verità e giustizia

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n.88 13 aprile 2012

veritĂ egiustizia

La newsletter di liberainformazione

Liberare i beni confiscati


>>editoriale

Beni confiscati e non assegnati di Santo Della Volpe

P

erché una parte così ampia dei beni confiscati alle mafie non torna ai cittadini e non viene riutilizzata? La nostra newsletter di oggi cerca di dare una risposta a questa domanda. E non è facile,perché i nodi che il quesito ripropone ogni volta che si affronta l’argomento ‘beni confiscati’ sono molti e pieni di sfaccettature legali. C’è da rendere più incisiva l’azione delle Istituzioni,perché sia chiaro l’intento sociale della restituzione alla collettività di quei beni che le mafie hanno sottratto con la violenza. E soprattutto per non ingenerare nelle persone che vivono a contatto con questi beni (case,terreni,ville, appartamenti sparsi ecc.) l’impressione che se fossero restati nelle mani dei mafiosi avrebbero comunque fruttato o “dato lavoro”, mentre tornate alla collettività si deperiscono rapidamente. Entra quindi in scena il ruolo degli enti locali, delle istituzioni che devono rapidamente procedere all’uso dei beni, decidendo cosa farne ed a chi assegnarli. C’è poi il ruolo della società civile: fornire proposte operative e concrete di utilizzo, smascherando anche i tentativi di molti amministratori o istituzioni di lavarsene le mani,in modo subdolo e sornione. Tutto ciò può essere comunque superato, con il lavoro che, per altro, Libera sta facendo nei territori con molto impegno. Il vero problema sorge quando quei beni hanno ipoteche bancarie che ne bloccano la confisca ed assegnazione: e sono il 65% del totale dei beni sequestrati! Qui urge un intervento legislativo, una soluzione politica che metta d’accordo gli interessi

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della collettività con gli interessi (talvolta ma non sempre…) legittimi delle Banche. Il Parlamento come può intervenire per evitare l’empasse? E la Banca D’Italia può regolamentare la questione spinosa delle ipoteche su quei beni sequestrati? C’è un percorso percorribile affinché le Istituzioni risolvano il problema? E’ a questi interrogativi che abbiamo provato a rispondere con esponenti delle istituzioni e tecnici del settore in questa newsletter. Ma non vogliamo che la discussione sia solo accademia: perché il cosiddetto codice antimafia Alfano non ha risolto il problema. Anzi,lo ha pesantemente aggravato: infatti le richieste di sequestro di grandi aziende colluse con le mafie da Milano a Trapani sono ferme da mesi nelle cancellerie dei tribunali. Perché i giudici temono che il loro intervento si trasformi nella sconfitta dello Stato: le nuove regole infatti rischiano di provocare il licenziamento dei dipendenti in caso di sequestro. E quindi rendono l’azione dei magistrati non un trionfo della legalità a danno delle cosche, ma una condanna per aziende e lavoratori che così finirebbero per rimpiangere i padrini. Come se non bastasse obbliga i giudici a confiscare i beni entro due anni e mezzo dall’avvio del procedimento, e nel caso in cui il termine venga superato prevede che si debba restituire il bene al mafioso, impedendone per sempre la confisca. Tocca quindi al governo Monti ed al ministro Guardasigilli Severino prendere l’iniziativa ed approntare una soluzione. I tempi stringono: per evitare che poi alla fine ,si prenda la scorciatoia che è sempre stata dietro l’angolo e nel retro pensiero di molti politici

e uomini della finanza privata e pubblica. Che cioè alla fine si finisca per mettere all’asta ciò che non si riesce a sbloccare dando così alle mafie (che di soldi liquidi ne hanno in abbondanza in questo periodo),la possibilità di riprendersi sotto prestanome e persone di fiducia, gli stessi beni che erano stati loro sottratti. Unendo così al danno la beffa, nei confronti di chi con molta fatica ha lottato per ottenerne il sequestro e la confisca . E non si ceda alla tentazione, avanzata da qualche “furbetto” in cattiva e buona fede, di fare cassa con quei beni in tempo di crisi economica. Non solo perché il gioco non vale la candela,visto che non saranno quei beni non assegnati a risolvere il deficit dei conti italiani; ma soprattutto per non cedere giudiziariamente e politicamente alle mafie; perché di cedimento si tratterebbe,visto anche che il confine tra mafiosi e ‘zona grigia’ dell’economia è sempre più labile. Ed in questo momento politico contrassegnato da uno sforzo, almeno negli intenti conclamati, di affermazione della legalità sarebbe un vero controsenso. Piuttosto,ci viene da dire, non sarebbe ora di ripristinare l’originaria dicitura della legge promulgata sull’onda della raccolta di 1 milione di firme di quel lontano 1995 e applicare anche ai corrotti la legge ora usata solo la mafia? Sarebbe un buon deterrente alla corruzione: restituire alla collettività i soldi sottratti con tangenti,bustarelle e quant’altro, anche quelli presi ”a loro insaputa”. Soldi pubblici, soldi nostri, soldi che dovrebbero tornare nella disponibilità delle finanze pubbliche. Questo si che sarebbe un buon modo,una buona prassi anche per fare cassa.


beni confiscati << «In Sicilia risultati al di là delle più rosee aspettative» di Gaetano Liardo

Il responsabile dell'Agenzia di Palermo, il Colonnello della Guardia di Finanza Marco Letizi, parla dei successi nella gestione dei beni sottratti ai boss. Un lavoro difficile, nel tentativo di rendere tangibile la risposta dello Stato, a partire dalle aziende sequestrate E' stata istituita due anni fa nel tentativo di razionalizzare la gestione dei beni sequestrati e confiscati ai boss, con l'obiettivo di snellire la burocrazia e rendere più forte la risposta dello Stato nell'aggressione ai patrimoni delle mafie. L'Agenzia nazionale sui beni confiscati ha recentemente pubblicato il suo secondo rapporto annuale. Tanti punti di forza, ma anche alcune criticità, e comunque dei miglioramenti. Ne parliamo con chi ci lavora in prima linea da Palermo, una delle sedi distaccate dell'Agenzia. Il colonnello della Guardia di Finanza Marco Letizi, responsabile dell'Agenzia a Palermo, appare subito schietto e professionale, sicuramente soddisfatto dei risultati ottenuti nella culla di Cosa nostra. Colonnello Letizi, iniziamo da Palermo. Il capoluogo siciliano si presenta come la città in Italia con il maggio numero di beni confiscati. Questo dato può essere letto come segnale di reazione da parte dello Stato che toglie il terreno sotto i piedi dei boss, oppure come segno della perdurante pericolosità di Cosa nostra? Su Palermo possiamo fare una lettura dicotomica. I tanti patrimoni sottratti alla criminalità organizzata sono il segno della presenza mafiosa nella zona, con investimenti anche importanti, ma anche l'impegno della magistratura e delle forze dell'ordine nell'identificarli e sequestrarli Uno dei punti critici nell'azione di sequestro e poi confisca dei beni mafiosi riguarda le aziende,

in che modo opera l'Agenzia? Sulle aziende il lavoro dell'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati si sviluppa in due fasi. Nella fase uno si analizzano i dati economici e la tipologia dell'azienda in questione. Nella fase due si produce una relazione particolareggiata dove si evincono i punti di forza e di debolezza dell'azienda. Si deve capire, cioè, con un'analisi particolareggiata se la società è in grado di sopravvivere nel mercato legale. Se non è in grado, perchè ci stava soltanto grazie alla forza intimidatrice del boss, oppure sfruttando commesse ottenute in modo illecito, o abbassando i costi di gestione con il lavoro nero, o ancora perchè forte di grosse somme di denaro frutto di proventi illeciti, in questo caso l'azienda va tolta dal mercato. Serve il coraggio di mettere in mobilità i dipendenti, perchè è sempre meglio fare pulizia. Se invece una società ha problemi, penso al sequestro, derivanti da difficoltà giudiziarie, ma ha le caratteristiche per stare sul mercato, allora si capisce dove si può incidere. Un caso tipico è quello della razionalizzazione dei costi: si abbattono i costi di gestione, si riduce la manodopera per continuare a sopravvivere. Inoltre, si incide sugli istituti bancari che sono chiamati a dare maggior credito alle imprese sottratte ai boss e recuperate dallo Stato. Appositi tavoli sono stati istituiti dall'Agenzia nazionale dei beni confiscati in Sicilia con importanti istituti di credito e con le sezioni dei Tribunali delle misure di prevenzione. Quindi, serve intervenire a monte nel processo di sequestro... Guardi

