n.83
24 gennaio 2012
veritĂ egiustizia
La newsletter di liberainformazione
ANCHE AL NORD
>>editoriale
Salva - Italia di Santo Della Volpe
A
desso la denuncia. Sì, perché di fronte ai dati cui dedichiamo questa Newsletter, c’è poco d’altro da pensare. Non è possibile che di fronte ai dati di 100 miliardi di Euro di fatturato delle mafie in Italia,il 7% del Pil, di fronte ai 160mila imprenditori colpiti dal racket ed ai 200mila dall’usura, si debba reclamare solo la maggior presenza dello Stato e delle Istituzioni. Queste ci vogliono, là dove è spesso assente; ma ora tocca a tutti alzare la voce della denuncia e dei “no”, gridati di fronte a chi chiede estorsioni e tangenti, a chi corrompe e distorce il mercato. Siamo in epoca di liberalizzazioni e di Salva-Italia; ebbene non c’è liberalizzazione più importante della “liberazione” dalla Mafia SpA, non c’è salvataggio più importante del nostro Paese se non da quei vincoli di malaffare criminale che turbano gli appalti, l’economia di vaste zone del Nord,oltre che del Sud; che impediscono la libertà di impresa con la violenza, che sottraggono alla collettività reddito e possibilità di benessere. Allora l’indignazione di questi giorni deve avere come obbiettivo la criminalità mafiosa: loro sono la vera Casta di questo paese che condiziona da anni. E se lo fa è perché la ribellione contro tangenti, pizzo ed usura non si è mai levata troppo forte da mettere in ginocchio questi personaggi e queste logge affaristiche. Isolare il crimine si può e si deve fare: il coraggio non manca, le istituzioni, ora più di prima ,ci sono. Se le Associazioni come SOS Impresa, la Confesercenti, la Confindustria levano alta la loro voce è perché il desiderio di cambiamento è ormai molto diffu2 verità e giustizia - 24 gennaio 2012
È tempo di passare dalle parole alle denunce, ai numeri alle deposizioni davanti ai magistrati.E non solo come atto singolo, ma come impegno collettivo so in Italia. Ma bisogna che ciascuno faccia la propria parte: gli organi di informazione per primi, mentre invece spesso spingono nelle pagine interne e “basse” le notizie sulle mafie ed i dati sulla loro pericolosità. Magistrati e organi di polizia che non possono abbassare la guardia, chiedono anche a noi di non spegnere i riflettori. Ma è l’opinione pubblica che dall’indignazione deve passare ai fatti: chi vive nell’economia reale di questo paese non può accettare che le mafie al Centro- nord entrino nel mondo degli affari come un coltello nel burro, senza incontrare resistenza. Accade anche questo,in Lombardia come in Piemonte, in Veneto come
in Lazio,purtroppo. E l’indirizzo verso cui imbucare la nostra indignazione deve essere ben chiaro: non sono i forconi agitati indistintamente contro Roma a cambiare il corso del nostro futuro: si agitino i forconi contro chi propone e accetta tangenti, corruzioni e intollerabili violenze mafiose.
>edit rial
Noi agitiamo e usiamo le nostre penne ed i nostri computer: parliamo di cifre ben chiare e di analisi ben precise che trovate in Libera Informazione, per dire basta al silenzio, al “così fan tutti”, a chi preferisce pagare il pizzo piuttosto che un giovane operaio o commesso in più nella propria azienda: ed a favore di chi ha denunciato le aggressioni subite e le tangenti richieste. Sono questi ultimi la parte sana del paese, più di chi si agita oggi proclamando di non volere la politica e di essere una “maggioranza, silenziosa” sino ad ora.
>>editoriale Ecco: è stato quello l’errore che ci ha portato sull’orlo del baratro economico-finanziario. Essere stati zitti quando si doveva denunciare, ma prendendo di mira chi ha sottratto forze e soldi al Paese, chi diceva che tutto andava bene mentre l’economia crollava, chi nel silenzio omertoso ha accumulato ingenti ricchezze (ben 65 miliardi di Euro di liquidità monetaria della holding mafiosa). Ora è tempo di passare dalle parole alle denunce, ai numeri alle deposizioni davanti ai magistrati. E non solo come atto singolo, ma come impegno collettivo. Di associazioni di cittadini onesti contro criminali e disonesti.
>edit rial
A loro dedichiamo questa Newsletter; a chi già denuncia ed a chi non sa se lo farà,ma per dire come e dove farlo.
editoriale<<
È
ancora opinione diffusa e difficile da sfatare che la criminalità organizzata di stampo mafioso sia prerogativa del Sud del Paese o comunque fenomeno distante dai territori non tradizionalmente mafiosi. Il fenomeno, purtroppo non da oggi è divenuto un problema nazionale ed internazionale. Il Nord del Paese infatti, sia per ragioni geografiche, che economico-sociali, da tempo è luogo di approdo della criminalità organizzata, sia per le attività illecite sia per quelle all’apparenza “lecite”. La criminalità organizzata da tempo in questi territori non tradizionalmente mafiosi si è indirizzata su settori non solo più redditizi, ma più aderenti alle caratteristiche delle nuove generazioni di mafiosi e meno rischiosi in termini di pena. Negli ultimi anni la vocazione imprenditoriale della criminalità organizzata riesce a realizzarsi sul territorio attraverso un tasso di violenza marginale, privilegiando, invece, forme di accordo e collaborazione con settori della politica, dell’imprenditoria e della Pubblica Amministrazione. E’ infatti molto più conveniente per le organizzazioni criminali, occuparsi di affari, infiltrandosi nell’economia legale nel campo immobiliare, nell’edilizia, nel commercio, nella grande distribuzione, nell’erogazione del credito, nella ristorazione, nell’energia e nei settori turistico - alberghiero, dei giochi e delle scommesse. In tale contesto, le potenzialità delle organizzazioni mafiose si sono alimentate, accresciute e arricchite, negli anni, di quelle indispensabili relazioni che l’Autorità giudiziaria milanese in recenti procedimenti ha con molta efficacia definito “capitale sociale” e senza le quali il fenomeno sarebbe rimasto sottotraccia e privo di ogni consenso. E’ di tutta evidenza che per il raggiungimento di tali obiettivi, le organizzazioni mafiose non possono prescindere dall’interazione con la pubblica amministrazione e la politica. La realizzazione degli scopi delle associazioni mafiose non passa necessariamente per l’occupazione del territorio e l’intimidazione ma per la pratica dell’avvicinamento/assoggettamento (spesso cosciente e consenziente) di soggetti legati negli stessi luoghi da comunanze di interessi, come ad esempio gli imprenditori edili operanti nella zona dove maggiore è l’influenza
Mafie al nord di Anna Canepa Magistrato Direzione nazionale antimafia
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del gruppo criminale o, ancora, politici e amministratori pubblici disposti a sottoscrivere patti di connivenza per tornaconto elettorale o economico. L’attuale fase di crisi economica aumenta peraltro gli effetti distorsivi provocati dalle infiltrazioni dell’impresa criminale nel mercato. Ad oggi può dirsi che si sta assistendo al fenomeno della progressiva “criminalizzazione” della economia attraverso l’impiego e la trasformazione della enorme quantità di denaro ricavato dai traffici illeciti nell’acquisto di mezzi, di aziende, nella penetrazione nel mondo degli appalti, nell’acquisto e rivendita di immobili, il tutto peraltro senza mai abbandonare le attività tradizionali (usura, estorsioni, traffico di stupefacenti e di armi). Si deve ormai tenere in conto che le mafie storiche, costituendo proprie imprese o partecipando a consorzi di imprese, sono penetrate nel circuito imprenditoriale, e hanno alterato a proprio vantaggio le regole della libera concorrenza, con la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo criminale e con gli immensi capitali a disposizione. E’ al Nord che vale infatti il principio della
