo con la forza del Diritto per stroncare ogni insulso senso del potere di diffamare che troppo spesso molti giornalisti sfoderano, dimenticando il loro ruolo delicato e la forza di penetrazione di ciò che scrivono e di quel che mettono in onda in radio e tv. Ma il carcere, ben 14 mesi di carcere, è qualcosa che va oltre la sanzione: il carcere, in quanto condanna, significa privare un cittadino della libertà, personale,affettiva e lavorativa, totale. E privare della libertà una persona, un giornalista che fa questo per lavoro e professione, per aver espresso una opinione è una aberrazione del diritto. Perché il giornalismo è la massima espressione della libertà e della battaglia delle idee: intervenire privando della libertà una persona che esprime idee (ripeto, qualunque siano), significa colpire la libertà in nome della libertà, essenza
estrema del diritto. Un controsenso, come già i padri illuministi ci insegnarono quasi 200 anni fa. Significa scivolare lentamente verso quel terreno, sappiamo ancora lontano per fortuna, di chi oggi nel mondo, brucia ambasciate e bandiere per un film, per quanto brutto, su Maometto. E, come Barak Obama ha ricordato al mondo intero, anche se orrendo, quel film non poteva essere censurato o tantomeno “bruciato”, perché sarebbe venuto meno il principio fondamentale della libertà di espressione, artistica,giornalistica, individuale e collettiva. Non mi piace ma non lo vieto. L’articolo per il quale Sallustri è stato condannato a 14 mesi di carcere è brutto, falso: non mi piace, ma non chiudo la bocca con il carcere al suo autore o al direttore di quel giornale che l’ha pubblicato. Si può e si deve sanzionare la diffamazione, ma limitare la libertà personale ed individuale degli autori con una condanna al carcere, significa solo intaccare il principio costituzionale ed assoluto della libertà di parola. E significa anche creare un precedente, sancito poi con una sentenza, che si
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potrebbe estendere pericolosamente a tutti i giornalisti, dal nome famoso, al più giovane praticante: quindi una intimidazione, come quella delle “querele temerarie” usate da mafiosi e malfattori vari per cercare di intimidire cronisti e giornalisti non solo con minacce alle loro persone, ma anche con la richiesta di risarcimenti milionari agli autori degli articoli stessi. L’esperienza del nostro Sportello Antiquerele in funzione dall’inizio dell’anno, dimostra che quasi sempre le minacce finiscono nel nulla, quando si scontrano con il Diritto in un’aula di tribunale. Ma per giovani cronisti precari o appena assunti, con giornali, radio e tv che spesso ritirano la difesa del proprio giornalista per paura di pagare risarcimenti anch’essi onerosi,anche la sola minaccia di chiedere cifre come 200mila euro o mezzo milione di Euro per una intervista o un articolo, diventa una forma automatica di intimidazione e quindi di censura che spesso si traduce in autocensura; in buona sostanza di limitazione della libertà di stampa. Ecco perché, tra il collega della tv locale siciliana o calabrese intimidito e la vicenda del carcere per Alessandro Sallu-
stri, esiste un filo rosso che li lega e ci porta, tutti, a chiedere la riforma della legge sulla diffamazione a mezzo stampa: una legge che risale al dopoguerra e che ha bisogno di essere rivista in questa epoca di mezzi di informazione e comunicazione plurimi e diversi. Che si elimini innanzitutto il carcere per articoli,opinioni e fatti scritti su giornali o portati all’attenzione di servizi radio, tv, Blog o altri sistemi di comunicazione via Web. E’ tempo di studiare altre forme di norme che difendano i diritti dei cittadini, sia ad essere informati correttamente che a non essere infangati e lesi nei loro diritti fondamentali. Una buona legge è necessaria per legare i giornalisti ai cittadini ed ai loro due diritti fondamentali: conoscere ed essere rispettati. Ma il Parlamento non può aspettare mesi o anni. Per questo abbiamo chiamato tutte le forze politiche e, in particolare, il ministro guardasigilli Severino ad un confronto pubblico con Giuristi, Giornalisti, Avvocati e Magistrati, organizzato per il 2 ottobre prossimo alla FNSI, a Roma. Perché da due anni, dal convegno organizzato da Roberto Morrione ed Oreste Flamini Minuto, sem-
pre alla FNSI, continuiamo a lavorare, noi di Libera Informazione, Articolo21, Ossigeno, la Federazione Nazionale della Stampa (con associazioni internazionali come la Open Society Foundations), a modifiche della legge sulla diffamazione che vengano incontro alla richiesta di libertà di parola dei giornalisti da armonizzare con le esigenze dei cittadini, ed il loro diritto ad essere informati correttamente. Non volevamo che si arrivasse al carcere per giornalisti ma lo temevamo: è successo. Ora, chiedendo che il direttore Sallustri non sia privato della sua libertà e della sua voce, chiediamo che subito, insieme alla nostre proteste, si avanzino anche le proposte di modifica della legge sulla diffamazione. E che il Parlamento le approvi, ora e subito. Il 2 ottobre faremo le nostre proposte; poi spetterà alle forze politiche elaborare un testo condiviso. Perché non ci sia più carcere per giornalisti, ma anche perché i colleghi dei paesi minacciate dalle mafie possano continuare il loro lavoro senza timore di essere infangati, uccisi o costretti al silenzio da minacce di querele milionarie. verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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uesta è la storia di una donna coraggiosa e forte, emotiva e piena di speranza, Lea Garofalo: e di sua figlia Denise che della madre ha preso la voglia di vivere ed il coraggio di denunciare la violenza mafiosa. “Mi chiamo Cosco, ma mia mamma voleva cambiarmi il cognome, voleva che mi chiamassi come lei, Garofalo ; ma non ha fatto in tempo…” . Denise non ama quel suo cognome:ma il suo non è un rifiuto dei parenti, degli amici,della Calabria dove è nata 20 anni fa e che, comunque, le manca. Il suo cognome, è purtroppo il segno del suo dramma, del suo coraggio; del suo dolore e della sua forza. E anche della sua speranza di ricostruire presto una vita da giovane come le altre. Le hanno ucciso la madre, Lea Garofano, testimone di giustizia,hanno sciolto il suo corpo nell’acido: ed ad ucciderla,scrive una sentenza, è stato suo padre,Carlo Cosco, con la complicità della sua famiglia e dell’unico ragazzo cui abbia dato confidenza e per la quale abbia sentito sentimenti di affetto vero,l’unico di cui si fidava,ma che invece l’ha usata come esca. Al processo Denise ha testimoniato contro entrambi, raccontando la storia della madre e la sua,figlia di un padre che le ha ucciso la madre; l’ha indicato in aula,con sofferenza,con rabbia, sfogandosi e piangendo, ma lucidamente. Una serie di tragedie capaci di distruggere una persona, figuriamoci se poi ha solo 20 anni… Ma Denise vuole vivere, resistere,pensa al futuro. Cappellino calato su un caschetto di capelli che incorniciano suoi occhi chiari,profondi come il futuro che l’aspetta, Denise deve vivere oggi scortata ed in viaggio continuo tra un appartamento e l’altro, ma dimostra, parlando con la sua voce chiara e bella, di avere molta voglia di normalità. Ma il ricordo di Lea, sua mamma, è tenero come di chi sente ancora oggi il vuoto,dentro di sé. ”Stavo bene con mia mamma. Parlavamo molto e mi piaceva dormire con lei, rannicchiata verso di lei… abbiamo dormito così fino a quando ho compiuto 15 anni. Come era bello! Mi manca molto, certo… Quanti
