Verità e giustizia n.89

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n.89 8 maggio 2012

veritĂ egiustizia

La newsletter di liberainformazione

P UN'ITER LIBER ALIA A DAL LE

MAFI E


>>editoriale Per Lea, Maria Concetta, Rita. Ma soprattutto per un’altra idea di Paese. Il numero 89 del supplemento di informazione “Verità e Giustizia” di Libera Informazione sceglie di raccontare, a due mesi esatti dal’8 marzo 2012, la lotta di liberazione da mafie e illegalità fatta dalle donne. Insieme ai tanti uomini che hanno perso la vita nella battaglia antimafia c’è stata - in più di un secolo - una strage silenziosa, latente e poco raccontata, quella delle donne. Spesso colpevoli solo di essere madri, figlie, sorelle di uomini di mafia. Altre volte accusate di cercare una libertà che non è consentita dai boss. Collaboratrici di giustizia, altre volte testimoni di fatti di mafia, le donne hanno provato a scardinare i meccanismi sui quali si regge il sistema mafioso, anche quando ai vertici ci sono le donne. E hanno pagato un prezzo altissimo. Mentre poco o nulla si muove per ripristinare i diritti delle donne riparte proprio dalla forza e dal coraggio femminile, la risposta antimafia nelle regioni governate dalla criminalità organizzata. Dalle mministratrici pubbliche ai familiari di vittime delle mafie. Con l’intenzione di fuggire da banalizzazioni e semplificazioni, che impediscono di conoscere il patrimonio delle battaglie portate avanti le pagine che seguono, raccontano alcune storie di donne che hanno provato a cambiare le proprie famiglie, il territorio, i figli, i mariti. Spesso non ci sono riuscite ma il loro sacrificio è diventato un valore per le generazioni successive. Non smettiamo, dunque, di raccontare la storia di queste e altre donne che imparano dalle donne, nel nome di un’Italia libera dalle mafie e dall’illegalità. Continuiamo a farlo 365 giorni all’anno. 2 verità e giustizia - 10 maggio 2012

Un coraggio di donna di Santo Della Volpe

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uesta è la storia di una donna coraggiosa e forte, emotiva e piena di speranza,Lea Garofalo: e di sua figlia Denise che della madre ha preso la voglia di vivere ed il coraggio di denunciare la violenza mafiosa. “Mi chiamo Cosco, ma mia mamma voleva cambiarmi il cognome, voleva che mi chiamassi come lei, Garofalo ; ma non ha fatto in tempo…”. Denise non ama quel suo cognome:ma il suo non è un rifiuto dei parenti, degli amici,della Calabria dove è nata 20 anni fa e che, comunque, le manca. Il suo cognome, è purtroppo il segno del suo dramma, del suo coraggio; del suo dolore e della sua forza. E anche della sua speranza di ricostruire presto una vita da giovane come le altre. Le hanno ucciso la madre, Lea Garofalo, testimone di giustizia,hanno sciolto il suo corpo nell’acido: ed ad ucciderla,scrive una sentenza, è stato suo padre, Carlo Cosco, con la complicità della sua famiglia e dell’unico ragazzo cui abbia dato confidenza e per la quale abbia sentito sentimenti di affetto vero,l’unico di cui si fidava,ma che invece l’ha usata come esca. Al processo Denise ha testimoniato contro entrambi, raccontando la storia della madre e la sua, figlia di un padre che le ha ucciso la madre; l’ha indicato in aula, con sofferenza,con rabbia, sfogandosi e piangendo, ma lucidamente. Una serie di tragedie capaci di di-

struggere una persona, figuriamoci se poi ha solo 20 anni… Ma Denise vuole vivere, resistere,pensa al futuro. Cappellino calato su un caschetto di capelli che incorniciano suoi occhi chiari,profondi come il futuro che l’aspetta, Denise deve vivere oggi scortata ed in viaggio continuo tra un appartamento e l’altro, ma dimostra, parlando con la sua voce chiara e bella, di avere molta voglia di normalità. Ma il ricordo di Lea, sua mamma, è tenero come di chi sente ancora oggi il vuoto,dentro di sé. ”Stavo bene con mia mamma. Parlavamo molto e mi piaceva dormire con lei, rannicchiata verso di lei… abbiamo dormito così fino a quando ho compiuto 15 anni. Come era bello! Mi manca molto, certo… Quanti ricordi, ma anche quanta sofferenza. Quando camminavamo con la paura di essere seguiti,da chi già allora voleva farci del male, quando hanno fatto saltare la macchina, quando mia mamma, sotto casa nostra, a Pagliarelle, in Calabria, fu schiaffeggiata davanti a tutti in paese da suo fratello… Mia mamma voleva molto bene a suo fratello, anche perché era l’unico uomo in famiglia,dato che suo padre era stato ucciso quando lei aveva pochi mesi. Gli voleva bene anche se lui la accusava d’aver tradito la famiglia, gli voleva bene anche quando la schiaffeggiava in pubblico. Ma d’altra parte, invece, la difendeva in pubblico, anche quando gli dicevano, tua sorella è una infame..e nell’ultimo periodo della sua vita


mio zio non stava bene,aveva una esaurimento nervoso…non riusciva più a vedere…né mia madre,né me… E la mamma si chiudeva in casa e piangeva, si svegliava di notte con la rabbia di chi sapeva di fare la cosa giusta, soprattutto per me, per il mio futuro, ma intanto aveva contro tutti. Eravamo sole, quanta solitudine, dai nostri parenti, da quelli che pensavamo fossero amici…” Lea Garofalo, una vita segnata dalla ‘ndrangheta:contro quella gabbia si è battuta,sino a morirne. Nasce a Petilia Policastro,in Calabria, nel 1974. Quando aveva nove mesi, suo padre viene ucciso in una faida tra famiglie rivali. Una situazione sociale e personale che la costringe ad una infanzia ed adolescenza sulle quali incombe il sistema unico della ‘ndrangheta nella quale “Il sangue si lava con il sangue”. Un concetto che suo fratello Floriano ha fatto proprio, seguendo le orme del padre e rimanendo a sua volta vittima di un agguato, nel 2005. A 14 anni Lea si innamora di Carlo Cosco, partono alla volta di Milano e nel 1991 diventano genitori di Denise. Nel maggio 1995 venne ucciso Antonio Camberiati, che gestiva un traffico di stupefacenti insieme a Carlo,il compagno di Lea ed a suo fratello Giuseppe Cosco. Lea aveva parlato agli inquirenti di quanto accaduto: Camberiati l’aveva offesa, un’onta che il suo convivente non poteva sopportare.Dopo l’arresto di Carlo Cosco nel 1996 – sarà poi pro-

sciolto dall’accusa di omicidio ma condannato per spaccio e traffico di droga – Lea Garofalo, in uno dei colloqui nel carcere di San Vittore, gli confesserà di volere andare via per avere una vita migliore, per dare a Denise un futuro diverso. Il marito inveisce,giura vendetta per quella che considera un’umiliazione, un disonore. Perché Lea voleva uscire da quel mondo omertoso e di vincoli familiari che coprivano traffici illeciti ed omicidi,guidato da leggi non scritte e anacronistici vincoli di sangue per coprire omicidi e la violenza sui diritti delle persone. Lea si trasferisce a Bergamo insieme alla figlia Denise. Trascorreranno anni in cui non avranno amici ma nemmeno nemici perché sono anni di solitudine, durante i quali svilupperanno un rapporto molto forte tra loro. Trasferimenti continui, Lea e Denise vengono private delle loro identità, sono isolate da tutti. Una vita difficile che metterebbe a dura prova chiunque: ma Lea non voleva cedere,in nome di Denise: non voleva che la figlia vivesse nel clima dove lei aveva vissuto per anni e anni.. La prima volta in cui Carlo Cosco decise di attuare il piano per eliminare la sua convivente era il 2001. Chiese a quello che diventerà un collaboratore di giustizia, suo compagno di cella, Angelo Salvatore Cortese, di uccidere Lea e di scioglierne il corpo nell’acido. Perché si potesse pensare che se ne fosse andata via.

Ma la donna aveva sempre detto che non si sarebbe mai allontanata da sua figlia, che era la sua vita. Il piano però non fu più tentato sino a novembre 2009 a Campobasso: un malvivente amico di Cosco (che nel frattempo era uscito dal carcere) tal Massimo Sabatino entrò nell’appartamento di Lea e Denise fingendosi un tecnico. Lea ha un sospetto, afferra un coltello . Lui scappa dopo che sopraggiunge anche la figlia Denise. Ad attenderlo sotto casa c’erano Carlo e Giuseppe Cosco, con un furgone dentro il quale si trovano 50 litri di acido. A Sabatino erano stati promessi 20 mila euro per il lavoro, lui non sapeva chi fosse Lea Garofalo ma sapeva che l’avrebbe dovuta legare a terra e che poi sarebbe arrivato Giuseppe Cosco. Denise non sarebbe dovuta essere in casa, questo ha messo in fuga Massimo Sabatino. Il piano dunque fallisce,ma è quello: purtroppo non cambierà. Intanto Lea Garofalo e Denise, impaurite, decisero di tornare a Pagliarelle,in provincia di Crotone, in Calabria. Lea era uscita dal programma di protezione dei testimoni nell’aprile 2009. Decise di tornare a vivere lì, a Pagliarelle,in Calabria. “Non usciva mai da casa. Stavamo chiuse lì dentro,in una stanza piccolissima che si trovava sopra la casa di mia nonna. Lei non voleva farsi vedere, non usciva, neanche con il caldo di quella estate. Stavamo chiuse lì dentro, neanche un caverità e giustizia - 10 maggio 2012

