verità e giustizia - 73

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n.73 3 maggio 2011

veritĂ egiustizia

La newsletter di liberainformazione

Vite rubate


>> Editoriale

Il coraggio e la mitezza di Agnese Moro

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n questi giorni ricorderemo i giornalisti uccisi perché facevano il loro lavoro (il 3 maggio, nella Giornata mondiale della libertà di stampa), e tutte le vittime del terrorismo e dello stragismo in Italia (il 9 maggio). Le ricordiamo per amore nei loro confronti, per ripensare alla storia che è appena dietro di noi, ma anche perché sappiamo che persone come Giuseppe Alfano, Ilaria Alpi, Enzo Baldoni, Carlo Casalegno, Cosimo Cristina, Maria Grazia Cutuli, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Anna Politkovskaja, Mauro Rostagno, Giancarlo Siani, Giovanni Spampinato, Walter Tobagi e, purtroppo tanti altri, hanno qualche cosa da dirci. Quale è il messaggio che ci lasciano queste vite? Mi sembra che sia quello del coraggio della mitezza. La mitezza delle persone che stiamo per ricordare è stata una scelta; è stato il loro modo di vivere con coraggio, facendo la propria parte, al centro di grandissimi conflitti e di svolte epocali. Né le mafie né il terrorismo hanno colpito a caso; i loro avversari sono stati (nel caso del terrorismo) o sono (nel caso delle mafie) i costruttori di verità, di conoscenza, di coesione sociale, di democrazia. Il coraggio della mitezza è fatto del rifiuto di qualsiasi forma di violenza e anche del non considerare normale quella che giornalmente viene prodotta. Del non smettere mai di difendere quello che è giusto. Del riconoscere nell’altro la comune umanità, anche quando questi sia lonta-

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La giornata mondiale per la libertà di stampa e la giornata delle vittime dello stragismo e del terrorismo in Italia sono l'occasione per mantenere accesa una luce sulle minacce che incombono sulla democrazia nel nostro Paese. Il commento di Agnese Moro, figlia dello statista ucciso nel '78 no o nemico, e del non accettare che nessuno sia considerato un mostro. Crede, invece, nel rispetto e nel riconoscimento, e nel vivere con umiltà. Il coraggio della mitezza è la strada segnata dalla nostra Costituzione; è ciò che caratterizza la nostra democrazia; il modo con cui è concepita la politica; lo spirito attorno al quale si è creata la nostra Repubblica. Cambiare le cose con la mitezza; costruire la giustizia, nel Paese e nel mondo. Con il consenso; con la collaborazione; con la condivisione. Ed è oggi la virtù più rara e più importante da praticare. Il tempo nel quale viviamo non ci propone la mitezza , ma il mercato e la logica che esso si porta dietro: vince il più forte, che è anche l’unico che meriti rispetto e considerazione. Ai perdenti, che sono la stragrande maggioranza dell’umanità, non viene riservata neppure la minima tenerezza sociale. E’ una gigantesca forma di violenza e di oppressione, vestita di modernità, apparentemente ragionevole e tanto convincente che a volte non ce ne accorgiamo. Finisce per sembrare normale, ad esempio, discutere se respingere o meno un barcone pieno di esseri umani che rischiano la vita. Smascherare questa nuova disumanità, nelle sue tante forme, è il compito di giornalisti coraggiosi, che usano i

loro mezzi espressivi - scrittura, immagini - per portarci nel cuore della verità del mondo. I capi delle nazioni, poi, sembrano più che mai credere che la violenza, magari mirata, sia la strada per risolvere i problemi che ci affliggono. I bombardamenti in Libia; l’uccisione, voluta, di Bin Laden poche ore fa: sono i modi con cui si pensa di superare situazioni complesse. Ma chiameranno altri conflitti, altre vittime, altra incomprensione. Proprio nel momento in cui si affacciava, con i movimenti del Nord Africa e del Medio Oriente, qualcosa di nuovo. In realtà, l’unica strada che paga e che costruisce è proprio quella della mitezza, che crede nella forza del parlare e del parlarsi, e che ha come protagonisti l’intera umanità. Certo per essere e restare miti ci vuole coraggio, e molta libertà interiore. Penso con tenerezza e rispetto a mio padre, Aldo Moro, che non ha mai abbandonato quella strada, nella quale credeva profondamente. E ad altri, grandissimi, del ‘900 come il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela che hanno cambiato i loro paesi e il mondo senza cedere alla tentazione della violenza. E’ strano come la loro debole voce riesca ancora ad arrivare fino a noi, incoraggiandoci ad essere anche noi coraggiosi e miti.

