n.93 19 luglio 2012
veritĂ egiustizia
La newsletter di liberainformazione
VENT' ANNI
>>editoriale
57 giorni di Santo Della Volpe
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n quel 1992 ,vent’anni fa, passarono solo 57 giorni tra la Strage di Capaci e quella di Via D’Amelio: eppure mai periodo fu più intenso e ricco di avvenimenti, al punto che l’attualità di quei due mesi scarsi, è ancora fortissima, carica di tensioni e di risvolti poco chiari,a venti anni esatti. E mai come in quei giorni si capì che veramente si stava realizzando una operazione di cambiamento mai avvenuta prima. Perché in quei 57 giorni vennero alla luce, allo scoperto, i nervi che per 50 anni avevano retto il governo del nostro paese. A chiarire quel che era accaduto e che stava accadendo fu proprio Paolo Borsellino, in quella sera del 25 giugno 1992, quando,nel trigesimo della morte di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti della scorta, parlò apertamente ad un platea di giovani e meno giovani, nella biblioteca pubblica di Casa Professa, a Palermo. Parlò
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a modo suo, scandendo le parole ed i ricordi:”Oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto (…) tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita». Era infatti finita una storia di indagini contro corrente, di contrasti, di corvi, di ostilità e di successi, di amarezze e
di vittorie, soprattutto stava finendo un periodo storico che era vissuto su equilibri internazionali ben chiari ai mafiosi ed a chi li sosteneva. Borsellino capì,comunque, che quel periodo era ancora in corso, che non sarebbe finito presto, che però stavano venendo alla luce quei nervi scoperti che avevano “teso” allo spasimo un intero paese (e forse il mondo intero), in quegli anni di bombe ed attentati, di morti ammazzati ed attacco di criminali e mafiosi al cambiamento . C’era tangentopoli a Milano, ma Borsellino non parlò di questo, e non parlò di cosa nostra perché voleva ripercorreva la storia di Falcone, parlando alle istituzioni ed a sé stesso oltre che al mondo che gli stava davanti:perché non riuscì mai a parlare con i giudici che indagavano su Capaci , lo avevano convocato per settembre , mentre lui aveva fretta, sapeva che stava arrivando il tritolo anche per lui . I suoi appunti però
contenevano tutto quello che avrebbe voluto dire ai magistrati inquirenti, certamente saranno stati scritti nell’agenda rossa che scomparve il giorno della strage di via D’Amelio. Mai ritrovata. Partito Caponnetto, disse Borsellino, “si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro…” una pausa ed un applauso che chi era presente quella sera non dimenticherà mai più. Perché Borsellino parlava di Falcone, ma in realtà parlava di sé stesso, sapeva che era stato tradito anche lui, che in quei 57 giorni oltre alla mafia lavorava in silenzio, perché lui stesse in silenzio, anche qualche apparato dello Stato. C’era chi, mentre Borsellino viveva freneticamente per mettere in chiaro quel che era successo a Capaci e stava accadendo in quei giorni, aveva invece aperto la trattativa con i mafiosi per chiudere
le stragi,certo, ma anche per riprendere quel filo e quei nervi che avevano irradiato il nostro paese per 50 anni e che i corleonesi avevano rotto, dopo il maxi processo, dopo cioè la rottura dell’equilibrio, della coesistenza. Trattativa e coesistenza tra Stato e Mafia erano una cosa sola, una mentalità unica, uno stile politico e di gestione del potere, rispondevano alla logica di quegli anni di governo e sottogoverno, di appalti e morti, di spartizioni e di pacchetti di voti, di consenso e di lupara. Quel consenso aveva plasmato un mondo, usando la mafiosità per cementare gli interessi delle classi dirigenti , della politica e dell’economia,siciliana prima, nazionale poi. Non era forse Raul Gardini socio in affari con Totò Riina? Non erano forse Lima e Ciancimino uomini della corrente democristiana di Andreotti? Non era forse il banchiere Sindona, l’uomo d’affari che aveva lavorato nell’om-
bra con mafiosi, Marcinkus e Calvi, tutti legati dalla P2? Questo era il mondo che il maxi processo aveva fatto saltare, che tangentopoli aveva scoperchiato in quei mesi, che Falcone e Borsellino avevano fatto emergere, facendo scoprire la Cupola ed i tavolini delle spartizioni di appalti. La trattativa dopo Capaci, voleva rinsaldare invece gli antichi legami, ma significava scendere a patti con la mafia e Borsellino non l’avrebbe mai accettato. Ecco perché qualcuno, si seppe poi dalle inchieste, accellerò la fine di Borsellino. Chi erano quei “qualcuno” che tiravano le fila della trattativa?, chi ha dato la spinta al tritolo di Via D’Amelio? Oggi,più che mai sono domande attuali, in una inchiesta della magistratura scottante oggi, 20 anni dopo, come allora nel 1992. Quei 57 giorni sono nella storia. Ed oggi noi siamo ancora in quella storia, per chiedere Verità e Giustizia. verità e giustizia - 19 luglio 2012
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>> intervista
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l volto severo di Paolo Borsellino che, di colpo, scompare sotto lacrimoni che scorrono sul viso, il pianto di un uomo deluso, sconfortato…”tradito”, come dice lui stesso. L’assoluta dura freddezza del magistrato che svanisce mentre lui, Paolo Borsellino, si distende quasi fosse affaticato, stanco, sul divano del suo ufficio per dire tra quelle lacrime una cosa che immediatamente muore lì, in quella stanza e davanti a due suoi sostituti che erano andati a trovarlo, Alessandra Camassa e Massimo Russo, “un mio amico mi ha tradito”. Venti anni dopo questo non è un ricordo recuperato nella memoria, “perché – dice Alessandra Camassa, ex pm a Marsala con Borsellino, oggi presidente di sezione al Tribunale di Trapani – dalla memoria non è mai uscito”, ma c’è un ricordo che grazie alle indagini della Procura nissena oggi è stato registrato negli atti giudiziari, collocato temporalmente, un ricordo che diventa anello di quella indagine che coordinata dal procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, sta ricostruendo ciò che andava accadendo in Sicilia e in Italia 20 anni addietro, quella trattativa mafia-Stato fatta con le bombe… e non solo con le bombe. Per Paolo Borsellino l’autobomba collocata in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, non fu fatta saltare in aria per vendetta o per colpire un uomo cui lo Stato credeva fermamente e quindi una “vittima” utile a Cosa nostra per costringere lo Stato a fare la trattativa, ma il procuratore Paolo Borsellino era diventato un uomo scomodo per “quello” Stato che parlava con la mafia. Alessandra Camassa cominciò la sua carriera giudiziaria a Marsala e quando lì Paolo Borsellino era procuratore della Repubblica. Lui era il pm che aveva conquistato la poltrona senza l’anzianità dovuta suscitando le ire di tanti e meritò l’articolo di Leonardo Sciascia, sul Corriere della Sera, che lo qualificò come “professionista dell’antimafia”, lei, Alessandra Camassa, ed i suoi colleghi, passavano per “giudici ragazzini” che era un altro modo della politica per mettere in cattiva luce il lavoro che svolgevano. Acre-