strategia dell’occultamento, dell’inabissamento, del mimetismo. Non a caso si è parlato in questa ed in altre realtà di “Mafia invisibile”. Bisogna quindi prendere atto che non esistono territori immuni e che i tentativi di infiltrazione mafiosa vanno di pari passo con le grandi occasioni di business. La criminalità organizzata utilizzando il metodo mafioso, si è appropriata delle cospicue risorse derivanti dai pubblici finanziamenti, è penetrata nell’edilizia pubblica e privata, nei settori della produzione e vendita di conglomerati cementizi, nella gestione di cave e nel settore dello smaltimento dei rifiuti. Non basta più allora incrementare i controlli ma è necessario agire in prevenzione. Le Istituzioni, la Pubblica Amministrazione devono cominciare a dare risposte chiare, concrete ed immediate ai cittadini: trasparenza, efficienza, efficacia, qualità. L’ottica in cui si deve agire non deve essere un’ottica emergenziale, propagandistica, demagogica. Vi è la necessità di un’azione coerente e sinergica, vi è la necessità di risorse e di strumenti e di un atteggiamento costruttivo da parte della società. verità e giustizia - 24 gennaio 2012
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È
la terra che ospiterà quest'anno il “21 marzo” la Giornata in Memoria delle Vittime delle mafie. E non a caso è stata scelta questa regione. Prima di tutto perché c'è una società civile vigile e attenta che da anni chiede maggiori controlli e impegno contro l'avanzare della criminalità organizzata. E poi perché qui – in quella che il rapporto Sos Impresa definisce “regione cuscinetto” - le mafie sono arrivate da decenni e hanno messo radici. Le ultime operazioni antimafia condotte al centro – nord vedono proprio la Liguria cabina di regia insospettabile e base operativa di alcune cosche. «La situazione più critica è quella di Bordighera – si legge nel rapporto – la cui amministrazione comunale è stata sciolta per infiltrazioni mafiose nella Riviera ligure di ponente, gli ultimi mesi di cronaca parlano di imprenditori aggrediti, di locali incendiati, di killer assoldati per eliminare politici scomodi, di dimissioni di massa della giunta comunale, di assessori terrorizzati, di possibile compravendita di voti fra politici e famiglie legate alla malavita, di night frequentati da pregiudicati dove si esercita la prostituzione». ‘Ndrangheta ma non solo. E tanti affari interessanti nell'ambito imprenditoriale e commerciale fanno gola alle cosche che per anni hanno agito sotto traccia, senza far rumore. «A Genova – si legge ancora – sono attivi da tempo, nel campo degli stupefacenti e del gioco d'azzardo, anche gruppi mafiosi siciliani, fra cui quello di Piddu Madonia. Come ha confermato nel maggio 2011 l'operazione Tetragona che ha portato in carcere tra Gela, Varese e Genova 63 persone. Tra questi Emanuele Monachella, detto “Orazio” e Vincenzo Morso, entrambi di Gela, considerati i due referenti liguri del clan Emmanuello». Una operazione che ha dimostrato la specificità di questo clan gelese, che mantiene continui contatti con il nucleo siciliano,
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Liguria, la “regione cuscinetto” delle mafie
>>e
di Norma Ferrara
Le 'ndrine nella regione hanno fatto affari, e provano a pilotare elezioni politiche. La società civile ha reagito con forza. Matteo Lupi, Libera: «su pizzo e usura c'è ancora scarsa attenzione ma non si nega più la presenza delle cosche» anche dalla Liguria, contribuendo con i ricavi a sostenere le famiglie di origine. Arrivano i soldi delle mafie, dunque, e arrivano anche i mafiosi. Con il loro metodi e la loro subcultura imprenditoriale criminale. Il rapporto Sos impresa, infatti, sottolinea che molti imprenditori sono stati oggetto di
richieste estorsive e a Savona, nell'a gosto 2008, un gruppo di loro ha denunciato i vari tentativi di racket subiti e la loro denuncia ha contribuito a far conoscere meglio le modalità di azione e mettere fine agli incendi e alle intimidazioni. Secondo i curatori del rapporto della Confesercenti i settori maggiormente presi di
editoriale mira sono stati quelli dei rifiuti, dell'edilizia e dei nuovi business delle biomasse (legno) con progetti e impianti che variano da levante a ponente della provincia. Nella mappa del pizzo in Italia la Liguria fa registrare 1500 vittime coinvolte in inchieste antiracket, il 4% del totale e che si colloca fra Savona e Genova. In piena crisi economica, inoltre, il giro d'affari stimato per il reato d'usura nella regione si attesta a 0,6 ml di euro, 5700 le vittime coinvolte, cioè il 12% del totale. Dati quelli di Sos impresa, che sono il frutto di un monitoraggio attento di strutture che operano sul territorio, come conferma il referente regionale di Libera, Matteo Lupi. «C'è ancora scarsa percezione dei fenomeni di racket e usura – conferma Lupi. A fronte dei numeri c'è una risposta ancora bassa; quello lanciato dalla Confesercenti è un allarme che ancora non è stato colto da tutti». La causa è nella mancanza di informazione approfondita sul tema, eccezion fatta per il ponente ligure, le altre aree hanno poca percezione della gravità della situazione. A poche settimane dal 21 marzo (che a Genova si terrà sabato 17 marzo) c'è una grande attenzione per quel che riguarda le ultime inchieste della magistratura ma la politica non ha ancora messo al centro l'emergenza racket e usura. «A fronte di questo dato – continua Lupi – sul quale speriamo di lavorare bene in queste settimane che precedono la Giornata della Memoria e dell'Impegno, registriamo invece una presa di coscienza delle istituzioni e dei politici rispetto al fenomeno mafie in Liguria. Oggi dopo le ultime indagini antimafia che sono arrivate a lambire politici e imprenditori locali, nessuno ha il coraggio di dire che “la mafia non c'è” in questa regione». E questo è già un buon presupposto per cominciare a contrastarla, in tutti gli ambiti, dall'imprenditoria alla politica al tessuto sociale.
Mafie al confine
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he le mafie al Nord siano arrivate ad inquinare il giro d'affari dell'economia legale è un dato ormai acquisito negli ultimi anni. Ma è ancora tabù per alcune regioni che hanno sempre fatto della trasparenza, efficenza e legalità elementi fondamentali di coesione sociale. Parliamo del Trentino Alto Adige, della Valle d'Aosta e del Friuli Venezia Giulia. Lette attraverso i rapporti dell'intelligence antimafia e della procura nazionale antimafia queste regioni sono ancora lontane dal rischio di insediamento mafioso o dalle cifre che fanno registrare territori come la Lombardia, il Lazio, l'Emilia Romagna o l'Umbria. Ma non bisogna abbassare la guardia. Lo dicono le recenti indagini delle procure antimafia di queste regioni e anche il XIII rapporto di Sos impresa che le classificha fra le regioni nelle quali ci sono "rapide incursioni da parte delle mafie ... che potrebbero attecchire". La prima a rischio è la Valle D'Aosta dove la 'ndrangheta ha già provato più volte ad infiltrarsi, specie «attraverso il casinò di Saint – Vincent e il traffico di droga». Qualche clan mafioso – si legge nel rapporto della Confesercenti – è riuscito anche ad
arrivare in Trentino Alto Adige, attraverso il sempre verde business della droga, come dimostra l'operazione Bellavista, realizzata fra il 2008 e il 2010 dai Ros che hanno scovato una cellula della Sacra Corona Unita a capo di un traffico di eroina e cocaina. E' soprattutto la camorra, invece, ad insediare ai confini dell'Italia, il Friuli Venezia Giulia. I punti più sensibili sono stati i cantieri navali di Monfalcone e il porto di Trieste, secondo i curatori del rapporto. Anche qui, il traffico di sostanze stupefacenti crea il varco a successivi affari e talvolta tentativi di coinvolgere cittadini del luogo in business redditizzi, specie in momenti in cui l'imprenditoria da sempre fiore all'occhiello di queste aree è fortemente in crisi. Secondo la mappa del racket ci sarebbero una trentina di episodi sospetti in Trentino e solo uno in Valle d'Aosta, nel 2010. Diversa la situazione del Veneto che fa registrare 123 delitti commessi connessi al "pizzo" . Ancora più basse le segnalazioni per casi di usura, dovuta anche alla difficoltà di rintracciare un reato di questo tipo su territori dove bassa è la consapevolezza della presenza dei clan, anche dietro il prestito di soldi a tassi usurai.
