Horadicieali

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arturo viale


HO R ADICI ED ALI

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Uno schiavo mi d i s s e : “Bada a quel che desideri, pi c c o l o . Gli dei lo concedono semp r e . ”

C. Pavese - Dialoghi con L e u c o ’

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La casa dei miei l’ho venduta, eppure non me ne sono andato, qualco s a m i ha tenuto qui. A volte scendo al mare dove ero stato un paio di volte co n m i o padre, prima che se ne andasse, e poi con Silvia e Daniela e Miriam e p i ù spesso da solo, a coltivare sogni. Quest’estate ho capito che vado li p e r ch é l’universo che trovo, sul pelo de ll’acqua, tra due f ile di scog li che nasco n o i n pro fondità e salgono f ino al Grammondo, è lo stesso che vedeva mio n o n n o quando andava a raccog liere i ricci e g li anemoni di mare, è lo stesso m o n d o che ha visto ogni occhio dal paleolitico in poi. Non s’indovina la pre s e n z a né di un sentiero, né di un palo della luce; tutto resta alle spalle e dav a n t i c’è solo un disegno di scog li e rimbalzi d’acqua, cor renti che macchi a n o i l celeste e qualche gabbiano di vedetta. E’ il posto dove la realtà si rest r i n ge , compressa dai sogni e si può capire che il silenzio non esiste. E’ un luo g o ch e non si può attraversare, un luogo in cui, cercando, si ar riva. Dif f icile d a qu i spiccare il volo. Mangio qualche patella come in un rito iniziatico, usando un’altra p a t e l l a come coltellino, con due gocce di un limone acerbo r ubato lungo la rian a d e l Butasso.

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Non ci sono né brigantini, né gozzi, né motoscaf i e sono come mio pa d r e e mio nonno, sento g li stessi odori di poseidonia spiaggiata, provo la s t e s s a soddisfazione, ad essere selvatico e felice, a addor mentar mi sullo sc o g l i o . R espiro per primo con ingordigia l’aria che ar riva d’oltre mare sapend o ch e senza aria non c’è vita; si può fare la fame o aspettare un amore, ma ci v u o l e l’aria. E una volta l’anno sento l’odore acre delle barchette di san Gio v a n n i che seccano al sole di giugno. Mi chiamo Ar turo come mio nonno, ma l’ho conosciuto solo in fotog raf ia e n e i racconti della nostra mitologia familiare tramandati davanti alla mari n a . In famig lia avevamo tutti dei nomi con la stessa iniziale, Aldo, Ada, Ange l i n a , Adriano, Andrea e forse era per preservare i ricami che da gener a z i o n i or navano i cor redi di biancheria mai usata. In casa si raccontava una storia di marinai di Camog li, naufragati su un ’ i s o l a vicina a Sant’Elena, quella di Napoleone. Poi sull’atlante avevo sco p e r t o l’isola persa in mezzo ai mari del sud, l’isola di T ristan. Andare a scar r o c c i o a volte è il modo per andare più lontano.

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I camog lini ar rivati sug li scog li erano rimasti una quindicina d’uom i n i , a bordo di un brigantino a palo or mai alla deriva, con la stiva che od o r av a d’incendio, e due di loro avevano fatto il voto di vivere nella ter ra ch e l i avrebbe salvati. Persino un vulcano fumante in m ezzo all’oceano era sembrato un posto s i c u r o . La storia racconta che il brigantino si chiamava Italia. Da questa me m o r i a è nato il mio sogno di vivere su un’isola o almeno su un promontorio, s u u n faro, dove la vita è ridotta ad essere solo vita, dove g li orologi sono inut i l i e i l tempo si misura con le stagioni e con la posta che ar riva ogni tanto dall ’ a l t r a par te del mondo. Forse è così che ho imparato a guardare l’orizzonte per scoprire dove l’ a c qu a si conver te in luce e vor rei almeno avvistare una nave uscire dalla n e b b i a come una chimera e ascoltare una donna che sappia f inalmente chiam a r m i per nome. Il nonno Ar turo, contava che su quell’isola lontana la speranza più for t e e r a il naufragio di qualcuno che si fer masse tra loro. Glielo aveva contato A r t h u r R epetto, nato e cresciuto li.