parliamo di un rapporto prodromico: tanto più è proficua l'analisi preliminare svolta con l'amministratore giudiziario, tanto più è proficua l'interlocuzione con i vari soggetti istituzionali responsabili, quanto è più proficuo il risultato finale. Tanto più si lavora bene sul soggetto economico a partire dal sequestro, tanto più solido questo arriverà alla confisca definitiva. In questo modo, grazie al lavoro fatto in precedenza, la società resterà sotto la gestione dell'Agenzia nazionale il minor tempo possibile. Dopo due anni di attività come giudica il lavoro dell'Agenzia nazionale? Posso parlare del caso della Sicilia dove, nonostante siamo pochissimi, sono state fatte cose inimmaginabili. Abbiamo risolti problemi vecchi di trent'anni, penso a Verbumcaudo. Stiamo lavorando molto con i Consorzi sviluppo e legalità per la gestione dei terreni dove sono nate le cooperative, come quelle di Libera Terra, e dove altre cooperative stanno nascendo, come ad Agrigento. Parliamo di centinaia di ettari di terreno sequestrate dal giudice “ragazzino” (il giudice Rosario Livatino ucciso da Cosa nostra nel 1990). Penso anche alle numerose destinazioni di immobili. La prima destinazione è stata, ad esempio, la casa dei “cento passi” confiscata a Tano Badalamenti a Cinisi. Penso pure alla casa del fratello di Provenzano a Corleone. Parliamo di circa cinquecento destinazioni di beni nella sola Sicilia, più l'impegno internazionale con le misure di sequestro anche all'estero. Un lavoro che in due anni ha dato risultati ben al di là di ogni più rosea previsione. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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>> beni confiscati

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o scorso 7 marzo 2012 la legge 109/96 ha compiuto sedici anni, nel trentennale dall’approvazione della legge Rognoni La Torre del 1982. In questi sedici anni Libera ha lavorato per: a) assicurare pubblicità e trasparenza alle informazioni sui beni confiscati; b) organizzare la formazione sulle procedure di destinazione e gestione dei beni; c) far diventare i beni confiscati un patrimonio comune di conoscenza e di opportunità; d) fornire alle amministrazioni comunali quegli strumenti per la corretta e più rapida assegnazione dei beni (attraverso procedure di evidenza pubblica); e) verificare l’effettivo riutilizzo dei beni e la denuncia di situazioni di non corretta gestione dei beni (per finalità pseudo sociali o con prestanome degli stessi mafiosi), grazie ai rapporti con le Prefetture, la magistratura e le forze investigative; f ) creare le condizioni più favorevoli alla nascita delle cooperative sociali costituite da giovani del territorio; g) proporre modifiche legislative per rendere più efficaci le procedure previste. Le esperienze positive Le cooperative Libera Terra – nate con i protocolli sottoscritti nelle Prefetture e mediante bando pubblico per la selezione dei singoli soci - coltivano oggi più mille ettari di terra con un fatturato complessivo che supera i 5 milioni di euro, dando lavoro a più di 150 occupati regolari, oltre a tutti i lavoratori stagionali. Nel 2012 nasceranno tre nuove cooperative Libera Terra, in collaborazione con il Progetto Policoro della Conferenza episcopale italiana. A Crotone la cooperativa lavorerà sui terreni sottratti al clan Arena, ad Agrigento nascerà la cooperativa Le Terre di Rosario Livatino – Libera Terra, a Trapani la cooperativa Le Terre di Rita Atria – Libera Terra. È questo un patrimonio che oggi non va disperso ma rafforzato. Le criticità ancora da risolvere

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Le ragioni di un impegno di Davide Pati

Liberare i beni dalle ipoteche bancarie, migliorare le procedure per il loro riutilizzo sociale. Con un occhio particolare alle aziende che oggi devono tornare in attività. Le proposte di Libera, sedici anni dopo l'approvazione della legge 109/96 Fra le criticità che ancora oggi rallentano o in alcuni casi ostacolano il pieno riutilizzo dei beni confiscati, possiamo ricordare: - la metà dei beni ancora in gestione all’Agenzia nazionale e quindi ancora da destinare allo Stato o agli Enti territoriali sono gravati da ipoteche bancarie; - le occupazioni abusive dei beni da parte anche dei familiari degli stessi mafiosi; - le confische per quote indivise che necessitano quindi di un procedimento di separazione volontaria o giudiziale; - incidenti di esecuzione per la risoluzione di pendenze giudiziarie;

- il difficile accesso al credito per le cooperative sociali che gestiscono progetti di riutilizzo con finalità produttive e lavorative, che richiederebbe la creazione di uno specifico Fondo di garanzia. Questi sedici anni hanno visto impegnata Libera nel difendere i principi della legge n.109 del 1996 contro diversi tentativi di snaturarla e di vendita incondizionata dei beni confiscati. La vendita non è un dogma ma deve rimanere un’ipotesi residuale di destinazione, dopo aver cercato tutte le strade possibili di riutilizzo sociale, nel rispetto della volontà di quel milione di cittadini che hanno messo la propria firma nel 1995.


beni confiscati << nazionale che permetterà di sviluppare il modello di governance e di check up delle aziende confiscate. Penso a Confcooperative e al sistema del credito cooperativo per il sostegno e il tutoraggio allo start up delle cooperative Libera Terra ed ai progetti di riutilizzo dei beni confiscati. Le proposte alla politica

Le aziende Dall’analisi dei dati emerge che molte aziende arrivano alla confisca definitiva ormai prive di reali capacità operative, anche quando si tratta di imprese attive in settori come quelli delle costruzioni, del calcestruzzo, dei trasporti, turistico alberghiero, della grande distribuzione, dei servizi e della sanità. Per evitare la chiusura o il fallimento delle aziende, occorre sicuramente promuovere e sostenere di più le opportunità di affittare le aziende e le imprese confiscate a cooperative di lavoratori dell’azienda stessa, oppure a cooperative sociali di giovani, formando professionalità e sviluppando le più innovative forme di imprenditorialità giovanile. In tal senso risulta fondamentale prevedere che i fondi strutturali dell’Unione europea (importante è stato lo strumento del PON Sicurezza del Ministero dell’interno) gestiti anche dalle Regioni siano orientati nel finanziamento dei progetti sui beni immobili e sulle aziende confiscate alla mafia. Non è possibile garantire il pieno riutilizzo dei beni confiscati quando, per ragioni di bilancio, si continua a inserire nelle leggi la formula “senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato”. La nostra proposta è quella di poter utilizzare una quota del Fondo unico

giustizia, dove confluiscono il denaro e le liquidità confiscati alle stesse organizzazioni criminali. Le alleanze e la rete La gestione dei beni (mobili, immobili e aziendali) richiede professionalità e un’organizzazione di procedure, scelte e pianificazione che devono vedere protagoniste le migliori energie e sane forze economiche e sociali del nostro Paese. Penso a Legacoop e alla nascita di Cooperare con Libera Terra – Associazione per lo sviluppo cooperativo e la legalità, una rete di soggetti del mondo cooperativo che fornisce un’assistenza qualificata per le produzioni biologiche, i piani aziendali e la distribuzione dei prodotti certificati con il marchio Libera Terra. Penso alle Organizzazioni professionali agricole (Confederazione italiana agricoltori, Coldiretti, Confagricoltura, Copagri, Acli Terra) che si stanno impegnando nella coltivazione dei terreni confiscati. Penso al Corpo forestale dello Stato per il supporto nei sopralluoghi dei terreni confiscati e nelle attività di formazione sui temi della legalità ambientale. Penso al Consiglio nazionale dei geometri per l’assistenza nella progettazione, nelle stime, nei computi metrici e per il riconfinamento dei terreni. Penso ad Unioncamere e al sistema delle Camere di Commercio con cui firmeremo presto una convenzione

Libera ha sempre esercitato una forte azione di proposte emendative e migliorative di disegni di leggi in discussione nelle commissioni e aule parlamentari: il disegno di legge anticorruzione vedrà la nostra proposta per rafforzare anche le norme in materia di confisca dei beni ai corrotti e per il loro riutilizzo sociale; il codice delle leggi antimafia dovrà subire delle modifiche migliorative all’attuale testo; - l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata va sostenuta, garantendo quei fondi necessari per il suo funzionamento e le giuste professionalità e competenze per la gestione dei beni confiscati; abbiamo già contribuito a modificare l’articolo 56 della legge di conversione del decreto sulle semplificazioni nella parte in cui prevedeva la concessione dei beni confiscati per finalità turistiche a cooperative di giovani under 35, a titolo oneroso, in netta contrapposizione con il comodato a titolo gratuito previsto sin dal 1996. A sedici anni di distanza tanti sono ancora i punti all’ordine del giorno. È necessario: a) mantenere alta la giusta attenzione al tema della confisca dei beni e al loro riutilizzo sociale; b) fare memoria della storia e delle ragioni che hanno fatto nascere la prima legge dell’antimafia sociale nel nostro Paese; c) valorizzare il positivo che è stato realizzato con il contributo di tutti coloro che hanno fortemente creduto in questo strumento di sviluppo sociale ed imprenditoriale. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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>> beni confiscati