Mafie e terrorismo hanno colpito i costruttori di verità e democrazia


Memoria&impegno <<

Martiri per la verità di Norma Ferrara

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Doveva giocare la schedina. Disse alla fidanzata: “Vai avanti, ti raggiungo fra poco”. Enza lo attese invano. Ma il suo corpo fu ritrovato due giorni dopo in un tunnel ferroviario. Accadde nel 1960 a Termini Imerese, un paesino in provincia di Palermo. Lui era Cosimo Cristina, 25 anni, brillante cronista de L’Ora di Palermo e collaboratore di numerose testate nazionali dalla Sicilia. Il suo delitto lo fecero passare per un suicidio e invece lui fu il primo giornalista italiano ucciso dalle mafie in questo Paese. La sua storia è stata portata in scena, l’altra sera, alla Biblioteca nazionale di Roma, grazie ad un intenso recital scritto, sceneggiato e diretto da Luciano Mirone, anche lui giornalista siciliano, con il “vizio” della memoria e dell’inchiesta. Il suo ricordo, attento e puntuale, riporta in vita una storia poco nota al grande pubblico e contenuta nel suo libro “Gli insabbiati” edito da Castelvecchi. Cosimo Cristina è solo degli otto giornalisti uccisi in Sicilia per mano di Cosa nostra. Vite rubate: quelle di Mauro De Mauro (1970), Giovanni Spampinato (1972), Giuseppe Impastato (1978), Mario Francese (1979), Giuseppe Fava (1984), Mauro Rostagno (1988), Beppe Alfano (1993). A Napoli è stato ucciso dalla camorra nel 1984, il giovane Giancarlo Siani. A Torino dai terroristi Carlo Casalegno (1977) e a Milano Walter Tobagi (1980). Molti altri colleghi sono morti all’estero, 27 in tutto il mondo. L’ultimo è stato Vittorio Arrigoni, pacifista, attivista e cronista dalla striscia di Gaza, ucciso il 15 aprile scorso. A lui ieri è stata dedicata la sera-

A Roma un recital racconta la storia del giornalista Cosimo Cristina ucciso dalla mafia. La serata in memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo apre il programma di celebrazioni del 3 maggio, Giornata Mondiale dell'Informazione ta scelta per celebrare la “Giornata mondiale della libertà dell’informazione” che si inserisce all’interno delle celebrazioni della “Giornata della memoria ei giornalisti italiani uccisi nel dopoguerra dalla mafie e dal terrorismo” (quest’anno si terrà Genova il 28 maggio prossimo, per iniziativa dell’Unci). Il recital in memoria di Cosimo Cristina racconta la sua storia ma anche quella degli altri otto giornalisti uccisi in Sicilia. «Per tutti – ricorda Mirone – vale soprattutto la strategia delle delegittimazione. Questi giornalisti sono morti due volte. Cosa nostra li ha uccisi fisicamente e poi è stata costretta a infangarne la memoria». Anche per Cristina è stato così. Soprattutto per lui. Troppo giovane, troppo in gamba, troppo scomodo. La delegittimazione seguì anche canali “ufficiali”. I due magistrati che si occuparono del corpo ritrovato esanime all’uscita di una galleria ferroviaria di Termini Imerese (Pa) il 5 maggio del 1960, scrissero che il giovane giornalista era sull’orlo del fallimento – infatti era stato appena licenziato su pressioni mafiose dalla ditta che gli dava uno stipendio – e in crisi per essere colpito da «troppe querele». E invece Cosimo non aveva intenzione di morire, voleva sposarsi con Enza, la sua ragazza che viveva a Roma e voleva far crescere il suo giornale “Prospettive siciliane” con il quale negli anni ’60 si era messo in testa di por-

tare avanti una battaglia civile e morale in una cittadina crocevia di traffici, delitti e che di lì a poco avrebbe scoperto, grazie alle dichiarazioni di pentiti, che la mafia sedeva comodamente nel Consiglio comunale. Luciano Mirone, oggi direttore del periodico “L’Informazione”, scrittore e collaboratore di Repubblica a Palermo, entra in questa storia in punta di piedi e scopre che a distanza 40 anni che la giustizia non è riuscita a fare il suo corso. Nonostante il “rapporto Mangano” dal nome del commissario che riaprì le indagini, l’autopsia fatta solo decenni dopo con la riesumazione delle ossa, confermò il suicidio. E il caso fu insabbiato. Nonostante le dichiarazioni rese da mafiosi di primo rango che raccontano come Cristina fosse stato eliminato perché scomodo. Strettamente legata a questa storia, Mirone nella sua inchiesta ritrova una storia d’amore. Quella con Enza, la fidanzata di Cosimo Cristina. Una donna bella, minuta, dai capelli scuri, oggi donna sessantenne che vive a Roma e custodisce ancora al dito, l’anello che Cosimo le aveva regalato. Un ricordo gelosamente conservato «perché almeno questo - scrive Mirone – possa vivere per sempre». Il nome di Cosimo Cristina (come quelli di Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mauro Rostagno) il 16 maggio prossimo saranno aggiunti al “Journalist Memorial” di Washington.

Dedicata a Vittorio Arrigoni la serata in memoria dei giornalisti uccisi nel mondo

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>> Italia

Trattativa: è caccia all’uomo di Lorenzo Frigerio

Ciancimino in carcere, Ingroia sulla graticola. Le polemiche sull'inchiesta della Procura siciliana fanno da sfondo al tentativo di screditare il magistrato che indaga sui misteri della stagione delle stragi e sul patto Stato-mafia

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a lasciato Parma per raggiungere Palermo: Massimo Ciancimino è ora recluso nel carcere Pagliarelli del capoluogo siciliano, in regime d’isolamento. Una tregua è prevista per il 10 maggio, quando dovrà comparire in aula, nel processo per la mancata cattura di Provenzano, che vede alla sbarra gli ex ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu. Intanto, le nubi addensatesi sopra di lui, fin dal giorno del suo arresto, incombono tuttora minacciose: dalle accuse di calunnia e truffa per le accuse di contiguità con Cosa Nostra rivolte al direttore del Dis Gianni De Gennaro, all’iscrizione nel registro negli indagati per la detenzione dell’esplosivo ritrovato nella