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>>editoriale

gnolino per farci compagnia…non era tanto la paura fisica, ma era la paura delle chiacchiere in paese, di quello che avrebbero potute dirle… Alla fine, a novembre, mia mamma riesce a parlare con mio padre, parlano sino alle 3 di notte. E alla fine la chiamano a Firenze per andare ad un processo,per un’altra cosa che non c’entra niente con mio padre… E lì nasce tutto. Andiamo a passeggiare in centro a Firenze, a me piaceva una felpa in un negozio,un maglioncino, e le chiesi se potevamo comprarla. Ma non avevamo soldi e così lei telefona a mio padre per dirgli: non abbiamo soldi, viviamo così senza un euro, mandami dei soldi altrimenti mi devo vendere una collana, quella che mi hai regalato tu … Voleva pungerlo sul vivo, toccare i sentimenti…ma non ce n’erano di sentimenti … Lui le risponde, allora venite su a Milano che ti dò i soldi…e poi a Milano ci sono centri commerciali, ci sono maglioni e felpe più belle per la ragazzina… Parla con me al telefono, vieni, qui ci sono bei negozi, al viaggio ed alla casa ci penso io…E noi partiamo, mamma si fida e poi… è successo quello che è successo…” E’ il mese di novembre 2009, quando partono da Firenze per Milano. Questa è l’occasione giusta,pensa Carlo Cosco .Così Lea Garofalo e la figlia salgono su un treno alla volta del capoluogo lombardo. Per una felpa… per un desiderio di Denise….ne parla ancora…Alloggeranno – registrandosi con i propri nomi – al’Hotel Lo4 verità e giustizia - 10 maggio 2012

sanna, e passeranno diverse ore, dal 21 al 24 novembre, in compagnia di Carlo Cosco. Che si dimostrerà gentile per riacquistare la fiducia dell’ex convivente. Fredda strategia, che gli permetterà di far salire Lea Garofalo sulla sua auto intorno alle 19 del 24 novembre 2009. Denise non la vedrà più. ”Quel giorno mi sono immediatamente resa conto che non l’avrei più vista. Ho spento tutto,ho avuto un senso di rassegnazione; ho spento tutto,il cellulare, ma soprattutto ho spento il cervello e sono andata avanti per un po’, come un robot. Anche nel momento in cui qualcuno di loro mi ha detto che se ne era andata, io l’ho cercata,con un filo speranza, per un’ora, due ore, ma poi basta. Avevo capito che l’avevano uccisa, era tempo sprecato cercarla.. Mio padre, poi, quando mi venne a prendere per andare a prendere il treno in stazione, mi disse che avevano litigato, che lui e la mamma, avevano discusso … e che lei gli aveva chiesto dei soldi perché se ne voleva andare, facendomi intendere che mi voleva abbandonare… Allora, il giorno dopo, sono andata in caserma dei Carabinieri a fare la denuncia ed ero talmente spenta che gli dissi solo poche parole..non si trova più mia madre, da ieri…E basta…” L’ex compagno l’aveva accompagnata in un appartamento di Milano,dove Lea Garofalo fu legata e immobilizzata,

terrorizzata,interrogata e poi uccisa con un colpo di pistola alla nuca. Poi sciolsero il suo corpo nell’acido, andando a controllare,nell’arco di 72 ore, che l’operazione chimica avvenisse come previsto. Una sequenza di fatti agghiacciante, nella quale Denise viene usata come esca e poi abbandonata dal padre e dallo zio. “Sono andato a fare la denuncia della scomparsa ed il giorno dopo mio padre mi chiama e mi dice, qui ci sono troppi Carabinieri, ti seguono dappertutto, andiamo a Reggio Emilia, lì ci sono dei nostri parenti, restiamo qualche giorno con loro. Partiamo e mio padre mi lascia lì, da questa signora… A scuola non ci sono andata più, non mangiavo più,non ci riuscivo… e poi siamo tornati in Calabria e sono andata a vivere da mia zia,dalla sorella di mia madre. Nessuno mi diceva niente. Silenzio su mamma, io stavo chiusa in casa e da 38 kili com’ero ridotta, comincio a mangiare senza fermarmi più, ho preso 20 kili in un mese. Mia zia, spaventata mi portò in una clinica per pazzi, il posto più sbagliato del mondo … psicofarmaci dalla mattina alla sera, sono stata lì due settimane. Mi è venuto a trovare anche Carmine, un ragazzo che mi piaceva, si prendeva cura di me,mi piaceva… Poi sono uscita da lì,ho fatto il giro degli psicologi che mi dovevano aiutare, ma non mi aiutava nessuno … E nel paese non potevo neanche sfo-


garmi, gridare siete degli assassini, urlare la mia rabbia per quello che avevano fatto a mia mamma. Ho dovuto far finta di niente ed il loro unico problema, quando mi incontravano mentre me ne andavo verso i monti con le mie cuffiette, era solo quella di dirmi che dovevo andare in carcere a trovare mio padre.. E io dovevo fare i sorrisi, sforzarmi di non parlare, anche se avresti voluto strozzarli per quello che avevano fatto….” Vennero tutti arrestati. Al processo, nella Corte d’Assise di Milano, Denise racconta tutto quello che sa: i timori, gli agguati mancati, l’edescamento del padre nei suoi confronti usando i suoi sentimenti di figlia, la scomparsa dolorosa della madre, la lunga attesa ed il cellulare che suonava a vuoto; i suoi tormenti diventano conferme giudiziarie, la sua accusa al padre segna il suo salto nel terreno che aveva scelto la madre Lea. Testimoniare per rompere con la pseudo-cultura della morte, della vendetta, delle faide, del traffico di droga; collaborare affinché ci fosse giustizia per Lea,la mamma e per le tante vittime di ‘ndrangheta scomparse come lei. Anche sapendo che avrebbe pagato, nella sua giovane e fragile fibra,i contraccolpi della propria scelta di accusare il padre, tagliando i ponti con l’intera famiglia delle sue origini, in nome di una nuova cultura. Denise paga sul suo corpo:con quel-

la anoressia, e poi la bulimica; ma resiste,testimonia, anche piangendo. “Il 18 ottobre 2010, li hanno arrestati tutti e 6: io avevo parlato due volte con i Carabinieri, erano anche venuti in Calabria a trovarmi. Io avevo detto loro che mia madre avrebbe pensato che a poterle fare del mare erano loro, quel gruppo di parenti, ma non dissi ai Carabinieri, è stato mio padre..Io vivevo lì, in quel paese…subivo, stavo zitta…aspettavo che succedesse qualcosa... Quando hanno arrestato tutti mi son detta, basta, devo andarmene da quel paese della Calabria, avevo compiuto da poco 18 anni. Sono andato dal magistrato e ho raccontato tutto, tutto, gli ho detto tutto quello che pensavo… Ma senza rabbia, avevo la netta sensazione di fare la cosa giusta. Non ho avuto nessun problema a parlare, anche di mio padre…Mi è spiaciuto solo per Carmine… Ho fatto fatica a raccontare quello sapevo di lui, in fondo mi ero affezionata a lui. Ho sofferto quando ho saputo che anche lui aveva collaborato ad uccidere mia madre ed a fare quello che avevano fatto… Sono stata malissimo, ma credo che alla fine stare vicino a loro, sentire i ragionamenti dei miei familiari, stare chiusa in quel paese e vedere poi come si sono comportati, quello che ha fatto anche Carmine mi è servito per capire che quella non è la vita che voglio fare: no,quella non è la mia vita”

Il 30 marzo 2012, seduta vicino ad Enza Rando, sua avvocato e amica, ed a Luigi Ciotti, Denise assiste alla sentenza di primo grado che condanna all’ergastolo il padre Carlo Cosco e gli altri 5 imputati. Con la perdita della potestà genitoriale. Denise non ha più un padre, per la legge,ma ha ancora il suo cognome. I Cosco non sono solo la famiglia della ‘ndrangheta di Petilia Policastro di Calabria,non sono solo quelli che uccisero e sciolsero nell’acido una donna di 35 anni colpevole d’aver testimoniato e fatto arrestare il marito mafioso e trafficante di droga e soprattutto di essersi ribellata agli schemi della ’ndrangheta. Ma quel cognome è anche di Denise,una ragazza di 20 anni che ha deciso di continuare sulla strada della ribellione scelta dalla madre, Lea Garofalo

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>> speciale donne

Lea e Denise di Marika Demaria

Sei condannati per l'omicidio della trentacinquenne calabrese uccisa a Milano nel novembre del 2009. Un processo che non è per mafia, una figlia che testimonia contro il padre che oggi è costretta a vivere sotto copertura. Una storia di di 'ndrangheta e di riscatto dalla mafia, nella nuova capitale delle 'ndrine (e dell'antimafia)

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on Luigi Ciotti ricorda spesso che «avere coraggio significa avere cuore». Negli ultimi mesi, una ragazza ha dimostrato all’Italia intera di avere entrambe queste qualità, divenendo suo malgrado il simbolo dell’antimafia al femminile. Denise Cosco, vent’anni, ha avuto la forza di denunciare il padre, Carlo, colpevole della scomparsa ed uccisione di Lea Garofalo, ex convivente dell’uomo e madre della ragazza. La quale ha avuto il cuore di chiedere giustizia per il proprio genitore, entrando nell’aula della prima corte d’Assise del Tribunale di Milano e sottoponendosi ai lunghi interrogatori dell’accusa e delle difese, per le quali la trentacinquenne testimone di giustizia era «andata via, magari

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in vacanza in un posto caldo». Nata nel 1974 a Pagliarelle, nel Crotonese, Lea è figlia e sorella di due ‘ndranghetisti. A 14 anni conosce Carlo Cosco e insieme si trasferiscono a Milano, dove a 17 anni diventa mamma di Denise. La donna spera in un futuro migliore, ma nel 1996 il convivente viene arrestato per traffico di stupefacenti. Un fatto che segna la svolta: Lea Garofalo decide di ribellarsi, si reca dai Carabinieri e racconta tutto ciò che sa sul conto del marito, compreso il fatto che si sarebbe macchiato del delitto di Antonio Camberiati, suo compare in affari in quel di viale Montello, a Milano. Le denunce della donna, tuttavia, non sfociano in alcun processo, vicenda che segna profondamente le vite della testimone di giustizia e

della figlia, costrette a vivere sotto copertura, in località segrete, sotto false identità, sotto un programma di protezione dal quale saranno prima estromesse, poi reinserite fino a quando sarà la stessa Lea a chiedere di uscirne in quanto sfiduciata dallo Stato. Il suo sogno è stato definitivamente spezzato la notte tra il 24 e il 25 novembre 2009, in un casolare ubicato a San Fruttuoso, Monza Brianza. Qui è avvenuto l’ultimo macabro passaggio dell’altrettanto inumano piano studiato da Carlo Cosco e attuato insieme ai fratelli Vito e Giuseppe, Massimo Sabatino, Carmine Venturino e Rosario Curcio. Quella sera, come si evince dalla ricostruzione del pm Marcello Tatangelo, Carlo Cosco accompagnò l’ex con-