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IL CASO

e ipoteche bancarie sono la spada di Damocle che pende sulla testa della maggior parte dei beni sequestrati e poi confiscati ai boss e in attesa di riutilizzo sociale. In attesa di libertà. « 3500 beni non possono essere destinati perché sono sotto ipoteca bancaria. La politica deve cercare di sbloccare una situazione paradossale – ha dichiarato Don Luigi Ciotti – nelle giornate di Genova in memoria delle vittime delle mafie». Una situazione che è confermata anche nell'ultima relazione dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie. Un aspetto delicato, quello delle ipoteche, che interroga direttamente il sistema bancario, la sua trasparenza e la legalità. I beni in possesso dei boss sono gravati da ipoteche perché le banche hanno concesso mutui ai proprietari, ovvero a mafiosi o prestanome di mafiosi. Oggi quel debito che grava sul bene finisce per essere una palla al piede per i destinatari di questi immobili, molto spesso enti locali o associazioni, che dovrebbero metterli a disposizione della collettività. Il condizionale è d'obbligo viste le numerose difficoltà cui si va in contro, nell'iter della destinazione e del riutilizzo sociale un tempo acquistati con soldi “sporchi” dai mafiosi. Ma fra tante storie di mancato riutilizzo sociale, alcune persino di vendita dei beni, in particolare, delle aziende, ci sono anche alcune storie positive. Che passano anche attraverso sinergie e collaborazioni fra enti locali, l'Agenzia nazionale per i beni confiscati e loro: le banche. In Sicilia, capofila delle regioni con maggior numero di beni confiscati e riutilizzati come previsto dalla legge 109/96, il caso del feudo Verbumcaudo, potrebbe fare da capofila di un diverso atteggiamento e una migliore collaborazione fra istituzioni, banche e società civile.

Beni confiscati a Roma, tutto tace

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Quando le banche fanno la propria parte di Norma Ferrara

di Norma Ferrara

In provincia di Palermo, grazie alla collaborazione fra il gruppo Unicredit e le istituzioni, il feudo Verbumcaudo, che un tempo era del boss Michele Greco, tornerà alla collettività. Luigi Ciotti: «serve liberare i beni gravati da ipoteche bancarie. Ma anche capire chi continua a prestare soldi ai boss» L'allora Banco di Sicilia, infatti, aveva erogato a favore dei Greco, una ipoteca sull’ex feudo per un totale di circa 2,4 milioni di euro. La Banca aveva dato l'ipoteca ad una società di recupero crediti Banco di Sicilia sino a che nel 1984, in applicazione della legge

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distanza di un anno e mezzo la proposta di deliberazione giace in qualche ufficio dell’Amministrazione senza aver compiuto alcun iter amministrativo». Così in una nota i componenti dell’ Assemblea Capitolina Paolo Masini, Gemma Azuni, Andrea Alzetta, Alessandro Onorato, Gianluca Quadrana,

La Torre il feudo viene confiscato per mafia e poi assegnato al Comune di Polizzi Generosa. All'ente locale arriva il bene e anche il debito. «Il problema del feudo Verbuncaudo – sottolinea Bertola – è comune a molti beni confiscati poiché si tratta di far coesistere il Salvatore Vigna, Umberto Marroni si rivolgono al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, per chiedere da un lato che qualcosa si muova sul versante del riutilizzo sociale dei beni confiscati in città e dall'altro che fine abbiano fatto le due proposte di istituzione di un Osservatorio sulle mafie e della figura di un delegato alla lotta alla criminalità in città. «Proprio in questi giorni il


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diritto del creditore in buona fede con esigenze sociali di utilizzo del bene. Tengo a sottolineare – precisa nell'inverno scorso in una nota - come nel nostro caso una pronuncia della Corte di Cassazione del 2003 e poi una sentenza del Tribunale di Palermo nel 2010 abbiano accertato la buona fede del Banco di Sicilia dichiarando di fatto l’efficacia dell’ipoteca iscritta sul bene e la sua opponibilità all’erario, confermando così il comportamento legittimo e trasparente della banca sin dal momento dell’erogazione del credito». Per la “liberazione” di questo feudo si è battuto in prima linea il sindacalista, Vincenzo Liarda, e la

partita non è ancora chiusa perché i mafiosi continuano a fargli arrivare minacce e intimidazioni. La mafia non si rassegna a perdere i propri beni, segno che proprio quello è l'elemento cardine della battaglia antimafia. Alle banche passa quindi la responsabilità di rafforzare o ignorare questo aspetto decisivo nella lotta antimafia. Altri gruppi bancari e fondazioni ( fra le altre, Unipolis) sono impegnate in investimenti di sostegno ad attività di riutilizzo dei beni confiscati. Ma si tratta ancora di piccoli numeri rispetto al vasto universo del mondo economico e finanziario dentro il quale si infiltrano i capitali illeciti dei boss.

Le ultime inchieste della magistratura, sempre più spesso al Nord, restituiscono un quadro a tinte fosche legato alla circolazione e l'investimento di capitali “sporchi” spesso realizzato con l'avvallo (consapevole o meno) di banche e agenzie finanziarie. Servono quindi parole chiare, a monte e a valle, per così dire e anticorpi in grado di rispondere prontamente ai tentativi di penetrazione dell'economia da parte di finti imprenditori, prestanome e talvolta direttamente dei boss, in Italia e all'estero. Sempre Luigi Ciotti, presidente di Libera ha infatti posto l'interrogativo diretto: «chi continua a prestare soldi ai mafiosi?».

Presidente della Repubblica Napolitano ha conferito, in occasione dell’incontro “Pio La Torre 30 anni dopo” promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati a Montecitorio, la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria dell’on. le Pio La Torre, vittima il 30 aprile del1982 a Palermo di un agguato di stampo mafioso – scrivono i consiglieri.

A distanza di 30 anni, il fenomeno mafia è ancora in primo piano e la proposta per l’istituzione della figura di un delegato alle mafie nonché di un osservatorio che si occupi della gestione, assegnazione e monitoraggio dei beni confiscati alle mafie in una città come Roma riveste, anche alla luce degli ultimi episodi criminali avvenuti in città negli ultimi mesi, una particolare

valenza». «Ci appelliamo dunque alla S.V. certi della sua sensibilità su un argomento così delicato – concludono - che vede lo sforzo continuo e infaticabile delle forze dell’ordine per il rispetto della legalità, anche per onorare la memoria di chi 30 anni fa ha perso la vita nella difesa della legalità. Poiché a tutt’oggi non si hanno notizie in merito […] all'iter e alla proposta fatta» verità e giustizia - 17 aprile 2012

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Distribuzione geografica degli immobili confiscati al 31 dicembre 2010

FinalitĂ delle assegnazioni

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Distribuzione geografica delle aziende confiscate al 31 dicembre 2010


Beni immobili in gestione: criticitĂ

Fonte: Relazione annuale Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalitĂ organizzata - 31 dicembre 2011 veritĂ e giustizia - 17 aprile 2012