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sua casa palermitana, per finire con le nuove rivelazioni sul tesoro della sua famiglia: beni per un valore di circa 500 milioni di euro e nascosti all’estero con acquisizioni immobiliari e partecipazioni societarie. Anziché cercare di capire cosa è realmente successo, si corre il rischio di gettare alle ortiche tutto il lavoro che in questi ultimi mesi è stato fatto per venire a capo delle trattative che Cosa Nostra avrebbe intavolato con rappresentanti delle istituzioni e culminata nella stagione di sangue compresa tra il 1992 e il 1993. Anziché plaudere all’iniziativa della magistratura che cerca di prevenire un possibile inquinamento delle prove, colpendo con un provvedimento restrittivo della libertà il suo princi-

pale testimone, si scatena una vera e propria caccia all’uomo, dove a finire sotto tiro è proprio chi rappresenta la giustizia e non l’eventuale colpevole del reato. Un indecoroso crucifige! che ha come obiettivo la delegittimazione di un magistrato impegnato e coerente come Antonio Ingroia. Gli attacchi forsennati della stampa schierata con la maggioranza, le violente parole di Giuliano Ferrara lanciate in prima serata, dal pulpito concessogli dalla rete ammiraglia della Rai e le dichiarazioni bellicose di uomini politici vicino al premier rivelano, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, come Ingroia sia nel mirino da tempo, perchè ritenuto avversario irriducibile. Una profonda ostilità che vede un passaggio cruciale nel lontano novembre del 2002, quando nel corso del procedimento contro il senatore Dell’Utri, Berlusconi si avvalse, in qualità di Primo ministro, della possibilità di essere ascoltato come teste assistito a Palazzo Chigi, anziché presentarsi a Palermo. Ingroia ricostruisce l’episodio nel suo


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libro “Nel labirinto degli dei”, descrivendo il palese nervosismo che coinvolse tutti i protagonisti di quella strana seduta: «Silenzio. Lunghissimi minuti di silenzio. Il tempo sembrava essersi sospeso. Tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di Lui, teso, i lineamenti contratti. Mi guardava. E io ebbi la sensazione che mi stesse fissando. Era come se avesse percepito il mio intervento più come una sfida che un appello. E sembrava che fosse tentato di raccoglierla quella sfida, di reagire, di rispondere». Invece Berlusconi non raccolse la sfida, avvalendosi della facoltà di non rispondere e sprecando forse per sempre l’occasione di fare luce una volta per tutte sulle sue relazioni pericolose, che non sono certamente solo quelle femminili. Forse ci sbaglieremo, ma siamo convinti che l’accanimento personale nei confronti di Antonio Ingroia da parte di quanti intendono colpire una pericolosa “toga rossa”, macchiatasi del reato di lesa maestà, nasconda in realtà la preoccupazione dei problemi che al leader della maggioranza potrebbero venire dalla Procura di Palermo. Forse ci sbaglieremo, ma non saranno i processi incardinati a Milano – da Mediatrade a Mills, per finire alla vicenda di prostituzione che coinvolge Fede e Mora – a far dormire notti insonni al Cavaliere. Per quanto riguarda le turbolenti notti di Arcore, quest’ultimo ha già rice-

vuto una sorta di assoluzione dall’opinione pubblica, soprattutto quella maschile, pronta a riconoscersi più negli stereotipi machisti del latin lover che in quelli rassicuranti del bravo pater familias. I processi, invece, per fatti di corruzione cadranno pre sumi bi lm ent e sotto i colpi inferti alla procedura dalla cosiddetta riforma della giustizia. E quindi le uniche accuse che, se provate, potrebbero causare seri danni al premier, potrebbero essere solo quelle di contiguità con i capitali dei boss mafiosi, risalenti all’inizio della sua scalata imprenditoriale, e le altre, ben più pesanti, di aver giocato in qualche modo un ruolo nella stagione insanguinata delle stragi, quella che ne precedette la discesa in campo. Ecco allora l’accanimento mediatico portato ai danni di Ingroia. Analogo tentativo venne esperito nei confronti di Caselli, quando a Cagliari si suicidò il giudice Lombardini, indagato per un possibile coinvolgimento nel sequestro Melis e per questo interrogato dai colleghi della procura siciliana. Si colse allora l’occasione di un tragico avvenimento per sparare ad alzo zero contro i magistrati di Palermo, accusati di essere responsabili del drammatico

epilogo della vicenda. Oggi si riattiva quella che Saviano ha chiamato la macchina del fango per colpire un giudice, colpevole solo di aver fatto il proprio dovere. Tanto che, inspiegabilmente, la prima commissione del Csm – quella che si occupa dei trasferimenti d’ufficio – annuncia l’intenzione di occuparsi dell’affaire Ciancimino. Anche se il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sembra voler buttar benzina sul fuoco, al termine dell’incontro tra i magistrati di Palermo e Caltanissetta, quando dichiara che «si sono chiarite le diverse posizioni e ognuno ha avuto modo di esporre le proprie ragioni ma adesso è stata messa una pietra sul passato e si pensa solo a costruire il futuro delle indagini nel quale tutti si sono impegnati ad una scambio reciproco e spontaneo di tutti gli atti compiuti e da compiere». Preoccupa, piuttosto, lo strano silenzio che circonda Ingroia, fatte le debite eccezioni ovviamente. Sarà forse questo isolamento che avverte intorno a sé ad aver spinto il magistrato, solitamente restio al proscenio, a prestarsi più del solito a richieste di interviste e apparizioni pubbliche e televisive?