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vivente – che lo aveva raggiunto a Milano insieme alla figlia Denise raccogliendo l’invito dell’uomo che voleva donare dei vestiti alla ragazza – in un appartamento di Massimiliano Floreale, socio di Rosario Curcio per la gestione del solarium. In casa ci sono Massimo Sabatino (che tentò di sequestrare Lea Garofalo il 5 maggio 2009, a Campobasso, reato per il quale sta scontando una pena di sei anni) e Carmine Venturino (che nei mesi successivi intrattenne una relazione con Denise, la quale ignorava che il ragazzo era stato assoldato da Carlo Cosco per tenerla sotto controllo), mentre due complici con accento straniero attendevano sotto casa, in un furgone prestato loro da un cinese. Immobilizzarono Lea Garofalo, la legarono, terrorizzandola. Il piano prevedeva che l’esecuzione fosse consumata in un capannone isolato, ma il loro amico Gaetano Crivaro aveva dato le chiavi dello stesso al suo amico Marino, non rintracciabile. Cambio di programma. Curcio e Venturino chiedono a Floreale di prestare loro anche un box auto, con la scusa che avrebbero dovuto lasciare dei pezzi di ricambio per la Fiat Coupé di Venturino. Così abbandonano l’appartamento e si dirigono verso il box. Lea Garofalo è ancora viva. Marino viene rintracciato: il magazzino è disponibile. La donna viene portata dal box al terreno di Crivaro. Lì Giuseppe e Vito Cosco la interrogano e poi la uccidono,

con un colpo alla nuca. Nonostante il lavoro certosino e rigoroso dei Carabinieri (apprezzato durante alcune udienze del processo) comandati dal maresciallo Fabio Persuich, è praticamente impossibile ricostruire alcune ore della notte tra il 24 e il 25 novembre 2009. Tuttavia, è verosimile che il furgone sia rimasto parcheggiato fino all’indomani mattina, quando Curcio e Venturino hanno recuperato le chiavi del magazzino, che saranno restituite al proprietario la mattina del 28 novembre. In quei giorni, Venturino, Curcio e Vito “Sergio” Cosco si recano spesso nel magazzino, come si evince dai tabulati telefonici. Questo per controllare il processo di scioglimento del corpo della donna. Secondo la perizia del dottor Testi, infatti, occorrono circa 72 ore per sciogliere un corpo di 50 chili (Lea Garofalo ne pesava 56) in altrettanti litri di acido, come dimostrato dall’incidente probatorio effettuato con un suino. Il liquido è poi stato gettato e assorbito dal terreno, tant’è vero che i cani, nell’immediatezza delle ricerche condotte dai Carabinieri, si erano fiondati proprio verso quella fossa biologica. La sentenza è stata emessa dalla Presidente Anna Introini, subentrata il 1 dicembre 2011 a Filippo Grisolia, attualmente capo di gabinetto del ministro Severino. Un cambiamento che aveva fatto temere il peggio, e cioè che la sentenza non fosse emessa entro i termini di custodia cautelare degli

imputati, la cui scadenza era fissata per luglio, considerato che le difese non acconsentirono all’acquisizione delle dichiarazioni già depositate dai teste. Per questo atroce delitto, il 30 marzo 2012 è stata emessa la sentenza, in un’aula superaffollata di giornalisti nonostante il processo non abbia avuto eco mediatica rispetto ad altre vicende di cronaca nera: ergastolo per tutti e sei gli imputati. Due anni di isolamento diurno per Carlo e Vito Cosco, ridotto ad uno per tutti gli altri condannati. Tutti dovranno farsi carico in solido delle spese processuali e di una provvisionale di 200 mila euro a favore di Denise Cosco. A tutti è infine stata negata la potestà genitoriale. Il tribunale ha infine accolto la richiesta di risarcimento danni avanzata dal Comune di Milano costituitosi parte civile (nella misura di 50 mila euro) e da Roberto d’Ippolito, legale della sorella e della mamma di Lea Garofalo. Il 30 marzo 2012 Denise Cosco ha ottenuto dunque giustizia per sua mamma. Nel suo cammino, è stata supportata dalla rete di Libera e da una società civile attenta: gli avvocati Enza Rando e Ilaria Ramoni, diversi giovani che hanno fondato un presidio intitolato alla memoria di Lea Garofalo, docenti, semplici cittadini, presenti alle diverse udienze per infondere coraggio a Denise, anche se in realtà è lei che ha dato forza a tutte le persone che credono nel coraggio della denuncia e nella lotta alle mafie. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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Donne di mafia di Rita Mattei

«Cosa nostra è cosa da uomini» diceva il pentito Tommaso Buscetta. E invece, negli anni, le donne hanno ricoperto anche ruoli di vertice nelle organizzazioni criminali e sono state condannate per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma molte di loro hanno rotto il silenzio e violato l'omertà dei clan trovando il coraggio di cambiare

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ono mogli, madri, sorelle, figlie. hanno l’autorevolezza e il carisma del capo, gestiscono gli affari dei clan, occupano posti ai vertici della mafia, della camorra e dell’ndrangheta. da “lady camorra”, erminia giuliano, all’ex madrina di cosa nostra, ora collaboratrice di giustizia, Giusy Vitale. Certo ne è passato di tempo da quando il primo grande pentito di mafia, Tommaso Buscetta, affermava “cosa nostra è cosa da uomini”. Lo stereotipo della donna sottomessa, silenziosa, incapace di decidere autonomamente ha funzionato per tanti, troppi anni anche con i magistrati. L’ “invisibilità” della donna le ha assicurato l’impunità. C’era – secondo gli inqui-

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renti- un ‘evidente incompatibilità tra la concezione che gli uomini di cosa nostra avevano delle donne e la possibilità che queste potessero avere ruoli penalmente rilevanti. Eppure, il ruolo della donna è sempre stato fondamentale nell’ambito della cultura mafiosa. Principalmente come responsabile dell’educazione dei figli, della trasmissione di modelli “culturali” e “valori” mafiosi : vendetta, onore, omertà . Suo il ruolo di garante della “reputazione” del proprio uomo, del rafforzamento del potere delle famiglie mafiose, anche attraverso i legami matrimoniali, e della gestione degli affari quando il marito era latitante o in carcere. Benedetta Saveria Palazzolo, compagna di Bernardo Provenzano, ex camiciaia,

vissuta in clandestinità fino al 1992, nel 1983 aveva acquistato - in prima persona o attraverso prestanomi - beni per centinaia di milioni e gestiva i beni del boss. fu inquisita e poi assolta perchè “non era provato il suo organico inserimento nell’organizzazione criminale”. Angela e Vincenzina Marchese (moglie di Leoluca Bagarella) nel corso di una perquisizione nella loro abitazione - gli agenti cercavano uno dei fratelli, latitante - nascosero sotto le vesti un’arma che poi riuscirono a lasciare nella sede dei carabinieri dove erano state portate per essere interrogate. Anche loro furono assolte perchè era “dubbio che le donne potessero detenere armi, essendo diverso il ruolo riservato alla donna nell’organizzazione criminale.”


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La prima sentenza di condanna per mafia di una donna è del 2001

La prima sentenza di condanna per una donna è del 2001. A proposito della “sottomissione” della donna va ricordata “nonna eroina”, al secolo angela russo, la vivace settantasettenne arrestata nel 1983 per traffico di droga che in dibattimento disse “e secondo lei io me ne andavo su e giu’ per l’italia con i pacchetti per conto di altri! solo chi non capisce di legge e di vita puo’ pensare questo!” Che la figura femminile sia la chiave per comprendere a fondo la logica interna delle organizzazioni mafiose e osservarne l’evoluzione è emerso con chiarezza negli anni novanta, con la prima vera emergenza per cosa nostra: i collaboratori di giustizia. un ciclone che ha investito l’organizzazione e ne ha messo a rischio l’esistenza stessa. le loro dichiarazioni hanno aperto uno squarcio anche sulla figura femminile. Basti citare una dichiarazione di Leonardo Messina “la donna non è mai stata, nè sarà mai affiliata. ma ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Uomini come me sposano la donna adatta... Il patrimonio di un uomo d’onore è, principalmente, avere la donna adatta”. e ancora “un giorno mia figlia mi disse : papà, se ti avessero ucciso, ti avrei vendicato”.

le numerose collaborazioni hanno portato cosa nostra a rompere la regola del silenzio. Ha cominciato a mandare messaggi, usando – oltre le udienze in tribunale- le donne: sono loro che inveiscono contro le forze dell’ordine quando i loro uomini vengono arrestati, urlano davanti alle telecamere contro i familiari che collaborano con lo stato, li rinnegano, esprimono il loro disprezzo per l’infame. trasmettono i messaggi dal carcere, riciclano il denaro sporco, trasportano droga, in certi casi ordinano omicidi. Si porebbe pensare che cosa nostra stia attuando una politica di pari opportunita. ma non è cosi’. Strumentalizza la donna e le sue capacità, come ha sempre fatto. e la sottovaluta. Perchè quando la famiglia di sangue e la famiglia mafiosa entrano in conflitto, la donna esce allo scoperto, si schiera con una delle due famiglie: disprezza il traditore, oppure lo appoggia, in alcuni casi lo convince a collaborare. Decide da che parte stare, e lo fa con grande determinazione, soprattutto quando ha perso un marito, un figlio, un padre…. decide di restare in silenzio. O rompe il muro di omertà. Nessuna di queste scelte è facile. il rischio è altissimo. Le donne lo sanno bene. Cosa nostra,

camorra e ‘ndrangheta ne hanno uccise 150 (alla faccia del codice d’onore e dei piu’ deboli tutelati!), secondo uno studio recente. vittime di vendette trasversali, “colpevoli” di essersi innamorate dell’uomo sbagliato, o perchè hanno avuto il coraggio di parlare. L’ultima, Lea Garofalo, è stata uccisa dal suo compagno che ne ha poi sciolto il corpo nell’acido. Non aveva previsto, l’assassino, che un’altra donna coraggiosissima, denise, sua figlia, lo avrebbe denunciato e fatto condannare. quando le donne decidono di parlare, allora si’, come diceva totuccio contorno, “portano guai”. Concetta ferrante, moglie di un altro collaboratore di giustizia disse “la donna? piu’ è emancipata, piu’ è pericolosa”. la speranza è che questa emancipazione, la riappropriazione dei propri diritti e della propria indipendenza, la cultura della vita, raggiunga sempre piu’ donne per scardinare dall’interno la “cultura” del sistema mafioso. Come hanno fatto già molte donne, diverse tra loro, ma unite dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione e dallo stesso bisogno di giustizia: da Francesca Serio a Serafina Vattaglia, da Felicia Impastato alla giovanissima Rita Atria. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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Uccise dalle mafie e dalle famiglie di Norma Ferrara

Una strage senza fine. Sono 150 le donne assassinate dai clan, le loro storie sono state raccolte nel dossier di daSud “Sdisonorate”. Mentre continuano ad essere violati i diritti delle donne, la risposta antimafia nelle regioni governate dalla criminalità organizzata parte proprio dalla forza e dal potere femminile

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ercavano la libertà di parola e di azione e hanno trovato la morte. Sono state uccise dalle mafie e dagli uomini, spesso in famiglia. Sono le oltre 150 le donne assassinate da mariti, fratelli, parenti. I loro nomi, le storie, tornano a ricordarci, in maniera inconfutabile, che è solo una leggenda quella di “una mafia buo-

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na” che non uccide donne e bambini. Al contrario le famiglie di mafia e gli uomini le hanno sempre ritenute“proprietà privata”, i loro delitti sono stati “giustificati” da una morale arcaica e maschilista e dalle regole che tutelano la sopravvivenza della “società” mafiosa. A volte con il silenzio assenso di altre donne. L’onore violato dai tradimenti