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E’ una sera dei primi di maggio del quarantaquattro; saranno le o t t o e mezzo di sera. In lontananza i cani smettono ad uno ad uno di abb a i a r e . Nella stanza g rande, all’ultimo piano della casa, l’uomo è nel letto, da p r i m a di Natale, stanco. Gli sono intor no la mog lie ed i f ig li. Il prevosto è a p p e n a uscito dopo averg li dato l’Olio Santo e aver raccomandato a tutti di s t a r e attenti ai bombardamenti. Sulla por ta ha detto a bassa voce di non sce n d e r e ad accompagnarlo, di stare lì ad assistere, che non passerà la notte; lu i l o s a bene, ne ha già visti andarsene così. L’uomo nel letto sembra più vecchio dei suoi cinquanta anni ma com b a t t e ancora, ha la scorza dura. Ne ha passate di peggio da giovane, sul mare . O g n i tanto si riprende e racconta come solo lui sa raccontare: dice che sulla p u n t a di Mor tola c’è un brigantino a tre alberi fer mo nella calma. I suoi g li s t a n n o stretti intor no e contano i sui respiri che stanno f inendo, sono tre me s i ch e g li hanno scoper to qualcosa nella testa, dicono come una massa di sang u e . Sanno che quello che vede, quello che racconta, è sempre più spesso f r u t t o delle allucinazioni e della malattia. La mog lie e i f ig li lo ascoltano e non o s a n o guardare oltre la f inestra; ha sempre raccontato storie di mare e di n av i e

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nei lunghi mesi di navigazione ha imparato che non c’è dif ferenza tra r e a l t à e fantasia se si racconta bene, ma stavolta non si è mosso dal letto, no n p u ò avere visto. Sarà l’ultima allucinazione prima del trapasso. Alla f ine si ar rende con un crampo, un sussulto e g li chiudono g li o c ch i . Allora la mog lie si alza per accostare g li scuri e vede sulla punta di M o r t o l a una leggera scia bianca che dise gna il mare calmo, fer mo che sembra u n l a g o sfumato di tramonto, in una sera di rondini. Potrebbe esserci stato davvero un bastimento a vela che ha appena sa l p a t o , spinto dalla poca aria che si leva a quell’ora da ter ra verso ponente; for s e d a l letto Ar turo avrà visto un rif lesso nel vetro della f inestra aper ta. La s c i a v a ver so Garavano, oltre lo scog lio dell’Isurotu, dietro la villa deg li Hamb u r y e or mai non si potrà più sapere s e la barca c’era o se era il ricordo più fo r t e della sua vita mentre la sua memoria si stava dissolvendo. La luna quasi piena a quell’ora è alta su Sant’Ampelio e non aiuta. La civetta canta sulla pianta d’alloro nel vallone di Cantun. Si comi n c i a a chiamare i parenti più vicini che si passano la voce per le colline o par t o n o a piedi verso le famig lie più lontane, alla luce della lanter na e della luna .