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Un coraggio di donna di Santo Della Volpe
ricordi, ma anche quanta sofferenza. Quando camminavamo con la paura di essere seguiti,da chi già allora voleva farci del male, quando hanno fatto saltare la macchina, quando mia mamma,sotto casa nostra, a Pagliarelle,in Calabria, fu schiaffeggiata davanti a tutti in paese da suo fratello… Mia mamma voleva molto bene a suo fratello, anche perché era l’unico uomo in famiglia,dato che suo padre era stato ucciso quando lei aveva pochi mesi. Gli voleva bene anche se lui la accusava d’aver tradito la famiglia, gli voleva bene anche quando la schiaffeggiava in pubblico. Ma d’altra parte, invece, la difendeva in pubblico, anche quando gli dicevano, tua sorella è una infame..e nell’ultimo periodo della sua vita mio zio non stava bene,aveva una esaurimento nervoso…non riusciva più a vedere…né mia madre,né me… E la mamma si chiudeva in casa e piangeva, si svegliava di notte con la rabbia di chi sapeva di fare la cosa giusta, soprattutto per me, per il mio futuro, ma intanto aveva contro tutti. Eravamo sole, quanta solitudine, dai nostri parenti, da quelli che pensavamo fossero amici…”
Lea Garofalo, una vita segnata dalla ‘ndrangheta: contro quella gabbia si è battuta,sino a morirne. Nasce a Petilia Policastro,in Calabria, nel 1974. Quando aveva nove mesi, suo padre viene ucciso in una faida tra famiglie rivali. Una situazione sociale e personale che la costringe ad una infanzia ed adolescenza sulle quali incombe il sistema unico della ‘ndrangheta nella quale “Il sangue si lava con il sangue”. Un concetto che suo fratello Floriano ha fatto proprio, seguendo le orme del padre e rimanendo a sua volta vittima di un agguato, nel 2005. A 14 anni Lea si innamora di Carlo Cosco, partono alla volta di Milano e nel 1991 diventano genitori di Denise. Nel maggio 1995 venne ucciso Antonio Camberiati, che gestiva un traffico di stupefacenti insieme a Carlo,il compagno di Lea ed a suo fratello Giuseppe Cosco. Lea aveva parlato agli inquirenti di quanto accaduto: Camberiati l’aveva offesa, un’onta che il suo convivente non poteva sopportare.Dopo l’arresto di Carlo Cosco nel 1996 – sarà poi prosciolto dall’accusa di omicidio ma condannato per spaccio e traffico di droga – Lea Garofalo,
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in uno dei colloqui nel carcere di San Vittore, gli confesserà di volere andare via per avere una vita migliore, per dare a Denise un futuro diverso. Il marito inveisce,giura vendetta per quella che considera un’umiliazione, un disonore. Perché Lea voleva uscire da quel mondo omertoso e di vincoli familiari che coprivano traffici illeciti ed omicidi,guidato da leggi non scritte e anacronistici vincoli di sangue per coprire omicidi e la violenza sui diritti delle persone. Lea si trasferisce a Bergamo insieme alla figlia Denise. Trascorreranno anni in cui non avranno amici ma nemmeno nemici perché sono anni di solitudine, durante i quali svilupperanno un rapporto molto forte tra loro. Trasferimenti continui, Lea e Denise vengono private delle loro identità, sono isolate da tutti. Una vita difficile che metterebbe a dura prova chiunque: ma Lea non voleva cedere,in nome di Denise: non voleva che la figlia vivesse nel clima dove lei aveva vissuto per anni e anni.. La prima volta in cui Carlo Cosco decise di attuare il piano per eliminare la sua convivente era il 2001. Chiese
a quello che diventerà un collaboratore di giustizia, suo compagno di cella, Angelo Salvatore Cortese, di uccidere Lea e di scioglierne il corpo nell’acido. Perché si potesse pensare che se ne fosse andata via. Ma la donna aveva sempre detto che non si sarebbe mai allontanata da sua figlia, che era la sua vita. Il piano però non fu più tentato sino a novembre 2009 a Campobasso: un malvivente amico di Cosco (che nel frattempo era uscito dal carcere) tal Massimo Sabatino entrò nell’appartamento di Lea e Denise fingendosi un tecnico. Lea ha un sospetto, afferra un coltello . Lui scappa dopo che sopraggiunge anche la figlia Denise. Ad attenderlo sotto casa c’erano Carlo e Giuseppe Cosco, con un furgone dentro il quale si trovano 50 litri di acido. A Sabatino erano stati promessi 20 mila euro per il lavoro, lui non sapeva chi fosse Lea Garofalo ma sapeva che l’avrebbe dovuta legare a terra e che poi sarebbe arrivato Giuseppe Cosco. Denise non sarebbe dovuta essere in casa, questo ha messo in fuga Massimo Sabatino. Il piano dunque fallisce,ma è quello: purtroppo non
cambierà. Intanto Lea Garofalo e Denise, impaurite, decisero di tornare a Pagliarelle,in provincia di Crotone, in Calabria. Lea era uscita dal programma di protezione dei testimoni nell’aprile 2009. Decise di tornare a vivere lì, a Pagliarelle,in Calabria. “Non usciva mai da casa. Stavamo chiuse lì dentro,in una stanza piccolissima che si trovava sopra la casa di mia nonna. Lei non voleva farsi vedere, non usciva, neanche con il caldo di quella estate. Stavamo chiuse lì dentro, neanche un cagnolino per farci compagnia…non era tanto la paura fisica, ma era la paura delle chiacchiere in paese, di quello che avrebbero potute dirle… Alla fine, a novembre, mia mamma riesce a parlare con mio padre, parlano sino alle 3 di notte. E alla fine la chiamano a Firenze per andare ad un processo,per un’altra cosa che non c’entra niente con mio padre…E lì nasce tutto. Andiamo a passeggiare in centro a Firenze, a me piaceva una felpa in un negozio,un maglioncino, e le chiesi se potevamo comprarla. Ma non avevamo soldi e così lei telefona a mio padre per dirgli: non abbiamo verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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soldi, viviamo così senza un euro, mandami dei soldi altrimenti mi devo vendere una collana, quella che mi hai regalato tu … Voleva pungerlo sul vivo, toccare i sentimenti…ma non ce n’erano di sentimenti … Lui le risponde, allora venite su a Milano che ti dò i soldi…e poi a Milano ci sono centri commerciali, ci sono maglioni e felpe più belle per la ragazzina… Parla con me al telefono, vieni, qui ci sono bei negozi, al viaggio ed alla casa ci penso io…E noi partiamo, mamma si fida e poi…è successo quello che è successo…” E’ il mese di novembre 2009, quando partono da Firenze per Milano. Questa è l’occasione giusta,pensa Carlo Cosco .Così Lea Garofalo e la figlia salgono su un treno alla volta del capoluogo lombardo. Per una felpa… per un desiderio di Denise….ne parla ancora…Alloggeranno – registrandosi con i propri nomi – al’Hotel Losanna, e passeranno diverse ore, dal 21 al 24 novembre, in compagnia di Carlo Cosco. Che si dimostrerà gentile per riacquistare la fiducia dell’ex convivente. Fredda strategia, che gli permetterà di far salire Lea Garofalo 8 verità e giustizia - 20 dicembre 2012