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EmiliaRomagna, ai boss commesse e consenso di Giovanni Tizian
Da terra della Resistenza a regione colonizzata dai clan. Qui si muovono, sottotraccia, gli interessi milionari dei clan. Sul territorio operano “colonne emiliane” delle famiglie mafiose che sono interessate all'aggiudicazione di appalti e alla fornitura di servizi
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ungo la via Emilia padrini e gregari gestiscono fette di economia legale. Da Rimini a Milano, ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra, riciclano i soldi sporchi in attività legali: offrono servizi alle imprese locali, noleggiano videoslot, aprono bar e ristoranti, e s’innestano nel mondo delle cooperative di facchinaggio dove le regole sono labili. Nel rapporto di Sos impresa all’Emilia
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è dedicato ampio spazio. C’è anche la mappa del pizzo. In Emilia Romagna, secondo i dati di Sos Impresa, sono 2 mila i commercianti e imprenditori taglieggiati. E tra le città indicate nella tabella dopo Bologna c’è Modena, e dopo la Riviera romagnola. Sono il 5 per cento del totale. A soffrire le estorsioni tradizionali, la tassa parassitaria conosciuta come pizzo, sono soprattutto i corregionali, anche se non
mancano casi di imprese locali che pagano la “mesata”. La fisionomia del pizzo è mutata. Agli imprenditori modenesi, reggiani, bolognesi, i mafiosi, che si presentano in veste di imprenditori, non chiedono una tassa da versare. Ma si pongono sul mercato e offrono servizi alle aziende, servizi a basso costo, concorrenziali. Come può essere il movimento terra, nel quale le imprese della ‘ndrangheta includono a costo zero lo smaltimento rifiuti. E’ una questione di logica economica. Di fronte a un prezzo concorrenziale, ci sono imprenditori emiliani, lombardi, piemontesi piuttosto che liguri o veneti, che scelgono i servizi dell’impresa mafiosa. Così i boss acquisiscono commesse e consenso. Il Rapporto è ricco di dati, notizie, descrizioni che fanno dell’Italia un Paese strozzato dalle cosche. E ad essere strozzata è l’economia nazionale che viene pesantemente inondata di capitali mafiosi. «Modena, Parma, Reggio Emilia e la costiera romagnola sono terra di conquista del clan dei Casalesi. È stato il pentito Domenico Bidognetti a de- scrivere tutti gli interessi del clan in Emilia Romagna», si legge nel XIII rapporto. Lo stesso collaboratore ha descritto Modena e provincia come succursali del Clan. Sul clan dei casalesi, colonna emiliana, nel rapporto si legge: «L’obiettivo era e rimane quello di entrare nel giro delle grandi opere. Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna si trovano, infatti, lungo l’asse delle opere più importanti in ballo: l’Alta velocità, le tangenziali, le nuove corsie dell’autostrada. I soggetti criminali sono presenti in particolar modo nella provincia di Modena, soprattutto nell’area che abbraccia i comuni di Castel- franco Emilia, Nonantola, Bomporto, Soliera, S. Prospero, Pastiglia e Mirandola, e Reggio Emilia». Le parole del pentito Bidognetti, riportate nel rapporto, sono emblematiche e danno l’idea della questione: «Oggi si può dire che, vista la numerosa presenza di Casalesi in quella zona, Modena e Reggio corrispondono a Casal di Principe e a San Cipriano D’Aversa». Un lungo elenco di operazioni antimafia, quelle eseguite nel corso del 2010. Tutte indicate nel rapporto. Un altro dato interessante riguarda le indagini sulle estorsioni che hanno interessato Modena e provincia nel 2010. Sono 4, tante quante Vibo Valentia, Catanzaro e Cosenza. Milano, invece, supera Modena nelle operazione antiusura. E’ un Nord sommerso e invisibile quello descritto nel rapporto,
dove si muovono interessi milionari. «La crisi economica, infine, in un’area caratterizzata da un’imprenditorialità diffusa, ha creato quel terreno fertile nel quale l’usura si è insinuata quale credito sussidiario a quello bancario. In Emilia Romagna, nel triangolo Modena, Reggio Emilia e Parma, si segnala la presenza consolidata di gruppi camorristici del casertano, attivi anche nelle pratiche usurarie, e della
’ndrangheta che gestisce, da anni, il comparto delle bische clandestine e del gioco d’azzardo. Ma è Rimini a destare maggiori preoccupazioni, tanto che la relazione della Commissione antimafia sul primo semestre del 2010 indica l’intera provincia come una delle zone non solo più a rischio in fatto di criminalità organizzata, ma come una di quelle già in parte colonizzata da ‘ndrangheta, Sacra corona uni-
ta e clan dai Casalesi». Modena non è attraversata da soli interessi camorristici. La ‘ndrangheta c’è e investe. Dall’operazione “Minotauro” della Dda di Torino, vasta indagine che ha portato in carcere 150 tra ‘ndranghetisti, colletti bianchi e politici, è emerso il ruolo di alcuni autotrasportatori che dall’Europa a Modena importavano cocaina in accordo con boss di rilievo della ‘ndrangheta piemontese. Sono imprenditori titolari di un’importante impresa di trasporti con sede nel Reggiano. E poi ci sono le cosche di San Luca, che hanno alcuni interessi sull’asse Bologna-Modena-Aosta. Pizzerie, bar e cocaina. Questi gli affari dei Pizzata-Marte sotto le due torri. Cocaina, autotrasporto e immobiliari sono invece i settori dove ha investito a Bologna la cosca Mancuso di Vibo Valentia. Francesco Ventrici è uno degli esponenti della ‘ndrina vibonese, è ritenuto il referente della cosca in Emilia. Un imprenditore che si confonde tra i tanti uomini d’affari locali. Le sue imprese hanno lavorato e ottenuto commesse anche da Lidl Italia. Dai camion al settore immobiliare, il passo è stato breve, giusto il tempo di accumulare profitti con il traffico internazionale di cocaina. Insieme a Ventrici c’era Vincenzo Barbieri, ucciso a marzo 2011 nel suo paese di origine, nel Vibonese. Era considerato il narcotrafficante di punta della cosca, legato alle Auc, i paramilitari colombiani di estrema destra. Dalla sua uccisione sono state avviate indagini approfondite, e gli investigatori hanno messo le mani su un tesoretto, depositato nelle casse sicure, e discrete, del Credito Sammarinese. Qualche tempo dopo il presidente e fondatore, il direttore e il responsabile dell’antiriciclaggio sono stati iscritti sul registro degli indagati per riciclaggio. Secondo il gip, il Credito si trovava in difficoltà economiche, e hanno visto i narcomilioni di Barbieri, 15 milioni di euro, come una salvezza per la propria banca. Gli arresti e le indagini hanno svelato il sistema, ma buona parte dei milioni era già stato depositato. Dalle banche al facchinaggio nel settore della macellazione. A Modena la Flai Cgil parla di “Nuovo caporalato”. «Caporali che operano nel settore della macellazione, dove lavoratori extracomunitari sono assunti in nero e attraverso intermediazione da finte cooperative di facchinaggio». Sfruttamento della manodopera, ma anche interessi mafiosi. Che in pochi vogliono vedere. verità e giustizia - 24 gennaio 2012
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In Piemonte, il terzo livello della mafia Spa di Simone Bauducco
La Commissione parlamentare antimafia ha lanciato da anni l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nella regione. Sos impresa: nel 2011 sarebbero 2mila i commercianti vittime di estorsioni. Il “pizzo” soffoca anche le piccole aziende
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na mafia che si fa impresa. È questo uno dei punti centrali del XIII rapporto “Le mani della criminalità sulle imprese”. Una frase che in Piemonte è stata confermata dalle operazioni “Minotauro” e “Maglio” che nel corso del 2011 hanno svelato la mappa della rete 'ndranghetista. Una penetrazione che viene definita nel rapporto “di terzo livello”, ovvero capace di conquistare ampie fette di un'economia prospera e interessata dai grandi appalti dove vi sono enormi possibilità di riciclaggio e di occultamento nell'economia legale. “La mafia non investe nel deserto, ma piuttosto nelle oasi dove il denaro riesce a mimetizzarsi meglio” ha spiegato il Procuratore Capo di Torino Gian Carlo Caselli. Così la 'ndrangheta ha investito in Lombardia, Emilia Romagna, Lazio e in Piemonte. Già nel 2008 la Commissione Parlamentare Antimafia aveva lanciato l'allarme sulle infiltrazioni, ma la maggior parte degli amministratori pubblici piemontesi avevano dichiarato che il tessuto economico e politico piemontese sarebbe stato impermeabi-