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Del resto nes suno è preso alla sp rovvista dalla notizia e il fatto che sia s a b a t o facilita le cose, l’indomani mattina non c’è da fare il mercato. Sono gente che sa af frontare la vita. Al piano ter ra della casa c’è l’osteria che sarà chiusa f ino al gior n o d e l traspor to. La sala dove nor malmente si balla e si mangia il conig lio c o n l e olive e si gioca a belotta diventerà la sala della veg lia. I primi che ar rivano, aiutano a spostare un po’ di panche e di sedie. D o m a n i metteranno la cassa su un tavolo di legno odorante di bicchieri rovesci a t i . A l centro della sala c’è un mosaico di g ranig lia colorata, colato nel pavime n t o i n seminato genovese come una margherita con sette petali e sopra una lamp a d a a carburo appesa al sof f itto con tre bocce di vetro. Nella sala hanno ballato i mig liori tanghi della Madonna di settembr e e i n collina è diventato un modo di dire, fare due giri sulla margherita. Ancora all’ultima festa della Villa, Ar turo era seduto lì in mezzo a suon a r e l a sua ar monica. E più suonava, più ballavano: e più si scaldavano, più bevevano. Nella g rande sala dell’osteria la veg lia è già cominciata e sono in tanti c o m e

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fosse ancora un festino della Madonna. Sono lì per passare la notte e d i l gior no seguente con la paura che qualche volo di aeroplani sganci qu a l ch e bomba nella zona; e ci sarà presente a tur no qualcuno di tutte le famig li e , f i n o al traspor to nel pomeriggio. Fanno presto a dirsi le solite cose d’occa s i o n e per ché sono gente di poche parole e sanno tutti da tempo senza ess e r s e l o detto, che si sarebbero incontrati cosi intor no alla sua cassa. Quasi s u b i t o cominciano a raccontare, cercando nella memoria quello che hanno fa t t o con Ar turo, quello che g li hanno sentito dire neg li anni. Sono poche le c o s e impor tanti successe e ritrovarle è facile. E la mog lie, è dif f icile chiamarla già vedova, tira fuori g li auguri di Na t a l e ar rivati giusto ieri dall’oceano, come sempre con mesi di ritardo. Si va a pisciare dietro l’ulivo g rande, nella fascia di sopra; la collina è u n o sciame di lucciole. Basta un po’ d’aria da fuori, un bicchiere di vino, un n u o vo ar rivato per la veg lia ed i discorsi cambiano; si ritor na per un attim o a l l a circostanza, al tempo, alla guer ra, a quando ci sarà il traspor to e qua l c u n o spiega che é un cuculo a cantare sull’alloro e che le civette hanno se mp r e por tato bene da mig liaia d’anni.

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Quella volta, dice uno, che Ar turo era tor nato entusiasta con quell’ar m o n i c a che solo lui chiamava giustamente bandoneòn, che adesso resterà app e s a l ì al muro; aveva incontrato un musicista, un cantante che si chiamava C a r l o s Gardel e lo d icevano il re del Tango, che adesso è mor to anche lui e c’ è u n a statua a g randezza naturale sulla sua tomba e la gente g li mette sempr e u n a sigaretta accesa, tra le dita, come se fumasse. Da quella volta g li era venuta la passione per i tanghi argentini, m e n t r e prima aveva sempre suonato solo la cor netta. E qualcuno che aveva navigato anche lui, racconta quando in mezzo a d u n a buriana appendevano dei sacchi pieni d’olio a pr ua in modo che l’olio co l a s s e piano sul mare, rendendolo calm o. E la volta che avevano incontrato le b a l e n e nell’oceano e che non potevano pensare che bestie cosi’ belle, più le g ge r e della schiuma del mare, potessero servire per fare stecche per g li omb r e l l i e g ra sso per ungere g li scarponi. E la storia de i capibara, strani cinghiali che vivono nelle paludi argentin e e l a gente dice che sono pesci perché vivono nell’acqua bassa e quindi si po s s o n o mangiare anche di venerdì ed in quaresima.