è stato lavato con il sangue. L’intenzione di collaborare con la giustizia con il metodo della “lupara bianca”. Queste 150 storie, che l’associazione daSud ha raccolto in un dossier (clicca qui per leggere l’ebook) raccontano una Italia governata dalle mafie certo, ma anche un Paese in cui la legge sul divorzio è in larga parte impossibile da applica-


speciale donne << Ci sono donne uccise o vittime di violenza per ritorsione contro altri componenti della famiglia re (se non a prezzo della vita) il delitto d’onore continua ad essere la risposta ai tradimenti delle compagne, mogli, fidanzate. Mentre poco o nulla si muove per ripristinare le leggi e i diritti per le donne nei territori in cui sono il larga parte disattesi, riparte proprio dalla forza e dal coraggio femminile, la risposta antimafia nelle regioni governate dalla criminalità organizzata. Donne uccise dalle mafie La loro scomparsa doveva servire come monito per tutte le altre ma essere accompagnata anche da un giudizio sociale forte: erano “delle poco di buono”, erano solo “scappate con un amante”. Così le mafie hanno ucciso queste donne “irregolari” che minacciavano gli equilibri dei clan. Per molti anni la voce dei movimenti che, in particolare dal Sud Italia, hanno denunciato queste storie è stata ignorata. Così sono rimaste nell’ombra le vicende di queste e di molte altre mamme, figlie, sorelle, vittime di femminicidio e mafia, al tempo stesso. Il caso della Calabria è quello che ha scosso recentemente l’opinione pubblica, sino all’ultimo delitto nella capitale della ‘ndrangheta, Milano, nel novembre del 2009: quello della testimone di giustizia, Lea Garofalo. Una sentenza ha condannato sei persone, collegate alla famiglia dei Cosco, fra cui anche il marito, per il suo omicidio. Determinante per le indagini il coraggio della figlia, Denise, che ha testimoniato contro il padre, restituendo verità e giustizia alla madre. E’ morta di mafia e solitudine, la giovane testimone di giustizia, Rita Atria, che decise di mettere fine alla sua vita dopo la morte del giudice Paolo Borsellino. Originaria di Partanna si fidava solo del giudice palermitano al quale stava raccontando dettagli importanti sulla famiglia di mafia dalla quale proveniva, Rita muore a Roma il 26 luglio del 1992. Dopo tanti anni di silenzi, la città la ricorda con una targa. E ancora in Calabria, Fran-

cesca Bardo, perde la vita il 26 gennaio del 1970 vittima di una faida incrociata fra la famiglia Pellegrino e quella dei Gioffrè. Un proiettile vagante, invece, a Crotone uccide la casalinga di 67 anni Maria Giovanna Elia, prima vittima innocente di un’altra faida, quella fra i Vrenna e i Feudali; colpita mentre prende si trova sul balcone di casa, senza aver conosciuto mafie, né violenza, per lei non c’è scampo. Un destino simile anche per Giuseppina Savoca, uccisa da un proiettile vacante a Palermo nel 1985. E' Cristina Mazzotti, invece, la prima donna vittima di sequestro a morire nella lunga e dolorosa stagione che vide l’Anonima sequestri agire al Nord. La ragazza figlia di Helios Mazzotti, un industriale del settore dei cereali viene rapita e poi uccisa, nonostante fosse stato pagato il riscatto. In un piccolo paesino della provincia di Messina, muore la giovane Graziella Campagna, colpevole per i mafiosi di aver visto troppo, di aver capito l’identità vera di un boss latitante. Prima ancora che ne facesse parola con qualcuno, per non correre il rischio, i capimafia ordinano ed eseguono l’omicidio. Aveva 17 anni e venne uccisa il 12 dicembre del 1985 a Saponara (Me). Famiglie di mafia, le donne pagano il prezzo Poi ci sono le donne uccise o vittime di violenza per ritorsione contro altri componenti della famiglia. A volte altre donne. L’ultimo episodio risale a pochi giorni fa. Entrano in casa, in pieno giorno. Si dirigono verso la ragazzina di 15 anni, che in quel momento era sola nell’abitazione, la immobilizzano e le tagliano i capelli – scrive la giornalista campana,Tina Cioffo, in un articolo con un avvertimento sinistro: «La prossima volta non ci limiteremo a questo, dillo a tuo padre». Il fatto è accaduto in casa di un imprenditore specializzato nella ristrutturazione dei beni culturali, imparentato con l’ex sindaco di Casal di Principe Pasquale Martinelli.

Fra le storie più dolorose e sconcertanti, invece, l’omicidio-suicidio di Maria Concetta Cacciola avvenuto nel 2011. Maria Concetta nasce in una famiglia di ‘ndrangheta, figlia di Michele Cacciola, cognato del boss di Rosarno, Gregorio Bellocco. Si sposa giovanissima con Salvatore Figliuzzi e spera di voltare pagina. Ma il destino le è avverso e da lì a poco anche il compagno sarà condannato a otto anni per associazione mafiosa. Ma Maria Concetta non perde la speranza, decide di testimoniare quello che sa, non ha commesso reati, non è indagata. E’ solo intenzionata a rompere con quel mondo che non le consente di vivere libera ma il travagliato percorso di testimonianza porta Maria Concetta a lasciare iln programma di protezione e tornare a Rosarno. La mattina del 22 agosto dopo aver registrato una confessione che scagiona le persone che aveva accusato, la disperazione prende il sopravvento, la giovane donna entra in bagno e beve una bottiglia di acido muriatico. La procura di Palmi ha arrestato il padre, il fratello e la madre, per “aver portato la donna a suicidarsi tramite atti continui di violenza fisica e psicologica”. Per ritorsione contro la madre, invece, muore la prima donna uccisa dalla mafia in Italia nel 1896. Si chiamava Emanuela Sansone ed era la figlia di una bettoliera, Giuseppa Di Sano. Come emergerà dal rapporto del questore, Ermanno Sangiorgi, i mafiosi sospettano che la madre li abbia denunciati per fabbricazione di banconote false e ammazzano la figlia. Giuseppa, in seguito, collaborerà con la giustizia e sarà uno dei primi esempi positivi di donne che rompono omertà e silenzi del “sistema mafioso”. Del 1989 è inoltre la prima strage di donne nelle guerre di mafia. Muoiono a Bagheria per mano di Cosa nostra Leonarda Costantino, Vincenza Marino Mannoia, Lucia Costantino. Il triplice omicidio avviene davanti all’abitazione di Francesco Marino Mannoia, uno dei boss emergenti verità e giustizia - 10 maggio 2012

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>> speciale donne Oltre 200 donne impegnate attivamente nelle scuole della rete di Libera

di Cosa nostra. Delitti d’onore e di mafia Dopo 18 anni la magistratura reggina ha fatto luce sulla scomparsa di Angela Costantino, 25 anni, madre di quattro figli, della quale non si avevano più notizie dal 16 marzo del 1994. La sua auto, una panda, fu ritrovata a Villa San Giovanni ma di lei più nessuna traccia. La verità su questo delitto l’ha raccontata il collaboratore di giustizia, Maurizio Lo Giudice, fratello di Nino, zio del marito di Angela, Pietro Lo Giudice. Angela sarebbe stata strangolata in casa per aver avuto una relazione extraconiugale mentre il marito, il boss Pietro Lo Giudice, era detenuto nel carcere di Palmi negli anni Novanta. Come lei anche Barbara Corvi, la cognata umbra, è scomparsa ad Amelia nel 2009, in circostanze misteriose. Anche Barbara come Angela aveva da poco confidato al marito di avere avuto una relazione extraconiugale. Dopo qualche giorno di lei nessuna traccia. Sul caso è calato il silenzio ma le notizie emerse in merito alla cognata, uccisa anni prima in Calabria, hanno riportato alla luce questo mistero. E’ il 20 marzo del 1981 quando scompare a Rosarno (Rc) Annunziata Pesce, trent’anni figlia di Salvatore e nipote del boss Giuseppe Pesce, aveva tradito il marito con un carabiniere. Per anni non si sa che fine abbia fatto sino a che nel 1999 un pentito racconta del delitto, ma nessuno la ascolta. Solo la collaborazione della testimone di giustizia, Giuseppina Pesce, nel 2010 permette di ricostruire il caso: ad uccidere Annunziata era stato il cugino, Nino Pesce, alla presenza del fratello della donna, Antonio, secondo una vecchia regola legata al codice del disonore che per esser tolto va lavato in presenza di un parente della vittima. Si uccide a Fabrizia (Vv) negli anni ‘80, Marta Maiolo, adolescente che con questo gesto si è opposta ad un matrimonio “combinato” 12 verità e giustizia - 10 maggio 2012

e ad un compagno imposto dalla sua famiglia. Trent’anni prima a Palermo nel 1959 Anna Prestigiacomo era stata uccisa sotto gli occhi della sorellina da un delinquente di borgata che era stato “rifiutato” da lei. Talvolta, anche le donne esigono vendetta e la praticano. E’ il caso della morte di Maria Immacolata Marì, zia di un omicida che pagherà per un delitto commesso da un uomo. Ad ordinare la vendetta, accecata dal dolore e dall’odio, proprio la madre di Nicodemo Iannazzo, Maria Teresa Ferraro. Donne contro le mafie Parallela alla strage delle donne c’è la storia di donne che hanno profondamente contribuito al cambiamento della società, spesso lottando a viso aperto con mafiosi e collusi. Alcune di loro hanno perso la vita per questo. E’ il caso di Renata Fonte, impegnata in politica, assessore alla Cultura e alla Pubblica istruzione a Nardò per il Partito Repubblicano Italiano ha 33 anni quando viene uccisa da due sicari perché si batte contro la speculazione edilizia al Parco Porto Selvaggio. Il mandante di quel delitto sarà un collega di Partito, Antonio Soriano. Renata lascia due figlie, oggi impegnate in prima linea nella lotta alle illegalità. Altre sono ancora oggi cardine della battaglia antimafia. Fra le studiose e storiche ricordiamo Anna Puglisi, animatrice del Centro Studi dedicato a Peppino Impastato e autrice della maggior parte dei saggi dedicati proprio al ruolo delle donne nella lotta alle mafie. Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso in via D’Amelio, co-fondatrice di Libera e oggi impegnata in politica. Pina Maisano Grassi, moglie e compagna di vita e di scelte, di Libero Grassi, l’imprenditore che si è rifiutato di pagare il pizzo ed è stato ucciso nell’agosto del 1991 a Palermo. Il suo monito continuo contro il racket e Cosa nostra e la sua vicinanza ai giovani fondatori di Addiopizzo ha contribuito al cambiamento culturale della

società palermitana. Fra le reporter, Letizia Battaglia e Graziella Proto, la prima instancabile fotoreporter della Sicilia degli '80, la seconda prima e unica editrice donna di riviste antimafia, proveniente dal giornale di Pippo Fava, ucciso dalla mafia a Catania nel 1984. La giovane Angela Corica, minacciata dalla 'ndrangheta per le sue cronache locali in Calabria. E – ancor più negli ultimi anni – le tante amministratrici locali che lottano sul territorio per la legalità ma anche per lo sviluppo e lo fanno senza grandi mezzi e con molti rischi ( fra le altre, Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto, Maria Carmela Lanzetta, collega di Monasterace e i sindaci del Nord, che con le loro denunce hanno contribuito a far attuare provvedimenti di scioglimento per mafia di Comuni insospettabili). “L'antimafia è donna” - dichiara spesso il presidente onorario di Libera, Nando dalla Chiesa, saldando in una frase la forza e la necessità che questa battaglia passi soprattutto attraverso l'affermazione di un modo diverso di stare nella società, un differente rapporto con il potere e con la politica, luoghi privilegiati in cui si rafforza il potere dei clan. Sono oltre 84 le donne “referenti” dell'associazione Libera in tutta Italia, più di 200 quelle impegnate attivamente nelle scuole, nelle altre realtà associative, nel mondo della comunicazione sociale. Un numero simbolicamente rappresentato dalla coordinatrice nazionale dell'associazione, Gabriella Stramaccioni, la “pasionaria” come l'ha definita più volte il presidente di Libera, Don Luigi Ciotti, che dopo aver smesso di correre nello sport ha scelto l'antimafia come luogo in cui continuare a correre nella vita. E con lei le tantissime mamme, sorelle, figlie, familiari di vittime delle mafie, che animano la rete di 1600 realtà che è impegnata in prima linea, dalle cooperative sociali agli incontri di formazione alla comunicazione, contro mafie e corruzione.