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>> dai territori

A

d Erice una casa confiscata al capo mafia Francesco Pace diventerà sede di un centro di documentazione contro le mafie. A Castellammare del Golfo l’amministrazione comunale ha assegnato all'Associazione Castello libero onlus un bene confiscato alla mafia in contrada Crociferi. A Salemi l’associazione onlus “Fraternità della Misericordia” l’ha spuntata contro l’ex sindaco Vittorio Sgarbi che a suo tempo gli aveva revocato l’assegnazione di un vasto terreno agricolo confiscato al narcotrafficante Totò Miceli. Sono le notizie che arrivano da uno dei fronti più caldi della lotta alla mafia, quello della provincia di Trapani, dove resta ancora latitante il sanguinario assassino Matteo Messina Denaro, il numero uno di Cosa Nostra in Sicilia, l’uomo che con le mani usate per compiere stragi e delitti, ha saputo da ultimo tenere le fila di una vasta holding imprenditoriale, interessandosi a diversi settori, dall’edilizia al turismo sino alle energie alternative. Qui in provincia di Trapani la mafia aveva pensato bene di riprendersi alcuni beni confiscati, ma questo fu impedito da un prefetto coraggioso, Fulvio Sodano che fu sfidato fin dentro il suo ufficio in prefettura dai mafiosi in grisaglia, quelli appartenenti alla cosidetta “zona grigia”, e poi a sventare ogni piano ci pensarono gli investigatori antimafia della Squadra Mobile all’epoca guidata dal dirigente Giuseppe Linares. Sembrano racconti di tempi andati e invece sono fatti appena di ieri. Si sono pagati prezzi altissimi ma il fronte dell’antimafia è andato avanti nonostante sindaci come Sgarbi che da Salemi, regno del “puparo” Pino Giammarinaro, ex deputato regionale della Dc, capo degli andreottiani trapanesi, uomo del sistema mafioso, ogni giorno ci veniva a dire che era l’antimafia che determinava l’esistenza della mafia, e lo diceva proprio lui che aveva in casa gli uomini della mafia, tanto che il Viminale ha sciolto la sua amministrazione per inquinamento mafioso. Sgarbi è citato (con tanto di intercettazione) in un passaggio dell’indagine che ha riguardato Giammarinaro proprio per il terreno confiscato a Miceli. C’era da determinarne l’assegnazione, ma in effetti la volontà vera (del puparo?) era quella di non assegnarlo a nessuno quel terreno, così che il messaggio fosse chiaro, quel terreno, circa 70 ettari, tolto a Miceli nelle mani dello Stato restava improduttivo. Il terreno fu tolto alla onlus “Fraterni10 verità e giustizia - 17 aprile 2012

Trapani, una nuova stagione per i beni confiscati di Rino Giacalone

A Castellammare del Golfo l'immobile un tempo del boss Salvatore Palazzolo sarà gestito per 30 anni dall'associazione Castello Libero, in collaborazione con Agesci, Libera e l'associazione antiracket. A Erice la casa del capo mandamento Ciccio Pace sarà un centro di documentazione

tà della Misericordia”, fu assegnato alla “Fondazione San Vito onlus” ma anche in questo caso intervenne la revoca: Sgarbi è contro i preti e le associazioni religiose che possono gestire i beni confiscati; sulla carta venne dato a Slowfood, ma questa rinunciò perché venne meno la partecipazione dell’associazione Libera che avrebbe dovuto partecipare: il sindaco

venne sentito dirsi contrariato rispetto alla ipotesi ventilata di coinvolgimento di Libera, “a quelli di don Ciotti no”, e poi parlando con un assessore è stato sentito dire, “Pino che ne pensa?”, Pino (Giammarinaro ndr) pensava di darlo all’Aias, ma anche questa cosa si arenò. Adesso una sentenza del tar fa riemergere la possibilità dell’assegnazione alla Fraternità


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della Misericordia e all’Aias, ma il terreno è tornato nel possesso dell’agenzia nazionale dei beni confiscati. A Castellammare del Golfo l’ex immobile di proprietà del boss Salvatore Palazzolo, sara' gestito per trent’anni dall’associazione Castello libero, in partenariato con l'Agesci, l’Associazione Libera e l'Associazione antiracket di Castellammare. Per l’assegnazione del

bene confiscato alla mafia l’amministrazione ha pubblicato a febbraio un bando di selezione pubblica. ''La legalita' si attua lavorando giornalmente nell’interesse della collettivita'. Il cammino di legalita' intrapreso, fin dal proprio insediamento da questa amministrazione comunale - ha detto il vicesindaco Carlo Navarra, all’atto dell’assegnazione - si concretizza

oggi con la restituzione, alla cittadinanza, di un bene sottratto alla criminalita'. E’ una grande soddisfazione essere riusciti ad assegnare un bene confiscato e ad un’associazione come Castello libero che, con Libera, Agesci e Associazione antiracket, ha presentato proprio un progetto che mira a realizzare il bene comune con iniziative sociali e di legalita'. Oggi il nostro percorso dimostra che la legalita', se davvero si vuole, passa da un semplice percorso di impegno e lavoro''. I terreni, con fabbricati sequestrati a Salvatore Palazzolo, sono stati consegnati all’amministrazione, con decreto prefettizio, nel 2010 e acquisiti con una delibera della Giunta guidata dal sindaco Marzio Bresciani, per essere destinati a finalita' sociali. Il bene assegnato all’Associazione Castello libero e' formato da un lotto di terreno agricolo di 2.356 mq, con un piccolo fabbricato rurale, da ristrutturare. Alla selezione, indetta dall’amministrazione per l’assegnazione del bene, aperta a varie tipologie di enti e associazioni, ha partecipato solo l’Associazione Castello libero. E la commissione di gara, formata dal presidente Rosa Maria Miceli (segretario generale del Comune), dai componenti Simone Cusumano (dirigente del settore Lavori pubblici dell’Ufficio tecnico), Simone Magaddino (responsabile del settore Affari generali) e dal segretario verbalizzante Baldassare Minaudo (dipendente comunale), ha valutato anche il progetto di gestione presentato dall’associazione e ha assegnato il bene. Scenari che cambiano a proposito di beni confiscati. Ad Erice l’ultimo tassello, si spera per il momento: l’amministrazione del sindaco Giacomo Tranchida sta facendo ristrutturare la casa del capo mandamento Ciccio Pace, una palazzina su tre piani, diventerà un centro di documentazione, verranno collocate attrezzature informatiche e laboratori multimediali che permetteranno a chiunque di attingere informazioni sul fenomeno mafioso e sul contrasto a Cosa nostra; un altro bene, sempre in territorio di Erice, una palazzina confiscata al boss Vincenzo Virga è diventata la sede delle associazioni. Chi entra in questa casa viene accolto dalla foto di Mauro Rostagno assassinato dalla mafia il 26 settembre 1988, Virga è imputato nel relativo processo come mandante. Sono questi i segnali che l’antimafia oggi manda in giro e che dimostrano come il riscatto dal giogo mafioso è possibile. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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Sporcarsi le mani con la terra strappata alla mafia di Giuseppe Crapisi

Corleone ha il record dei beni riutilizzati sul territorio. Un tempo simbolo della famiglia “corleonese” di Cosa nostra oggi capitale dell'antimafia ha dato il via a percorsi di riutilizzo sociale degli immobili confiscati ai capi della mafia

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osa Nostra ha contribuito a rendere la Sicilia, terra ricca di risorse, una delle regioni tra le più povere d’Italia. Enormi quantità di ricchezza sono state sottratte per esser investite in tutto il mondo. Eppure, grazie alla Legge d’iniziativa popolare n.109 del 1996, voluta dall’associazione Libera, dai beni confiscati alla mafia è partita una vera e propria rivoluzione.

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Concetto di rivoluzione inteso non solo come sovvertimento di un ordine preesistente ma, come ha detto il filosofo Walter Benjamin, “ritorno all’origine, ripristino del punto di partenza, restaurazione e ricomposizione dell’inizio”. Infatti, oggi i beni che sono stati sottratti alla collettività, frutto di illeciti, ritornano a quei territori. La zona del Corleonese è vista come esempio concreto del modo in cui

la legislazione antimafia ha funzionato e dove la sinergia tra istituzioni e associazionismo ha dato ottimi risultati. Qui la messa in pratica della legge 109/96 è l’esempio più concreto della vera lotta alla mafia. La legge sancisce il principio che i beni immobili confiscati alla mafia devono essere utilizzati a fini sociali e, quindi, o trattenuti dallo Stato o da istituzioni pubbliche o affidati ad associazioni e cooperative. Il fine è quello di ridare ai cittadini ciò che la mafia ha tolto loro. Ma la cosa straordinaria è che all’interno del Consorzio Sviluppo e Legalità (associazione di otto Comuni della Provincia di Palermo, voluta dalla Prefettura di Palermo, che ha come scopo l’amministrazione comune, per finalità sociali, diretta o mediante la concessione a titolo gratuito, di beni confiscati alla criminalità mafiosa) ci sono tre cooperative che,