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E raccontavano che c’è un f iore in sud America che chiamano amapol a , ch e assomig lia ai nostri papaveri e i contadini ne estraggono l’oppio e ci s o n o piante con fo g lie strane che solo a masticarle non si sente più la fatica . E u n altro immaginava che il nome dell’osteria da Battag lia dove si trovavan o , n o n fosse altro che il ricordo di un brigantino con lo stesso nome su cui A r t u r o aveva navigato nel primo decennio del secolo. E vengono a galla e si mischiano notizie fresche, come l’uccisione del pa r r o c o di Castelvittorio, accusato di farsela con i repubblichini. Siamo all’osteria di Villatella, con un gotto, un conig lio e ravioli a vo l o n t à . E’ gior no di lavoro ma siamo scappati tutti e due. Ci siamo capiti, lo s t i a m o facendo per raccontarci un po’ di vita, smascherati da un bicchiere di nos t r a l e . Di qua dietro si sale e si scende; quando non c’erano le autostrade c’è ch i è diventato ricco sulle montagne di frontiera e chi c’è rimasto sulle mine . Non abbiamo la stessa età, ci travasiamo i ricordi che sono diversi ma d e l l a stessa mena. T ra noi ci sono una guer ra e almeno una generazione. Parliamo delle stesse persone in momenti diversi, di Celè postino di camp a g n a

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che ci lasciava le lettere nel casone più vicino alla strada e che aveva s p e s s o i piedi rotondi dal bere, di Er nè pescatore di nassa e di Br uno che lan c i a i l resag lio alla bocca del vallone e ogni anno deve tog liere un piombo per ch é i l lancio diventa sempre più pesante per i suoi novant’anni. Ma parliamo anche d’anarchia, di Pinelli caduto dalla f inestra e ricor d i a m o insieme, canticchiando un po’ bevuti: “Quella sera a Milano era caldo - Ma che caldo che caldo faceva Brigadiere apra un po’ la f inestra - E ad un tratto Pinelli cascò” E ci viene in mente di Libero e Libereso personaggi mitologici che ab b i a m o conosciuti. E alla f ine dopo un sospiro, quando cominciamo a darci del tu, mi ch i e d e a br uciapelo: “Cos’è che ti fa star bene, felice, in un dato momento?” – “Di p e n d e da come sei fatto dentro”, g li rispondo senza lasciarlo f inire. E lui, che ha già rif lettuto una v ita, aggiunge: “E da chi hai davanti”. Pe n s a a noi due col bicchiere e a quando aveva davanti una donna giovane e profu m a t a , più bella di un quadro.

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Ci siamo incontrati una volta per caso, due mangiapreti in chiesa a ce r c a r e ciò che ci sfugge. Ma non è una chiesa qualsiasi, è il luogo di appariz i o n i e miracoli, è il santuario dei vecchi liguri diventato francese da un se c o l o e mezzo. Una volta ogni tanto mi viene vog lia di passare da li tor nan d o d a Nizza verso le cinque di sera, in gior nate qualsiasi, quando non c’è qua s i p i ù nessuno; i pelleg rini di solito sono mattinieri. Accendo un cero con calma rituale, usando una candela sottile per condiv i d e r e il fuoco con un altro cero già acceso; così i ceri sono tanti e la f iamma è se mp r e la stessa e non si spegne mai. In qualche cappella le suore cantano la liturgia delle ore; cammino nel l ’ a r i a del chiostro che sa di cera calda e cerco segni di miracoli e g razie rice v u t e . Ogni volta scopro par ticolari di brichi e tar tane, e nomi e storie e m a r o s i pieni della stessa schiuma bianca che tanto amo e le storie di tanti r i s a l i t i dall’abisso aiutano la mia consapevolezza a sentirsi più solida, robusta . Mi racconta Alber to che suo nonno mater no era nato a Buenos Aires e tor n a n d o in nave al paese dei suoi, aveva af frontato una g ran buriana. F urono cos t r e t t i ad alleggerir e la nave, buttando in mare via via le cose ritenute supe r f l u e ,