sulla sua auto intorno alle 19 del 24 novembre 2009. Denise non la vedrà più. ” Quel giorno mi sono immediatamente resa conto che non l’avrei più vista. Ho spento tutto,ho avuto un senso di rassegnazione; ho spento tutto,il cellulare, ma soprattutto ho spento il cervello e sono andata avanti per un po’, come un robot. Anche nel momento in cui qualcuno di loro mi ha detto che se ne era andata, io l’ho cercata,con un filo speranza, per un’ora, due ore, ma poi basta. Avevo capito che l’avevano uccisa, era tempo sprecato cercarla.. Mio padre, poi, quando mi venne a prendere per andare a prendere il treno in stazione, mi disse che avevano litigato, che lui e la mamma, avevano discusso … e che lei gli aveva chiesto dei soldi perché se ne voleva andare, facendomi intendere che mi voleva abbandonare… Allora, il giorno dopo, sono andata in caserma dei Carabinieri a fare la denuncia ed ero talmente spenta che gli dissi solo poche parole..non si trova più mia madre, da ieri…E basta…” L’ex compagno l’aveva accompagnata in un appartamento di Milano,dove
Lea Garofalo fu legata e immobilizzata, terrorizzata,interrogata e poi uccisa con un colpo di pistola alla nuca. Poi sciolsero il suo corpo nell’acido, andando a controllare,nell’arco di 72 ore, che l’operazione chimica avvenisse come previsto. Una sequenza di fatti agghiacciante, nella quale Denise viene usata come esca e poi abbandonata dal padre e dallo zio. “ Sono andato a fare la denuncia della scomparsa ed il giorno dopo mio padre mi chiama e mi dice, qui ci sono troppi Carabinieri,ti seguono dappertutto, andiamo a Reggio Emilia, lì ci sono dei nostri parenti, restiamo qualche giorno con loro. Partiamo e mio padre mi lascia lì, da questa signora… A scuola non ci sono andata più, non mangiavo più,non ci riuscivo… e poi siamo tornati in Calabria e sono andata a vivere da mia zia,dalla sorella di mia madre. Nessuno mi diceva niente. Silenzio su mamma, io stavo chiusa in casa e da 38 kili com’ero ridotta, comincio a mangiare senza fermarmi più, ho preso 20 kili in un mese. Mia zia, spaventata mi portò in una clinica per pazzi, il posto più sbagliato del mondo … psicofarmaci dalla mattina
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alla sera, sono stata lì due settimane. Mi è venuto a trovare anche Carmine, un ragazzo che mi piaceva, si prendeva cura di me,mi piaceva… Poi sono uscita da lì,ho fatto il giro degli psicologi che mi dovevano aiutare, ma non mi aiutava nessuno … E nel paese non potevo neanche sfogarmi, gridare siete degli assassini, urlare la mia rabbia per quello che avevano fatto a mia mamma. Ho dovuto far finta di niente ed il loro unico problema, quando mi incontravano mentre me ne andavo verso i monti con le mie cuffiette, era solo quella di dirmi che dovevo andare in carcere a trovare mio padre.. E io dovevo fare i sorrisi, sforzarmi di non parlare, anche se avresti voluto strozzarli per quello che avevano fatto….” Vennero tutti arrestati. Al processo, nella Corte d’Assise di Milano, Denise racconta tutto quello che sa: i timori, gli agguati mancati, l’edescamento del padre nei suoi confronti usando i suoi sentimenti di figlia, la scomparsa dolorosa della madre, la lunga attesa ed il cellulare che suonava a vuoto; i suoi tormenti diventano conferme giudiziarie, la sua accusa al padre segna il suo salto nel terreno
che aveva scelto la madre Lea. Testimoniare per rompere con la pseudocultura della morte, della vendetta, delle faide, del traffico di droga; collaborare affinché ci fosse giustizia per Lea,la mamma e per le tante vittime di ‘ndrangheta scomparse come lei. Anche sapendo che avrebbe pagato,nella sua giovane e fragile fibra,i contraccolpi della propria scelta di accusare il padre, tagliando i ponti con l’intera famiglia delle sue origini, in nome di una nuova cultura. Denise paga sul suo corpo:con quella anoressia, e poi la bulimica; ma resiste,testimonia, anche piangendo. “Il 18 ottobre 2010, li hanno arrestati tutti e 6: io avevo parlato due volte con i Carabinieri, erano anche venuti in Calabria a trovarmi. Io avevo detto loro che mia madre avrebbe pensato che a poterle fare del mare erano loro, quel gruppo di parenti, ma non dissi ai Carabinieri, è stato mio padre..Io vivevo lì, in quel paese…subivo, stavo zitta…aspettavo che succedesse qualcosa..Quando hanno arrestato tutti mi son detta, basta, devo andarmene da quel paese della Calabria, avevo com-
piuto da poco 18 anni. Sono andato dal magistrato e ho raccontato tutto, tutto, gli ho detto tutto quello che pensavo… Ma senza rabbia, avevo la netta sensazione di fare la cosa giusta. Non ho avuto nessun problema a parlare, anche di mio padre…Mi è spiaciuto solo per Carmine…Ho fatto fatica a raccontare quello sapevo di lui, in fondo mi ero affezionata a lui. Ho sofferto quando ho saputo che anche lui aveva collaborato ad uccidere mia madre ed a fare quello che avevano fatto… Sono stata malissimo, ma credo che alla fine stare vicino a loro, sentire i ragionamenti dei miei familiari, stare chiusa in quel paese e vedere poi come si sono comportati, quello che ha fatto anche Carmine mi è servito per capire che quella non è la vita che voglio fare: no,quella non è la mia vita” Il 30 marzo 2012, seduta vicino ad Enza Rando, sua avvocato e amica, ed a Luigi Ciotti, Denise assiste alla sentenza di primo grado che condanna all’ergastolo il padre Carlo Cosco e gli altri 5 imputati. Con la perdita della potestà genitoriale. Denise non ha più un padre, per la legge,ma ha ancora il suo cognome. I Cosco non sono solo la famiglia della ‘ndrangheta di Petilia Policastro di Calabria,non sono solo quelli che uccisero e sciolsero nell’acido una donna di 35 anni colpevole d’aver testimoniato e fatto arrestare il marito mafioso e trafficante di droga e soprattutto di essersi ribellata agli schemi della ’ndrangheta. Ma quel cognome è anche di Denise,una ragazza di 20 anni che ha deciso di continuare sulla strada della ribellione scelta dalla madre, Lea Garofalo. “Vorrei essere io a vivere come è giusto vivere a vent’anni… nel posto dove sono nata, con i miei amici che oggi possono fare le cose che io non posso fare. Io non voglio nascondermi, non siamo noi testimoni di giustizia a dover essere protetti, noi abbiamo fatto il nostro dovere…solo loro, gli uomini e le donne della ‘ndrangheta a doversi nascondere, ad essere fermati… io sono una donna, giovane; e voglio vivere libera di studiare, finire il liceo linguistico, laurearmi in lingue orientali…voglio vivere, amare…voglio avere la libertà di essere felice…anche per mia mamma”. Saluti da Denise. verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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|| Antimafia ||
Una legge per la democrazia di Davide Pati*