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le all'infiltrazione. Tre anni più tardi le ordinanze dell'operazione “Maglio” e “Minotauro” sembrano raccontare un'altra versione. 9 locali presenti attive nella provincia di Torino ed un'altra nel Basso Piemonte oltre agli arresti eccellenti di Nevio Coral, ex sindaco di Leinì per 11 anni e titolare della Coral spa con sede a Volpiano, un gruppo industriale che opera nel campo della depurazione e del trattamento dell'aria e dell'acqua. Ma non è il solo. Caso emblematico della capacità della criminalità organizzata di stringere legali con la politica è quello di Giuseppe Caridi. Un consigliere comunale di Alessandria organico all'organizzazione tanto da guadagnarsi la dote di picciotto. Tra i capi d'imputazione, oltre al concorso esterno, si registra anche un caso di 416ter, ovvero il voto di scambio. Dalle oltre milleduecento pagine dell'ordinanza, emerge un quadro di rapporti costanti tra alcuni esponenti della politica locale e affiliati alla 'ndrangheta al quale si chiede sostegno elettorale in cambio di favori per le proprie imprese.Ma non è solo il tessuto politico piemontese, ma anche quello economico a
risultare permeabile alle infiltrazioni della 'ndrangheta. Secondo le stime fornite dal rapporto Sos impresa, nel 2011, 2mila commercianti sono stati vittima di estorsione, ovvero il 5% del totale. Un fenomeno che rispetto al Sud Italia, sembra essere finalizzato più al controllo dell'impresa e del suo rappresentante specie se questi è originario di una regione ad alta densità mafiosa piuttosto che al controllo del territorio. “Successivamente – si legge nel rapporto - si selezionano gli imprenditori più facoltosi e si rivolgono loro richieste una tantum, ma di importo piuttosto elevato. In questi casi, solitamente, l’intimidazione si fa sul territorio di origine, spesso ai beni e ai familiari della vittima”. L'intimidazione negli ultimi anni è arrivata a colpire non solo le grandi aziende, ma anche le piccole imprese a conduzione famigliare. Inoltre vi è una tendenza sempre più forte alla creazione di piccole e grandi imprese affidate a prestanome nelle quali vengono riciclati i proventi del narcotraffico. “Sostanzialmente non siamo di fronte solo alle classiche aggressioni della mafia alle imprese, ma a una mafia che si fa impresa”. Non è un caso che il capo locale di Rivoli Salvatore De Masi, detto Giorgio, avesse una ditta edile di costruzioni con la quale costruiva villette a schiera nella periferia ovest di Torino. Medesima attività del pentito Rocco Varacalli, dalle cui rivelazioni sono partite le ultime operazioni, ma anche alla famiglia dei Crea capace di spaziare dalla gestione delle bische clandestine al movimento terra. Esistono pertanto due dimensioni della mafia che si fa impresa: quella appena descritta costituita da imprese piccole e radicate sul territorio che agiscono nel campo dell'edilizia privata e poi quella dei grandi appalti. Su quest'ultimo punto, occorre rievocare le carte dell'operazione Pioneer che nell'ottobre 2009 ha portato all’arresto di Ilario D’Agostino e Francesco Cardillo. Al centro dell’inchiesta la società Ediltava Sas che controllava una serie di società minori attive nel settore immobiliare. Attività lecite, con la copertura di vari subappalti e commesse pubbliche, come la Tav, le Olimpiadi invernali del 2006, il porto di Imperia, e acquisti di ville e appartamenti in provincia di Torino, Asti e Cuneo.
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superiore ai 100 miliardi di euro, vale a dire l’8% del PIL, il valore del mercato degli appalti pubblici in Italia e in esso trovano occupazione quasi 1,5 milioni di persone. Questi dati sono contenuti nella relazione annuale dell’Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (www.acpt.it). Si tratta di numeri importanti destinati ad attirare l’attenzione non solo degli operatori economici ma, altresì, delle organizzazioni mafiose. È un mercato delicato quello degli appalti, in cui, come scrive l’Autorità, non mancano casi dove si registra «una sproporzionata durata dell'esecuzione dei contratti e un ricorso frequente e immotivato a varianti progettuali che provocano un sensibile aumento dei costi contrattuali». A tutto questo, si legge sempre nella relazione, si aggiunga che oltre 5.000 imprese non applicano il codice degli appalti pubblici e che il 30% degli appalti avviene senza gara. Di fronte di questo scenario, è certamente un segnale importante quello che è giunto dal Veneto lo scorso 9 gennaio con la firma del Protocollo di legalità finalizzato a prevenire l’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, sottoscritto dalle Prefetture, dalla Regione, dalle Province e dall’Anci alla presenza del Ministro dell’Interno Cancellieri. Un protocollo chiaro e specifico che si propone come modello per altre regioni italiane. Un documento importante anche per i messaggi che veicola. Il primo è quello che il problema della presenza mafiosa nel tessuto economico locale è un rischio concreto, anche in Veneto. Il secondo è che il contrasto alle mafie non è delegabile esclusivamente alla fase repressiva svolta dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Anche la politica e la pubblica amministrazione sono chiamate a fare la loro parte rafforzando la trasparenza, la sicurezza e il controllo sul sistema degli appalti pubblici. Nella nostra regione, come in altri territori dell’Italia settentrionale, una seria politica preventiva antimafia deve fondarsi sul monitorag-
Per prevenire la mafia Pierpaolo Romani (Corriere del Veneto, 13 gennaio 2012)
In Veneto firmato un protocollo per la legalità. La parola al presidente di Avviso Pubblico, Pierpaolo Romani, che da anni lancia l'allarme sull'ingresso dei capitali mafiosi nella regione e la necessità di trasparenza e prevenzione gio costante dei capitali che circolano e delle imprese che operano. E questo va fatto soprattutto in determinati settori, elencati anche nel Protocollo, e con particolare attenzione nel sistema dei sub-appalti. Per questo, come previsto nel documento sottoscritto a Venezia, è fondamentale conoscere gli assetti societari delle realtà coinvolte nella realizzazione delle opere, rendere tracciabili i flussi finanziari, affidare precise responsabilità di controllo e monitoraggio di quanto avviene nei cantieri ogni giorno. E altrettanto significativo è l’obbligo che il Protocollo conferisce all’impresa aggiudicataria dei lavori, alle imprese subappaltatrici e ad ogni altro soggetto che interven-
ga nella realizzazione dei lavori di denunciare tentativi di pressione criminale; così come è importante la previsione della rescissione del contratto con imprese e società qualora emergano infiltrazioni mafiose. La mafia non è compatibile con la libertà di impresa e con il principio della libera concorrenza. Questo deve essere chiaro ai cittadini e agli operatori economici che credono nel libero mercato. Il Protocollo ha una durata di due anni al termine dei quali sarà interessante conoscere i risultati prodotti dalla sua applicazione. Chi lo dovrà fare non è stato specificato nel documento sottoscritto. Una mancanza, alla quale, ci auguriamo si possa presto porre rimedio. verità e giustizia - 24 gennaio 2012
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Lombardia, una colonizzazione in corso di Norma Ferrara
Sos Impresa: 5000 commercianti coinvolti in inchieste per racket. 982 gli arrestati per "pizzo" con una media di fatti estorsivi che mette la regione al terzo posto in Italia. E a Milano sono circa 400 i casi "sospetti" di usura