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"Un amico mi ha tradito" di Rino Giacalone
dine presto spiegata: la Procura di Borsellino a Marsala fu quella che piano piano cominciò a toccare fili dell’alta tensione dove mafia e politica facevano scorrere la loro più nefasta energia, la Procura di Marsala si imbatté nei collegamenti tra mafia e massoneria, e tutti quegli inciuci che visti oggi dicono che la trattativa Borsellino forse l’aveva scoperta già stando a Marsala. Falcone e Borsellino eroi, perché? “Eroi perché introdussero un nuovo metodo di lavoro- risponde il giudice Camassa – fino a quando loro non presero in mano alcuni faldoni era accaduto che anche in presenza di precisi documenti mai nessuno aveva pensato di processare la mafia nel modo con il quale Falcone e
Borsellino ebbero la capacità di farlo. Guardate, ancora prima dei verbali firmati da Falcone e Borsellino, ancora prima che venissero sfruttate le conoscenze investigative che Falcone e Borsellino erano andati acquisendo, ancora prima di questo verbali ne esistevano altri, addirittura negli anni 30 ci furono pentiti che raccontarono Cosa nostra così come fu raccontata molti anni dopo, eppure quei verbali rimasero lettera morta, non produssero nessun processo, come se chi leggeva quelle accuse non era in condizioni di interpretarle o non aveva volontà o determinazione a farlo. Falcone e Borsellino capirono che per attaccare Cosa nostra bisognava sapere legare tutti gli episodi criminali per
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dimostrare l’esistenza dell’associazione”. Oggi è cosa facile a dirsi. “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno con metodo scientifico affrontato in altro modo quei dati probatori, eroi dunque per la loro grande forza di determinazione. Determinazione anche di fronte alle bocciature che hanno ricevuto, non appena si è dimostrato di cosa sapeva vivere Cosa nostra, sono arrivate le polemiche, le contestazioni, le bocciature”. Il suo ricordo di Paolo Borsellino: “Aveva l’onnipotenza infantile della giovinezza, oggi pensando a lui mi interrogo spesso se io sono in condizioni di comunicare quell’entusiasmo quella determinazione, ci dava e ci trasmetteva entusiasmo a noi giovani e mostrava
di essere molto più giovane di noi”. Alessandra Camassa è risultava essere anche bravissima ed efficace autrice teatrale. Ha scritto un dialogo tra Falcone e Borsellino dopo le stragi: un dialogo tra i due giudici ormai morti, che si incontrano in un non luogo per parlare delle loro vittorie e dei loro rimorsi. Un dialogo da dove emerge quello che Giovanni e Paolo erano, “persone normali con una grande capacità organizzativa, con un enorme senso del dovere e un’incrollabile fiducia nello Stato”. Ma questa estate non segna solo i 20 anni dalla morte di Paolo Borsellino ma anche i 20 anni dal suicidio di Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia che a Borsellino svelò ciò che aveva ap-
preso sulla mafia belicina, dalla voce del padre, ascoltando i colloqui del genitore, ammazzato per vendetta. Alessandra Camassa raccolse quelle confessioni. “Rita – sottolinea il giudice Camassa – si era affidata al giudice Borsellino, cominciando a collaborare e denunciando tutto ciò che sapeva e che aveva sentito in casa”. Rita, figlia e sorella di mafiosi uccisi dalla stessa mafia che servivano. Lei, che per cercare vendetta decide di usare la giustizia. Lei, che scopre un nuovo mondo fatto di legalità e lealtà e non si fa più guidare dallo spirito di vendetta, ma dalla voglia di cambiare, la voglia di vedere altre donne denunciare e rifiutare la mafia. Questo accadeva vent’anni addietro. Ma sembra ieri. Anzi, oggi. verità e giustizia - 19 luglio 2012
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>> speciale 19 luglio 1992
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e vuoi andare a Palermo per ricordare quanti sono caduti nella strage di via D’Amelio, prima devi passare necessariamente da Trieste. Non puoi pensare di arrivare in Sicilia, senza mai essere stato ai confini con la Slovenia, senza essere mai stato nel piccolo comune di Muggia, appena fuori il capoluogo giuliano. Da qui, da Muggia, vent’anni fa è partito per la Sicilia Eddie Walter Cosina. È partito, in silenzio e senza annunci, per andare a servire lo Stato, offrendosi come volontario per la scorta del magistrato più esposto in quel frangente storico alla violenza di Cosa Nostra. E qui, a Muggia, ancora oggi, si continua a ricordarne il sacrificio, dopo tanta sofferenza inferta alla sua famiglia e a quella del giudice e degli altri agenti trucidati dall’autobomba, piazzata dai killer. Un appuntamento con la morte quello di Eddie che fu senz’altro segnato dalla sua estrema generosità, della quale fornì prova per ben due volte a distanza ravvicinata, tanto da far considerare quell’appuntamento fatale quasi un segno del destino. A Trieste, quando fu il momento di rispondere alla chiamata proveniente dal Ministero dell’Interno che cercava personale per il servizio di scorta ai magistrati, Eddie mostrò il suo grande cuore, quando si offrì per Palermo al posto di un collega che era appena divenuto padre. E a Palermo regalò un’altra perla di disponibilità, quando prese il posto di chi era appena arrivato a dargli il cambio proprio in quella domenica di luglio, motivando il gesto con il fatto che il collega era stanco del viaggio e che comunque il martedì successivo lui sarebbe rientrato a casa, nella sua Muggia. Senti questa incredibile storia piena di coincidenze fortuite e tragiche e sembra di sentire risuonare le note di “Samarcanda”, la famosa canzone di Roberto Vecchioni che racconta l’incontro con la morte di un soldato che le corre incontro, pensando di sfuggirle. Se è vero che le cose non potevano andare diversamente, il dolore resta comunque grande soprattutto per “le donne di Eddie”: Nella, Oriana, Edna, Silvia. Sono queste donne, di età di-