L'accanimento nei confronti di Antonio Ingroia nasconde paure per le inchieste

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>> Italia

Una campagna forsennata di Gian Carlo Caselli

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ontro la Procura di Palermo ed in particolare contro Antonio Ingroia, certamente uno dei suoi uomini di punta per professionalità efficienza e coraggio, si è scatenata una campagna forsennata. Il pretesto strumentale è il “caso Ciancimino”. Un caso certamente intricato e controverso (come lo stesso Ingroia ha ripetutamente ricordato: e non solo nell’infuriare delle polemiche), in ordine al quale possono perciò aversi valutazioni diverse. Ma niente hanno a che fare con questa categoria gli insulti beceri, le aggressioni volgari e le bordate grossolane scagliate con l’intenzione di bastonare – sia mediaticamente che politicamente – onesti magistrati che hanno il solo torto di adempiere scrupolosamente i propri doveri istituzionali: doveri che comprendono anche quello di non essere “scaltri” voltandosi dall’altra parte ( per quieto vivere) se le dichiarazioni di un collaboratore “difficile” aprono scenari inquietanti ed oscuri: tutti da verificare con adeguati riscontri, certo, ma senza smettere di cercare la verità sol perché la strada da percorrere presenta difficoltà ed insidie. Invece, in quest’Italia che sta sempre più perdendo – insieme alla decenza – la capacità stessa di usare le parole secondo il loro significato corrente, c’è addirittura chi – calpestando prima di tutto il buon senso – ha osato sbraitare contro Ingroia, scagliandogli addosso la delicata richiesta di «tirar fuori l’articolo 289 codice penale (attentato ad organi costituzionali)

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Dopo l'arresto di Ciancimino Jr. la Procura di Palermo è stata oggetto di un durissimo attacco. È stata chiesta l'incriminazione di Ingroia e una commissione di inchiesta sui pentiti. Ecco perchè è importante difendere il Pm siciliano dimostrando che la magistratura non è eversiva che punisce con 10 anni di galera chi cospira contro lo Stato». A ben vedere il copione è vecchio come il cucco. La storia della lotta alla mafia è piena zeppa di tecniche rinunciatarie poste in opera da chi preferisce non vincere. Queste tecniche comprendono la definizione della ricerca della verità come teorema o complotto;- l’insinuazione di un rapporto scorretto fra pentiti e inquirenti (una favola diffusa fin dai tempi del pool di Falcone e Borsellino: come dimenticare le pesanti ironie sui cannoli portati a Buscetta?);la delegittimazione pregiudiziale dei collaboratori (cosa, inutile dirlo, ben diversa dalla doverosa cautela nella utilizzazione delle loro dichiarazioni):- fino alla brutale accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire castelli accusatori strampalati per ragioni politiche al servizio di una fazione e ai danni di un’altra. Ciò che – nel caso di Ingroia – è addirittura diventato ( nella torrentizia profusione di leggiadrie assortite) premessa per sparare accuse di “cospirazione politico giudiziaria” e di “calunnia di stato”. Viene alla mente (ed è risolutiva) una frase di Falcone a proposito delle difficoltà strutturalmente connesse ai problemi dei collaboratori di giustizia quando affrontano certi argomenti: difficoltà tali da far «sorgere il sospetto che in realtà non si voglia far luce

sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti». Ma si consoli ( se può) l’ottimo Ingroia. Non è lui l’obiettivo principale. Gettano fango contro di lui per tirare la volata alla sedicente riforma “epocale” della giustizia. Tirare in ballo un magistrato molto noto e stimato per la sua irreprensibilità, inventandosi irregolarità e scorrettezze gravi, equivale a costruire”in vitro” argomenti tanto falsi quanto suggestivi per far passare la merce avariata di una riforma che ha come obiettivo evidente ( al di là della propaganda ingannevole, profusa senza risparmio di mezzi) quello di mettersi sotto i piedi il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura: costringendola di fatto a ad essere devota ed ubbidiente ai voleri della maggioranza politica del momento (di quale colore, va da sé, non importa) in spregio al principio della legge uguale per tutti. Ed è per questi motivi che ristabilire la verità a proposito di Ingroia è anche difendere la qualità della democrazia. Esattamente come battersi contro chi invoca commissioni d’inchiesta per dimostrare che la magistratura è un’associazione a delinquere di carattere eversivo, o tappezza la città di manifesti osceni con la scritta” fuori le Br dalle Procure”.