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n principio fu Cosa nostra negli anni '70. Poi nel silenzio generale, arrivarono la 'ndrangheta e la camorra. Si occuparono di narcotraffico, l'usura, imprese edilizie, finanza. E' la storia della colonizzazione mafiosa della Lombardia. Nel decreto di fermo delle inchieste Crimine – Infinto che tanto hanno fatto scalpore nel luglio del 2010 si legge: «Gli ulteriori elementi illustrati di seguito denotano un controllo pervasivo della 'ndrangheta nella regione Lombardia al pari di quello della provincia di Reggio Calabria. Del resto gli itnersssi economici più contistenti insistono su quel territorio e/o comunque in zone che
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manifestano uno sviluppo economico tale in cui possono essere celati gli enormi capitali illecitamente accumulati dalla 'ndrangheta». Ed è proprio il XIII rapporto stilato da Sos impresa a confermare quanto già denunciato negli anni scorsi, anche prima delle operazioni dell'antimafia. «La Lombardia – scrivono i curatori del rapporto – è una delle regioni più inquinate dal fenomeno mafioso e Milano è la capitale della 'ndrangheta». Dagli omicidi sporadici sino alle faide e i regolamenti di conti. «Il primo omicidio eccellente – scrivono i curatori del rapporto è quello di Rocco Cristallo, ucciso a Verano Brianza, il 27 marzo 2008. Conosciuto come "Cinocalabrese",
Cristallo è l'uomo che ha investito, una decina di milioni di euro, circa 53 totali, nell'acquisto di Magic Movie Park di Muggiò, poi trasformato in un Cinemercato rivelatosi fondamentale. Obiettivo dell'omicidio era quello di contrastarne l'ascesa». Poi una luna scia di delitti sino a quello di Carmelo Novella, ucciso il 15 luglio del 2008, la chiave di accesso per capire cosa è accaduto nella regione, in cui la 'ndrangheta voleva "federarsi" e rendersi persino indipendente dalla "casa madre" calabrese. Un tentativo di secessione pagato con la vita. E poi i racconti di un collaboratore di giustizia, coinvolto negli arresti dell'operazione Crimine, che svela retroscena, affari e contatti "importanti" delle 'ndrine nel capoluogo milanese ma anche nelle province vicine. Coinvolti nell'inchiesta non solo il settore dell'edilizia ma anche quello dei rifuti, la filiera della ristorazione e del commercio. Il rapporto Sos impresa "Le mani della criminalità sulle imprese" racconta della pressione del "pizzo" sulle im-
prese lombarde e anche della pratica dell'usura. «L'estorsione al nord Italia – scrivono i curatori del rapporto – ha una sua peculiarità. Più del territorio si punta al controllo dell'impresa e del suo rappresentante, specie se questo è originario di una regione ad alta intensità criminale. Successivamente si slezionano gli imprenditori più facoltosi e si rivolgono loro ricchieste una tantum, ma di importo piuttosto elevato. In questi casi, solitamente, l'intimidazione si fa sul territrio di origine, spesso ai beni e ai familiari della vittima». Sarebbero 5000 i commercianti coinvolti in fatti estorsivi in Lombardia, con un interessamento dell'area di Milano sud – ovest – Brianza – Varese. La regione con 982 arrestati e denunciati è terza in Italia a ridosso della Sicilia, se letta in relazione alle denunce sporte dalle vittime del racket. Sebbene l'attività estorsiva rimanga appannaggio delle mafie al sud, si affaccia con numeri importanti anche al nord Italia. E poi ci sono i numeri e le caratteristiche
«L’estorsione al nord ha una sua peculiarità. Più del territorio si punta al controllo dell’impresa e del suo rappresentante, specie se questo è originario di una regione ad alta intensità criminale»
dell'usura, altro reato con i quale le mafie fanno affari e si mischiano con il tessuto sano della società, approfittando della crisi economica e della difficoltà di accesso al credito per molti piccoli e medi imprenditori, e per le famiglie. «Secondo i magistrati della sezione antimafia di Milano – scrivono da Sos impresa – sono sempre di più gli imprenditori che, anzichè denunciare il reato, si schierano dalla parte degli aguzzini, dventandone in parte complici. [...]. L'usura a Milano e provincia, oltre quello arcigno del malavitoso, ha anche il volto del pensionato, quello perbene della società finanziaria degenerata, quello di prestatori non legati alla crimaintlià organizzata, ma no per questo meno aggressivi. E nel solo capoluogo si sospetta di circa 400 casi d'usura collegai ad
ambienti camorristici». «Le enormi rimesse di capitali mafiosi nelle banche milanesi creano, di fatto, una frattura tra il credito elgale e quello illegale e il momento di forte cristi finanziaria gioca inesorabilmente a favore degli usurai – si legge nel rapporto Sos impresa – i piccoli commerciatni e artigiani, che si vedono engate le linee di credito deallae banche, si rivolgono sempre più spesso a gente che presta illegalmente il danaro». Casi importanti sono stati registrati nella stessa operazione "Crimine" . Un meccanismo con il quale le mafie riescono a far proprie le aziende in crisi. Secondo Sos impresa la Lombardia è la quinta per sequestri preventivi o definitivi su un totale di 936 aziende censite e 9 miliardi di euro complessivi, calcolati su tutto il territorio nazionale. verità e giustizia - 24 gennaio 2012
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LE MAPPE DEL PIZZO E DELL' USURA Regione
Sicilia
Calabria
Commercianti coinvolti 50.0007
15.0005
Campania
40.0004
Puglia
17.000
Basilicata
1.0001
Lazio
Abruzzo
Lombardia
Piemonte
6.0001
2.000
5.000
2.000
%sul totale
Zone rosse
Zone gialle
0%
PalermoTrapaniAgrigentoGela-Catania-Messina
SiracusaRagusa
0% 0%
0%
Foggia-BariTaranto
Lecce-Brindisi
10%
5%
5%
Emilia Romagna
2.000
5%
Liguria
1.50
4%
Altre
20.0006
%
12 verità e giustizia - 24 gennaio 2012
Enna
Lazio
Alto cosentino
AvellinoBenevento
MetapontinoM Litorale sud di Roma-Agro Pontino
Cassino Area metropolitana PescaraTeramo
Milano sudovestBrianzaVarese
TorinoPineroloVal di Susa-Val D’Ossola
ModenaBolognaRiviera romagnola GenovaSavona
28000
% sul totale attivi
Lombardia
16500
12,50%
500
11,2%
Calabria
Piemonte9
17500
Emilia Romagna
8500
Abruzzo
6500
Liguria
Basilicata Molise Altre
TOTALE
80001
5700
24500
200000
Giro d’affari in ml. 2,8
250002
Toscana
elfese
Commercianti coinvolti
Sicilia
Puglia
CosentinoCrotonese
0%
Regioni Campania
Reggio CalabriaVibonese Lametino
Caserta-Napoli-Salerno
Zone grigie
9,20%
19.2%
8,6%
0,6%
25,2% 12%
2,5 1,5 2
1,1
1,1
0,95 0,9 0,5
0,6
18,7%
0,27
19,2%
20
28%
Fonte: Rielaborazione Sos Impresa su dati ISTAT
0,18
A sinistra, la tabella che rappresenta in cifre i numeri del racket suddivisi per regione. Sopra, l'elaborazione dati inerenti l'usura nel paese. Le mappe sono state realizzate da Sos Impresa e pubblicate nel rapporto "Le mani della criminalità sulle imprese", Aliberti Editore 2011
veritĂ e giustizia - 24 gennaio 2012
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Fra gli strumenti che colpiscono la libertà di stampa, insieme con le intimidazioni ai cronisti, c’è l’uso strumentale della legge sulla diffamazione, con esose richieste di risarcimento danni in sede civile, senza alcun rischio per il querelante. Un’arma in grado di annientare iniziative editoriali, scoraggiare e intimidire singoli giornalisti, impedire di far luce su oscure vicende di illegalità e di potere.
Per usufruire di consulenza e di assistenza legale giornalisti e giornaliste possono: Inviare una e-mail all’indirizzo:
sportelloantiquerele. roma@libera.it inserendo in oggetto la specificazione “sportello antiquerele" 14 verità e giustizia - 24 gennaio 2012
Per non lasciare soli i cronisti minacciati
che siano in grado di dimostrare la loro buona fede e la loro correttezza, Federazione Nazionale della Stampa, Associazione Stampa Romana, Ordine Nazionale e regionale dei giornalisti, Unione Cronisti Italiani, Libera, Fondazione Libera Informazione, Articolo 21, Osservatorio Ossigeno, Open Society Foundations hanno deciso di costituire uno sportello che si avvale della consulenza di studi legali da tempo impegnati in questa battaglia per la libertà di informazione.