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Via D’Amelio, Trieste di Lorenzo Frigerio versa ma di spirito indomito che le accomuna, il vero cuore pulsante di questo angolo d’Italia dove memoria e impegno sono parole d’ordine per tutta la rete di Libera e per le istituzioni locali. Nella, Oriana, Edna, Silvia sono la madre, le due sorelle e la nipote dell’agente caduto in via D’Amelio, per tutti però sono ormai “le donne di Eddie”, un’espressione familiare ed affettuosa che le raccoglie con orgoglio e con rispetto tutte insieme in un unico abbraccio. Per molti anni si sono sentite abbandonate da uno Stato che aveva portato via loro Eddie, diventato il punto di riferimento per tutta la famiglia, il sostegno naturale per ogni scelta quotidiana, dopo la scomparsa del capofamiglia. Nei racconti che loro fanno di Eddie, troviamo una persona normale, non un eroe, animato da un forte senso dello Stato che scelse di servire fino in fondo, senza mai risparmiarsi. Un uomo forte, con i suoi dubbi e i suoi sbagli ma soprattutto una persona piena di vita, di forza e di entusiasmo che oggi, agli occhi di chi lo ha potuto conoscere, sembra rivivere
nelle fattezze e nelle movenze dell’altro suo nipote, Massimo, ormai alle soglie della maggiore età. Per molti anni “le donne di Eddie” sono state chiuse nel dolore cupo che solo chi ha avuto i propri cari strappati loro dalla violenza può comprendere. Si sentivano abbandonate dallo Stato più volte: abbandonate non solo per quanto era successo inspiegabilmente quel 19 luglio, con il proprio caro mandato allo sbaraglio insieme a Borsellino e agli altri senza alcuna protezione. Abbandonate poi anche perché lontane chilometri e chilometri da quella Palermo e da quella Sicilia che associavano inevitabilmente alla tragedia. Abbandonate anche nel ricordo di quanti, istituzioni e mass media, continuavano a sbagliare il loro cognome, negando ad Eddie il diritto ad essere chiamato con il suo nome e cognome esatti. Su quanti articoli e libri avevano dovuto invece leggere Cusina anziché Cosina e quanta amarezza ogni volta. Ecco perché per anni non hanno voluto prendere parte ad alcuna iniziativa e manifestazione e c’è voluto tempo e affetto perché si sentissero
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accolte e capite. Questo è stato possibile grazie al lavoro straordinario di ascolto e di accompagnamento fatto dal presidio di Libera, intitolato proprio a Eddie e dai tanti amici e amiche di Libera che si sono fatti loro compagni di strada, senza clamore e senza chiedere nulla. Così, con il passare del tempo, grazie a Stefano, Roberto, Marina, Roberto e ai tanti giovani che sono diventati abituali frequentatori della famiglia Cosina, si è cominciato a ragionare su quale fosse il modo migliore per ricordare Eddie. E poco alla volta, sono nati nel corso di questi ultimi anni diversi appuntamenti che nel segno della memoria hanno rilanciato le ragioni dell’impegno. In tanti sono andati a Trieste in questi ultimi anni per rendere omaggio a Eddie e ai suoi. Da Margherita Asta a Enza Rando, da Salvatore Borsellino a Gian Carlo Caselli e tanti altri, le serate si sono susseguite nel corso degli anni in prossimità del 19 luglio, con la sorpresa anno dopo anno di vedere le sale e i teatri riempirsi. Così quest’anno, per il ventennale
della tragica ricorrenza, è stato naturale pensare ad un unico momento composto da tre serate distinte, che si sono aggiunte alla messa e al concerto che occupano la giornata del 19. Ad aprire gli appuntamenti di quest’anno, è stato l’incontro che si è tenuto sabato 14 in un teatro comunale di Muggia pieno in ogni ordine di posti. Accanto a Felice Romano, segretario nazionale del SIULP, sigla sindacale tra gli organizzatori storici di queste serate, quest’anno è arrivato il presidente nazionale di Libera, Don Luigi Ciotti. Una serata all’insegna del ricordo, tutta intessuta dei temi etici e dei valori della Costituzione che sono stati alla base della scelta di Eddie Cosina, Paolo Borsellino e gli altri caduti di servire lo Stato, senza badare ai pericoli per la propria incolumità. Poi nella serata successiva, domenica 15, è stata la volta della toccante messa in scena della riduzione teatrale dello spettacolo “Paolo Borsellino. Essendo Stato”: protagonisti questa volta non una compagnia di attori, ma un gruppo di operatori della giustizia, guidati dai magistrati milanesi Oscar
Magi, Ilio Mannucci Pacini e Lucio Nardi. Due serate davvero importanti, rese ancora più autentiche dalla presenza della mamma di Eddie, la signora Nella che ha voluto partecipare per la prima volta, conferendo ulteriore significato ai due momenti. A chiudere il trittico, lunedì 16, è stata la presentazione del libro di Saverio Lodato “Quarant’anni di mafia”: un’occasione di approfondimento e di conoscenza per un pubblico attento, che ha visto in prima fila ancora la famiglia di Eddie. Quest’anniversario a Muggia, a Trieste, è stato vissuto come un arrivo del percorso fatto fin qui con la famiglia Cosina e allo stesso tempo un punto di partenza per un rinnovato impegno. Non si può tornare indietro e ora con la presenza a pieno titolo della madre di Eddie tutti sono consapevoli del fatto che già dai prossimi mesi si dovranno rilanciare le ragioni della presenza di un’antimafia consapevole e responsabile in quest’angolo d’Italia. Senza aspettare il prossimo anniversario se si vuole davvero ricordare Eddie Cosina. verità e giustizia - 19 luglio 2012
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>> la scheda
Paolo Borsellino di Gaetano Liardo La storia
Palermitano, classe 1940, nasce in una famiglia benestante della Kalsa allo scoppio della seconda guerra mondiale. Più giovane di un anno del collega Giovanni Falcone, che vive nel suo stesso quartiere e con cui frequenta le scuole. I due si incontreranno nuovamente negli anni ‘70 al Tribunale di Palermo. Borsellino, secondo di quattro fratelli, si laurea nel 1962 e dopo il concorso in magistratura fa pratica al Tribunale civile di Enna nel 1965. Nel 1967 ottiene l’incarico di Pretore a Mazara del Vallo e nel 1969 a Monreale. Nel 1968 sposa Agnese, con la quale avrà tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. Nel 1975 ottiene l’incarico a Palermo dove negli anni ‘80 lavorerà con Rocco Chinnici, prima, e poi con il pool antimafia di Antonino Caponnetto al fianco dell’amico Falcone. Dopo l’istruzione del maxiprocesso ottiene l’incarico di Procuratore di Marsala, dove resterà fino al gennaio del 1992, quando fa ritorno a Palermo come procuratore aggiunto. Muore assassinato il 19 luglio 1992. Sul suo omicidio non si è raggiunta ancora una verità giudiziaria.