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Suicidate dalla 'ndragheta di Michela Mancini

Maria Concetta Cacciola aveva trentun anni, viveva a Rosarno, era sposata e aveva tre figli. Quando comincia a collaborare con la giustizia rimane sola. Il 20 agosto del 2011 si suicida ingerendo acido muriatico. Qualche mese fa, il padre, la madre e il fratello sono stati arrestati

M

aria Concetta era una testimone di giustizia: figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere dal 2002 per associazione a delinquere di stampo mafioso. Vivevano tutti nella stessa casa: erano i nonni a pensare alla famiglia. In quei posti il vincolo di sangue non lo scioglie nemmeno l’acido. La

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famiglia non si deve macchiare di vergogna altrimenti la cosca perde potere: la vergogna non consiste solo nell’avere “un pentito” sotto al tetto, basta tradire tuo marito mentre lui è in carcere. Per la ndragheta il matrimonio è per sempre. In una lettera alla madre, Maria Concetta scrive del marito: «A tredici anni, sposata per avere un po’ di libertà, credevo che potessi tutto, invece mi sono

rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo, e tu lo sai». Si sposano dopo una “fuitina”, poi nascono i figli. Troppo tardi per pentirsi. Forse la sua vita se l’era immaginata diversa. Maria Concetta, dopo l’arresto del marito,probabilmente incontra altri uomini e a Rosarno certe notizie viaggiano veloci. A casa cominciano ad arrivare lettere anonime, siamo a giugno del 2010. Non la fanno


I siciliani Feb 2012

speciale donne <<

più uscire, rimarrà fra quelle mura fino al maggio dell’anno successivo. Le rare volte in cui valica la porta di casa viene pedinata dal fratello. Non basta: viene picchiata, le botte sono così forti che le sue costole si incrinano o forse si rompono. Non si saprà mai: non verrà mai portata in ospedale. Viene curata a casa da un medico di fiducia. Maria Concetta è sola, non può parlare neppure con la madre. Nelle famiglie mafiose il mondo delle donne si è spaccato a metà: ci sono le madri, che hanno mangiato fin da piccole pane e omertà, che proteggono i propri mariti, che tengono unita la famiglia, la lucidano come l’argenteria, cancellano la vergogna a colpi di spazzola. E poi ci sono le figlie, che pensano troppo, che proprio non riescono a quietarsi. Maria Concetta a maggio viene chiamata dall’Arma di Rosarno perché Alfonso, il figlio più grande, aveva combinato un guaio col motorino. Arrivata in caserma, chiede aiuto e racconta tutto quello che sa, prima ai carabinieri e poi alla Dda di Reggio Calabria. È stata la paura a farle scegliere lo Stato, l’amore di mamma che voleva un futuro diverso per i suoi figli? Da quando entra a far parte del Servizio Centrale di Protezione, non può più rimanere a casa sua: un pomeriggio dice che andrà a fare visita al suocero e scappa. Per un primo periodo alloggerà nel cosentino, ma qualcuno potrebbe riconoscerla: viene trasferita dall’altra parte d’Italia, a Bolzano. La parola d’ordine è: lontano, più lontano che si può. Sola, in una città straniera Maria Concetta pensa ai figli

che non ha potuto portare con sé. Aveva scritto alla madre: «Ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare». Ha paura che la famiglia possa ritorcersi contro di loro. Cede e telefona alla madre. Lo confesserà alla scorta che la trasferisce a Genova. «Da Genova io ho richiamato di nuovo mia madre dicendo che la voglio vedere perché a me mi mancava». La famiglia di Maria Concetta arriva fino in Liguria, la mettono in macchina per riportala a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno si fermano per una sosta a Reggio Emilia, lei si pente e telefona ai carabinieri, che la riportano ritorna a Genova. Ma probabilmente qualcuno le impone con più decisione di «spegnere tutto». Richiama la madre per l’ultima volta: «Portami a casa». A Genova arrivano in tre: il fratello, una delle figlie e la madre. È il dieci di agosto quando arrivano a Rosarno. Pochissimi giorni dopo, Maria Concetta scrive una lettera e registra un nastro. Racconta dei colloqui con la Dda: «Gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa, ho detto pure delle cose che mi sono infangata anche io stessa per il fatto di andare via da casa mia». Pausa nel nastro: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei aggiungere che avevo scritto una lettera che aggiungo con questa registrazione e vorrei lasciata in pace in futuro. E non essere chiamata da nessuno». Le dichiarazioni rese alla

magistratura vengono sconfessate da quel nastro: la testimone dice di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. La ‘ndragheta? Non ne sa nulla, Maria Concetta vuole essere lasciata in pace. Il 20 agosto va in bagno e ingoia l’acido muriatico. Muore in ospedale. Viene aperta un’inchiesta per “istigazione al suicidio”. Laura Garavini del Pd solleva anche un’interrogazione parlamentare: perché la testimone è stata separata dai figli? Il Servizio di Protezione che opera per il ministero dell’Interno ne era a conoscenza? Dal Governo nessuna risposta. Pochi giorni dopo il suicidio, la famiglia Cacciola presenta un esposto col quale accusa i magistrati di aver convinto la figlia a collaborare con false promesse. La madre di Maria Concetta scrive anche ad un giornale locale: «Al di là del mero dato parentale, né mio marito, né alcun componente del mio nucleo familiare ha mai condiviso vicissitudini giudiziarie ovvero sia pure semplici rapporti di frequentazione criminale con Gregorio Bellocco». Lo scorso 9 febbraio, all’alba, la famiglia Cacciola viene arrestata; secondo la procura di Palmi avrebbe portato la donna a suicidarsi “attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica”. Grazie alle dichiarazioni che la testimone fece alla Dda sono state messe in manette undici persone. Maria Concetta ha scelto il coraggio, come Lea Garafolo, come Tita Buccafusca, come tante altre donne, come tante altre madri. Da quella scelta non si torna indietro. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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>> intervista

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n. Angela Napoli dalla sua relazione sui testimoni di giustizia era emersa la proposta di inserire la figura di uno psicologo che li affiancasse nel loro duro percorso. Se il progetto fosse stato preso in considerazione, i recenti suicidi di Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca, si sarebbero potuti evitare? La figura dello psicologo è indispensabile. Ce ne è qualcuno all’interno del comitato nazionale ma non è idoneo: a nostro avviso, questa figura dovrebbe accompagnare il testimone nella fase pre-iniziale, spiegandogli bene a che cosa va incontro, ma la sua presenza è fondamentale nella fase iniziale. Quando una persona è costretta ad abbandonare i propri parenti, gli amici, la propria abitazione, il proprio lavoro, per andare a vivere in anonimato in zone dove non conosce assolutamente nessuno – senza per altro avere ben chiari i propri diritti – è facile che subentri una situazione di crisi. Crisi, che può sfociare in qualsiasi atto di ribellione, talvolta con gravi conseguenze. Il caso della Cacciola insieme a quello della Buccafusca sono situazioni, a mio avviso, che si sono create non tanto per la mancanza di un aiuto psicologico, piuttosto per una non adeguata protezione da parte dello Stato. Nel momento in cui una donna appartenente ad una famiglia di ‘ndrangheta, intende collaborare e quindi ribellarsi, è chiaro che debba essere tutelata con la massima attenzione. La Cacciola, ad esempio, non aveva con se nemmeno i bambini. Il Servizio di Protezione non le ha permesso di portare i bambini con sé? Non si sa bene se inizialmente ci sia stato un divieto da parte del Servizio. Sta di fatto che la Cacciola ha deciso di ribellarsi proprio per garantire un futuro migliore ai propri figli. Se questi bambini sono poi rimasti in casa dei genitori - arrestati insieme al fratello, perché accusati di averla istigata al suicidio - è chiaro che una donna, che si trovava costantemente minacciata dal marito, che dal carcere continuava a mandarle lettere di minacce, decide di abbandonare il luogo di protezione e tornare dai figli. Le famiglie mafiose considerano la volontà di collaborazione come un oltraggio. Questa poveretta è stata malmenata quotidianamente, pare dallo stesso fratello e dai genitori: è stata evidentemente istigata al suicidio. La cosa prioritaria è quella di

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Angela Napoli: lo Stato non abbandoni le testimoni di giustizia di Michela Mancini

Interventi normativi, sostegno economico e applicazione della legge. Questi alcuni dei provvedimenti urgenti che servirebbero per sostenere le donne che in questi anni stanno prendendo le distanze dalle mafie garantire la sicurezza alle testimoni, ma se queste donne si ribellano per tutelare il futuro dei propri figli, è assurdo allontanarle proprio da loro . Chi crede abbia maggiore responsabilità in questi casi critici? Credo che una grossa responsabilità sia dello Stato: di fatto sono state prese in considerazione queste donne per la loro

volontà di collaborare, i magistrati hanno percepito quello che poteva essere utile in base alle loro dichiarazioni, e poi? Lo Stato non si può creare la verginità dicendo “io le ho dato lo status di testimone di giustizia”: significa abbandonarle. Qui in Calabria avevamo istituito un comitato proprio per queste donne abbandonate a se stesse. Abbiamo organizzato un sitin a Reggio Calabria, e poi siamo state


intervista << Il testimone di giustizia è una risorsa. E' un segnale di cambiamento e lo Stato deve proteggerlo e sostenerlo

ricevute dal prefetto di Reggio, al quale ho consegnato la relazione sui testimoni di giustizia. La stessa, l’ho portata il mese scorso, al ministro Cancellieri, pregandola di dedicarle attenzione. Quella relazione è frutto di un importante lavoro durante il quale noi abbiamo udito diversi testimoni di giustizia. Abbiamo avanzato anche una serie di proposte per affrontare le varie criticità. Alcune di queste avrebbero bisogno di interventi normativi che in Parlamento non si riescono mai a definire. Altre proposte non avrebbero la necessità di modificare l’attuale norma, basterebbe un’attenzione diversa sia da parte del comitato nazionale, sia dallo Stato che dovrebbe intervenire con un’elargizione di finanziamenti ad hoc, che ogni volta vengono meno. Il ministro Cancellieri le ha già dato una risposta? No, non mi ha dato ancora nessuna risposta. Spero che vi dedichi attenzione, perché ci sono molti testimoni che ogni giorni protestano davanti il ministero dell’Interno. La situazione è critica a prescindere che siano uomini o donne. Qual è il messaggio fondamentale che emerge dalla relazione? C’è un punto di estrema importanza: pur essendo diverse le norme che regolano lo status di collaboratore e quello di testimone, di fatto, nella loro attuazione mi sembra ci sia molta più attenzione per i primi rispetto che ai testimoni di giustizia, i quali – a mio avviso – ne meriterebbero di maggiore. Ci spiega bene perché è così importan-