dai territori <<

attraverso la messa in produzione dei terreni che erano dei boss, hanno creato opportunità di lavoro. Come ha affermato il Presidente della Lega delle Cooperative, Giuliano Poletti: “Qualcosa vorrà dire se tre coop. che danno lavoro a cento persone sono la più grande azienda di Corleone. È il segno che si può cambiare”. Circa cento ragazzi corleonesi, di San Giuseppe Jato, di Piana degli Albanesi e di altri centri del circondario oggi sono soci lavoratori o lavoratori di una delle cooperative del progetto Libera Terra Mediterraneo. Ma conosciamo meglio queste tre cooperative. La prima che ha iniziato questo percorso è la Cooperativa “Lavoro e non solo”, che gestisce beni confiscati dal 2000 tra il Corleonese e Canicattì. Oltre ai 155 ettari di terreni agricoli, ha avuto assegnati immobili, tra cui Casa Caponnetto, confiscata ai Grizzaffi, oggi Ostello per i giovani volontari che ogni estate vengono a Corleone da tutta Italia, un laboratorio di legumi ed è anche assegnataria del Laboratorio della Legalità, confiscato alla famiglia Provenzano. L’altra cooperativa porta il nome di un corleonese, Placido Rizzotto, costituita nel 2001, la prima attraverso bando pubblico. È la

cooperativa più rilevante da un punto di vista aziendale: gestisce 200 ettari di terreni tra il Corleonese e il Trapanese. Fiore all’occhiello della cooperativa è la Cantina Centopassi. Il Presidente della “Placido Rizzotto”, Francesco Galante, ci dice: “Proviamo ad essere una buona pratica secondo i regolamenti ispirati da Libera, di economia responsabile fondata su produzioni di qualità e dell’alto valore aggiunto, a tutto vantaggio dei soci delle cooperative sociali e del territorio in generale”. Mentre l’ultima nata è la “Pio La Torre”, costituita nel 2007, che ci aiuta a capire come il lavoro nei terreni che furono dei boss è vista dai giovani come un’opportunità per il proprio futuro. Infatti, quando Libera fece il bando per selezionare i lavoratori, si presentarono più di 300 giovani. Questo significa che il messaggio è passato, “conviene stare dalla parte dell’antimafia”, perché si ha un lavoro retribuito, si è messi in regola, si esce fuori dalle logiche del precariato, della disoccupazione e si è disposti ad andare a lavorare nei terreni che erano della mafia. Cose impensabili alcuni anni fa. La cooperativa gestisce anche l’Agriturismo Terre di Corleone, in contrada Dra-

go, dove, grazie al Consorzio dalle stalle di Totò Riina, oggi c’è un posto in cui si può mangiare, immersi in un paesaggio stupendo. In queste aziende si produce grano, uva, olive, legumi, fichi d’india, mandorle, tutti prodotti biologici che vengono trasformati e venduti in tutta Italia. A Corleone da giugno è stata aperta la Bottega della Legalità, in Via Colletti, nella casa che fu dei Provenzano. Anche in questo caso un giovane corleonese ha trovato un lavoro, grazie al progetto di Libera. Insomma, in questa filiera s’innesta un’altra filiera, di un mercato alternativo, che crea ricchezza economica, in cui domanda e offerta non si basano solo sul profitto individuale, ma si incontrano perché si riconoscono in alcuni valori come la tutela dei diritti dei lavoratori, la sostenibilità ambientale e, in questo caso, il contrasto alle mafie. Oggi, come più volte ho detto, bisogna puntare sul progetto Libera Terra Mediterraneo, società consortile che include le cooperative di Libera Terra e altri operatori, nata per realizzare processi di collaborazione nella direzione e nel coordinamento delle attività. Questa potrebbe sempre di più dare la possibilità ad imprenditori agricoli e imprese locali del settore agroalimentare di uscire dalla crisi del settore, schierandosi contro la mafia. Come creare una linea dei prodotti che non derivi dai terreni confiscati, ma da contadini di Corleone, di San Giuseppe Jato e di altri paesi che dicono no alla mafia e che rispettano le leggi, da quelle sul lavoro a quelle sulla qualità. Gli imprenditori ne guadagnerebbero in termini di vantaggio economico e uscirebbero fuori dalle logiche di sottomissione dell’intermediazione. Libera Terra guadagnerebbe in termini di allargamento del sostegno. Insomma, si potrebbe ingranare la marcia dello sviluppo antimafia allargando il coinvolgimento di quante più persone possibili. Solo così si renderà l’antimafia vincente, accompagnata certamente dal controllo del territorio e dal cambiamento culturale. Chiudiamo con le parole di Don Ciotti che, riferendosi a Corleone, dice: “La città è totalmente cambiata… Si avverte la speranza in futuro, che non sia di paura. E questo è segno di un’Italia che c’è. Per forzare l’alba di un nuovo giorno - ha concluso - occorre incoraggiare il cambiamento, che ha bisogno di tutti noi, della nostra responsabilità e di educazione alla responsabilità”. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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>> dai territori

I

numeri sono impressionanti. Un totale di 12.064 beni confiscati alle organizzazioni criminali in Italia, di cui 10.527 immobili e 1.537 aziende, secondo i dati forniti dall’Agenzia del Demanio. Maggiore concentrazione in Sicilia, seguita da Campania, Lombardia, Calabria, Lazio e Puglia. Un fenomeno piuttosto eterogeneo da nord a sud a testimonianza delle infiltrazioni mafiose estesesi in tutto il Paese. Case, ville e persino castelli, con tanto di parchi, giardini e piscine, ma anche terreni agricoli, alberghi, impianti sportivi, cave e strutture industriali. Il 33 per cento dei beni immobili consegnati e trasferiti al patrimonio indisponibile degli enti territoriali è stato destinato a finalità sociali. Questo significa che in molte delle strutture che sono appartenute ai clan oggi, si conducono attività basate sulla solidarietà sociale e che puntano a uno sviluppo equo nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Tra tutti, un’unica eccezione è stata fatta per la famiglia Impastato. Ai parenti di Peppino, giovane giornalista , politico e attivista siciliano, vittima della mafia, è stata affidata la casa del boss Gaetano Badalamenti, riconosciuto come il mandante del delitto. La stessa casa che ha fatto da scenografia al film di Marco Tullio Giornana, “I cento passi”. Il film ricostruisce la vita di Peppino e il suo impegno sociale. Cento passi separano la casa della famiglia Impastato dove è cresciuto il giornalista, dalla casa del boss, di cui Peppino ne denuncia le malefatte. Solo cento passi per sfuggire all’inesorabile legame mafioso che tiene legata la famiglia Impastato ai clan mafiosi della Sicilia degli anni ’70, la stessa distanza che oggi separa i due centri dedicati alla memoria di Peppino attraverso le attività associazionistiche. Il fratello Giovanni,da sempre impegnato a salvaguardare la memoria di Peppino e ottenere verità e giustizia, si è fatto promotore insieme alla madre Felicia di un’attività di analisi e di mobilitazione tra le più significative degli ultimi decenni. La casa confiscata a Badalamenti è stata donata alla famiglia Impastato, cos’ha di straordinario que-

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Beni confiscati, il segno del cambiamento di Maria Cristina Pede

La casa del boss Badalamenti ora donata alla famiglia Impastato. Per la prima volta un immobile in affidamento diretto a familiari di vittime di mafia. Giovanni Impastato a Lecce parla ai giovani impegnati sul territorio: “la mafia ha cambiato strategia ma non è ancora sconfitta” sta iniziativa? Si tratta di caso unico nella storia delle confische. Per la prima volta un bene confiscato è assegnato direttamente alla parte lesa. Di solito viene affidato alle cooperative o alle associazioni. Si tratta di un segnale forte e concreto da parte delle istituzioni nel dimostrare che ci sono tanti modi per sconfiggere la mafia, a partire dai beni materiali, frutto di abusi e potere ai danni della società, alla quale il bene stesso ritorna in una funzione ludica di aggregazione. Abbiamo sconfitto la mafia degli abusi di potere andando a “violare” la casa del boss, il suo quartier generale e il suo mondo, è stata la peggiore offesa che abbia potuto subire sotto tutti i punti di vista.

La confisca è il metodo giusto, secondo lei, per lanciare segnali di onestà e lotta alla criminalità organizzata per le nuove generazioni? Sicuramente sì, avendo cura di destinarlo a funzioni di interesse sociale. Noi, dopo l’assegnazione, abbiamo convocato tutte le associazioni locali affinchè facessero parte dell’iniziativa già cominciata con “Casa Memoria” e che aveva sede nella mia casa paterna. Abbiamo associazioni musicali, teatrali, cattoliche, non abbiamo esitato nell’aprire le porte a qualsiasi forma associazionista nonostante Peppino fosse ateo e comunista. Vogliamo seguire il suo pensiero ma allargare a tutti coloro i quali intendono, attraverso le aggregazioni volontarie, propendere


dai territori << vio storico, un archivio fotografico, i libri di Peppino, qualcuno scritto in seguito per lui e questa casa è rimasta sempre aperta per volontà di mia madre, poco alla volta la gente ha cambiato atteggiamento, ha intravisto in quella casa sempre aperta un cambiamento e quindi la volontà del riscatto di un territorio martoriato ma che può farcela.