Gli anni del pool e il maxiprocesso
Gli anni di Borsellino da Giudice istruttore a Palermo sono quelli della grande attività investigativa del pool antimafia, nato su intuizione di Chinnici, assassinato nel 1983, e realizzato dal suo successore Caponnetto. Borsellino, con Falcone, Guarnetta e numerosi altri magistrati, istruiscono numerose indagini 8 verità e giustizia - 19 luglio 2012
e altrettanti processi che, per la prima volta in Sicilia, prendono di petto Cosa nostra e i rapporti con il mondo politicoimprenditoriale dell’Isola. Grazie all’utilizzo dei primi pentiti di mafia, le cui dichiarazioni sono verificate metodicamente, i magistrati del pool ricostruiscono l’organigramma di un’organizzazione criminale fino allora sconosciuta, che molti consideravano un’invenzione. Per scrivere l’ordinanza del maxiprocesso Paolo Borsellino, con la moglie e i figli, e Giovanni Falcone vennero inviati, in via cautelativa, nel supercarcere dell’Asinara. Il successo del processo, che vedrà condannati nel 1987 la maggior parte degli imputati – il gotha di Cosa nostra – avrà una portata storica per la giurisprudenza antimafia italiana. Allo stesso tempo, tuttavia, attirerà nei confronti dei magistrati del pool le ritorsioni del blocco di potere colluso con la mafia. Nel 1987 Borsellino ottiene la nomina di Procuratore a Marsala.
I professionisti dell’antimafia
La scelta di Marsala, cittadina del trapanese, non rappresenta un “buen retiro” per il giudice Borsellino. Trapani e la sua provincia da anni non vedono celebrare un processo di mafia, da quando Cosa nostra assassinò il giudice Giacomo Ciaccio Montalto nel 1983. Il trapanese rappresentava un luogo sicuro per le latitanze, il punto di incontro con massoneria e servizi segreti, oltre ad essere la culla di una mafia fortemente radicata nel territorio. A Marsala, insieme ad un gruppo di giovani magistrati, Borsellino
condurrà importanti indagini con l’aiuto di nuovi collaboratori di Giustizia. Tra questi Vincenzo Calcara, incaricato di uccidere il giudice, Rita Atria e Piera Aiello, due cognate che denunceranno la loro stessa famiglia facendo luce sulla mafia di Partanna. La giovane Rita, dopo l’annuncio della morte di Borsellino, si toglierà la vita gettandosi dal balcone della sua casa in via Amelia a Roma. L’incarico di Marsala fu votato dal Csm nonostante Borsellino non avesse i requisiti di anzianità necessari. Era, tra i tre candidati, il più giovane, ma anche il più esperto sulle questioni di mafia. Scelta ritenuta ottimale dal Csm, che scatenò, tuttavia, violente polemiche. La più dura, e la più inaspettata, fu quella di Leonardo Sciascia che accusò Borsellino di essere un “professionista dell’antimafia”, in un editoriale apparso sul Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987. Il “J’accuse” dello scrittore siciliano solleva un polverone mediatico che investe in pieno Borsellino. Una fetta consistente dell’intellighenzia siciliana usa le parole di Sciascia per attaccare violentemente l’operato del pool di Palermo, iniziando proprio dal maxiprocesso. Borsellino e Sciascia si incontreranno a Marsala chiarendo le loro posizioni. La polemica continuerà, tuttavia, nel tempo.
Borsellino ha sbagliato
L’isolamento dei magistrati del pool, in primis Giovanni Falcone, porta l’esperienza investigativa palermitana verso un binario morto. A Falcone viene preferito Antonino Meli a Capo dell’Ufficio
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Istruzione di Palermo, posto lasciato alcune settimane prima da Caponnetto. Meli, e con lui Pietro Giammanco, capo della Procura, lentamente affossano il pool. E’ Borsellino, ormai esterno al gruppo investigativo, a prendere una posizione pubblica, nel corso di un convegno ad Agrigento nel luglio del 1988. Borsellino parla della fine della lotta alla mafia, ma la notizia non viene ripresa dai giornali. Per rilanciare il suo discorso il giudice si fa intervistare da Attilio Bolzoni, de la Repubblica, e da Saverio Lodato, de l’Unità. A quest’ultimo dirà: «La lotta alla mafia? I segnali non sono certo molto incoraggianti. Per almeno tre ragioni: il giudice Falcone non è più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxiprocesso, la polizia non sa più nulla dei movimenti dentro Cosa Nostra, e poi ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura della Repubblica di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro, come dieci, venti anni fa». Le dichiarazioni di Borsellino scuotono il mondo politico e la magistratura. Interviene l’allora Presidente della Repubblica Cossiga, mentre il Csm apre un fascicolo contro Borsellino. Il ministro della Giustizia manda un ispettore a Palermo. Dall’inchiesta interna vengono confermate le accuse di Borsellino. Il Csm, tuttavia, decide di censurare il giudice palermitano affermando che ha “sbagliato in buona fede”. Intanto Falcone lascia l’incarico a Palermo accettando la nomina a direttore
degli Affari penali presso il Ministero di Grazie e Giustizia, guidato dal socialista Claudio Martelli.
La “Superprocura” è pericolosa
A Roma Falcone porta avanti il progetto di istituire la Procura nazionale antimafia, con il compito di seguire le indagini contro la criminalità organizzata in tutta Italia. Un progetto che sarà appoggiato dall’esecutivo e diventerà operativo nel 1992. Tuttavia, la creazione di un “Superprocura” a capo di Direzioni distrettuali antimafia in ogni distretto di Corte d’Appello, non ha l’approvazione unanime della magistratura. Tra i firmatari di una lettera contro l’istituzione di questo organismo c’è anche Paolo Borsellino, che su questo punto è in contrasto con l’amico di sempre. Falcone è destinato ad essere nominato Procuratore nazionale antimafia. Dopo la Strage di Capaci, il ministro dell’Interno Scotti, e il guardasigilli Martelli, indicano pubblicamente Borsellino quale candidato naturale, senza però avvertirlo. Il magistrato declinerà la candidatura.