Ristabilire verità sul caso Ingroia è difendere la qualità della democrazia


Recensione <<

Il quarto livello di Roberto Morrione

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aurizio Torrealta non è soltanto un eccellente cronista di quel giornalismo investigativo che con cocciuta determinazione cerca di tenere viva la missione etica e professionale del mestiere: la ricerca della verità. Torrealta è prima di tutto un uomo onesto, nei confronti di un’opinione pubblica avvolta da un fiume di notizie contraddittorie, prive di memoria sul prima e di ragionamento sul dopo, preda indifesa di interpretazioni consumistiche e di campagne a comando di “distrazione” o di “indottrinamento”. Le cronache sono piene del clamoroso arresto di Massimo Ciancimino, per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, da parte di quella Procura di Palermo che pure ne ha acquisito, ritenendole valide e comprovate, una massa di rivelazioni sulle trattative fra settori dello Stato e Cosa Nostra negli anni ’90. Attorno alla figura del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo si è scatenata subito la feroce guerra dei “pasdaran” della maggioranza di governo, volta soprattutto a colpire la credibilità del Procuratore Aggiunto Antonio Ingroia, avallando nel contempo le complottistiche accuse di Silvio Berlusconi nei confronti dei Pm per aprire la strada al progetto Alfano sulla Giustizia. Con il suo “Il quarto livello”, che segue e sviluppa il precedente “La trattativa” (Bur 2010) Maurizio Torrealta evita di gettarsi in questa mischia e offre invece al lettore qualcosa di diverso dalle teorie preordinate che troppo spesso costituiscono il limite e il rischio delle inchieste giornalistiche, anche quando sono in buona fede. “Il quarto livello” offre una quantità di informazioni, dati, ricostruzioni minuziose tratti dalla lunga memoria della lotta contro la mafia, che a metà degli anni ’90, con le terribili stragi messe in opera dai corleonesi e le trattative fra parti dello Stato e la mafia, aprì la strada alla cosiddetta Seconda Repubblica. Non a caso negli ultimi tem-

pi l’ombra dei servizi segreti si è concretizzata, con rivelazioni dei pentiti e dello stesso Massimo Ciancimino, avallate peraltro da sentenze di processi conclusi, in molte delle pagine oscure che hanno segnato la stagione dei delitti eccellenti fino alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio e ai successivi sanguinosi attentati contro il patrimonio artistico e religioso del Paese. Il “quarto livello” da cui parte la ricerca di Maurizio Torrealta è costituito dai 13 nomi che Vito Ciancimino scrisse in una cartolina inviata nel 1990 a se stesso: tutti personaggi appartenenti ai più alti livelli delle istituzioni e del potere, ministri, funzionari, dirigenti dei servizi segreti, che «compiono azioni al di fuori dei propri compiti istituzionali – scrive Torrealta – non per interessi personali o individuali, ma per ragioni di ordine superiore». Di ciascuno di questi personaggi “Il quarto livello” analizza la vita, il ruolo, le azioni compiute per depistare, inquinare, ricattare, tradire la propria missione per tessere un filo di cui Torrealta cerca di ricostruire la trama, senza iattanza né certezze, ma cercando e offrendo credibili ipotesi basate sul ragionamento e la logica documentale. Su tutto incombe la misteriosa figura di Franco/Carlo, personaggio dei servizi che Massimo Ciancimino ha individuato ripetutamente in Gianni De Gennaro, uomo-mito nella storia della polizia e dell’antimafia, fino a finire in carcere per l’oggettiva falsificazione del suo nome operata nel documento decisivo… Ma anche sul ruolo e l’identità di Franco/Carlo e della sua specifica vicenda restano alla fine del libro numerosi dubbi. Torrealta si addentra così in vicende finora sottovalutate, come quella del cosiddetto Sisdegate, lo scandalo dei fondi neri a disposizio-

ne dei ministri dell’Interno, che portò il Presidente Scalfaro alla sua celebre invettiva televisiva, mentre la responsabilità morale e penale della vicenda, che ricadde solo su alcuni funzionari “felloni” del Sisde, fa intravvedere scenari tutti da esplorare. E il viaggio di Sindona in Sicilia, per sbarrare la porta d’ingresso non solo del suo fallimento bancario, ma dei meccanismi del riciclaggio delle finanze criminali, all’ombra della massoneria. E’ davvero inquietante la domanda sul perché tutti i personaggi coinvolti in qualche modo nelle indagini sui movimenti delle finanze mafiose siano stati uccisi, in una lunga catena, da Giorgio Ambrosoli al commissario Boris Giuliano, che pochi giorni prima dell’omicidio del liquidatore della banca di Sindona si era lungamente incontrato con lui a Milano e che pochi giorni dopo fu assassinato a sua volta a Palermo, al giudice Terranova, al capitano Basile, al procuratore capo Costa, ai banchieri Sindona e Calvi, poi via via fino agli stessi Falcone e Borsellino… E’ nel contesto mondiale, nei rapporti stringenti dei nostri apparati con la Cia, negli scenari internazionali in cui fu gettata e utilizzata la finanza criminale, che va cercato il perché delle azioni di uomini che, in nome di una pretesa “ragion di Stato”, si sono macchiati di delitti gravissimi e di un autentico attentato alle istituzioni e all’autonomia della Repubblica? “Il quarto livello” si limita a ipotizzarlo, con credibile e suggestiva semplicità. E’ lo stesso Antonio Ingroia, nella sua acuta e serena prefazione, a cogliere il senso di fondo della fatica di Torrealta, al di là di ogni interpretazione: l’aver acceso «un fascio di luce su una zona ancora assai oscura: quella degli apparati, che costituiscono la struttura, il presidio di quella zona buia, dove la ragion di Stato imperversa e dove la giustizia incontra spesso limiti e contenimenti».