La mafia è un problema sociale e culturale, bisogna agire sulla mentalità mafiosa, sono in pochi a farlo per questo confidiamo molto nei giovani

per una società nuova e libera, con effetto dirompente per tutte le iniziative che si organizzano all’interno del contenitore culturale. Stiamo valutando le capacità di tanti artisti locali e c’è un gran fermento che prima dell’acquisizione di casa Badalamenti non c’era. È simbolico anche il fatto che si tratti della casa famosa dei “cento passi”. La realtà è ancora molto omertosa ma queste iniziative hanno un certo effetto. Questo è solo un proseguo della nostra trentennale attività di memoria, avevamo già aperto la nostra casa a tali iniziative. La casa Impastato si trova al centro del paese, Cinisi, in una posizione strategica, lì viene conservata la memoria di Peppino, abbiamo un archi-

Lei crede che le vicissitudini degli ultimi decenni abbiano dato scacco alla mafia? Possiamo dire che una mafia è stata sconfitta, quella legata a Provenzano, Lo Piccolo, Messina Denaro e tutti i boss che abbiamo conosciuto attraverso le cronache di questi decenni. Loro erano innovatori nel modo che avevano di delinquere rispetto a chi li ha preceduti, ma quella mafia non esiste più, ce n’è una nuova che ha cambiato strategia. Il cambiamento è avvenuto da pochissimo tempo perché prima c’era un intreccio tra queste persone e la collaborazione mafiosa dei professionisti di spicco nelle diverse professioni, con un rapporto solido e stabile con interessi forti a entrambe le parti. Oggi invece i componenti della cupola sono diversi, sono i colletti bianchi. Si tratta di un’organizzazione molto più pericolosa, non uccide, è sottile e penetra in tutti i settori della vita pubblica politica e culturale, riesce ad avere sotto controllo il mondo mediatico e telematico. I colletti bianchi hanno abbandonato anche i vecchi affari come la droga e la prostituzione; l’hanno delegata alla ‘ndrangheta che rimane una criminalità organizzata vecchio stampo. La nuova mafia si serve dello Stato perché è dentro lo Stato. Per quanto riguarda la realizzazione delle opere pubbliche e gli appalti è radicata nelle istituzioni. Quando la mafia ha ucciso Falcone, Borsellino, Chinnici, ha ucciso quelle persone che in un certo senso volevano bloccare la loro ascesa all’interno dello Stato. Lei è a Lecce per un’iniziativa importante voluta dai Giovani Democratici leccesi e dal promotore Diego Dantes: inaugurare una strada intitolata a suo fratello.

Le iniziative nel ricordo e della memoria di Peppino Impastato, avvengono ormai in molte città d’Italia da nord a sud, lei come le vede? Le vedo positive, le attività di memoria, di intitolazione delle vie o degli edifici sono importanti perché coinvolgono i giovani e i ragazzi nel processo di conoscenza e di presa di coscienza per quello che la criminalità ha fatto e per gli effetti devastanti che può avere sulla società. Si tratta in genere di iniziative istituzionali o private? Entrambe. Molti sindaci democratici hanno addirittura dato vita ad un movimento spontaneo contro il sindaco leghista di Ponteranica, in provincia di Bergamo, che ha cambiato la denominazione della biblioteca comunale già intitolata a Peppino. Noi stiamo organizzando una grande manifestazione nazionale per ringraziare e riconoscere il ruolo che hanno avuto questi sindaci, li inviteremo a Cinisi, gli daremo visibilità ma preferiamo che il ricordo di Peppino non sia politicizzato, io personalmente accetto ogni proposta senza dar conto al colore politico. Lei immagina un’Italia senza mafia e senza omertà? Penso che può esistere. La mafia è stata spesso esaltata, in realtà potrebbe essere sconfitta in poco tempo, non è niente di così grande come si vuol far credere. Giovanni Falcone diceva che non si tratta di uomini che vengono da altri pianeti ma in carne ed ossa come siamo noi. Sembrano invincibili per due motivi: uno perché manca la precisa volontà politica di sconfiggerli e due perché è considerata un’associazione criminale ma come ho già detto non lo è più, la mafia è un problema sociale e culturale, bisogna agire sulla mentalità mafiosa, sono in pochi a farlo per questo confidiamo molto nell’associazionismo. Anche il rispetto delle leggi spesso suona come una frase fatta priva di fondamento alcuno, perché molte leggi non rispecchiano né il concetto di legalità e giustizia né quello di rispetto della dignità umana ed è proprio quest’ultima che deve essere messa al primo posto. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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Fra gli strumenti che colpiscono la libertà di stampa, insieme con le intimidazioni ai cronisti, c’è l’uso strumentale della legge sulla diffamazione, con esose richieste di risarcimento danni in sede civile, senza alcun rischio per il querelante. Un’arma in grado di annientare iniziative editoriali, scoraggiare e intimidire singoli giornalisti, impedire di far luce su oscure vicende di illegalità e di potere.

Per usufruire di consulenza e di assistenza legale giornalisti e giornaliste possono: Inviare una e-mail all’indirizzo:

sportelloantiquerele. roma@libera.it inserendo in oggetto la specificazione “sportello antiquerele" 16 verità e giustizia - 17 aprile 2012

Per non lasciare soli i cronisti minacciati

che siano in grado di dimostrare la loro buona fede e la loro correttezza, Federazione Nazionale della Stampa, Associazione Stampa Romana, Ordine Nazionale e regionale dei giornalisti, Unione Cronisti Italiani, Libera, Fondazione Libera Informazione, Articolo 21, Osservatorio Ossigeno, Open Society Foundations hanno deciso di costituire uno sportello che si avvale della consulenza di studi legali da tempo impegnati in questa battaglia per la libertà di informazione.

Telefonare al numero :

06/67664896-97


i media ne parlano <<

Su Rainews24 il monologo che "infastidì" la Lega di Norma Ferrara

Saviano, il suo intervento a "Vieni via con me" e le accuse ai vertici della Lega. Oggi le inchieste della magistratura confermano quell'analisi e Articolo21 chiede alla Rai di trasmettere il testoche fece arrabbiare l'allora ministro dell'Interno,Roberto Maroni. E la All News accetta

«R

oberto Maroni dovrebbe chiedere scusa a Roberto Saviano, e non solo. I vertici della Rai dovrebbero riportare l’autore di Gomorra in onda sul servizio pubblico e Rai 3 replicare la puntata incriminata di Vieni via con me. Vi ricordate di quel programma trasmesso nel novembre 2010 su Rai 3, che poi è stato regalato alla concorrenza e che andrà in onda nel prossimo maggio su La7…Vi ricordate di quel programma trasmesso nel novembre 2010 su Rai 3, che poi è stato regalato alla concorrenza e che andrà in onda nel prossimo maggio su La7 con un titolo diverso, sempre condotto dalla coppia Saviano-Fazio». Così Loris Mazzetti su Articolo21 lanciava l’appello per chiedere che la Rai porgesse le proprie scuse

pubblicamente allo scrittore - giornalista Roberto Saviano per i fatti accaduti quando a “Vieni via con me” Saviano aveva accennato ai rapporti che anche su territori governati dalla Lega erano intercorsi con esponenti della criminalità organizzata. «La trasmissione fece il pieno di ascolti al punto che mi fece proporre, visto il gradimento, altre due puntate e di richiedere di inserire la seconda edizione nel palinsesto 2011 - ricorda Mazzetti. In Rai, nel silenzio generale, invece, passò l’ordine di Masi (il servente del Cavaliere e del suo scudiero Romani), di vietare anche il solo pronunciamento del nome di Roberto Saviano». «Lo stesso Masi si fece promotore di sostituire “Vieni via con me” con una trasmissione di Vittorio Sgarbi che su Rai 1 fece un clamoroso flop al punto da essere chiusa