I 57 giorni
Nel gennaio del 1992 Borsellino rientra a Palermo con il ruolo di Procuratore aggiunto, incaricato di seguire le indagini su Trapani e Agrigento, ma non su Palermo. Il 1992 è l’anno delle stragi. Il 12 marzo viene ucciso Salvo Lima, il proconsole di Andreotti in Sicilia. Il 23 maggio tocca a Giovanni Falcone, ucciso nel corso di un attentato alla “libanese”, assieme alla
moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Antonino Montinaro e Rocco di Cillo. Le indagini su Capaci vengono affidate a Caltanissetta e gestite dal procuratore Tinebra. Borsellino chiede di essere trasferito in quella sede per collaborare alle indagini. Il Csm dice no, perchè a Caltanissetta non esiste la figura di Procuratore aggiunto e perchè Borsellino è troppo emotivamente coinvolto. Chiede di essere interrogato subito, non ottiene nessuna risposta. Non sarà mai ascoltato sulla Strage di Capaci. E’ questo il periodo in cui Borsellino prende consapevolezza di essere lui il prossimo nella “lista” di chi deve essere ucciso. Lavora tantissimo e annota tutto in un’agenda rossa, che non sarà mai ritrovata. Il 1° luglio del 1992 è a Roma per interrogare il pentito Gaspare Mutolo. Questi decide di fare i “nomi” sulla rete di collusioni che permette a Cosa nostra di prosperare. Il primo ad essere indicato è Bruno Contrada, funzionario di polizia all’epoca numero 3 del Sisde. Lo stesso giorno Borsellino viene invitato a salutare il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino, appena insediato al Viminale. Questi negherà sempre che l’incontro si sia svolto. A distanza di vent’anni dalla Strage di Via D’Amelio, Mancino, e con lui l’ex ministro Calogero Mannino, il senatore Marcello Dell’Utri, gli ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, e Massimo Ciancimino sono indagati sulla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Di ritorno dalla Capitale Borsellino è consapevole che una trattativa è in corso per fermare l’azione stragista dei corleonesi. Il 19 luglio del 1992 muore in un attentato in via Mariano D’Amelio, mentre si recava a far visita all’anziana madre. Con lui perdono la vita gli agenti di polizia Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Il processo sulla Strage si conclude nei tre gradi di giudizio con la condanna degli imputati accusati di essere gli esecutori materiali, grazie alla testimonianza del pentito di mafia Vincenzo Scarantino. Anni dopo, grazie alla testimonianza di Gaspare Spatuzza, si riscontreranno depistaggi nella gestione delle indagini, oltre che l’inconsistenza delle dichiarazioni di Scarantino, agli atti definito un falso pentito costruito ad hoc. Le indagini ripartono da zero, incrociandosi con quelle sulla trattativa. verità e giustizia - 19 luglio 2012
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>> speciale 19 luglio 1992
«N
elle tragedie ci sono anche eroi: io non sono un eroe. Come ho sempre detto in questo caso l’unico eroe è Vittorio Mangano»: sono queste parole di Marcello Dell’Utri pronunciate tempo fa, quando il senatore era alla sbarra con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per essere ritenuto il trait d’union tra i boss palermitani e Silvio Berlusconi. Parole queste che tornano alla mente di molti, di tanti, in questa calda estate palermitana, nelle giornate in cui sono in pieno corso di svolgimento le iniziative in ricordo di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta uccisi in via D’Amelio. Tornano alla mente perché se di eroi si deve parlare, è giusto che sia tributato loro questo titolo, loro che eroi non volevano essere e hanno finito per conquistarsi un posto per sempre nell’olimpo di coloro che hanno dato la vita per la nostra libertà, per il nostro Stato. Tornano alla mente poi anche perché è notizia di queste ore la convocazione da parte della Procura di Palermo dell’ex premier Silvio Berlusconi, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. La trattativa vista da via D’Amelio Convocazione che è stata però respinta al mittente, con la motivazione di un legittimo impedimento addotto dai legali di Berlusconi. Sotto la lente d’osservazione dei magistrati sarebbe non solo la compravendita di una villa sul lago di Como di proprietà di Dell’Utri da parte dell’ex presidente del Consiglio, che avrebbe sborsato una cifra fuori mercato, ma anche altri versamenti finiti nella disponibilità dell’ex manager di Publitalia, senza che vi fosse un apparente motivo alla base. Insomma, la procura palermitana vuole avere piena contezza dei rapporti tra i due uomini politici, legati da un rapporto di vecchia data, rinsaldatosi negli anni della prepotente ascesa del tycoon milanese. Si cerca di comprendere se veramente Dell’Utri non solo sia stato il canale di comunicazione privilegiato con Cosa Nostra, ma soprattutto se abbia assunto un ruolo nella trattativa tra Stato e mafia, di fatto prendendo il posto
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Via D’Amelio, tra Stato e mafia di Lorenzo Frigerio di Salvo Lima, ucciso dai killer mafiosi nel marzo 1992 e di Calogero Mannino, altro politico caduto in disgrazia agli occhi degli uomini d’onore per non avere rispettato i patti scellerati. La notizia della convocazione di Berlusconi in Tribunale a Palermo ottiene l’effetto di spostare i riflettori dei media dalle polemiche suscitate dalla presa di posizione del Quirinale che, nei giorni scorsi, ha incaricato l’Avvocatura dello Stato di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per le intercettazioni dei colloqui avvenuti tra lui e l’ex presidente del CSM Mancino. Una scelta voluta per tutelare l’istituzione della Presidenza della Repubblica, che cade in un vuoto normativo acclarato, ma che soprattutto assume – volente o nolente Napolitano – il significato di un brusco stop all’accertamento della verità da parte del pool coordinato da Antonio Ingroia e composto dai sostituti procuratori Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Lavoro importante e prezioso per capire cosa è successo vent’anni fa e che oggi, al di là di ogni lettura pro o contro l’operato dei giudici, è fortemente scosso nelle fondamenta della sua legittimità. La famiglia Borsellino, per bocca dei due fratelli del magistrato, Salvatore e Rita, ha già fatto sapere di essere fortemente amareggiata per l’accaduto e di non volere corone di Stato in via D’Amelio. «Noi vogliamo – ha dichiarato Rita Borsellino al “Fatto quotidia-