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rent’anni fa, il 13 settembre 1982, veniva approvata la legge n. 646, nota come “legge Rognoni – La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso (articolo 416 bis) e la confisca dei beni alle organizzazioni criminali. Due disegni di legge, presentati rispettivamente dall’on. Pio La Torre e dal ministro dell’Interno Virginio Rognoni, confluirono in un testo normativo che ha segnato una svolta decisiva nella lotta alle mafie nel nostro paese. Una legge per la democrazia la potremmo definire, perché fu proprio Pio la Torre ad affermare come “dobbiamo considerare la lotta alla mafia un aspetto molto importante e decisivo, non a sé stante, ma nel quadro della battaglia più generale per la difesa dello stato democratico”. Anche il figlio Franco La Torre, in occasione di un recente dibattito in memoria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ha ricordato come quello di suo padre fu l’impegno di una vita per il riscatto della propria terra e delle persone dalla loro posizione di subalternità democratica. Alcuni magistrati siciliani impegnati nel contrasto alle organizzazioni mafiose contribuirono alla stesura e alla formulazione tecnica della legge. Fu Rocco Chinnici uno dei primi a tradurre in azioni giudiziarie quei nuovi strumenti normativi, insieme con il pool investigativo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Dopo la sua tragica morte, l’applicazione della legge proseguì grazie all’impegno di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uniti attorno alla nuova guida di Antonino Caponnetto. In Sicilia, in quegli anni, ricordiamo anche il
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giudice Rosario Livatino che aveva iniziato le indagini patrimoniali alla mafia agrigentina. Oggi quei beni confiscati, dopo anni di abbandono, sono gestiti dai soci della cooperativa nata con bando pubblico e dedicata al giovane magistrato ucciso il 21 settembre 1990. La valorizzazione dei beni confiscati alle mafie, quindi, costituisce un’opportunità unica e irrinunciabile per creare lavoro pulito, esperienze concrete di buona economia che offrono segnali di fiducia in un periodo di crisi etica ed economica, su cui innescare un processo di sviluppo partecipato. Per generare reti di comunità e di infrastrutturazione sociale, per togliere il consenso alle mafie. La prossima settimana, in un bene confiscato diventato base scout dell’Agesci nel comune di Naro, si svolgerà la prima summer school intitolata “Giovani, innovazione e imprenditorialità”, nella convinzione che la linfa vitale di qualunque programma di coesione territoriale, si genera con le migliori energie, passioni, intelligenze e volontà per il cambiamento. E tutto questo è stato reso possibile grazie alla partecipazione democratica di tanti cittadini in tutta Italia, più di un milione furono infatti coloro che nel 1995 firmarono una petizione popolare – promossa dall’associazione Libera - per far approvare la legge 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Un principio che deve restare una priorità assoluta per affermare che la legalità conviene. I tanti beni confiscati e assegnati alle associazioni, alle cooperative e ai giovani, rappresentano un “bene comune”, un patrimonio da difendere e rafforzare per far rivivere la memoria di chi ha perso la vita in nome di quei valori sanciti dalla Costituzio-
ne e che alimentano la nostra democrazia. Oggi la legge Rognoni La Torre e la legge n.109/96 sono confluite nel nuovo Codice delle leggi antimafia. Un’iniziativa legislativa positiva nelle premesse, ma che alla fine si è rivelata una raccolta normativa incompleta e con molte lacune ed ombre. In questi mesi tante sono state le voci provenienti dalla magistratura, dalle forze investigative, dagli enti locali, dal mondo accademico, economico e sociale, che si sono alzate per chiedere un intervento correttivo al testo approvato lo scorso anno, al fine di superare le criticità presenti e rendere pienamente operativa e funzionante l’Agenzia nazionale. A partire da quel salto di qualità richiesto nella gestione dei beni aziendali, per riportare nella legalità intere filiere produttive (ad es. nel settore del calcestruzzo, dei trasporti, dell’agroalimentare) ancora condizionate e inquinate dalla presenza mafiosa. Oggi risultano solo 35 aziende ancora attive sul mercato e in cerca di una destinazione diretta alla prosecuzione dell’impresa, su un totale di circa 1600 confiscate dal 1982 ad oggi. Il resto per la gran parte fallite, chiuse e liquidate. Così come ci sono più di 1500 beni immobili ancora bloccati dalle ipoteche bancarie. Già alcuni istituti di credito di rilevanza nazionale hanno dimostrato che si può trovare una soluzione adeguata per la loro cancellazione. Ma non bastano esempi isolati. Su questo tema è in gioco la credibilità del sistema creditizio che può e deve fare la sua parte nel contrasto alle organizzazioni mafiose. Ne è convinta anche la Commissione europea che nella proposta di direttiva presentata nel marzo scorso, ha scritto “la confisca dei beni viene inclusa tra le iniziative strategiche nell’ambito di un’iniziativa politica più ampia destinata a tutelare l’economia lecita da infiltrazioni criminali, contribuendo alla crescita e all’occupazione in Europa”. Principi che sono stati alla base della nascita di Flare – la prima rete europea per i diritti, la legalità e la giustizia, contro le mafie e la corruzione transnazionali – che ha portato tanti giovani a rafforzare il senso di appartenenza all’Unione europea. Riscoprendo le sue radici in quei valori di pace e democrazia post conflitto mondiale dei padri fondatori e, allo stesso tempo, rinnovando il proprio impegno e responsabilità di cittadini europei. *Davide Pati - Ufficio di presidenza, Associazione Libera
|| Sport ||
L’
industria mafiosa, forse più dell’economia globalizzata (o forse perché ne fa parte) fiuta con grande progettualità vantaggiose imprenditorialità malavitose e ha individuato nel calcio, per troppo tempo (ancora oggi) “terra di nessuno” un approdo sicuro per i propri traffici. Meno di due anni fa nel libro “Le mafie nel pallone” stimavamo che il 10% del fatturato mafioso annuo (stimato tra i 140 e i 150 miliardi) venisse alimentato proprio nel comparto calcistico. Oggi probabilmente quella stima deve essere valutata per difetto. E se 41 clan mafiosi agivano scopertamente nel football italiano (stime ufficiali dalle constatazioni fatte, pagina per pagine, in base ai rapporti antimafia) oggi quell’anagrafe, a ventaglio, e a macchia di leopardo nella geografia del paese, si è spaventosamente ampliata. Il calcio è pretesto destabilizzato di traffici malavitosi, né più ne meno dell’immagine che poteva suscitare la Jugoslavia, prima della divisione, negli anni dei conflitti. La mafia si infiltra nel calcio perché i regolamenti federali (perlomeno in Italia) sono prescrittivi e formali, ma non essenziali. Le norme, apparentemente severe e legalitarie, sull’iscrizione ai campionati, prevedono una gabbia di minuziosi adempimenti che devono assicurare benessere di sistema ma non una minuziosa ispezione sulle componenti azionarie dei club dove è possibile che irreggimentati prestanome prestino il fianco alla copertura di dubbie finanziarie, a volte anche estere, che si fondano su capitali della ‘ndrangheta o di cosa nostra. La labilità dei controlli sui passaggi di proprietà dei cartellini dei giocatori ha radici che vengono da lontano. La scorciatoia dei contratti d’immagine è un pericoloso lasciapassare per i contratti in nero. Ci si chiede a quanto realmente corrispondano contratti d’immagine per giocatori militanti in Lega Pro, professionisti alla periferia del calcio, lontani dalla luce dei riflettori o dalla seduzione televisive. E, di più, di come sia facile manipolare le cifre ufficiali nel caso di trasferimento di giocatori stranieri, meglio se africani. Il plusvalore d’acquisto è stato manipolato dalla mafiosità calcistica in ragione di una validazione dei bilanci di fine anno. In realtà il sistema calci-