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pacchi, sacchi, bauli. Poi pregarono la Madonna Addolorata di Dolce a c qu a of frendo la vita che stavano rischiando; se adesso me lo racconta è p e r ch é era andata bene. Invece Mingo e Ber to salivano a piedi tutti g li anni ai primi d’agost o a l l a Madonna della neve, nascosta tra una diecina di cipressi e la messa f in i v a i n balli e ciucche sul prato li davanti e ogni anno raccontavano la loro s t o r i a : più di venti anni prima, in guer ra, avevano adocchiato un riparo da us a r e i n cas o di bombardamenti. Ma al momento buono il posto era già occupa t o d a qualcuno che aveva avuto la stessa idea e si erano dovuti sistemare un p o ’ p i ù in la; tor nata la calma avevano scoper to che i due commilitoni che ave v a n o pre so il loro posto erano stati colpiti a mor te dalle bombe. Mio nonno Ar turo invece aveva appeso in casa il dipinto di un briga n t i n o col medag lione della sua fotog raf ia ritoccata a colori, come un ex-voto l a i c o di chi era tor nato a ter ra senza naufragi. Quasi una prova che i suoi v i a g g i erano veri. Il suo santuario era il por to naturale di Beniamin, rifugio di pes c a t o r i stremati e di poeti innamorati.

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Giacò si era presentato alla chiamata militare con dieci gior ni di ri t a r d o , sapeva che sarebbe par tito per l’Albania e la Grecia. Allora si era presentato con i pantaloni di fustagno sporchi di z o l fo e ver derame e d aveva raccontato che loro salivano nelle campagne e n e l l e vigne del F igallo con una mula carica di gallette e vinetta e stavano lo n t a n o da casa anche due settimane e avevano saputo solo per caso da un mula t t i e r e di passaggio che era ar rivata la car tolina di precetto. Anacleto appendeva ag li angoli delle fasce i car toni vuoti dei panettoni M o t t a , che servissero da spaventapasseri e anche per vantarsi con i vicini. Pes tarino, il re della calla bianca, la sera con g li amici andava in fuor i s e r i e al Damilano e lanciavano le monete da cinquecento lire d’argento, quel l e c o n le caravelle, ai camerieri che per guadagnarsele dovevano prenderle a l vo l o col cabarè. Jean lavorava in campagna lungo la strada per il mare e quando i bag n a n t i foresti tor navano dal bagno pomeridiano, capitava che g li chiedessero l ’ o r a ; allora apriva la mano tenendo alzato il medio che facesse ombra sul p a l m o , come fosse una meridiana por tatile e, sbirciando il campanile vicino, d av a i l

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suo orario e stupiva per la precisione dello str umento. R occo sotto il f ico lasciava raf freddare il magag lio nell’ora più calda d’a g o s t o , se passavi ti chiedeva “volete favorire” e intanto scriveva lettere d’ a m o r e sulla car ta della mor tadella. Gal lo di monte andava a caccia e stava in giro per due gior ni tra colle e p a s s i e una volta aveva rifatto tutto il giro al contrario, giaculando, a cer c a r e i documenti che aveva perso nei boschi Oriente al bar maltrattava a bestemmie e male parole sua mog l i e , l a mandava a casa a lavorare, per blagare con g li amici, ma appena entrav a u n rappresentante incravattato la presentava con sussiego “la mia signor a ” Pippo di Dolorata, ha novant’anni, la stessa età che avrebbe mio padr e ch e non c’è più da quaranta. Erano insieme nella foto davanti alla scuola in Via Lascaris, poi coscr i t t i a vent’anni, poi si sono trovati vite diverse. T utte le mattine va a comprare i gior nali che chiama due etti di bu g i e ; e passando vicino al mercato legge i manifesti da mor to, dice che guarda s e c ’ è