Telefonare al numero :
06/67664896-97
>>>Media ne parlano
L
a redazione di Riccardo Iacona, “Presa diretta”, si sposta al Nord per raccontare da vicino l’ inarrestabile avanzata della ‘ndrangheta in due regioni: Piemonte e Liguria. Lo fa partendo dal dato di attualità fra i più sconcertanti. A Modena, da pochi giorni, un giornalista vive sotto scorta per aver denunciato l’avanzare della ‘ndrangheta nelle regioni del centro - nord. Si tratta di Giovanni Tizian, la sua storia l’abbiamo raccontata in queste settimane su Libera Informazione e “Presa diretta” parte proprio da questo giornalista minacciato dalle mafie per introdurre l’inchiesta di Domenico Iannacone e Danilo Procaccianti che ci condurrà dentro questa avanzata senza sosta degli intrecci perversi fra mafie e economia nel Paese. La pagina di mala del Piemonte si apre con le immagini dell’arresto di Bruno Prenestin, originario di Cinquefondi in provincia di Reggio Calabria. Villetta isolata, piena campagna e un bliz dei carabinieri che piomba in casa di quello che «ufficialmente è solo un pensionato ma per gli inquirenti, sarebbe il capo della ‘ndrangheta nel basso Piemonte». Sempre ad Alessandria, nella stessa notte, i Ros arrivano a casa di «Giuseppe Caridi, consigliere comunale della città, eletto nelle fila del Pdl e membro della Commissione per il territorio, che indirizza il piano regolatore della città». Stessi metodi, uguali interessi: i clan al nord si muovono offrendo e imponendo lo stesso “pacchetto criminale” sperimentato da decenni. Con un occhio fisso a monitorare enti locali, campagne elettorali e possibili affari. E anche qui per alcuni soggetti che- secondo queste inchieste – mettono a rischio la trasparenza e la legalità di un territorio, come Alessandria, ce ne sono molti altri che denunciano, raccontano e puntano il dito contro questi ingressi. Sono amministratori comunali, giornalisti, cittadini. Quella che raccontano i due inviati è una storia già vista, che sul territorio passa attraverso alcuni segnali chiari come la cementificazione selvaggia. Una ‘ndrangheta radicat, quella in Piemonte ma con i vertici collegati a doppio filo alla Liguria. Nel luglio del 2010 l’operazione “Crimine”, infatti, indicò in Domenico Cangemi, il referente per la ‘ndrangheta in Liguria. Ed è proprio
Mafie al nord: un viaggio in "Presa diretta" di Norma Ferrara
Da Alessandria a Genova, dalla 'ndrangheta calabrese ai boss che operano in Piemonte e Liguria. Una inchiesta della Rai racconta, in prima serata, il radicamento delle famiglie mafiose al nord. Riciclaggio, narcotraffico, gestione di grandi imprese e contatti con la politica locale
verità e giustizia - 24 gennaio 2012
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nel ponente ligure che l’inchiesta di “Presa diretta” si sposta per raccontare il contesto di questa contaminazione ormai avvenuta. Le prime immagini sono quelle di un bliz che porta in carcere 12 arrestati, coinvolge 20 indagati e impegna circa 200 carabinieri in una operazione che porta alla luce in Liguria una rete della ‘ndrangheta articolata in quattro locali: Ventimiglia, Lavagna, Sarzana e Genova. Lì comandava Domenico Gangemi, ufficialmente fruttivendolo. Gli inquirenti raccontano dei contatti fra politica e questi locali di ndrangheta. «Influenzare la politica è cosa facile – sottolinea Iacona in studio. Ma in pochi si aspettavano che i capi di queste ‘ndrine fossero arrivati a sfiorare il comune di Genova e la Regione Liguria». Dalle inchieste della magistratura emerge un quadro allarmante: non sarebbe nemmeno la prima volta che la ‘ndrangheta tenta di inserirsi nelle tornate elettorali, di pilotare voti in Liguria. Genova è nelle mani dei clan che, quartiere per quartiere, si sono divisi aree di pertinenza, senza pestarsi i piedi. Non solo mafia ma anche massoneria, nei racconti di una giornalista – infiltrata all’interno di una loggia ligure, che al suo interno ha alcuni uomini di spicco del mondo imprenditriale. Cui apparterrebbero anche esponenti “attenzionati” dagli inquirenti e da inchieste giornalistiche. A cavallo fra Piemonte e Liguria, dunque, una infiltrazione accertata e contatti con politica e economia. Lo conferma all’inviato di “Presa diretta” 16 verità e giustizia - 24 gennaio 2012
Un collaboratore di giustizia: «La prima volta che sono entrato nella ‘ndrangheta era il 1994. Mi convocarono in Calabria e poco dopo ci fu l’iniziazione. Trovai il sindaco di Natile di Careri»
anche Marco Nebiolo, giornalista di Narcomafie che ricorda: «Nel 2006 abbiamo fatto un numero speciale per parlare di presenza mafiosa in Piemonte – dice Nebiolo – volevamo trovare delle prove a quello che risultava nelle inchieste della magistratura ma anche a testimonianze di chi lavorava in cantieri, in ambienti imprenditoriali. Avevamo i nomi delle famiglie che secondo una informativa della Procura nazionale antimafia operavano in Piemonte ma volevamo capirne di più . In autunno, poi, avviene un fatto nuovo, un uomo della ‘ndrangheta piemontese, si pente e comincia a raccontare. Era uno che ha vissuto la mafia calabrese a Torino, l’affiliazione qui in Piemonte e spiega che a due passi dal centro storico avvenivano gli stessi riti che si possono registrare a Locri, a San luca, e in altri paesini della Calabria. È da li che si sviluppa l’inchiesta Minotauro che culmina con oltre 500 arresti». L’inchiesta dei due inviati si chiude proprio con la lunga intervista a Rocco Varacalli, il pentito che con le sue rivelazioni ha fatto arrestare 150 persone e per la prima volta, davanti al giornalista Domenico Iannacone, racconta tutto, a viso scoperto. Parla delle sue origini, delle caratteristiche e della portata dell’insediamento ‘ndranghetista che opera a Torino. Traccia la mappa degli affari e rivela le protezio-
ni importanti. «La ndrangheta vede se un ragazzo è affidabile ti propone di entrare nell’organizzazione. La prima volta che sono entrato nella ‘ndrangheta era il 1994. Mi convocarono in Calabria e poco dopo ci fu l’iniziazione. Trovai il sindaco di Natile di Careri fra i tanti della “società”, lui era capo locale e aveva fatto il sindaco per 15 anni. Poi tornato in Piemonte ho continuato per loro». Varacalli è stato condannato a 14 anni per traffico di droga, ha partecipato per tanti anni alla “società” come la chiama lui nella video intervista e gradualmente aveva raggiunto anche una posizione importante. «A Torino c’è estorsione, giochi d’azzardo, lavori pubblici, droga - dice Varacalli – io stesso avevo una azienda e con questa riciclavamo denaro». Oggi ha vuotato il sacco e mandato in carcere ‘ndranghetisti e collusi, è uscito dal programma di protezione previsto per legge per i collaboratori di giustizia e ha una nuova vita, fa l’allevatore. Il giornalista Iannacone chiede:«lei non ha paura?»«No – risponte Varacalli - perchè ho detto la verità. La ‘ndrangheta mi può colpire, certo. Se lo fanno, sanno di uccidere un collaboratore che ha già dichiarato tutto, e anche uno che ha detto la verità. La mia famiglia mi ha ripudiato, i miei fratelli, i miei zii, in Calabria mi danno per morto».