Palla avvelenata di Daniele Poto
stico italiano è “tecnicamente” fallito e se rimane in piedi una parvenza di campionati (la credibilità è un’altra cosa) è solo in ragione della difesa della socialità di sistema, peraltro messa in dubbio persino da un’economista come Monti, con la provoPalla avvelenata cazione iconoclasta di sospendere i campionati. Nell’istituzione calcistica la legge del “dover andare avanti” stoppa qualunque tentativo di applicazione legalitaria. Rimane infatti vasta la terra di nessuno tra le applicazioni della giustizia ordinaria e quella sportiva. Dove la prima è garantista, accurata, minuziosa, costituzionale e lenta mentre la seconda approssimativa, limitata, superficiale e veloce. E in questo spazio-forbice l’impunità si prende i suoi spazi e avanza. Oggi la
saldatura tra i grandi gruppi criminali (mafia cinesi, cartelli dell’est, macedoni, ungheresi, più genericamente slavi) e organizzazione calcistica (nelle persone fisiche dei calciatori e dei faccendieri a essi collegati) è pressoché completa, come dimostrano le inchieste in corso. La metastasi è totale, diffusa in tutti i circuiti. La validità dei tornei 20112012, pressoché nulla. Il giocattolo si è rotto in mille pezzi e solo l’infinità ingenuità degli italiani che tifano, sognano, sperano, può rianimare virtualmente un’icona dissolta perché auto-eliminatasi. Così forse il calcio è tornato alle origini: giuoco e non sport. Un giuoco dove si bluffa, si ruba e si malversa. Lo sport, per fortuna, è un’altra cosa. verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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|| Internazionale ||
P
iù di un secolo fa la mafia italiana scopri l’America. Molte cose sono accadute da allora. Come tutto, anche le organizzazioni mafiose si sono trasformate, si sono sviluppate e si sono globalizzate. Oggi, a più di cent’anni dallo sbarco dei siciliani a New York, quando hanno creato la Cosa Nostra americana, le alleanze hanno cominciato a crescere e le reti non si sono mai più fermate. Grazie a diverse indagini, che non riguardano solo la mafia ma anche questioni di tipo migratorio, oggi sappiamo che i più importanti spostamenti internazionali di persone sono cominciati nei primi anni del secolo scorso, e con loro, si è intensificato ugualmente il trasporto di prodotti, legali e illegali, e di conseguenza, di gruppi e di modelli criminali che si sono stabiliti e sviluppati nei paesi di arrivo. Esistono rapporti ufficiali che ci dicono che negli anni ‘20 i siciliani già trafficavano la morfina nascondendola nelle cassette di arance e limoni. Con il passar degli anni, hanno cominciato a trafficare con altre droghe e presto sono diventati sovrani nel traffico di eroina. Poi, è arrivata la cocaina ed è stato allora che i cartelli sudamericani hanno scoperto l’Europa, quasi un secolo dopo la scoperta dell’America da parte degli italiani. Fra il 1989 e il 1990 è stata presentata l’indagine condotta dalla Polizia di Stato italiana, la DEA e FBI che mostrava come, da Aruba, le famiglie mafiose di Palermo avevano stretto accordi tempo prima con membri del Cartello di Medellin per ottenere il controllo dell’importazione di cocaina colombiana per portarla prima in Italia e poi in tutta Europa. Con l’Operazione Big John, nome di questa indagine, che aveva accertato i contatti fra alcuni rappresentati di famiglie mafiose palermitane che avevano deciso di barattare l’eroina ‘europea’ con la cocaina prodotta in Colombia. Così si dava la possibilità al Cartello di Medellin di entrare nel lucroso mercato americano dell’eroina e in cambio Cosa Nostra avrebbe ottenuto l’esclusiva per il mercato all’ingrosso della cocaina in Europa. Cinque anni dopo, questo è esattamente quello che è successo. Lo stesso anno della riunione ad Aruba, è arrivato un carico di 40 tonnellate di cocaina in Italia, nel 1992 questa cifra si era quintuplicata. Indagini più recenti dicono che il Cartello di Medellin non solo è stato l’unico cartello colombiano a partecipare alle spedizioni, e che pure Cosa Nostra è stata l’unica orga-
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Quando i messicani sbarcano in Italia di Cynthia Rodrìguez
nizzazione criminale italiana ed europea a richiederne il prodotto, perché da una parte ogni organizzazione criminale ha avuto i suoi processi e le proprie crisi; dall’altra, come già si è detto, tali organizzazioni si sono globalizzate. È precisamente in questo scenario che i cartelli messicani fanno la loro comparsa, divenendo negli ultimi anni i protagonisti più rilevanti dello scenario mondiale. In questo momento, le autorità europee sanno che la cocaina ha nel Vecchio Continente un alleato, non solo perché il mercato statunitense (ancora oggi il maggior consumatore di droghe al mondo) è prossimo alla saturazione, ma anche perché le tendenze nel consumo stanno cambiando. Negli ultimi anni il Messico è dilaniato da una violenza senza precedenti. Da più di quattro anni gli equilibri si sono rotti e i giorni passano superando in crudeltà le giornate precedenti. E in quest’ambito, nel 2008 si è scoperto che i narcotrafficanti messicani avevano allungato i propri tentacoli fino all’Europa, specificamente fino all’Italia. Grazie ai legami con alcuni narcotrafficanti italiani, membri dei Los Zetas, (tuttora il braccio armato del Cartello del Golfo) hanno cominciato a spedire cocaina dagli Stati Uniti in piccole
quantità fino a questo Paese, perpetuando così il loro traffico. Le ricerche condotte dalle autorità italiane e statunitensi in questo caso sono riuscite ad identificare le persone coinvolte nel traffico di cocaina verso l’Italia, nonché a sapere quali persone erano coinvolte e con quali altri gruppi criminali. L’Operazione Solare, conclusa il 17 settembre 2008 con l’arresto di circa duecento persone appartenenti a un’organizzazione transnazionale dedita al traffico di tonnellate di cocaina fra il Sud America, il Nord America e l’Europa, fu soltanto un piccolo esempio dei risultati che il giro d’affari della droga produce, di quello che significa, di quello che distrugge. Con questa Operazione, l’Italia ha capito il nuovo ruolo preponderante che ha il Messico dove i cartelli messicani sono riusciti ad assicurare l’indispensabile controllo del territorio, anche attraverso di sanguinari gruppi mercenari come Los Zetas. Con l’Operazione Solare, per la prima volta l’autorità italiana, così come quella degli Stati Uniti, è riuscita a documentare questo ruolo che fino a alcuni anni fa aveva la Colombia. Di ciò si è venuti a conoscenza in quanto ci sono stati un lavoro d’intelligence specifico durato molti mesi, una collaborazione