Una lunga catena di omicidi avvolge l'indagine sui movimenti delle finanze mafiose

Maurizio Torrealta IL QUARTO LIVELLO BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2011 pp. 388 € 12,00 verità e giustizia - 3 maggio 2011

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>> New media

La rivoluzione in casa nostr@ di Norma Ferrara

Prima delle rivolte del Maghreb e dopo le stragi di Cosa nostra, il ruolo di internet nelle battaglie per la libertà e i diritti in Italia e all’estero. Da decenni la Rete è protagonista nel nostro Paese dell’altra informazione su mafie e illegalità

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opo le rivoluzioni che hanno interessato il Maghreb e sono ancora in corso in gran parte del mondo, gli esperti di comunicazione e scienze politiche guardano al web come motore di questi ed altri possibili cambiamenti. L’hanno ribattezzata la rivoluzione di “fame e internet” e adesso soprattutto in Tunisia e Egitto si guarda con attenzione al ruolo che possono giocare anche nel “post“. Questa “lezione” nordafricana si inserisce come catalizzatore di processi sparsi a macchia di leopardo già in buona parte del mondo. E’ internet che ha dato immediata consistenza alla rivolta tunisina, ad esempio, provocando l’effetto domino negli altri Paesi, accelerando la conoscenza e 8 verità e giustizia - 3 maggio 2011

il riconoscimento internazionale, rivelando che: la rivoluzione non è necessariamente islamista e forse nemmeno islamica ma è una rivoluzione in mano ai giovani in nazioni dalla demografia particolarmente giovane. Sarà molto complesso e incerto il destino di queste rivoluzioni nate dalla “libertà del bisogno” - come l’avrebbe definita Franklin Delano Roosevelt ( freedom from want). Mentre guardiamo a questi scenari internazionali che stanno cambiando il mondo, la mente vola alla “rivoluzione” di casa nostra. E non solo di casa nostra ma di tutti quei Paesi in cui la democrazia è messa a rischio dall’esistenza di una criminalità organizzata di stampo mafioso in grado di eleggere uomini in Parlamento, fare affari per le for-

niture di beni primari, dalle energie, all’acqua, alla gestione dei rifiuti. Solo per citarne alcuni. Paesi, in sostanza, a sovranità limitata, nei quali a governare non è solo lo Stato. In Italia, in particolare, internet silenziosamente da decenni rappresenta ormai il luogo privilegiato della resistenza antimafia, sotto il profilo culturale. E’ il Duemila il decennio in cui si consolida il ruolo della Rete e dei suoi cittadini nel ritorno ad un contrasto continuo e frontale alla cultura mafiosa, alle battaglie per la legalità e contro le mafie e la corruzione. Nel nostro Paese questi movimenti dal basso hanno contribuito anche a scalfire il monopolio della stampa tradizionale, dei canali ufficiali, attraverso i quali, consapevolmente o meno, dopo le stragi e le prime sentenze su via d’Amelio e Capaci, si è posto il sigillo del silenzio sulla mafia “sommersa”, quella che non spara più come negli anni ’80 per le strade di Palermo, o nella Campania raccontata dal giornalista, poi vittima della violenza criminale, Giancarlo Siani. Il meccanismo


ad “imbuto” che filtra l’informazione nazionale ha spesso determinato la sottovalutazione o disinformazione nel racconto del fenomeno mafioso e della reazione, istituzionale e sociale, a questa continua aggressione ai diritti della persona e al territorio, al suo funzionamento democratico. Già dai primi anni novanta (non prima, a causa della lentezza con la quale il nostro Paese si è aperto ai “nuovi media”) la Rete in Italia ha utilizzato parametri differenti, ospitato inchieste scottanti, inchiodato politici alle loro responsabilità, raccolto il dissenso e spinto verso la manifestazione del proprio pensiero. Accompagnando il lavoro, in buona parte puntuale e coraggioso, di validi cronisti radiotelevisivi, giornalisti d’inchiesta della carta stampata, delle radio spontanee e piccole emittenti televisive locali. Internet non è ancora, per molti, considerato luogo di ricavi economici: una notizia on line non è ancora un prodotto economicamente sicuro su cui investire per gli editori. Questo ha rallentato sino a oggi la nascita di un mercato editoriale digitale che si impegnasse su questi temi, aggirando i costi della carta stampata e scommettendo, non tanto e non solo sui lettori di oggi, ma su quelli di domani. Lentamente anche nel panorama on line dell’altra informazione, però, qualcosa sta cambiando, e questo rinnovamento complessivo potrà portare al rovesciamento

“dell’imbuto” che filtra le notizie di mafia e antimafia. Secondo le ultime rilevazioni di Audiweb, in febbraio gli utenti attivi su web sono stati 12 milioni 827mila, l’8,6% in più rispetto allo stesso mese del 2009. Fra questi alcuni portali rinnovati, come quello de “L’Unità” e molti portali “verticali”, cioè indirizzati a target specializzati. Accanto a queste realtà in crescita nascono nuovi portali come “L’inkiesta.it”, “Lettera43.it” ma anche l’interfaccia on line del Fatto quotidiano “Ilfattoquotidiano.it”; si inaugurano nuove sezioni che si occupano di legalità e mafie, come ad esempio, il portale legalità di Ansa.it e la sezione interna del Corriere della Sera.it nell’edizione di Milano. Nello stesso periodo grazie ad un finanziamento di tre milioni di euro, Luca Lani (già inventore di Studenti.it) potrà realizzare un progetto che prevede la nascita di 40 quotidiani on line entro l’anno in altrettante città italiane. Il mercato più interessante sarà proprio quello delle città del centro sud soffocate dalle mafie, molte delle quali vivono in regime di monopolio editoriale da decenni. Oggi più di ieri sembrano crearsi le condizioni per investire economicamente sull’editoria on line. In questa direzione si spe-