te il ruolo del testimone? Il testimone deve essere considerato come una risorsa nella lotta alla criminalità organizzata, non solo dal punto di vista giudiziario, ma anche e soprattutto da quello sociale e antropologico perché rompe il cerchio dell’omertà . Più che mai in Calabria, proprio per la struttura familiare della ndrangheta, è estremamente difficile sottrarsi all’appartenenza mafiosa. Non è un caso che la ndrangheta abbia pochi collaboratori di giustizia. Nei casi della Cacciola e della Buccafusca, la decisione di ribellarsi acquista un peso enorme, e lo Stato deve garantire la massima protezione. La Cacciola, se fosse rimasta in vita, non avrebbe mai avuto il perdono dei propri familiari. La lettera che la madre scrisse alla “Gazzetta del Sud” è esemplificativa... Una madre che si permette di scrivere quelle cose ad un quotidiano regionale fa capire il forte ruolo che la famiglia acquista nelle dinamiche del suicidio. E la morte causata dall’ aver ingerito acido muriatico ha una forte valenza. È una morte terribile, deve esserci qualcuno che la istiga. La Cacciola e la Buccafusca si sono suicidate nelle stesso modo. Non è un caso. Per tornare alle responsabilità, quale dovrebbe essere il compito dello Stato nella tutela dei testimoni? Spesso il testimone viene considerato un peso, perché bisogna garantirgli tutto quello che gli è dovuto. Lo Stato però non capisce che non considerando il testimone come una risorsa, sottrae al comune cittadino, che dovrebbe seguirne l’esem-

pio, il coraggio di denunciare. Se un testimone è costretto a suicidarsi o ad abbandonare la situazione di protezione perché non si sente sufficientemente protetto, quando ritorna nel luogo d’origine dirà al cittadino “chi te la fa fare a denunciare”. Crede che gli ultimi casi di donne che si sono ribellate alla ‘ndragheta possano essere percepiti come un segnale di cambiamento, un simbolo di rottura delle dinamiche mafiose? Senza dubbio quello che sta accadendo è un segnale positivo, soprattutto perché la reazione sta nascendo dalle donne. La donna appartenente alle famiglie di ndrangheta ha avuto grosse responsabilità nell’incremento delle cosche. Colei che non si ribella adesso ha dei ruoli ben precisi nella cosca, di un certo rilievo. Proprio per questo non posso che recepire positivamente la volontà di reagire di alcune donne che rinunciano ad una situazione di vantaggio per scegliere una vita diversa. In un momento così delicato occorrerebbe una maggiore attenzione da parte dello Stato ... si sa, queste famiglie non accettano e non dimenticano quello che loro considerano un “tradimento”. Il segnale di cambiamento c’è, ma senza le garanzie adeguate non si traduce in nulla. Non passa settimana che non sia destinataria di qualche telefonata di disperazione da parte di un testimone: questo è grave. Chi non conosce il dramma di un testimone non se ne rende conto. Occorrerebbe forse anche cercare di divulgare l’importanza di questa figura, che non solo si trova isolata dagli affetti, ma non trova nemmeno il sostegno della comunità d’appartenenza. Spesso l’isolamento avviene proprio a causa della mancanza di cultura, specie nelle comunità calabresi. Qui chi denuncia non è ben visto. Occorrerebbe cambiare la cultura dei cittadini - e mi dispiace dirlo da calabrese che è sicuramente diversa dalla responsabilità civica della vicina Sicilia. In Calabria manca la cultura che permette di unirsi tutti per contrastare la criminalità organizzata. Questi ultimi episodi, quando sono avvenuti, hanno creato un minimo di partecipazione della società civile, ma all’indomani molti cittadini se ne erano dimenticati. Speriamo che le cose cambino con le nuove generazioni Speriamo anche che il ministro Cancellieri dia un buon segnale di cambiamento da parte delle istituzioni... Io ci spero, anche perché il ministro Cancellieri è una donna. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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>> speciale donne

Angela Donato, dal silenzio alla parola di Michela Mancini

E' la prima collaboratrice di giustizia della 'ndrangheta, Dopo la scomparsa del figlio oltrepassa la linea d'ombra della mafia e racconta il ruolo delle donne nell'organizzazione criminale. Per il delitto di Santino Panzarella tutti assolti i responsabili

L

a chiamano “madre coraggio” perché per dieci lunghi anni non si è rassegnata alla scomparsa del figlio. Si è ribellata alla ndrangheta che l’aveva privata anche di un corpo su cui piangere, diventando così la prima collaboratrice di giustizia della mafia calabrese. La storia di Angela Donato non è solo un racconto di redenzione: la sua è stata

18 verità e giustizia - 10 maggio 2012

una vera e propria battaglia. Angela le regole della ‘ndrangheta le conosceva a fondo, per questo, quando il figlio Santino Panzarella non è più tornato a casa, non si è sorpresa. Santino si era innamorato della donna sbagliata: la moglie di Rocco Anello, il boss della cosca che comanda a Filadelfia, piccolo paesino in provincia di Vibo Valentia. Una colpa imperdonabile in

territori di ‘ndrangheta dove il possesso è certo più forte dell’amore. Angela lo sapeva bene. Era poco più che adolescente quando fuggì da casa del padre, era piena di sogni, si aspettava un futuro limpido. Ma le cose andarono diversamente. Dopo la scomparsa del figlio Angela decide di “parlare”: racconta la sua storia agli uomini della squadra mobile di Catanzaro.


speciale donne << Angela vive una vita spaccata in due, prima il silenzio dell'omertà poi il coraggio della parola

Dalla deposizione si legge: «Agli inizi degli anni sessanta emigrai da Marcellinara a Lamezia Terme dove conobbi il padre dei miei figli Panzarella Sebastiano il quale era un agricoltore che conduceva un fondo a Marina di Acconia. Invero in quegli anni in Lamezia Terme abitavo presso la famiglia Vescio alla quale prestavo i miei servigi in qualità di domestica. Successe che con Vescio Giuseppe, il quale era un appartenente alla Criminalità Organizzata, intrattenni anche un rapporto sentimentale che mi iniziò alla conoscenza dell’allora compagine criminale lametina». Angela fa un salto indietro, la sua vita a ritroso: «Ancor prima alloggiai presso una mia amica il cui compagno era amico della famiglia De Sensi il cui capo, Antonino De Sensi per un certo periodo fu capo dell’intera Criminalità Organizzata lametina. Per suo tramite conobbi tutti i capi dell’epoca dai quali ero visibilmente stimata per le mie capacità e la mia intraprendenza». Ad Angela venne proposto di essere “battezzata” con rito ‘ndranghetistico, così da sancire la definitiva affiliazione al clan. Ma lei rifiuta. «Dissi apertamente che volevo essere amica di tutti ma non volevo alcun vincolo verso una persona o un gruppo in particolare e che avevo lasciato il mio paese di origine per un miglioramento delle mie condizioni di vita che non potevo sicuramente trovare negli obblighi che mi avrebbe comportato l’affiliazione

ad una famiglia mafiosa. Questa mia presa di posizione sebbene apparisse inconsueta fu tenuta in considerazione per la mia risolutezza e fu comunque talmente apprezzata al punto tale che fui comunque considerata una di loro e quindi partecipavo attivamente seppur con ruoli marginali a tutti i discorsi che riguardavano le loro attività delittuose». Fu allora che Angela, appena ventenne, imparò le dinamiche dell’organizzazione criminale più potente del mondo. «Appresi così le regole con le quali la ndrangheta gestisce gli affari delittuosi che a quell’epoca consistevano soprattutto nel contrabbando di tabacchi. In quell’epoca cominciarono anche i sequestri di persona e qualche omicidio». Angela scardina l’immagine consueta delle donne di ndrangheta: appartenere al genere femminile non è un ostacolo per guadagnarsi la stima e la fiducia degli esponenti del clan. Spiega: «Nei miei confronti non vi erano assolutamente delle riserve poiché godevo della loro massima fiducia in quanto avevo più volte dimostrato che sebbene fossi una donna, avevo saputo tener fede ai vincoli di omertà e mi ero messa a disposizione fattivamente per ogni emergenza. Ad esempio quando abitavamo a Curinga vi fu un grosso traffico di sigarette ed ero io stessa mi occupavo dello smistamento in quanto potevo facilmente eludere i controlli delle forze dell’ordine. Un’altra volta addirittura mi trovai ad accompagnare tre evasi.

Avevo avuto modo di dimostrare che non solo avevo coraggio ma ero una persona per loro affidabile. Peraltro in quel periodo abitavo anche vicino al vecchio Tribunale di Lamezia Terme ed avevo modo di seguire costantemente i vari processi e quindi di incontrarmi con tutti. Per un certo periodo addirittura prestai servizio presso la casa dell’allora Procuratore di Lamezia Terme che era di Cosenza». Una vita spaccata in due quella di Angela: il silenzio prima, ovattato e bianco come un cielo prossimo alla pioggia e poi un fiume di parole. Infine il coraggio di una scelta. Angela scopre la relazione di Santino con la moglie di Rocco e cerca di spiegare al figlio il pericolo che sta correndo. Ma Santino non ne vuole sapere, così decide di parlare con lei, la donna del boss. «Le ho raccontato tutta la mia vita, per dimostrarle che conoscevo anch’io le regole, le ho chiesto di risparmiare mio figlio». La donna le promette di lasciare Santino. Promessa mai mantenuta: il ragazzo scompare il 10 luglio del 2002. Angela sa chi sono i responsabili: comincia una ricerca estenuante, si batte durante i processi, affronta quei visi a lei così noti con il coraggio di una leonessa. Durante l’intricata vicenda giudiziaria, dopo le dichiarazioni di un pentito che aveva collaborato all’omicidio di Santino, viene ritrovato l’osso di una clavicola. In un primo momento i periti lo attribuiscono al ragazzo, una seconda perizia ne nega l’appartenenza alla vittima. Angela aveva un solo osso su cui piangere, adesso nemmeno quello. Dei tre imputati per l’omicidio, madre coraggio, non ne vede neppure uno condannato. Ma non si rassegna. Ormai ha oltrepassata la linea. Quando le parole sgorgano e rompono il silenzio diventano azioni. Angela continua a cercare ancora. «Senza l’aiuto di nessuno,continuerò finché avrò vita le ricerche dei resti di mio figlio Santo, visto che i giudici hanno assolto i presunti colpevoli del suo omicidio. Se è necessario ripercorrerò metro per metro tutto il tratto del fiume dove Santo sarebbe stato sepolto, dopo essere stato barbaramente assassinato scavando se necessario anche con le mani». verità e giustizia - 10 maggio 2012

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>> speciale donne

Donne per un'altra Calabria di Anna Foti

Due mesi fa un 8 marzo contro 'ndrangheta e violenza. Una "festa della donna" dedicata alle madri che difendono i figli, mogli e compagne che lottano per la loro libertà e per la giustizia, e ostinatamente non rinunciano ad un futuro di riscatto. Ma ancora in troppe pagano l'assenza dello Stato e il silenzio dei mass media