|| Internazionale ||
seria fra i paesi, e si è trovato il modo per avviare e far funzionare un sistema. Grazie a tutto questo sono riusciti a fermare, almeno in quest’occasione, il traffico in Europa degli italiani con l’aiuto dei messicani. Nonostante nessuno, da questa parte dell’Atlantico, ha cantato vittoria. Da alcuni anni a questa parte l’Europa continua ad essere invasa dalla cocaina e le previsioni non sono molto incoraggianti: fra cinque anni essa sarà molto più accessibile a tutti, cioè ci saranno più tossicodipendenti e più persone che amministreranno questi affari. Tutte le volte che apprendiamo che una persona è stata fermata perché trasportava droga, non importa se erano tre, cinque, dieci chili, magari tonnellate, dietro ci sono delle storie di complicità, di ricatto, di corruzione. Per far arrivare un carico di droga in Europa, bisogna intraprendere un viaggio molto lungo, al quale partecipano centinaia di persone, ciascuna con un ruolo specifico: chi si occupa della coltivazione, chi la lavora, chi poi ‘trova’ la merce, chi la trasporta, chi la compra, chi è corrotto e chi deve corrompere a sua volta un altro durante il viaggio, chi la riceve, chi la distribuisce nuovamente, chi viaggia di ritorno, chi corrompe di nuovo, chi ritorna a trasportare, ecc., ecc.
Un’organizzazione completa addetta a tale scopo che non si riposa mai. Già nel 2009, la Dea ha calcolato che le organizzazioni del narcotraffico, solo in Messico, hanno utilizzato 450 mila persone nella coltivazione, lavorazione e vendita di diverse droghe illegali. Ma questo purtroppo è solo una parte della storia dal momento che ci sono altrettanti affari illegali a cui partecipano ancora più persone. Immaginiamo quante persone al mondo sono coinvolte, e che in più esiste la minaccia che questa cifra possa crescere considerando l’attuale crisi economica. Gli ultimi dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) confermano che l’attività del narcotraffico è la più redditizia al mondo. Nessuna, né il petrolio, né le armi, la prostituzione, pedofilia, traffico di esseri umani o industria del sesso è paragonabile in termini di ritorno economico. Le cifre dell’UNODC (2008) evidenziano che la droga ha dei margini di guadagno di 321miliardi di dollari, che se potessero essere considerati come un Prodotto Interno Lordo, il grande business della droga sarebbe al quattordicesimo posto nella lista mondiale dei paesi più ricchi, subito dopo la Svizzera. Come segnalano diversi esperti
del fenomeno criminale, la singolarità delle mafie è che hanno sempre un’enorme capacità di adattamento nei confronti di nuove situazioni e si vedono beneficiate ogniqualvolta esiste incertezza politica e istituzionale nei paesi. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite riconosce che debellare il narcotraffico è impossibile, anche se è possibile ridurlo, sempre che esista un lavoro congiunto, una strategia pubblica, come la stessa Organizzazione menziona, un coordinamento internazionale di polizie sempre maggiore, ma anche l’impegno della società civile, che deve avere l’esatta percezione della pericolosità che rappresentano le mafie. Il resoconto dell’Operazione Solare è soltanto un esempio di quello che succede o di quello che potrebbe accadere quando due organizzazioni di narcotrafficanti, apparentemente diverse, si uniscono per realizzare affari e per continuare a espandersi da una all’altra sponda dell’Atlantico.In Messico si continua a sperare che si approvino importanti iniziative di legge che potrebbero servire a combattere la delinquenza organizzata. Nel frattempo, il numero di tossicodipendenti, di morti e di persone sequestrate continua a crescere. verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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|| Memoria ||
Dalla Chiesa, trent'anni dopo. Che la memoria non venga più umiliata
di Nando dalla Chiesa
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settembre 1982. Trent’a nni. Purtroppo i ricordi, anche i più duri, hanno un destino carsico. Ci vogliono gli anniversari tondi, adornati di francobolli e discorsi commemorativi, per restituire ai fatti una loro drammatica plasticità, un loro senso. Per qualche giorno. Ma la vita che scorre, e che dovrebbe misurarsi con quel che è accaduto, ha bisogno dell’esercizio quotidiano della memoria come premessa di intelligenza e umanità. Altrimenti tutto sfoca o cambia di segno. E vincono amnesia e rimozione proprio tra i testimoni di quel che accadde. Per questo mi capita spesso di trovare in un ventenne di Libera più rispetto e memoria di mio padre di quanti ne trovi in chi ebbe modo di vivere l’incubo sanguinoso degli anni di piombo, in chi poté assistere in diretta all’a nnuncio pubblico del suo assassinio durato quattro mesi in una Palermo infuocata.
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Parlo di quei giornalisti o intellettuali (o politici) che, anziché restare sgomenti davanti alla terribile grandezza di quanto successe in quei mesi palermitani, e usare la propria intelligenza per trarne insegnamenti radicali sulla politica, sulle burocrazie, sui valori del Palazzo, sulla storia di una grande città mediterranea e dell’Italia tutta, hanno pensato di dimostrare meglio il loro valore professionale rifiutando il teatro della tragedia, per cercare in carte segrete da nessuno mai trovate in trent’a nni il senso degli avvenimenti. Purtroppo ciò che accadde fu lampante, e andò in scena davanti a tutti proprio al centro del palcoscenico: un delitto politico, l’a ssassinio di uno dei migliori servitori dello Stato repubblicano, per difendere un sistema di potere. Che cosa ci può essere di più sconvolgente di questo? Come lo si può rimuovere? Eppure lo si è voluto fare, e si è tentata la costruzione di una realtà altra rispetto a quella vera. La
società virtuale, finta, immaginata, non è dunque solo frutto delle televisioni berlusconiane. Di più. Una volta rimosso il fatto, con la sua memoria, è stato rimosso anche il rispetto per chi, nel fatto, versò il sangue. Posso quindi approfittare della attenzione che si risveglia in queste occasioni per chiedere che la memoria non venga più umiliata? Per chiedere che abbiano forza di monumento gli insegnamenti di chi andò in prima fila a esporsi per tutti, e che capì ( fu costretto a capire) prima di noi alcune cose che ci ridiciamo tra gli applausi dimenticandone il valore nella vita quotidiana? Due per tutte. Assicuriamo ai cittadini i loro elementari diritti, impediamo che vengano elargiti loro sotto forma di favori dalla mafia. E facciamo sì che le istituzioni siano sempre più importanti di una tessera di partito. Sembra poco ma è una rivoluzione. E le rivoluzioni si fanno se le sostiene un’a nima vera. Fatta di ideali, di sentimenti. E di memoria.