dopo la prima puntata. L’azienda buttò al vento 6 milioni di euro dei contribuenti. Saviano venne “incriminato” da Maroni e da un altro leghista presidente del Consiglio regionale lombardo Boni (indagato successivamente per tangenti), per aver raccontato in Vieni via con me il rapporto tra la ‘ndrangheta e il potere del Nord. Disse: “La ‘ndrangheta al Nord come al Sud cerca il potere della politica e al Nord interloquisce con la Lega». Alla Camera, su questo appello, interviene anche il portavoce di Articolo21, Beppe Giulietti, che ricorda la contingente attualità e l’inopportunità di quella scelta aziendale che all’epoca mise nel mirino il giornalista, già oggetto di intimidazioni e minacce da parte della Camorra, dei Casalesi, dopo il libro “Gomorra”. «Oggi alla luce degli ultimi fatti - continuava Mazzetti nel suo editoriale per Articolo21 - secondo la Dda di Reggio Calabria, Romolo Ghiradelli, vicino al clan Di Stefano, è in affari con il tesoriere della Lega Nord, l’ex sottosegretario del governo Berlusconi Stefano Belsito (uno dei componenti del famoso cerchio magico di Bossi), accusato da tre procure di truffa ai danni dello Stato, appropriazione indebita e riciclaggio. Ciò dimostrerebbe l’interlocuzione. Maroni, allora ministro degli Interni, pretese di replicare in trasmissione a Saviano. Tentai di impedirlo in quanto il ministro era andato ospite in tutti i telegiornali e in quasi tutti gli approfondimenti informativi. Dentro all’azienda fui inascoltato, così lo raccontai il mio pensiero alle agenzie, poi ripreso dai giornali». Masi, dopo aver ordinato la presenza di Maroni, avviò un procedimento disciplinare nei miei confronti: 10 giorni di sospensione». All’appello lanciato su Articolo21 Saviano aveva risposto, via social network, che la Rai, però, quel monologo non lo avrebbe mandato in onda. Qualche giorno dopo la Rai, una parte, smentisce Saviano. La notizia arriva da Articolo21: «Da ieri sera, venerdì 6 aprile 2012, Rainews 24 ha inserito in palinsesto la messa in onda del monologo di Roberto che, nel corso di una puntata di “Vieni via con me” parlò della presenza delle mafie al nord. Articolo 21 aveva chiesto alla Rai di rimandare in onda quel monologo che tanto caos provocò quando venne realizzato. Oggi ringraziamo il direttore di Rainews24 Corradino Mineo e la testata per avere risposto a quell’appello». Ci sono parecchie (diverse) Rai nel Paese. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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>> internazionale

Liberia, diamanti insanguinati, la giustizia si muove di Gaetano Liardo

Usati per acquistare armi nel corso del sanguinoso conflitto africano. Lo sorso 5 aprile un tribunale Usa ha condannato a 25 anni il trafficante russo Vikotr Bout, il prossimo 26 aprile è atteso il verdetto della Corte Speciale Internazionale sulla Sierra Leone contro Cherles Taylor. Un nuovo processo in corso a New York

È

stato un conflitto lungo e sanguinoso. Come in tutte le guerre civili africane ha visto numerosi attori “non protagonisti”, tutti interessati a fare affari nel caos generalizzato. Sanguinari squadroni della morte, sadici capi di stato, trafficanti di armi pronti a prestare servigi in cambio di lauti, e illeciti, profitti. Il mese di aprile del 2012 può portare alla tanto attesa svolta, quella del trionfo, o quantomeno dell’affermazione, della giustizia. Lo scorso 5 aprile il Southern District di New York ha condannato uno dei protagonisti di questa triste storia. Il trafficante di armi russo Viktor Bout, meglio conosciuto come il “Mercante di morte” è stato condannato a 25 anni di carcere. Il reato contestato,

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e per il quale è stato ritenuto colpevole, non ha a che fare con il Sierra Leone e la Liberia, tuttavia garantisce una prima punizione al più pericoloso trafficante d’armi al mondo. Inoltre, sempre il Southern District di New York ha accusato lo scorso febbraio Bout, e il suo braccio finanziario Richard Ammad Chichakli, di violazione dell’embargo nei confronti della Liberia, oltre che di frode, cospirazione contro la sicurezza Usa e riciclaggio di denaro sporco. L’altro fronte giudiziario aperto è quello nei confronti dell’ex presidente liberiano, Charles Taylor che il prossimo 26 aprile sarà giudicato dalla Corte Speciale Internazionale sulla Sierra Leone. Taylor è il primo leader africano ad essere processa-

to per crimini contro l’umanità. Per motivi di sicurezza il processo si è svolto nella sede della Corte Penale Internazionale de L’Aja. Armi ovunque a chiunque Viktor Buot, russo, è stato almeno dal 1996 e fino al suo arresto nel 2008, il dominus del traffico di armi nei conflitti che hanno insanguinato il mondo. In Africa in particolare. Subito dopo il crollo dell’Urss Bout ha messo in piedi una flotta di vecchi aerei cargo sovietici utilizzati per trasportare armi da guerra in tutti i continenti. Nei capi di imputazione del Southern District of New York, redatti dal procuratore Preet Bharara si legge che: «Tra il 1996 e il 2008 Bout ha avuto la


Subito dopo il crollo dell’Urss Bout ha messo in piedi una flotta di vecchi aerei cargo sovietici utilizzati per trasportare armi da guerra in tutti i continenti

capacità di trasportare su larga scala macchinari militari, così come vasti depositi di munizioni virtualmente in ogni angolo del mondo». Inoltre, si legge ancora che: «Le armi che Bout ha venduto o ha mediato hanno contribuito ad alimentare conflitti e a supportare regimi in Afghanistan, Angola, Repubblica Democratica del Congo, Liberia, Ruanda, Sierra Leone e Sudan». Bout, nella sua attività globale, ha avuto solido appoggio da parte di Richard Ammar Chichakli, cittadino americano di origini libanesi, considerato la mente finanziaria dell’impero di Bout. Chichakli è attualmente latitante, sarà giudicato in contumacia, ed è inserito nella lista dei più pericolosi ricercati internazionali dalla Dea americana. In Liberia, nonostante i numerosi embarghi posti dalle Nazioni Unite, Bout e Chichakli hanno fatto affari d’oro. Armi in cambio di diamanti. Il Comitato speciale del Consiglio di Sicurezza Onu che ha indagato su Liberia e Sierra Leone così definiva Bout: «Uomo d’affari, commerciante di armi e minerali. Venditore di armi

in contrasto con la risoluzione 1343. Ha sostenuto il regime dell’ex presidente Taylor nel tentativo di destabilizzare la Sierra Leone, guadagnando l’accesso illecito ai diamanti». I proventi del traffico di armi dalla Sierra Leone venivano trattati dal fido Chichakli. Le Nazioni Unite descrivono così l’abile finanziere: «Chichakli è un funzionario della San Air General Trading (compagnia aerea con base negli Usa di proprietà di Bout). I pagamenti per molte delle armi che andavano in Liberia tramite il network di Viktor Bout nel 2000 e nel 2001 erano diretti al conto bancario della San Air». Violazione dell’embargo e riciclaggio di denaro sporco La coppia Bout – Chichakli, secondo le accuse mosse dalla Corte Usa, avrebbe violato l’embargo Onu sulla vendita di armi e materiale bellico alla Liberia del presidente Taylor, e ai ribelli del Ruf, armati dallo stesso Taylor, in Sierra Leone. Armi che hanno consentito una lunga guerra civile

che ha provocato migliaia di vittime nei due paesi. Forniture pagate con i diamanti illegalmente estratti dalle miniere di Liberia e Sierra Leone. Per queste attività, pienamente verificate dalle inchieste delle Nazioni Unite, il network imprenditoriale di Bout e quello finanziario di Chichakli, così come le proprietà e i bene intestati ai due trafficanti, sono stati congelati dal Dipartimento del Tesoro americano. Tra questi le svariate compagnie aeree del Mercante di morte. Per citare solo le più significative: Centrafrican Airlines, San Air General Trading, Gmbia New Millennium Air Company, CET Aviation, Irbis Air Company, Moldtransavia Srl, Odessa Air, Transavia Network, Santa Cruz Imperial. Nei traffici con la Liberia è stato accertato il ruolo giocato dalla San Air, per il giro di denaro e diamanti, e dalla Centrafican Airlines. Si legge nel documento della Corte di New York che le due compagnie: «hanno giocato un ruolo chiave nella fornitura di armi al regime dell’ex presidente della Liberia Charles Taylor e al gruppo ribelle Ruf della Sierra Leone». Imputato d’eccezione E’ atteso per il prossimo 26 aprile il verdetto nei confronti di Charles Taylor, il primo leader africano processato per crimini contro l’umanità. Taylor, anche grazie alla fornitura di ingenti quantitativi di armi da parte del network di Bout, ha fomentato una guerra civile in Liberia e nella vicina Sierra Leone, tramite i ribelli del Ruf. Undici capi di imputazione, dai crimini di guerra alla violazione dei diritti umani e delle leggi umanitarie. Un processo, quello de L’Aja iniziato il 4 giugno del 2007, e una sentenza che si preannuncia storica. verità e giustizia - 17 aprile 2012

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dai territori << a cura di Norma Ferrara

Emilia - Romagna Tre proiettili e un messaggio chiaramente intimidatorio. Destinatari: Cinzia Franchini, presidente provinciale e nazionale del Cna-Fita, e Mirko Vitale, responsabile del Cna-Fita di Modena. Un avvertimento all’associazione di categoria degli autotrasportatori, di cui si sta occupando la Direzione distrettuale antimafia di Bologna.