C

alabresi, guai a voltarsi dall’altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l’immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c’è se non nel panorama. Intanto, tra un mese è l’8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po’ di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest’a nno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla ‘ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere

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da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e grandi gesti quotidiani, che guarisca la Calabria dal male che la devasta e la riscatti agli occhi dei suoi ragazzi e del mondo. Questa la conclusione dell’editoriale con cui Matteo Cosenza, direttore de ‘Il quotidiano della Calabria’, ha inteso invitare i lettori-cittadini a scegliere, a prendere posto non nel pubblico che assiste ma in quello che partecipa, che si indigna, che non dimentica, che sa da che parte stare nella battaglia quotidiana per la legalità, per la giustizia e la libertà dalla ndrangheta. Una battaglia che non è solo della Calabria, ma della quale certamente in Calabria si disputa una partita fondamentale. L’invito

è stato rivolto legando la giornata dell’Otto marzo all’impegno della memoria di Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola e all’impegno di chi, come Giuseppina Pesce, ha fatto la faticosa scelta di credere nelle Istituzioni piuttosto che nel sistema mafioso di cui il suo cognome è emblema. Una mimosa, una speranza nelle storie di tre donne coraggio calabresi, tre ‘mamme’ per la vita ed il futuro che essa rivendica e, dunque, oltre e fuori i vincoli di sangue e di violenza imposti dalle leggi mafiose. Quello che segue è un puzzle di storie di donne calabresi e non, un contributo al dibattito lanciato da ‘Il Quotidiano della Calabria’ che da settimane registra adesioni ed ospita interventi e servizi, segno di una riflessione


speciale donne <<

Sono tutte donne che hanno scelto la libertà dalla 'ndrangheta, la libertà di essere madri e di credere nella giustizia che la Calabria ha voluto accogliere ed alla quale, attraverso tante sue diversificate espressioni, ha voluto partecipare con pensieri e considerazioni. Anche in Calabria, e per certi versi soprattutto in Calabria, si consumano storie singolari di donne comuni: madri che difendono i figli, persone che lottano per la loro libertà e per la giustizia, che ostinatamente non rinunciano ad un futuro di riscatto. Tutto ciò è segno di un tempo carico di sofferenze e di contraddizioni che, non caso, da rosa, troppo spesso, diventa rosso sangue. Appare così ineluttabile il destino di chi matura la difficile scelta di rompere gli argini, di ribellarsi ad un cielo di cui si fa parte ma dal quale si è stati arbitrariamente esclusi. Come una mina vagante è colei che pone disordine dove regna ordine da altri stabilito. Se, infatti, è una donna a volere scrivere il proprio destino, madre di figli per i quali si trova la forza di scardinare per ricostruire e ricominciare per poi essere vulnerabili e soggette a pressioni, allora questa scelta è ancora più difficile ed è causa ancora più dolore. Ed

è allora che per alcune donne l’a cido ha iniziato a logorare, prima l’a nimo del corpo. Ha logorato e consumato dentro, prima di agire fuori e uccidere. Donne suicidatesi, esasperate e disperate, questa la cronaca ma la loro storia è in realtà molto più profonda e complessa. Donne tradite, lasciate sole, che si sentono sole, che non hanno intravisto alcuna via di uscita, cui non è stata lasciata aperta alcuna porta verso la luce. Donne capaci, prima del coraggio di spezzare le catene di un’oppressione, della ndrangheta e di credere nello Stato, e poi di un gesto disperato, forse suscitato. Donne che hanno compiuto la coraggiosa scelta di cambiare il proprio destino asfissiante, avvinghiato al malaffare, all’omertà e alla violenza, per scegliere la verità, la luce, la libertà di donne e di madri di figli con il preciso intento di creare per gli stessi un avvenire degno di questo nome. Un coraggio che nasce e muore giovane. E’ la storia di Maria Concetta Cacciola, 31 anni di Rosarno nel reggino, cugina della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, anche lei ma-

dre combattuta, pentita di ndrangheta, la prima di un clan potente come quello dei Pesce di Rosarno. Ma è anche la storia di Tita Buccafusca, 38 anni di Vibo Valentia. L’a cido ha corroso anche il corpo di Lea Garofalo, crotonese ma uccisa nel milanese, madre di Denise. Tutte donne che hanno scelto la libertà dalla ndrangheta, la libertà di essere madri e quindi di credere nella giustizia, di scegliere un altro destino, di rischiare tutto ma per la difesa dei figli piuttosto che per l’appartenenza alla famiglia di ‘ndrangheta. Un filo drammatico lega queste storie di ribellione alla ‘ndrangheta, necessaria, essenziale e imprescindibile, all’impegno necessario ed imprescindibile di Istituzioni e Cittadinanza. Necessario per Giuseppina, come per tutte le altre donne che tradiscono l’omertà della ndrangheta e spezzano le catene dei pregiudizi. Una battaglia corale come avrebbe dovuto essere quella per salvare Tita, Maria Concetta e Lea. Ma per queste donne l’abbiamo persa, forse, certamente colpevolmente, ancora prima di combatterla. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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>> i media ne parlano

Lea Garofalo: una storia ancora da raccontare di Norma Ferrara

C'è un caso di cronaca nera che è sfuggito alle regole del mestiere giornalistico. È quello dell'omicidio della testimone di giustizia uccisa a Milano. Abbiamo chiesto perchè a due cronisti ospiti del Festival di giornalismo di Perugia. Emma D’Aquino, Tg1: «Abbiamo sbagliato a non seguire questo caso»

L

a location è quella del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. L’occasione è offerta dal dibattito intitolato “La vedo "nera": quando il crimine domina in tv” in programma sabato 28 aprile. A parlare di cronaca nera, tv e audience dal direttoredell’Osservatorio di Pavia, Antonio Nizzoli,i giornalisti: Remo Croci di Mediaset, Emma D'Aquino del Tg1, Hada Messia della CNN, Roberto Tallei di Sky Tg24, Patricia Thomas di Associated Press Television News. I programmi di approfondimento, l'informazione televisiva italiana dedicano ampio spazio ai casi di cronaca nera, molto più che nel resto d'Europa e negli altri Paesi occidentali. Un dato ampiamente documentato dall’analisi annuale fatta dal Centro Europeo di studi sulla sicurezza in

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collaborazione con la Fondazione Unipolis, su monitoraggio e analisi dell’Osservatorio di Pavia. Grafici, immagini e servizi tv scorrono sullo schermo della sala Lippi – Unicredit di Perugia e viste tutte insieme le storie di Sarah Scazzi, Meredith kercher, Melania Rea, Samuele il piccolo bambino di Cogne, sono un pugno allo stomaco per la tragicità e per la “spettacolarizzazione” che la tv è riuscita a fare di ciascuno di questi e altri casi. Lo vuole il pubblico! È quello che ripetono in coro coloro che comandano nelle stanze dei bottoni, soprattutto tv e giornali. E sarà che gli italiani sono più “guardoni” del resto degli europei poiché le tv nostrane ospitano un numero di ore di programmazione dedicata alla cronaca nera che non ha eguali in altri paesi europei. E’ colpa dell’auditel! dicono altri. E sarà

che l’infotainment la fa da padrona e si sposa bene con i talk show del pomeriggio e con le “storie” da cronaca nera, misteri, delitti irrisolti, spesso consumati dentro le mura di casa. Tutto questo s’incrocia con i famosi criteri di notiziabilità e il primo su tutti: bad news is good news! Parlano con sincerità Emma D’Aquino e Remo Croci i due inviati di punta di Rai e Mediaset di questi ultimi anni, spiegano le “routines produttive” del loro mestiere, parlano di alcune delle storie che hanno seguito, con le due colleghe della CNN e Associated Press, evidenziano le difficoltà di relazione con le forze dell’ordine, segreto istruttorio, confine fra notizia e indagini giudiziarie. Per due ore di dibattito, moderati da Roberto Tallei della All news di Murdoch, i giornalisti D’Aquino e Croci ci spiegano che “fra le


i media ne parlano << Emma D'Aquino: «Non ci siamo occupati della storia di Lea Garofalo se non il giorno della sentenza. E' una colpa non aver seguito questo caso»

notizie di omicidi, sono gli omicidi interni alla famiglia a fare più notizia”, spessissimo “sono donne”, spesso le modalità “efferate” del delitto contribuiscono a incuriosire il telespettatore, e altre informazioni simili che in qualche modo descrivono il loro mestiere “compresso” e delimitato da queste regole, che a volte arrivano dall’alto (i direttori, i capo redattori) altre dal “basso” l’audience, il telespettatore. Il giornalista di Sky Tallei rivela che spesso i direttori sui casi più noti chiedono pezzi anche se non c’è alcuna novità/notizia e i giornalisti devono trovare comunque modo di confezionarla, in quel caso i pezzi si chiamano “di mantenimento”. Mantengono l’audience, la suspense e chissà cos’altro. L’occasione è di quelle da non perdere: un recente fatto di cronaca, l’omicidio di Lea Garofalo è sfuggito alle ferree regole del mestiere. Così pensiamo di farci spiegare il perché direttamente dagli interessati. «Nel 2009 a Milano viene uccisa una donna, il suo nome è Lea Garofalo, il suo corpo sciolto nell’acido. Da poco un tribunale condanna il marito e altri imputati per quel delitto. Dal 2009 ad oggi per Lea non ci sono stati gli spazi di approfondimento televisivo riservato ad altri “efferati” delitti, non ci sono

stati i cosiddetti “pezzi di mantenimento”. Eppure questa storia ha tutte le caratteristiche della notizia di cronaca, semmai ne ha anche di più: è un caso di cronaca nera che coinvolge una donna, dentro un sistema familiare, c’è un efferato delitto (corpo persino sciolto nell’acido), il movente è la testimonianza resa dalla donna ai magistrati su fatti di ‘ndrangheta (sebbene il delitto non abbia ancora l’aggravante mafiosa per un cavillo giuridico) e l’uccisione con modalità mafiose non a Reggio Calabria ma nella centralissima Milano, c’era persino da raccontare anche l’avanzata della mafie al Nord. Eppure non è bastato: cosa è mancato a questa storia perché trovasse diritto di cittadinanza nei vostri Tg o nelle trasmissioni di approfondimento - chiediamo? «E' vero – risponde l'inviata della prima Rete Rai, Emma D'Aquino, abbiamo fatto due soli pezzi per il Tg1 in occasione della sentenza, non ne abbiamo parlato nel corso degli anni, era una storia complicata, c'era la sorella.... Francamente non so darti una risposta, i Tg sono brevi, abbiamo tante notizie ma è stata una colpa non raccontarla». Alla risposta della collega si unisce il commento del giornalista, Remo Croci: «E' una delle tante omissioni che

avvengono quotidianamente, come il caso di Lea Garofalo ce ne son molti altri, anche più tragici che non siamo riusciti a raccontare». Limiti del giornalismo, insomma. Ma la D'Aquino, torna sulla vicenda e chiede: «Io ricevo molte segnalazioni su storie da seguire ma non ne ho ricevute su Lea Garofalo, perchè?». Perchè, sebbene sia utile farlo, dalla prima Rete Rai ci si aspetta che sia la professionalità e il mestiere a far capire che se è notizia ogni dettaglio della vita dell'ormai tristemente famoso “zio Misseri” lo sia anche l'uccisione di una testimone di giustizia (collaboratrice per lo Stato) che viene assassinata non a Reggio Calabria negli anni '80 ma a Milano nel 2009. Un corto circuito insomma non molto chiaro ha portato all'oscuramento (e non è detto che sia stato un male) della vicenda di Lea Garofalo, passata inosservata per i grandi inviati ma molto meno per il web e la società civile (a Milano per la prima volta un gruppo di ragazze delle scuole superiori ha manifestato per una donna che non conoscevano ma per la quale chiedevano giustizia, in tribunale). Omissioni o meno, come spesso accade è l’on line a cogliere i fatti che la tv dimentica e costringerli a parlarne. Com'è accaduto anche al #IJF12. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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Fra gli strumenti che colpiscono la libertà di stampa, insieme con le intimidazioni ai cronisti, c’è l’uso strumentale della legge sulla diffamazione, con esose richieste di risarcimento danni in sede civile, senza alcun rischio per il querelante. Un’arma in grado di annientare iniziative editoriali, scoraggiare e intimidire singoli giornalisti, impedire di far luce su oscure vicende di illegalità e di potere.