no” – che quest’anno via D’Amelio sia un luogo dove viene ricordata la vita. I simboli della morte come possono essere le corone siano depositate in un altro luogo. Noi vogliamo ricordare la vita di Paolo Borsellino. Vogliamo che lì dove ci sono dei dubbi che investono le istituzioni non ci siano simboli che la rappresentano». E dubbi sulle istituzioni ce ne sono e tanti purtroppo, soprattutto per quanto riguarda le accuse rivolte a uomini dello Stato nel pieno esercizio delle loro funzioni in quel biennio tragico che vide tra il 1992 e il 1993 la mafia portare, prima, il suo attacco mortale allo Stato e, poi, trattare i termini della conciliazione immonda. Le accuse agli uomini dello Stato Per evitare un retorico esercizio della memoria nelle ore in cui si ricorda il sacrificio di Borsellino e della sua scorta, riepiloghiamo per sommi capi di cosa si sta parlando quando si chiama in causa la presunta trattativa, e quali sono le accuse contenute nell’avviso comunicato dalla Procura della Repubblica agli indagati a conclusione delle lunghe indagini. I boss Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella, Cinà insieme agli ufficiali dell’Arma Subranni, Mori e De Donno e ai politici Mannino e Dell’Utri sono accusati di avere concorso – tra loro e con i defunti Vincenzo Parisi, già capo della Polizia e Francesco Di Maggio, capo pro tempore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – nell’organizzazione di più azioni cri-
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minose: «per turbare l’attività di corpi politici dello Stato, ed in particolare del Governo della Repubblica, usavano minaccia – consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività». Riina, Provenzano e Cinà avrebbero fatto pervenire le loro intimidazioni e le loro proposte di risoluzione per il tramite di Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo legato a filo doppio ai corleonesi. Le richieste avrebbero preso corpo nel famigerato “papello” al centro delle rivelazioni del figlio di Don Vito, Massimo Ciancimino. I carabinieri Subranni, Mori e De Donno, invece, sono accusati di aver instaurato un canale di comunicazione, tramite Ciancimino, e di aver in seguito favorito «lo sviluppo di una “trattativa” fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall’altra, all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato». A beneficiarne per primo e nell’immediato Bernardo Provenzano, cui sarebbe stata assicurata una latitanza prolungata nel tempo. L’ex ministro Mannino, invece, è accusato di aver avviato la trattativa fin dai primi mesi del 1992 e di aver esercitato poi indebite pressioni per l’alleggerimento del regime del carcere
duro disposto per i boss dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Queste manovre da parte di uomini dello Stato avrebbero rafforzato Cosa Nostra nel suo progetto criminoso, tanto da rinnovare per tramite di Bagarella e Brusca le minacce stragiste a Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri, appunto e di Vittorio Mangano. Il primo è sospettato di aver preso il posto di Lima come interlocutore della mafia perché rappresentasse le richieste dei boss allo Stato. Un ruolo che fu dapprima defilato e poi assunto in pieno solo dopo le avvenute carcerazioni di Ciancimino e Riina. L’ex presidente del Senato e del CSM, in quegli anni già Ministro dell’Interno, Nicola Mancino, è invece accusato di falsa testimonianza resa nel corso del processo a Mori e De Donno. Non avrebbe risposto il vero, negando la sua conoscenza dei contatti tra l’Arma e Ciancimino, delle lagnanze del collega di governo Martelli circa l’operato di questi ultimi e, infine non avrebbe dato risposte convincenti sui motivi che portarono alla sostituzione di Scotti al Viminale e al suo conseguente ingresso nella compagine governativa, proprio come titolare degli Interni. Su di un altro “pezzo da novanta” delle istituzioni si era allungata l’ombra di possibili responsabilità nella trattativa, ma Gianni De Gennaro è uscito dalle indagini dopo la formulazione delle accuse nei confronti di Massimo Ciancimino. Non solo il figlio di Don Vito sarebbe stato il latore dei mes-
saggi tra i due schieramenti in campo – lo Stato e la mafia – ma avrebbe anche cercato di coinvolgere De Gennaro, accusandolo di intrattenere rapporti collusivi con i boss, tanto da fabbricare ad arte false testimonianze e false prove. Questo il terribile quadro con il quale i magistrati della Procura di Palermo si stanno misurando in questi mesi. Questo lo stato dell’arte oggi che si parla ormai apertamente di trattativa, un trattativa che è stata negata pervicacemente per anni e da più parti. Oggi nel ventennale della strage di via D’Amelio, anziché risuonare alto da parte dello Stato, con tutte le sue massime cariche, l’invito perché la magistratura sia messa nelle condizioni di fare presto e fare bene per arrivare all’accertamento della verità, ne è nata una incomprensibile battaglia tra le istituzioni, nel segno delle prerogative violate. Ci auguriamo che la Corte Costituzionale salvaguardi da un lato i principi fondanti il nostro Stato, ma chiarisca con il suo intervento, speriamo una volta per tutte, che non ci sono santuari inviolabili nel nostro Paese e che “giustizia” non è una parola arida. Lo dobbiamo a chi non c’è più e ha perso la vita in nome dello Stato. Lo dobbiamo a chi dei familiari è rimasto e ancora aspetta di sapere perché il suo caro gli è stato tolto con la violenza. Lo dobbiamo a tutti noi, se vogliamo pensare ancora di vivere in un Paese in cui valga la pena vivere e per cui valga la pena morire. verità e giustizia - 19 luglio 2012
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Quarant’anni di mafia di Lorenzo Frigerio
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ritratti sagaci e rispettosi dei tanti caduti nella lotta alla mafia. Si parte da Boris Giuliano per arrivare ai giorni nostri, passando per le stagioni esaltanti del maxiprocesso e della primavera palermitana, transitando per le stazioni dolenti di Capaci e via D’Amelio, quando anche la stessa speranza sembrava essere rimasta inghiottita dai crateri delle terribili esplosioni predisposte da Cosa Nostra. Un lungo elenco dolente di uomini che se oggi fossero ancora vivi avrebbero cambiato sicuramente il corso della storia della nostra Italia, senza dubbio in meglio. C’è spazio anche per raccontare l’altro fronte, quello dei mafiosi e dei politici e dei burocrati e funzionari corrotti e complici: sarebbe facile indulgere al moralismo in questo caso, eppure l’autore sembra rifuggere da ogni giudizio, consapevole del fatto che il male e il bene non siano così facilmente distinguibili e separabili tra loro. Il testo non risente delle diverse versioni cui è stato sottoposto nel corso di questi anni, anzi se ne apprezza la capacità di rimanere un punto di riferimento per quanti, esperti o meno, desiderino avere un quadro d’insieme. Arricchisce la presente edizione una lunga antologia di corrispondenze e interviste che l’autore ha scritto per raccontare quanto stava avvenendo a Palermo, in Sicilia, certo dell’assunto che quei fatti avrebbero influenzato la vita di tutto il Paese. Basti pensare solo alla trattativa tra Stato e mafia che infuoca ancora oggi il dibattito politico, per i profondi rivolgimenti che ha prodotto negli ultimi vent’anni di storia patria. Lodato, da consumato navigatore qual è, non si nasconde alla fine la verità più scabrosa: se la mafia è ancora viva e vegeta a centocinquanta anni dall’Unità d’Italia è perché ha goduto del sostegno della politica che la tiene in vita e le dà l’ossigeno. Soprattutto per questo il giudizio sull’esito finale di questa battaglia deve, per forza di cose, rimanere sospeso: «Purtroppo la lotta alla mafia non è ancora finita. E non finirà presto. Se mai finirà».