>>Internazionale
D
ollari, cocaina e sangue. Verde, bianco e rosso. Sembrerebbero i colori della bandiera italiana, o di quella messicana, in realtà rappresentano la variante cromatica della guerra che si sta combattendo in America Latina. A parlare sono alcuni dati resi noti tra dicembre e gennaio. Il primo è allarmante: 48.000. Sono le vittime della “guerra contro i narcos” dichiarata dal presidente messicano Felipe Claderon nel 2006. Il secondo è fortemente controverso -65%, e si riferisce al calo della produzione di cocaina in Colombia secondo il Dipartimento di Stato Usa. Il terzo è 3, il numero dei paesi che hanno mobilitato le forze armate nella guerra contro i narcotrafficanti: Messico, appunto, Honduras e Guatemala. Andiamo con ordine. Messico, una lunga scia di sangue E’ di alcune settimane fa la notizia, divulgata dalla Procura generale del Messico, sulle vittime della violenza correlata al narcotraffico. 48.000 morti dal 2006. Tra questi numerosi innocenti colpiti dal fuoco incrociato tra l’esercito e i narcos: giornalisti, bloggers e poliziotti. Nella sola prima metà del 2011, si contano 13.000 vittime. Negli ultimi cinque anni, inoltre, sono circa 5.000 le persone scomparse. Un pesante macigno nella strategia del presidente Calderon per contrastare i cartelli della droga. Una politica resa possibile con l’accordo, Merida initiative, siglato nel 2008 tra il governo messicano e l’amministrazione Usa. Il coinvolgimento delle forze armate nel contrasto ai narcos, secondo numerosi esperti e attivisti della società civile del Messico, ha accentuato il clima di violenza in tutto il paese. Un’azione controversa che non ha scalfito la capacità delle organizzazioni criminali di trafficare cocaina, e altre sostanze stupefacenti verso gli Stati Uniti. Attualmente in Messico si contano 7 cartelli in lotta tra loro. Gruppi altamente organizzati e in grado di infiltrare interi settori della pubblica amministrazione. Pericolosi, quanto affidabili, broker
I numeri della guerra contro i narcos di Gaetano Liardo
Nella sola metà del 2011 sono 13 mila le vittime della violenza dei narcotrafficanti. Numerosi innocenti sono stati colpiti dal fuoco incrociato fra l'esercito e i boss: giornalisti bloggers e poliziotti. 5 mila le persone scomparse di cui non si hanno notizie criminali per la commercializzazione della coca. Un paio di settimane fa, il Dipartimento del Tesoro di Washington ha definito El Chapo, leader latitante del potente cartello di Sinaloa, il trafficante di droga più influente del mondo. Colombia, ancora in cima nella produzione di cocaina? Il paese sudamericano è stato da sempre considerato il principale produttore mondiale di foglie di coca, dalla cui lavorazione si ottiene la cocaina. La droga che, negli ultimi decenni, ha soppiantato nel consumo l’eroina afgana. Tuttavia il Dipartimento di Stato Usa, la Dea statunitense, l’agenzia della Nazioni unite contro la droga e il crimine organizzato
(Unodc) hanno stimato che la produzione di foglie di coca in Colombia dal 2000 è diminuita del 65%. Un dato frutto del successo del Plan Colombia, dicono. L’accordo siglato dai governi degli Stati Uniti e della Colombia per distruggere le coltivazioni, contrastare i narcotrafficanti e i gruppi guerriglieri, come la Farc, che con la vendita della coca si finanziano. La diminuzione della produzione colombiana, tuttavia, non ha coinciso con la diminuzione totale della produzione delle foglie di coca. Ha solo spostato verso altri paesi la produzione. Il Perù, nello stesso periodo analizzato, ha registrato un aumento del 40% della produzione, diventando il principale paese produttore, mentre il Boliverità e giustizia - 24 gennaio 2012
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via ha più che raddoppiato le foglie raccolte. Incrementi significativi si sono avuti anche in Ecuador e in Venezuela. Nuovi produttori e nuove rotte per il traffico della cocaina, si inseriscono in un contesto geopolitico ostile all’intervento diretto delle forze armate Usa per contrastare il narcotraffico. Ma i dati sono veramente questi? La risposta la fornisce da Narcoleaks, una piattaforma di analisi italiana che ha contrastato scientificamente le stime che abbiamo citato. Secondo Narkoleaks, infatti, la Colombia continua ad essere il principale paese produttore di foglie di coca, smentendo i risultati del Plan Colombia. L’80% della cocaina sequestrata a livello globale nel 2011, infatti, è di provenienza colombiana, mentre soltanto il 10% è peruviana. Inoltre, aggiunge Narcoleaks, gli Usa hanno calcolato in 290 tonnellate la cocaina prodotta lo scorso ano in Colombia, mentre i sequestri di cocaina colombiana effettivamente sequestrata sono pari a 351,8 tonnellate. Una gran18 verità e giustizia - 24 gennaio 2012
de sproporzione, considerando che non tutto quanto è stato prodotto è stato poi sequestrato. Narcoleaks, in una nota inviata al presidente Obama, fa esempi molto concreti. Ad esempio cita il sequestro di un cristalizadero sequestrato dalla polizia colombiana, una “fabbrica” cioè dove le foglie di coca sono trasformate in cocaina pura, capace di produrre in un anno tra le 182 e le 292 tonnellate di cocaina. In un solo impianto, quindi, si produrrebbe l’intera quantità di cocaina colombiana. Inoltre, sempre per suffragare la non veridicità dei dati ufficiali, Narcoleaks cita il comunicato stampa della Guardia costiera americana relativa ai sequestri fatti nel 2011. Sono 771 le tonnellate di cocaina provenienti dal Sudamerica che ha sequestrato, a fronte della produzione mondiale di cocaina stimata per lo stesso anno in 700 tonnellate. Qualcosa non va, e sicuramente il successo del Plan Colombia deve essere fortemente ridimensionato.
Guatemala e Honduras in guerra contro i narcos Il coinvolgimento delle forze armate per contrastare i narcotrafficanti, sia in Messico che in Colombia, ha avuto risultati al di sotto delle aspettative. Inoltre, ha causato un inasprimento delle violenze interne, spesso causate proprio dai militari, forti della loro impunità. Tuttavia, dal punto di vista propagandistico, resta uno strumento incisivo. Così altri due stati hanno deciso di mobilitare l’esercito. L’Honduras, lo scorso novembre, e il Guatemala con l’insediamento del nuovo presidente a gennaio. I due paesi centro-americani negli ultimi anni sono stati trasformati in zone di transito per il traffico della cocaina dalla Colombia al Messico. Sono, entrambi, paesi molto violenti, che vantano il triste primato mondiale di omicidi ogni centomila abitanti. Hanno istituzioni deboli e corrotte. Luoghi ideali, sia geograficamente che politicamente, per creare nuove rotte di traffico. Il timore di una nuova stagione di violenze non è troppo lontano.