ra possano trovare maggiore cittadinanza non solo il racconto dell’Italia che resiste all’aggressione mafiosa e le connessioni fra mafia, economia e politica, ma anche le notizie e i progetti editoriali dei tantissimi portali on line già operativi in questa direzione. Dall’ampia rete dal basso coordinata dal giornalista Riccardo Orioles, ai tanti blog di resistenze antimafia sparsi dalla Sicilia, alla Campania, dal Piemonte, all ‘Emilia Romagna. Ma anche le tante web tv e le web radio. Infine, un mercato editoriale on line, potrebbe valorizzare il lavoro silenzioso e costante di portali che custodiscono documentazione e sono diventati “archivi mobili e fruibili”della memoria nella lotta alle mafie. Come ad esempio, il progetto di comunicazione alternativa “Terrelibere.org” che oggi è diventato anche una casa editrice di e-book e ha ospitato analisi e inchieste che altrove non hanno trovato né direttori disposti a pubblicarle, né editori pronti a diffonderle. Tutto ad una condizione: che i signori dell’editoria impura non mettano le mani sul mercato dell’on line creando le stesse distorsioni, limitazioni e i paradossi, che si registrano in quello tradizionale.

Anche in Italia arrivano editori disposti a scommettere sul web

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>> Internazionale

‘Ndrangheta canadese di Gaetano Liardo

Dalla Calabria alla regione dell'Ontario, i boss della fascia jonica della provincia di Reggio hanno consolidato la loro presenza in Nord America. Restano tuttavia strettissimi i rapporti con le locali di origine, caratteristica che ha reso forte il crimine organizzato calabrese

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crivi Ontario, Canada, e leggi Calabria. Le più importanti operazioni condotte dalla Dda di Reggio Calabria hanno messo in evidenza gli stretti collegamenti tra le cosche calabresi e le famiglie “canadesi”. Le operazioni “Il Crimine” e “Il Crimine 2” hanno fornito elementi di particolare interesse. «Nella città di Toronto – scrivono i pm - esisterebbero sette famiglie criminali che hanno al loro interno per lo più soggetti di origine calabrese». Sette gruppi criminali che farebbero capo a Vincenzo Tavernese, Cosimo Figliomeni, Antonio Coluccio, nella cui organizzazione sarebbe operativo Carmine Verduci, Cosimo Commisso, Angelino Figliomeni, Jimmy Demaria e Domenic Ruso. Nella regione dell’Ontario ci sono nove locali di ‘ndrangheta, le più importanti a Toronto e a Thunder Bay, e ci sarebbe anche il Crimine, una struttura verticistica di raccordo. Proprio come quella esistente in Calabria. Tuttavia, pur forti e ricche, le ‘ndrine “canadesi” fanno riferimento a quelle calabresi, mantenendo rapporti e contatti frequenti. Molto frequenti. Già perchè i rappresentanti delle ricche famiglie canadesi in Calabria ci tornavano spesso. Mantenendo uno strettissimo rapporto con Giuseppe Commisso, il “Mastro”, boss di Siderno e del mandamento jonico della provincia reggina. Il territorio da dove proviene la maggior parte dei boss che hanno messo radici in Canada: da Siderno, appunto, da Marina di Gioiosa Jonica, da Gioiosa, i boss “canadesi” si rapportano con i Commisso, gli Aquino – Coloccuio, i Bruzzese, solo per citarne

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alcuni. Vicenzo Tavernese, Carmine Verduci e Antonio Coluccio: «Che - scrivono i pm reggini - rappresentano, anche secondo le autorità canadesi, il vertice di un gruppo criminale operante a Toronto (Canada) - si alternano via via nelle varie riunioni, facendo la spola tra il Canada e la Calabria e, quando non sono presenti, vengono comunque informati dell’avvenuta mangiata». Presenti e coinvolti anche in quelle riunioni dove si prendono decisioni importanti per la ‘ndrangheta nel suo complesso. Gli inquirenti, ad esempio, parlano della riunione del 12 giugno 2008, dove per i “canadesi” era presente Carmine Verduci, nel corso della quale è stata presa la decisione di “eliminare” Carmelo Novella, il boss che in Lombardia stava cercando di rendersi autonomo dalla “casa madre”. Seguendo i movimenti tra Canada e Calabria gli inquirenti nell’agosto del 2008 sono riusciti ad arrestare il boss latitante Giuseppe Coluccio, il broker internazionale di cocaina che si rifugiava a Toronto. Gli affari dei boss in Canada sono variegati e hanno, di fatto, reso ricche e potenti le famiglie calabresi. Dal traffico internazionale di stupefacenti al controllo del gioco d’azzardo, dall’usura agli investimenti nel campo della ristorazione fino all’edilizia. «Le attività illecite e di reinvestimento svolte in Canada – si legge ne “Il Crimine” - hanno anche lo scopo di consentire il mantenimento