Sicilia A quattro anni dalla sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Catania, ha confermato la condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa dell’ex Gip di Messina, Marcello Mondello mentre ha ritenuto prescritto il reato per l’ex sostituto procuratore della Dda di Messina, già sostituto procuratore nazionale antimafia, Giovanni Lembo e assolto il maresciallo dei carabinieri Antonio Princi, suo principale collaboratore per la “gestione” anomala del pentito, Luigi Sparacio.

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Calabria Lello Filippone è un giornalista di Calabria Ora, è il corrispondente da Locri, e si occupa di cronaca nera e giudiziaria. Gli hanno bruciato la macchina per dargli un avvertimento. Probabilmente Filippone ha superato quel limite imposto arbitrariamente dalla criminalità organizzata ai giornalisti. Ha pubblicato notizie sgradite e ha sviluppato alcune inchieste in esclusiva.


>> recensione

“Quando rimasero soli” a cura di Libera Taranto animati principalmente dal loro senso del dovere. La mafia già aveva in quei luoghi commesso delitti eclatanti, dalla strage di Ciaculli del 1963 all’assassinio, nel 1977, del colonnello Russo che stava scoprendo il salto di qualità negli affari di cosa nostra. Basile indagava su questo e sul materiale lasciato da Boris Giuliano, assassinato tempo prima. Lì c’era “cosa nostra”, però quella moderna di Totò Riina e Bernardo Provenzano, Luciano Liggio era in carcere dal 1974. La mafia non era ancora né nominata né citata, oltre che nelle aule dei tribunali nemmeno nelle onoranze funebri religiose dei morti ammazzati. Il tre maggio del 1980, una settimana prima della festa patronale di Taranto, città di Emanuele Basile, si stava svolgendo l’analoga processione a Monreale. Nella notte il ritorno a casa del capitano Basile e della sua famiglia, il suo assassinio con sei colpi di pistola che solo per caso non uccidono la sua piccola e la moglie, scampata per miracolo e testimone decisiva per l’individuazione dei colpevoli. Diede fastidio a molti, Basile, tenace e scrupoloso nelle indagini, ebbe un rapporto stretto con il sostituto procuratore di Palermo Paolo Borsellino che condusse le sue indagini e poi di quelle relative alla sua uccisione. Era giunto da poco la notizia del suo trasferimento, il mese successivo, a San Benedetto del Tronto. D’Alò, il suo sostituto, sarebbe giunto ai primi di luglio di quell’anno, avevano, però, in comune il senso dello Stato portato con “testa alta e schiena dritta”, non vissero il compromesso con l’ambiente omertoso ed ostile nella logica del “tanto devo restare qualche anno e ciò sarà utile per la carriera”. Restarono anche per questo soli e fu facile per la mafia ammazzarli. I funerali solenni di Basile furono fatti nel duomo di Palermo, la sua famiglia portò il suo corpo a Taranto, il dolore la lacererà nel tempo, nulla tornerà come prima.

Emanuele Basile e Mario D’Aleo EROI DIMENTICATI (Michela Giordano, ed.Paoline 2011)

Le assoluzioni nei processi che si succedettero “uccisero per una seconda volta mio marito” affermò sua moglie. Il libro ricostruisce anche la storia della mafia e dell’antimafia negli anni successivi alla sua uccisione sino alla sentenza definitiva del processo, avvenuta dodici anni dopo. Furono gli anni dell’uccisione dei giudici Cesare Terranova e Gaetano Costa, dei politici Mattarella e Pio La Torre, di Carlo Albero Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici. Dell’impegno del giudice Caponnetto e del suo pool antimafia con Falcone e Borsellino. Si parla del ruolo fondamentale della legge Rognoni – La Torre e dei collaboratori di giustizia, delle dichiarazioni di Buscetta ma è solo nell’84 che ci fu la prima condanna all’ergastolo per un mafioso. Per D’Aleo, il 13 giugno del 1983, fu eseguita una strage, oltre a lui furono uccisi i suoi due carabinieri di scorta. Ai loro funerali anche il presidente Pertini, il cardinale Pappalardo pronunciò la parola mafia. Successivamente si accertò che le indagini del capitano D’Aleo arrivarono all’allora imminente arresto di Totò Riina. I due capitani furono assassinati nell’ambito della nuova strategia di guerra della mafia.

LIBRI

Il libro racconta due vicende dall’apparente linearità (servitori dello Stato uccisi per avere svolto bene il loro lavoro). Rappresentano a distanza di trenta anni, dopo che tanto è stato ricostruito di quei fatti, una realtà che vide un preciso snodo della storia della mafia in Sicilia ed in Italia. Un ramificato e complesso mosaico nel quale decine di altri avvenimenti, uccisioni e processi, si innestano nei fatti principali ricostruiti. Le vicende umane e sociali di due giovani, di trenta e ventinove anni al momento della loro uccisione, che decidono in località diverse dell’Italia, la stessa scelta di vita, accomunati da un identico destino. La sorte sarebbe stata probabilmente diversa se il giovane tarantino Emanuele Basile nei primi anni sessanta avesse scelto, come desiderato dai genitori, un titolo finito al termine del ciclo delle scuole superiori, magari ragioniere o perito industriale con impiego nell’Italsider visibile dalla casa, dove nacque, nel rione Tamburi. Preferì il liceo scientifico e di continuare gli studi di medicina nell’università di Bari, essi furono interrotti allorché scelse di fare domanda di ammissione in accademia a Modena nell’arma dei carabinieri. Mario D’Aleo romano “ de Roma”, più giovane di cinque anni, entrerà in accademia dopo e sarà destinato a sostituire il capitano Basile in Sicilia quando fu in procinto di essere trasferito a San Benedetto del Tronto. Gli avvenimenti descritti si susseguono a ritmo incessante, come la trama di un film, prima per Emanuele e poi per Mario. Tra la vicenda dei due ci fu l’approvazione della legge Rognoni – La Torre che definì per la prima volta, per legge, il reato di mafia nel settembre del 1982 successivamente al delitto Dalla Chiesa, il prefetto “di ferro” ma senza quei poteri speciali che lui aveva richiesto. Monreale non poteva essere un comune luogo di tirocinio per due giovani, ancora inesperti capitani dei carabinieri,

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IPSE DIXIT a cura di Norma Ferrara

Pio La Torre Questo volume vuole offrire una prima documentazione sul contributo dei Comunisti alle attività e alle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta, i comunisti sono la sola forza politica che abbia collaborato, sin dall’inizio, con la commissione fornendole numerosi documenti e relazioni. Molti documenti, come è noto, saranno pubblicati a cura delle presidenze delle camere. Ma quei testi verranno stampati in numero limitato di copie e pochi potranno riceverle. Con questa pubblicazione noi abbiamo voluto soddisfare la legittima esigenza dei cittadini di conoscere tempestivamente le conclusioni della commissione antimafia. Questo volume contiene il testo della relazione di minoranza presentata dai commissari comunisti, che ha ricevuto anche il voto dei socialisti, e il documento con le proposte conclusive dirette a rendere efficace la lotta contro la mafia e il sistema di potere mafioso. In appendice, infine, pubblichiamo alcuni stralci di documenti che i comunisti hanno presentato alla commissione antimafia nel corso della sua attività. Il fatto che la commissione antimafia abbia superato ogni record di durata di una inchiesta parlamentare ha suscitato vivaci polemiche. Molti si sono domandati le ragioni di tali difficoltà [...] Prefazione di Pio La Torre, Roma, Editori riuniti, 1976, 255 p. - Relazione di minoranza e proposte unitarie della commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. Fonte: archiviopiolatorre.camera.it

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Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera Informazione Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie

Direttore responsabile: Santo Della Volpe

Sede legale via IV Novembre, 98 - 00187 Roma tel. 06.67.66.48.97 www.liberainformazione.org

Redazione: Peppe Ruggiero, Antonio Turri, Gaetano Liardo, Norma Ferrara

Coordinatore: Lorenzo Frigerio

Hanno collaborato a questo numero: Davide Pati, Rino Giacalone, Maria Cristina Pede, Giuseppe Crapisi, Ufficio stampa di Libera Grafica: Giacomo Governatori

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