rubriche <<
IPSE DIXIT a cura di Norma Ferrara
Nel Belice la mafia al suo terzo tempo di Mario Francese “L’escalation dei delitti, dal 1974, ha coinciso col boom di finanziamenti statali e di opere pubbliche tra Garcia e le zone terremotate del Belice. Dopo la tragedia di Ciaculli del 30 giugno del 1963, le organizzazioni mafiose della Sicilia occidentale hanno fatto registrare il terzo tempo della loro continua e progressiva evoluzione. Una mafia “galoppina”, con settore preferito il contrabbando, fino al 1963, cioè una mafia che, attraverso appoggi elettorali, sfrutta al massimo le risorse cittadine (edilizia). I “patriarchi” si attestano nella città, abbandonando feudi e campagne e cominciano a tessere le fila di un’organizzazione funzionale a carattere interprovinciale. Dal 1963, con la massiccia applicazione di misure di prevenzione, la mafia, sparpagliata in tutta la penisola, incomincia a darsi un volto nazionale. I boss, quelli con la “b” maiuscola, rimasti in sede, rivolgono la loro attenzione agli enti pubblici. Dal 1963, infatti, scatta l’era delle “municipalizzate” e degli enti di Stato: un pedaggio che la DC paga all’ingresso del PSI nella maggioranza governativa. E con il fiorire di enti pubblici, parallelamente, dilagano enti misti, cioè enti privati, con partecipazione finanziaria di enti pubblici. Un’epoca che ha un nome battesimale: quella dei “boss dietro le scrivanie”. Ed eccoci al dopo - 1970. Il dopo terremoto che ha devastato, nel 1968, molti centri del Belice, ha dato l’occasione alla grossa mafia di mutare obiettivi e di evolvere la sua già potente organizzazione. E’ una corsa sfrenata alle campagne e ai feudi. Ma i programmi non sono quelli di venti anni prima. L’ansia di valorizzazione di vaste plaghe deserte e di trasformazione di colture tradizionali è solo apparente. Le espropriazioni per la costruzione della diga Garcia hanno dimostrato come 800 ettari di terreno, per secoli incolto, è stato trasformato per ricavare dallo Stato il maggior profitto possibile: un ettaro di vigneto è stato pagato, per far posto alla diga, 13 milioni. La cifra è stata raddoppiata se il proprietario ha dimostrato di essere un coltivatore diretto”. Giornale di Sicilia 21.9.1977 Mario Francese, giornalista, Siracusa 6 febbraio 1925 Palermo 26 gennaio 1979 verità e giustizia - 24 gennaio 2012
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>> libri
L’ombra delle mafie sull’agroalimentare di Gaetano Liardo
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limentare significa, inoltre, il controllo della grande distribuzione. Basti citare il caso di Pino Grigoli, imprenditore trapanese ritenuto prestanome del boss Matteo Messina Denaro, che controllava la rete dei supermercati Despar disseminati in mezza Sicilia. Quella occidentale, s’intende, in quella orientale entravano in gioco altri attori: il clan Laudani di Catania e l’imprenditore, ritenuto dalla procura etnea la longa manus del clan, Sebastiano Scuto. Anche in questo caso entra in gioco la catena Despar. Al di là dei procedimenti giudiziari ancora in corso, controllare i supermercati dà grande potere ai boss: si ripulisce denaro sporco, si fanno affari, si crea lavoro. Ottima merce di scambio con quei politici collusi che cercano l’appoggio delle mafie, e grimaldello per i spossessarsi di importanti segmenti del mercato. Controllare il settore agroalimentare significa anche controllare la produzione. Un’attitudine antica che caratterizza le mafie nostrane. E’ il boss che impone il prezzo del singolo prodotto, a scapito di chi lo lavora e di chi, successivamente lo acquisterà. Spesso i produttori, per rientrare nelle spese, ricorrono a lavori sottopagati o a forme di schiavismo vero e proprio come quello nei confronti dei migranti stagionali. Una massa di lavoratori sfruttati che ogni anno si sposta nelle campagne del meridione d’Italia. Senza diritti minimi garantiti, lasciati in balia dei padroncini e dei caporali. Sotto l’occhio attento dei boss, pronti ad intervenire per far capire chi in quelle terre comanda. E’ successo a Castel Volturno, nel casertano, quando nel settembre del 2008 un commando di assassini fece fuoco contro i migranti uccidendone sei. E’ successo, nuovamente, nel gennaio del 2010 a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, quando i migranti esasperati inscenarono una protesta a cui numerosi rosarnesi risposero con la “caccia al negro”. In entrambi i casi le forze dell’ordine riuscirono a portare a buon esito le indagini grazie alla collaborazione dei migranti. Di certo non degli italiani. Il quadro inquietante tratteggiato da Rizzo, tuttavia, non appare del tutto compromesso. Esistono ancora degli attori sani che, in contatto con importanti settori della società civile, creano forme di resistenza. E’ il caso di Addiopizzo a Palermo con “spesa a pizzo zero”; è il caso delle cooperative di Libera Terra che coltivano i terreni confiscati ai boss. E’ il caso, infine, di una più grande consapevolezza che attraversa la società italiana. Un segnale e una speranza.
Una lettura consigliata da approfondire con due altri libri interessanti: “L’ultima cena, a tavola con i boss”, di Peppe Ruggiero, e “Voi li chiamate clandestini” di Laura Galesi e Antonello Mangano. SUPERMARKET MAFIA. A TAVOLA CON COSA NOSTRA Castelvecchi Editore, Roma 2011 pp 174, euro14,00
LIBRI
Sapendo far bene la spesa si può contribuire a sconfiggere le mafie. Un’affermazione, questa, tutt’altro che scontata, ma che rende l’idea del lavoro svolto da Marco Rizzo nel suo “Supermarket mafia. A tavola con Cosa nostra”. Un’analisi dettagliata e approfondita sugli affari dei clan mafiosi in un settore particolarmente redditizio, la grande distribuzione alimentare. Dalla produzione alla commercializzazione, dal trasporto ai mercati ortofrutticoli, dallo sfruttamento del lavoro nero al riciclaggio di denaro sporco. Uno spaccato inquietante che delinea la capacità dei boss di sfruttare tutte le opportunità offerte dal libero mercato, drogandolo. Un “viaggio”, quello proposto da Rizzo, che vede come protagonista la Sicilia, ma che lega l’Isola al resto del Paese tramite gli affari sporchi delle organizzazioni criminali. Da Vittoria a Milano, passando per Fondi. Ma anche Rosarno, Castel Volturno, e tutti i centri agricoli dello Stivale caratterizzati da caporalato e schiavismo. Un racconto inquietante che vede uno dei pilastri dell’economia italiana in balia degli appetiti delle cosche. L’allarme è stato lanciato lo scorso anno dalla Corte dei Conti, e ribadito da numerose operazioni giudiziarie, l’agroalimentare si sta trasformando nello strumento di punta delle mafie per infiltrare l’economia legale del nostro Paese. E non solo. Una penetrazione lunga nel tempo, ma costante. Un’occasione ghiotta per Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra per ripulire proventi illeciti. Il controllo di numerosi mercati ortofrutticoli in Sicilia, Calabria, Campania, Lazio, Emilia Romagna e Lombardia è di per sé un dato allarmante. Allungare le mani in questo settore significa controllare la produzione, determinandone i prezzi. Significa monopolizzare i trasporti su gomma. Dal sud al nord soltanto le ditte dei boss riescono trasportare le merci indisturbate nei grandi mercati ortofrutticoli. Da lì, poi, raggiungono i mercati e i supermercati di tutta la penisola. Basti citare l’esempio, certamente non isolato, della ditta di trasporto “La paganese”, ritenuta appannaggio del clan dei casalesi che riusciva ad operare dalla Sicilia a Fondi grazie ad una fitta rete di accordi con i clan delle tre principali mafie italiane. Business as usual. Accordandosi con le varie famiglie di Cosa nostra e della ‘ndrangheta la Paganese si è trasformata in una holding monopolista del trasporto su gomma. Chi rifiutava i suoi “servizi” veniva minacciato o subiva attentati intimidatori. Il controllo sempre più stringente del mercato agroa-
dai territori << a cura di Norma Ferrara
Lombardia Processo Garofalo: agli atti l’inchiesta giornalistica sulla ‘ndrangheta a Milano.Dentro il lavoro di Ruben H. Oliva per il «Corriere.it» fra gli altri, il racconto degli affari dei Cosco in via Montello a Milano.Le difese degli imputati si sono opposte compatte alla richiesta. Ma la Corte ha accolto la richiesta dell’avvocato Maria Rosa Sala poiché «la rassegna stampa attesta fatti storici, oltre ad informazioni pertinenti alla domanda risarcitoria».
Sicilia Dal processo in corso per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a carico di Mario Mori e Mario Obinu la deposizione dell’allora ministro degli Interni, Vincenzo Scotti che ha dichiarato: «nel ‘92 si sottovalutò pericolo mafia, denunciai il rischio che si correva e mi presero per un venditore di patacche»
Puglia Non conosce sosta l’ incessante attività della Direzione Investigativa Antimafia di Lecce che, coordinata e diretta dal Colonnello Francesco Mazzotta, ha confiscato beni mobili e immobili riconducibili a Dario De Carlo, 47enne di Racale (LE). A carico del pregiudicato precedenti per associazione a delinquere di stampo mafioso e un’ ordinanza di custodia cautelare per reati di usura ed estorsione
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Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera Informazione Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie
Direttore responsabile: Santo Della Volpe
Sede legale via IV Novembre, 98 - 00187 Roma tel. 06.67.66.48.97 www.liberainformazione.org
Redazione: Peppe Ruggiero, Antonio Turri, Gaetano Liardo, Norma Ferrara
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Coordinatore: Lorenzo Frigerio
Hanno collaborato a questo numero: Ufficio Stampa di Libera, Anna Canepa, Giovanni Tizian, Simone Bauducco, Pierpaolo Romani, Matteo Lupi, Ufficio Stampa di Sos Impresa Grafica: Giacomo Governatori