|| Processi ||
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ono 24 pagine, una ordinanza che non riapre il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, non scrive nuovi scenari, la Corte di Assise ha deciso di mettere nero su bianco la propria convinzione che tante delle cose ascoltate possono essere perfettamente vere e vanno semmai approfondite e questo lo ha fatto con le previsioni dell’art.507, ossia la norma del codice che prevede a conclusione della fase di escussione dei testi ammessi all’avvio del dibattimento, la possibilità di ascoltare nuovi testi o di ammettere documenti perché in qualche modo richiamati durante la prima fase processuale. Ci sono state le richieste delle parti, la pubblica accusa che ha puntato dritto contro il presunto killer Vito Mazzara, sicario conclamato della mafia trapanese, ci sono state le richieste delle parti civili a proposito delle indagini giornalistiche svolte da Rostagno nel territorio e con la indicazione di alcune fonti, ci sono state le richieste delle difese degli imputati, l’altro è il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga (e se fosse rimasto vivo ci sarebbe stato alla sbarra come mandante anche il patriarca della mafia belicina, Francesco Messina Denaro), che hanno puntato essenzialmente a introdurre altri scenari, dalle vicende "private" ai traffici di armi e gli affari di Gladio, le interconnessioni con altri gialli internazionali rimasti tali come l’assassinio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A tutte le richieste delle parti la Corte ha concesso tanto, ma la parte grossa dell’ordinanza è frutto delle valutazioni dei giudici togati e popolari. E le richieste della Corte di Assise sono quelle che guardano verso una unica direzione, le colpe della mafia nel delitto. Ipotesi che resta il fulcro del processo. L’esordio dell’ordinanza è di marca “mafiosa” nel senso che è a quella pista che i giudici cominciano subito a guardare, sono stati chiesti atti su perizie balistiche a proposito di armi usate da Cosa nostra in suoi delitti, su armi trovate all’imputato Vito Mazzara, le perizie a proposito del delitto ordinato da Totò Riina del giudice trapanese Alberto Giacomelli. Nel corso del processo è emerso con forza quale fosse il livore dei capi ma-
Processo Rostagno: i giudici chiamano nuovi teste
di Rino Giacalone fia contro Rostagno, ne hanno parlato diversi collaboratori di giustizia, come Angelo Siino, Giovanni Brusca, il segnale era arrivato all’editore di Rtc, la tv dove Rostagno lavorava, all’imprenditore Puccio Bulgarella il pentito Siino ha detto di avere riferito che Rostagno stava dando fastidio, la moglie di Bulgarella (l’imprenditore è deceduto da poco tempo), la prof. Caterina Ingrasciotta (che verrà risentita dai giudici) ha fatto riferimento che si coglievano fastidi “nei salotti” della città, un giornalista di Rtc, Ninni Ravazza, a dibattimento, e non prima, si è ricordato che un giorno Bulgarella irruppe in redazione, assente Rostagno, per dire, non con buone maniere, che era ora di abbassare certi toni. Ed ancora i giudici vogliono sapere gli affari di Bulgarella, le indagini che lo hanno riguardato, gli appalti truccati ai quali con la sua impresa avrebbe partecipato, raccomandato sempre da Cosa nostra. Se Peppino Impastato a Cinisi conduceva le sue battaglie a 100 passi dalla casa di don Tano Badalamenti, Rostagno faceva tv a cinque passi dalla stanza dove di tanto in tanto arriva-
va Angelo Siino l’emissario più vicino all’allora latitante Totò Riina. E’ possibile che oggi per il fatto, che più avanti diremo, che la Corte di Assise abbia deciso anche di guardare dentro gli armadi dei segreti sui traffici di armi passati per Trapani, e dentro gli armadi delle indagini su Gladio trapanese (verranno sentiti il senatore Massimo Bruttio che a livello nazionale per il Pci si occupò di Gladio, l’ex vice presidente dell’Ars Camillo Oddo che da segretario del Pci a suo tempo fece un documento legando il delitto Rostagno a Gladio, i più alti ufficiali di Gladio, Piacentino, Fornaro e Martini - se ancora in vita - ed è stato chiesto alla Procura di depositare senza omissioni il verbale di interrogatorio del capo centro Vincenzo Li Causi, morto, misteriosamente, durante una missione in Somalia proprio mentre i magistrati di Trapani si apprestavano a risentirlo), tutto il contesto mafioso finisca messo all’ombra? Questo è successo nel tam tam che talvolta si muove sul social network, questo si è dedotto leggendo titoli e articoli di giornale. La difesa ha molto insistito su questi aspetti (ma non verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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|| Processi ||
sono state ammesse testimonianze eccezionali come quella dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro), non fu un delitto di mafia, ma un delitto ordito da altre entità perché Rostagno aveva scoperto affari segreti dei “servizi segreti”. La Corte di Assise vuole scandagliare anche questo terreno, ma anche in questo caso l’ombra della mafia c’è, è stato il pentito Sinacori a fornire un dato storico, quello che Cosa nostra nei traffici di armi c’è sempre entrata. E quindi Rostagno poteva essere diventato una “camurria” – così andava sbraitando il patriarca della mafia Francesco Messina Denaro – perché avrebbe potuto mettere gli occhi su questi interessi. Intanto però c’è una smentita rispetto alla storia che lui trovandosi in compagnia di una donna scoprì un atterraggio segreto su un aeroporto chiuso (quello di Chinisia o quello di Milo, tutti e due a punti opposti e fuori dal centro urbano trapanese): la donna che lo accompagnava, moglie di un generale dei servizi segreti, sentita a verbale ha smentito di avere mai conosciuto Mauro Rostagno. 16 verità e giustizia - 20 dicembre 2012
Verrà il giornalista Sergio Di Cori (palesatosi d’improvviso amico di Rostagno e suo buon conoscitore nell’estate del 1996 quando la Polizia arrestò per favoreggiamento la compagna di Mauro, Chicca Roveri e per autori dell’omicidio una serie di ospiti di Saman, pista cosidetta interna totalmente caduta ma che qualcuno di tanto in tanto tira fuori così tanto per gettare altro fango sulla scena processuale dopo quello spalmato nel tempo un po’ in giro per l’Italia) a dire come seppe di quel traffico e come parlò con Rostagno, cosa gli disse il giornalista, lui amico fidato “all’insaputa dei familiari di Mauro”. Ma tutto questo si troverà nella parte finale dell’ordinanza perché prima di arrivare a questi punti la Corte di Assise ne ha posti altri, come la necessità di interrogare Giacoma Filippello compagna del boss campobellese Natale L’Ala, mafioso e massone, ammazzato dopo tre tentativi andati a vuoto, prima di morire avrebbe incontrato Rostagno e a lui avrebbe potuto svelare segreti della massoneria, in secondo piano durante il processo da parte dei cronisti è passata la circostanza che Rostagno aveva ottenuto informazioni