Per usufruire di consulenza e di assistenza legale giornalisti e giornaliste possono: Inviare una e-mail all’indirizzo:

sportelloantiquerele. roma@libera.it inserendo in oggetto la specificazione “sportello antiquerele" 26 verità e giustizia - 10 maggio 2012

Per non lasciare soli i cronisti minacciati

che siano in grado di dimostrare la loro buona fede e la loro correttezza, Federazione Nazionale della Stampa, Associazione Stampa Romana, Ordine Nazionale e regionale dei giornalisti, Unione Cronisti Italiani, Libera, Fondazione Libera Informazione, Articolo 21, Osservatorio Ossigeno, Open Society Foundations hanno deciso di costituire uno sportello che si avvale della consulenza di studi legali da tempo impegnati in questa battaglia per la libertà di informazione.

Telefonare al numero :

06/67664896-97


internazionale << Messico, la strage dei giornalisti di Gaetano Liardo

Continua la mattanza nel paese latinoamericano. Nel 2012 sono già quattro gli omicidi che vedono come vittime cronisti, fotoreporter, blogger. Un chiaro segnale da parte dei narcos che non vogliono luci accese sui propri affari illeciti

C

ome definirla se non strage? Giornalisti, fotografi, reporter, blogger, chiunque abbia la possibilità di scrivere o postare qualcosa in Messico è definito come un nemico da abbattere. I narcos vogliono il silenzio, e per ottenerlo uccidono. Quest'anno, secondo i dati dell'International Press Institute (Ipi) sono 4 i giornalisti uccisi in Messico. Nel 2011 sono stati 10, 12 nel 2010, 11 nel 2009. Dal 2006, anno in cui il presidente Felipe Calderon ha dichiarato guerra ai cartelli dei narcotrafficanti, ben 52 giornalisti sono morti. Fatti fuori per imporre il silenzio. Nello stesso periodo, secondo i dati ufficiali del Governo federale sono state uccise in Messico 48.000 persone. Una mattanza. Le colpe ricadono sia sui cartelli dei narcos, che sulle forze di polizia, spesso accusate dai

giornali di essere corrotte e di partecipare al grande banchetto del traffico di stupefacenti. Gli ultimi omicidi sono recenti. Lo scorso tre maggio nello stato di Veracruz sono stati trovati i corpi di Gabriel Huge Cordova, Guillermo Luna Varela e Esteban Rodriguez. Tutti fotografi, Huge si era ritirato dall'attività dopo che i narcos avevano ucciso i reporter con cui collaborava. Con loro è stato trovato il cadavere di Irasema Bacerra, impiegata amministrativa del giornale El Dictamen. Alcuni giorni prima è stata uccisa Regina Martinez, corrispondente dallo stato di Veracruz del giornale Proceso. Soltanto in questo Stato, denunciano i giornalisti della rete Periodistas de a pie, negli ultimi dieci mesi sono stati uccisi 8 giornalisti. Una situazione che mina la stabilità democratica di tutto il Messico. Gli attivisti della rete de Periodistas de a Pie,

animatori di una campagna permanente a tutela dei giornalisti, insieme a numerose associazioni dello stato di Veracruz scrivono in una nota che: «Abbiamo richiamato il governo di Veracruz in reiterate occasioni affinchè implementi le misure di sicurezza al settore giornalistico così come a fare riconoscimenti pubblici sul lavoro che realizza». «Soprattutto – aggiungono gli attivisti – per risolvere le investigazioni dei casi e sanzionare le persone responsabili delle aggressioni. Per questo motivo – sottolineano – insistiamo che le investigazioni siano portate fino alle ultime conseguenze, e si stabiliscano sanzioni adeguate come un messaggio contro l'impunità». Un posizione simile a quella della sezione messicana di Amnesty International che in una nota: «Esprime seria preoccupazione per la sicurezza dei lavoratori dei media nello stato, e fa un richiamo alle autorità statali e federali affinchè forniscano misure di sicurezza efficaci per i giornalisti a rischio e per i loro familiari». Tuttavia Amnesty International va oltre, aggiungendo che: «Gli omicidi di Guillermo Luna, Gabriel Huge, Esteban Rodriguez non sono avvenuti senza preavviso. Secondo le informazioni raccolte da Amnesty International – si legge ancora – i nomi di questi giornalisti, insieme ad altri, sono apparsi in una lista circolata lo scorso anno con una minaccia nei loro confronti. Nonostante fossero informate di questa situazione le autorità statali non presero nessuna misura per assicurare protezione ai giornalisti a rischio, molti dei quali si videro costretti a abbandonare lo stato per motivi di sicurezza». I giornalisti messicani, in questo modo, devono difendersi sia dai narcos che li attaccano perchè cercano di far luce sui loro sporchi affari, che dalle autorità statali, incompetenti, ma spesso anche colluse. Il caso esemplare è quello della giornalista Anabel Hernandez. Ha denunciato in un libro i rapporti tra politici e narcotrafficanti, e per questo ha ricevuto numerose minacce di morte. Da entrambe le parti chiamate in causa. A difesa della Hernandez si è mossa la società civile messicana e anche quella italiana, con un appello internazionale lanciato dall'associazione Libera. Nonostante ciò, la giornalista ha denunciato aggressioni e ripetute irruzioni in casa da parte delle forze di sicurezza con il pretesto di intimorirla. Il Messico continua ad essere uno tra gli stati più pericolosi al mondo dove fare informazione, una situazione che deve necessariamente cambiare per impedire che il paese scivoli verso il collasso. verità e giustizia - 10 maggio 2012

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>> recensione

Storia di ordinaria crudeltà di Gaetano Liardo

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subito a sparare, partecipa agli omicidi come “spalla”, “specchiettista”, infine tocca anche a lui sparare. A deciderlo è Setola, che lo mette alla prova. Il ritratto di Setola è quello di un folle. Un pazzo che decide di fare terra bruciata contro chi, commercianti o semplici cittadini, mette in discussione l’autorità del clan. Un esercizio, questo, fatto con la violenza. ‘O Cecato ordina di sparare, uccidere chi collabora con la giustizia, chi si rifiuta di pagare, chi sta dalla parte sbagliata. Setola spara a volto scoperto, a dimostrazione della sua autorità e della sua impunità. Con lui sparano i ragazzi come Spagnuolo. Sparano e poi si siedono in pizzeria, rimuovendo i volti, le sofferenze di quanti sono caduti sotto i loro colpi. Come se si trattasse di un normalissimo lavoro fatto da normalissime persone. Si uccide e poi si torna a casa dalla moglie e dai figli, ignari di chi sia il loro marito o il loro padre. Tutto scorre “normalmente” fino all’ultimo, sanguinario delitto. La strage di Castel Volturno che provoca la dura e ferma reazione dello Stato. Spagnuolo, e con lui i suoi amici saranno arrestati dalle forze dell’ordine. Rischia l’ergastolo, decide di collaborare, rompendo il vincolo mafioso che lo lega a Setola e ai casalesi. Grazie alle sue dichiarazioni, ritenute attendibili dai magistrati della Dda di Napoli, viene smantellato il gruppo di fuoco dei setoliani, e lo stesso boss, ‘o Cecato, finirà la sua latitanza a Roma. L’inizio di una nuova vita e della consapevolezza di un’esistenza buttata via agli ordini di falsi e vigliacchi uomini d’onore.

CONFESSIONI DI UN KILLER. ORESTE SPAGNUOLO: COSÌ HO IMPARATO A UCCIDERE L’Ancora del Mediterraneo, Trabaseleghe (Pd) 2012 pp. 139, euro 14,50

LIBRI

A leggerlo sembrerebbe un romanzo. La normalità di un killer che uccide perchè glielo chiedono, senza farsi domande o scrupoli. In realtà un romanzo non è. E’ pura e semplice realtà, processualmente provata, quella che Oreste Spagnuolo racconta alla giornalista Daniela De Crescenzo nel libro “Confessioni di un killer”. E’ la sua storia, quella di un normalissimo ragazzo cresciuto a Castel Volturno, figlio di una famiglia di lavoratori, che entra a far parte del “Sistema”. Una vicenda normale, come tantissime altre. Il giovane Oreste decide che non vuole seguire l’esempio dei genitori. Il lavoro non fa per lui, così sceglie la via più breve e facile per arricchirsi. Inizia con le rapine alle villette degli extra-comunitari, scegliendo le abitazioni delle prostitute e poi delle “madames” nigeriane, dove sono raccolti i proventi dello sfruttamento sessuale. In breve tempo viene “scelto” dagli sherpa casalesi per far parte del clan. Lavorerà con Peppe Setola, ‘o Cecato, il boss sanguinario colpevole di numerosi delitti, per ultimo la strage degli immigrati a Castel Volturno. Sei vittime innocenti uccise per dare l’esempio a tutta la comunità. La vita di Spagnuolo, raccontata in prima persona dal killer poi diventato collaboratore di giustizia, è disarmante. La scelta di far parte del clan, anche se con guadagni inferiori che nel precedente lavoro, lo porta ad ottenere onori e considerazione. Frutto del timore di tanti cittadini di finire nei guai per uno sgarbo, o un comportamento frainteso. Spagnuolo non inizia


Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera Informazione Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie

Direttore responsabile: Santo Della Volpe

Sede legale via IV Novembre, 98 - 00187 Roma tel. 06.67.66.48.97 www.liberainformazione.org

Redazione: Peppe Ruggiero, Antonio Turri, Gaetano Liardo, Norma Ferrara

Coordinatore: Lorenzo Frigerio

Hanno collaborato a questo numero: Marika Demaria, Anna Foti, Rita Mattei, Michela Mancini,Ufficio Stampa di Libera Grafica: Giacomo Governatori

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