in vita della componente italiana della struttura criminale indagata o comunque, di garantirne, quando necessario, il relativo supporto logistico». La “lavanderia” canadese consente, così, alla ‘ndrangheta di ripulire il denaro sporco e di fare ulteriori profitti, diversificando gli affari. Mantenendo, tuttavia, sempre uno stretto legame con la Calabria. Sia in termini di aiuto per boss in fuga o latitanti, che con aiuti economici. A tal proposito i pm scrivono: «Del fervore imprenditoriale della componente canadese che evidentemente aveva, dalle sue attività, guadagni così rilevanti da poter rappresentare un punto di riferimento per aiuti economico – finanziari anche a soggetti vicini – entranei alla componente italiana». Una potenza criminale che ha messo radici in Canada, sfruttando anche le difficoltà di Cosa nostra. Attiva a Montréal, dopo l’arresto di Vito Rizzuto ha subito l’attacco, secondo gli inquirenti, sferrato proprio dai calabresi che ha causato la morte di elementi di spicco della famiglia Rizzuto, legata con i Cuntrera – Caruana e con i Bonanno di New York. Tanta forza e potenza, tuttavia, resta subordinata al riconoscimento della leadership calabrese. Alla “casa madre” si chiedono consigli, suggerimenti e interventi per risolvere problemi. E’ questo legame che rende la ‘ndrangheta forte in Calabria e nel mondo intero.

In Canada i boss diversificano gli investimenti: droga, usura, edilizia


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>> dai territori a cura di Norma Ferrara

Toscana Parlando del «committente finale» del Papello (l’accordo Stato-mafia), Salvatore Riina fece a Giovanni Brusca il nome di Nicola Mancino. Lo ha detto Brusca nell’aula bunker a Firenze al processo sulle stragi di via dei Georgofili del ‘93. Riina gli disse «si sono fatti sotto». «Non mi disse il tramite - ha aggiunto Brusca - ma il committente finale e mi fece il nome di Mancino». Riferendosi a quelli che si erano fatti sotto, Riina mi disse «si sono rappresentati dell’Utri e Ciancimino che gli volevano portare la Lega» (forse la nascente Lega del sud) «e un altro soggetto».

Lazio Maxi operazione dei carabinieri contro un gruppo di narcotrafficanti attivo a Roma. Ben 38 le ordinanze di custodia cautelare eseguite nelle prime ore di oggi, al termine dell’indagine del Ros denominata “Orfeo”. Sequestrati in via preventiva anche beni mobili e immobili per un valore di circa cinque milioni di euro. Contestata nell’ordinanza della Dda di Roma l’aggravante del “metodo mafioso”.

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Sicilia 29 anni fa moriva ucciso dalla mafia l’allora segretario del Partito comunista siciliano, Pio La Torre, assassinato insieme al suo autista e amico, Rosario di Salvo il 30 aprile del 1982. Il Centro studi Pio La Torre, luogo di ricerca, analisi e archivio, lo ricorda rinnovando l’impegno quotidiano. In un editoriale di Vito Lo Monaco per “A sud D’Europa” il settimanale edito dal centro Lo Monaco scrive della necessità di un’antimafia fuori dalla retorica che sia in grado di unificare il Paese, rafforzandone l’unità e la democrazia.


IPSE DIXIT

Corte d’Assise Firenze: la responsabilità delle stragi a cura di Lorenzo Frigerio Corte d’Assise di Firenze Sentenza primo grado - Stragi 1993 Allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia supporre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati, salvo alcuni contraddizioni logiche ravvisabili nel loro racconto (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down”, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo). Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trat-

tativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno detto senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione.

rassegna stampa di Gaetano Liardo La politica internazionale la fa da padrona in questi giorni convulsi. La Libia, in primis, dove il Governo italiano sembra aver perso la bussola. E anche la maggioranza. Dopo vari tentennamenti Berlusconi ha autorizzato i caccia italiani a partecipare ai bombardamenti. Una decisione, questa, che ha fatto esplodere le ire della Lega. Bossi, Maroni e Calderoli accusano il Premier di aver deciso senza una consultazione di maggioranza e presentano una mozione in Parlamento. Giornate di tensioni e nervosismo che, oggi, sembrano

essere rientrate. Lo scontro con la Lega, tuttavia, dimostra la fragilità dell’esecutivo alla vigilia della tornata elettorale delle amministrative. Ancora una volta è la Lega a mettersi di traverso. Bossi avvisa che se si perde a Milano l’esperienza del Governo può dirsi conclusa. Se per la Moratti l’esito delle elezioni non è del tutto scontato, a Napoli il clima diventa incandescente. Tensioni all’interno del Pdl e minacce e insulti nei confronti del candidato pidiellino Gianni Lettieri, mentre in città ritorna l’incubo dei rifiuti. Test

importanti anche in Calabria, dove dopo gli arresti di dicembre, da più parti arriva l’invito di non candidare persone colluse o interne alla ‘ndrangheta. Proprio oggi, intanto, è stato arrestato il sindaco di Marina di Gioiosa Jonica, importante centro della fascia jonica di Reggio Calabria. Sindaci, amministratori, consiglieri regionali, su fino a parlamentari e sottosegretari. La politica italiana ha sicuramente bisogno di riflettere su come affrontare la questione morale e la legalità. Non solo al Sud. verità e giustizia - 3 maggio 2011

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Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera Informazione Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie

Direttore responsabile: Roberto Morrione

Hanno collaborato a questo numero: Gian Carlo Caselli, Agnese Moro

Coordinatore: Lorenzo Frigerio

Grafica: Giacomo Governatori

Sede legale via IV Novembre, 98 - 00187 Roma tel. 06.67.66.48.97 www.liberainformazione.org

Redazione: Peppe Ruggiero, Antonio Turri, Gaetano Liardo, Norma Ferrara

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