importanti, come le ripetute presenze nel trapanese del gran maestro della P2 Licio Gelli…se questa conoscenza sembra poca cosa mentre all’epoca l’Italia veniva attraversata da strane trame forse si commette un grave errore di sottovalutazione. E’ Licio Gelli in quegli anni a “benedire” con il rito massonico la loggia segreta di Trapani dove si troveranno scritti mafiosi, politici, burocrati, banchieri, colletti bianchi, professionisti, funzionari di prefettura, questura, loggia frequentata da cardinali e anche da emissari di Gheddafi. La Corte di Assise vuole sapere di più sull’omicidio di Vincenzo Mastrantonio, ammazzato pochi mesi dopo Mauro Rostagno, era il tecnico dell’Enel che faceva le manutenzioni a Lenzi, sul luogo del delitto, e quel 26 settembre 1988 c’era buio nella zona, un corto circuito aveva spento i fanali, ma Mastrantonio era l’autista di Vincenzo Virga, e il pentito Milazzo ha detto che fu ucciso perché non era capace a tenersi dentro i segreti, e con lui parlò del delitto di Mauro Rostagno. Per questa ragione in aula tornerà l’ex capo della Mobile, oggi questore di
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Piacenza, Rino Germanà. Così come si colloca nel filone degli appalti mafiosi l’approfondimento investigativo su mafia e riciclaggio dei rifiuti che proprio in quel 1988 conosceva il suo apice, e il boss Vincenzo Virga che gestiva tranquillamente un impianto di riciclaggio costruito a Trapani con finanziamenti pubblici, andava dicendo sornione “trase munnizza e nesce oro”. Nomi eccellenti quelli che la Corte vuole pure sentire, come il giornalista Corrado Augias che dedicò una puntata della sua serie “Telefono Giallo” al delitto Rostagno quando si parlava tanto di pista interna, o ancora i giornalisti Palladino e Scalettari che di recente sul Fatto Quotidiano hanno scritto di contatti tra servizi segreti e uno dei sospettati, poi archiviato, del delitto, Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter braccio destro del guru Francesco Cardella. Anche Cammisa la Corte vuole sentire così come il giornalista maltese Stagno Navarra che si occupò di interessi illeciti a Malta del guru Cardella. La giornalista Valeria Gandus per delle dichiarazioni rese mentre la Procura di
Trapani indagava sulla pista interna. Siamo a quasi tre anni dall’inizio del processo (prima udienza 2 febbraio 2011), si sono tenute sino al 14 dicembre 41 udienze la prossima sarà il 18 gennaio, nel frattempo si attende il deposito di una super perizia a proposito dei reperti che vengono ricondotti all’abile tiratore Vito Mazzara, campione di tiro a volo della nazionale italiana e tiratore scelto della mafia trapanese, molto bravo ad ammazzare cristiani. La Corte di Assise con la sua ordinanza vuole ancorare a precisi riscontri fatti dibattimentali molto importanti, a cominciare dalla cosidetta firma di Cosa nostra su quelle cartucce che Vito Mazzara era solito sovraccaricare e sparare a freddo per sovrapporre diverse striature. Lui che poteva permettersi di girare con il suo fucile calibro 12 in auto, pronto ad andare ad uccidere per ordine dei boss, se fosse stato fermato avrebbe detto che stava andando ad esercitarsi per la sua passione sportiva pluripremiata, e invece come hanno raccontato i pentiti spesso andava
ad uccidere in compagnia di Matteo Messina Denaro o ancora con coperture eccellenti come quella dell’allora consigliere comunale del Psi Franco Orlando che però condannato per mafia fu assolto dalle accuse di avere partecipato a delitti. Tutto questo e però c’è un giallo da risolvere. La scomparsa di un proiettile calibro 38 dai reperti. Un proiettile estratto dal corpo di Mauro Rostagno durante l’autopsia. Mistero, giallo, c’è una indagine in corso ma sembra che se qualcuno ha voluto togliere di mezzo una prova di fatto di quel proiettile esistono fotografie che pare siano più nitide del proiettile stesso, e poi con la perizia su Mazzara non c’entra nulla. Potrebbe entrarci con qualche altro accertamento ora chiesto dalla Corte, tra le comparazioni per le quali i giudici hanno mostrato attenzione e curiosità non fine a se stessa ma per potere giudicare. Se è vero questo quella sparizione potrebbe essere stata frutto di una azione preventiva, non per aiutare agenti di servizi segreti, gladiatori o altro, ma solo e sempre mafiosi, perché i delitti sui quali la Corte ha puntato attenzione sono omicidi di mafia, decisi dalla cupola, la stessa che volle Rostagno morto. Ma diamo tempo al tempo, la Procura di Marcello Viola sta indagando e il giallo non resterà tale ancora per molto. Intanto scorrendo l’ordinanza della Corte di Assise il processo Rostagno è difficile che nel 2013 possa concludersi. Si riempirà ancora di altri elementi lo scenario trapanese di quel 1988, il processo su questo si sta rilevando molto utile, è un puzzle che si va componendo presentando cose che sembrano essere le stesse di oggi. Solo chi vuol essere cieco fa finta di non vedere, il processo Rostagno ci sta raccontando la Trapani di 25 anni addietro e molte cose oggi sembrano proprio le stesse. A cominciare dalle delegittimazioni e dai falsi gialli grazie ai quali mafia e poteri forti hanno piantato qui salde radici. E Mauro Rostagno era una camurria perché le sue denunce irridevano quella mafia che non era più fatta da contadini ma da “menti raffinate”. verità e giustizia - 20 dicembre 2012
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Fra gli strumenti che colpiscono la libertà di stampa, insieme con le intimidazioni ai cronisti, c’è l’uso strumentale della legge sulla diffamazione, con esose richieste di risarcimento danni in sede civile, senza alcun rischio per il querelante. Un’arma in grado di annientare iniziative editoriali, scoraggiare e intimidire singoli giornalisti, impedire di far luce su oscure vicende di illegalità e di potere.
Per usufruire di consulenza e di assistenza legale giornalisti e giornaliste possono: Inviare una e-mail all’indirizzo:
sportelloantiquerele. roma@libera.it inserendo in oggetto la specificazione “sportello antiquerele" 18 verità e giustizia - 20 dicembre 2012
Per non lasciare soli i cronisti minacciati
che siano in grado di dimostrare la loro buona fede e la loro correttezza, Federazione Nazionale della Stampa, Associazione Stampa Romana, Ordine Nazionale e regionale dei giornalisti, Unione Cronisti Italiani, Libera, Fondazione Libera Informazione, Articolo 21, Osservatorio Ossigeno, Open Society Foundations hanno deciso di costituire uno sportello che si avvale della consulenza di studi legali da tempo impegnati in questa battaglia per la libertà di informazione.
Telefonare al numero :
06/67664896-97
Buone feste dalla Fondazione Libera Informazione
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