Saverio Lodato QUARANT’ANNI DI MAFIA Rizzoli, BUR Saggi, Milano 2012 pp. 896 € 13,90
LIBRI
«Dieci anni di antimafia, questi dieci anni di indagini e di polemiche hanno avuto una effetto, sicuramente non perseguito deliberatamente da investigatori e giudici, ma non per questo meno importante. Un effetto culturale che ha svegliato al problema (per la prima volta) l’opinione pubblica meridionale. Che ha allontanato soprattutto dalle giovani generazioni meridionali quella tentazione alla convivenza col fenomeno che generava in ultima analisi quel consenso diffuso di cui la mafia si è sempre servita. Questo è un punto di non ritorno che ci convince di non aver lavorato inutilmente e che ha fatto capire alla mafia che ormai “la Sicilia non è più il cortile di casa sua”..». Sono queste alcune delle parole utilizzate da Paolo Borsellino per presentare il libro di Saverio Lodato “Dieci anni di mafia” nel corso delle iniziative promosse nell’ottavo anniversario dell’uccisione del prefetto dalla Chiesa. Da allora, da quel 3 settembre 1990, di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e purtroppo la scia degli omicidi eccellenti si è protratta fino ai giorni nostri. Testimone partecipe, ma non per questo meno lucido nel documentare questi terribili fatti nelle corrispondenze redatte per “L’unità”, Saverio Lodato ha dovuto mettere mano a quel nocciolo narrativo vissuto in prima persona e a licenziare nuove varianti aggiornate del libro che, passando per diverse versioni (quindici, diciotto, venti, venticinque, trenta) e oggi arrivato alla sua edizione definitiva, per il momento almeno, di “Quarant’anni di mafia”. Un vero e proprio “work in progress” il cui esito non è un libro di storia, ma un libro di storie: una galleria di vicende processuali e fatti politici, ma soprattutto di personaggi che in questi ultimi decenni, per dovere forse, più spesso per coraggio, ma sempre con dignità, si sono battute contro un nemico subdolo e insidioso, capace di infiltrarsi nelle file dello Stato per isolare i suoi nemici, prima di colpirli. Un affresco umano collettivo, che si compone dei
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Uomini soli di Lorenzo Frigerio del prefetto. Sulle ragioni della sua eliminazione Bolzoni riporta il lapidario commento proprio di dalla Chiesa che rispose così a quanti gli chiedevano perché fosse stato ucciso La Torre: «Per tutta una vita». Nel capitolo dedicato all’uomo che aveva sconfitto il terrorismo e si era assunto l’incarico di riportare la legge “in terra infidelium”, si raccontano i primi incarichi in Sicilia, nel corso dei quali si misurerà con quelli che diventeranno i temibili corleonesi, prima della lunga stagione dedicata a reprimere l’eversione terroristica. E poi il ritorno alle origini, con un incarico che era vissuto dal generale non come una prebenda ma piuttosto come l’ennesima sfida da vincere in nome e per conto dello Stato. Bolzoni è critico sugli esiti processuali dell’eccidio di via Carini: «L’inchiesta sull’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa è morta ancora prima di cominciare». Nel suo appassionato e lucido racconto, il giornalista arriva a parlare quindi di Giovanni Falcone: “Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie. Da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte». Basterebbe questo incipit lapidario per descrivere la parabola umana e professionale del giudice che insieme ai colleghi del pool antimafia fece quello che era ritenuto impossibile: processare la mafia, entità misteriosa e imprendibile fino ad allora. Eppure Bolzoni ne ricostruisce puntigliosamente la carriera che si salda a doppio filo, da un certo punto in poi, all’altro protagonista del suo libro, Paolo Borsellino. La storia dei due è nota, eppure l’autore trova nel suo personale repertorio di vita vissuta alcuni tratti, alcuni passaggi che offre al lettore con pennellate lapidarie ma capaci di trasmettere l’umanità e la passione dei due dioscuri della giustizia palermitana. E il libro si chiude con l’attualità, con la revisione delle acquisizioni processuali su via D’Amelio: «L’indagine è stata avvelenata per portare tutti lontani dalla verità. Come sempre, in Italia»..
Attilio Bolzoni UOMINI SOLI Melampo Editore, Milano 2012 pp. 232 € 16,00
LIBRI
Questo 2012 è segnato dall’omaggio a quanti persero la vita per riaffermare le ragioni della giustizia contro la barbarie della mafia: ricorrono, infatti, i trentennali degli omicidi di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa e i ventennali delle stragi in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A questi quattro uomini dello Stato, il giornalista Attilio Bolzoni, firma storica de “La Repubblica” dedica la sua ultima fatica letteraria “Uomini soli” edito prima da Melampo e poi uscito in abbinamento al quotidiano, con un dvd che contiene un documentario girato insieme a Paolo Santolini. Il libro è una ottima occasione per quanti vogliano approcciarsi per la prima volta alle storie di quanti si sono battuti contro la mafia, ma che è altrettanto ricco di spunti anche per i lettori più esperti. E non si tratta di una dote di poco conto, vista la congerie di pubblicazioni uscite negli ultimi anni sul tema mafia e antimafia. I quattro protagonisti del libro sono accomunati dal giudizio iniziale che l’autore offre di loro: «Lo sapevano che li avrebbero fermati, prima o poi. Facevano paura al potere. Italiani troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte». Bolzoni conosce La Torre e il prefetto dalla Chiesa ai suoi esordi da cronista di giudiziaria presso “L’Ora” di Palermo, mentre la frequentazione con Falcone e Borsellino è più protratta nel tempo e accompagna le corrispondenze redatte successivamente per “La Repubblica”. Per ognuno dei quattro comunque l’autore riesce a comporre un quadro esaustivo delle loro battaglie, dei loro pensieri e ad abbozzare anche le possibili ragioni della loro morte. Di Pio La Torre si raccontano le lotte per le terre accanto ai contadini e contro lo sfruttamento parassitario del latifondo, l’impegno nel PCI siciliano non sempre ben visto dai suoi stessi compagni e gli anni di parlamentare, dove mise a frutto proprio sul terreno dell’antimafia la sua profonda conoscenza del fenomeno. Sua l’intuizione di colpire le cosche nei patrimoni, suo il disegno di legge che diventerà legge dello Stato dopo la sua morte e quella
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Paolo Borsellino. L’agenda rossa di Lorenzo Frigerio
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Ciò che bisog na chiedersi è chi aveva inte immag ini po ssiedo no sicuramente una for - resse nell’uccisione di Borsellino. I vertici di Bendotti Giacomo za diversa e complementare. Sulle vicende Cosa Nostra non avevano bisogn o di rice umane e professionali di Paolo Borsellino - PAOLO BORSELLINO molto si è detto e ancora di più si è scritto za del consenso rispetto all’azione». Parole L’AGENDA ROSSA in questi lung hi venti anni che ci separa - davvero dure e che risuonano terribilmente Becco Giallo, no dalla strag e in cui il mag istrato e la sua d’attualità og g i più che mai, quando si parla Padova2012 scorta furono spazzati via dalla violenza - pp. 128 € 14,00 Tuttavia, chi dovesse leg g ere “Paolo Bor - so da parte di chi, per dovere istituzionale e sellino. L’ag enda rossa”, troverebbe nell’arte per il g iuramento di fedeltà alla Repubb lica, del fumetto così mag istralmente messa in avrebbe dovuto proteg g ere Borsellino e non campo da Giacomo Bendotti una nuova -vi lasciare che venisse ucciso. suale per leg g ere i 57 g iorni che separano Un fumetto è sicuramente un’opera che g-io Capaci da Via D’Amelio. ca sul ricordo e la fantasia e quindi alcune Il testo parte dal racconto della furia che licenze sono concesse nella ricostruzione. prende Borsellino alla notizia dell’attentato L’autore ipotizza un incontro avvenuto tra che ha colpito Falcone. Borsellino e Ciancimino al cimitero: un Sono tavole senza parole ma che restitui - escamotag e che serve per far prendere -co scono il dolore del g iudice, racchiuso nella scienza della trattativa al mag istrato ma lacrima che solca il suo viso mentre abbrac - che non sposta il senso di quanto, probabil - mente, avvenne in realtà, come testimonia corso in cui l’amico fraterno e il colleg a di to dai tanti che raccontano di un Borsellino tante battag lie è spirato tra le sue braccia. profondamente amareg g iato e disg ustato L’autore per raccontare g li ultimi mesi di di quanto stava scoprendo in quelle setti vita di Borsellino si è documentato a lung o mane che lo separavano dalla morte. e ha raccolto informazioni soprattutto da L’unica nota di colore nel fumetto che si di quanti hanno accompag nato il mag istrato pana tra il bianco e il nero è il rosso, il rosso nella corsa contro il tempo che aveva intra - dell’ag enda che sparì da via D’Amelio e nella preso per arrivare alla verità sulla strag e di quale sono contenute alcune delle annota Capaci. zioni che forse spieg ano il perché della sua Nella nota che accompag na il fumetto, Ben dotti riporta ciò g li ha spieg ato Vittorio Te - dato di leg g ere alcune delle pag ine di que resi, colleg a e amico di Borsellino, in merito sta ag enda, ricostruite g razie ag li spunti in all’attentato mortale di via D’Amelio: «Non vestig ativi emersi a po steriore. è importante stabilire se il comando sia ar - Un lavoro che contribuisce alla memoria e rivato a Cosa Nostra da uomini dello Stato, speriamo che sia come scrive Rita Borsel dei servizi seg reti o dalle forze dell’ordine. lino nella prefazione e cioè che dopo tanti Non è rilevante se questa comunicazione anni, sia forse arrivato il momento di cono sia avvenuta o meno. scere la verità. 14 verità e giustizia - 19 luglio 2012
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e la mafia è globale, va da sé che anche l'antimafia deve globalizzarsi. Un concetto semplice che, tuttavia, a livello istituzionale si fa fatica a far passare. A fronte delle lentezze internazionali, delle difficoltà ad armonizzare le differenti legislazioni, o dell'incapacità di incidere contro sofisticate organizzazioni criminali transnazionali, un aiuto può venire dalla conoscenza. “We traffiking in ideas”, traffichiamo idee, si legge sul sito di Flare, la rete europea per la legalità e contro le mafie, nata da Libera per fare dell'antimafia un sentire comune internazionale. Così anche quest'anno Flare – Freedom, Legality and Rights in Europe - organizza il seminario di formazione estiva ad Otranto, nel Salento crocevia di mondi e culture. Iniziato il 16 luglio Ole – Otranto Legality Experience – continuerà fino al 29 luglio, con in calendario una fitta serie di incontri, dibattiti e approfondimenti. Un'esperienza forse unica nel suo genere che, annualmente, raccoglie testimonianze e analisi dai protagonisti del contrasto alle illegalità dilaganti, italiani e non. Ole quest'anno è strutturato in tre momenti differenti e contigui: la summer school (dal 16 al 20 luglio), alla quale partecipano 45 ragazzi italiani e 15 provenienti da varie parti d'Europa; il summer camp (dal 23 al 27 luglio) aperto a 100 partecipanti e il public forum (dal 27 al 29 luglio) che vuole coinvolgere la cittadinanza. I temi affrontati da Flare sono tra i più svariati e interessanti: dall'analisi delle principali organizzazioni criminali transnazionali allo studio delle misure di contrasto poste in essere. Dai reati di ecomafia al riciclaggio internazionale, passando per il traffico di droga. Importanti settori del business criminale che vedono collaborare, fianco a fianco, mafie di differenti nazioni, ognuna impegnata in un particolare settore del “commercio”. Basti pensare alle rotte internazionale del traffico di cocaina, illuminanti per comprendere la geopolitica criminale mafiosa. Dalla Colombia verso gli Stati Uniti e il Canada, ad esempio, il traffico attraversa gli stati centroamericani, il Messico, la frontiera incandescente con gli States,
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Lezioni di antimafia a Otranto di Gaetano Liardo
presupponendo un alto livello di coordinamento e logistica tra le differenti organizzazioni criminali. Non è tutto rose e fiori, s'intende, ma i gruppi criminali hanno metodi sbrigativi, e crudeli, per risolvere le questioni. La capacità logistica dei boss è quello che manca agli Stati. Nel caso europeo, ad esempio, nonostante la presenza di importanti agenzie della Ue che si occupano di aiutare gli Stati membri nel coordinare indagini e investigazioni contro le mafie – Europol e Eurojust -, il coordinamento è lento e complesso. La legislazione antimafia italiana, nonostante i tentativi di erosione da parte di determinate forze politiche, prevede delle norme non riconosciute dagli altri paesi della Ue. Basti pensare
al reato di associazione mafiosa, o a quello del concorso esterno. Piccoli passi avanti si stanno ottenendo sulla questione della confisca dei beni, dopo che la Commissione Europea ha presentato una proposta in materia. Il risultato delo scarso coordinamento è la difficoltà di compiere appieno il lavoro investigativo contro un fenomeno che, nell'indifferenza di molti, è ormai fortemente globalizzato e integrato nel sistema economico internazionale. Risultano, così, importanti quelle iniziative come Ole che puntano alla formazione e all'informazione sulle mafie. Un lavorio dal basso per cercare di tenere accesa la coscienza di un pericolo non soltanto italiano.
dai territori << a cura di Norma Ferrara
Campania Napoli, minacce al giornalismo di Arnaldo Capezzuto, è iniziato il processo di Appello. L’ordine dei giornalisti accettato come parte civile ha ottenuto in primo grado il risarcimento danni.
Calabria
Puglia
Processo Meta, nuove rivelazioni sull’omicidio del giudice Scopelliti. Il collaboratore di giustizia Nino Fiume parla del ruolo di Cosa nostra dietro l’assassinio del magistrato reggino. Indagini in corso
Salento, la Finanza sequestra beni per un valore di i 1 milione e 300mila euro. Il Procuratore Motta: “Sottrarre alla criminalità risorse economiche e finanziarie è decisivo”. Il Comandante Provinciale della Gdf Di Rella: “Collaborare conviene alle persone oneste”
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IPSEDIXIT Borsellino:“Non Soltanto Essere Onesti, Ma Apparire Onesti” L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono
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emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è
stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati.
Intervento presso l’Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa (26/01/1989)
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Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera Informazione Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie
Direttore responsabile: Santo Della Volpe
Hanno collaborato a questo numero: Rino Giacalone, Ufficio stampa di Libera
Coordinatore: Lorenzo Frigerio
Grafica: Giacomo Governatori
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Redazione: Peppe Ruggiero, Antonio Turri, Gaetano Liardo, Norma Ferrara
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