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anche il suo. Ghigna pensando che la g ran par te muore ad ottant’anni, ch e d i novantenni non ne muoiono quasi mai, quindi per lui non c’è più perico l o ; m a aggiunge che ci sono troppe vedove, in giro. E ripete spesso da f ilosofo che capita a tutti di morire ma aspettare la m o r t e è d a stupidi. Perciò anche oggi che è mor to uno di novantun anni, g i o c a sull’anno di vita che lo attende ancora. L’altro gior no l’ho incontrato sotto por ta Canarda con un vecchie t t o d i settant’anni che faceva fatica a starg li dietro. Diceva che da lì sono p a s s a t i Napoleone, Carlo quinto e Machiavelli come si legge su un mar mo fatto m u r a r e da sir Hanbur y, ma che lui una lapide col suo nome non la vuole, per ad e s s o . Pippo scherza sui banchi del mercato del venerdì che invadono la s t r a d a davanti a casa sua e dice che un gior no telefonerà per avvisare che c ’ è u n a bomba e vederli tutti scappare di corsa. E uscendo con la mog lie a bra c c e t t o dice che la sua casa è la più bella di Ventimig lia. Ha avuto due cinema e li aveva chiamati Impero ed Europa, in tempi di ve r s i , si capisce dai nomi. Ventimig lia era un prato seminato dal f iume con dav a n t i scog lietti e spiagge selvatiche. C’erano allora anche la fabbrica del ghi a c c i o ,

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la fabbrica della luce, quella delle scarpe, delle gazzose, della liqu i r i z i a . Adesso non c’è più traccia. Adesso case e bingo. Mi chiedevo cosa ci fosse sotto le gonne di Ada. Ogni tanto cercavo d i sorprenderla e curiosare sotto l’orlo di falpalà, senza mai riuscirci. Perch é g l i uomini avess ero i pantaloni e le donne por tassero la sottana era un ar c a n o . Le galline mi avevano confuso l e idee forse perché, come dice il barba , n o n pisciano. I conig li mi chiarirono un po’ la questione. Ma più di tutti il b e c c o , pro fessionista del sesso ad ore, mi svelò def initivamente le cose: i propr i e t a r i di capre della vallata le por tavano nella stalla del barba passando dav a n t i a cas a mia e tor navano a ripren derle il gior no dopo conf idando nell’a r r i vo pro ssimo di un capretto; lo facevamo anche noi con le nostre capre e c o s ì imparai come nasce la vita. La stanza dove sono nato, dove è mor ta mia nonna, era uno stanzon e c o n le volte alte che f inivano in falsi capitelli di stucco ed una riga di lam b r i s . Quando pa’ e ma’ si erano sposati, avevano fatto dividere la stanza co n u n a tramezzata alta quasi tre metri ed un passaggio senza por ta, chiuso so l o c o n

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una tenda. Sopra, f in verso la volta, passavano luci e r umori. Da una p a r t e dor mivano loro, dall’altra la nonna. Poi la nonna se n’era andata che ave vo sei anni, ed io dor mivo da solo al suo posto, nel lettone alto da una pia z z a e mezza, in lamiera dipinta di f iori primaverili. Ogni tanto di notte mi sveg liavo che facevano l’amore; ascoltavo in si l e n z i o g li approcci, i rif iuti, i cedimenti e poi il cigolio del letto; qualche vo l t a accendevo la luce sveg liandomi di soprassalto forse perché r ussavano fo r t e oppure erano sul più bello. E mi è rimasta un’idea dell’amore com e u n a violazione, un possesso, un desiderio di mor te, una fatica, mentre av r e i voluto che fo sse dolcezza, leggerezza, abbandono. Ecco perché spesso a n ch e solo l’ombra di una donna per me può bastare. E ricordo un compagno di banco, ripetente, alla ricerca di scoper t e s u l vocabolario, che non avendo trovato f ica aveva esultato alla parola “f i c c a r e - spingere, fare entrare dentro a forza”. Così era iniziata la sua educa z i o n e sentimentale. Adesso aspetto una che non si of fenda se le dirò che è sempre la stessa d o n n a che ho cercato; e che capisca quello che le sto raccontando.

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Credevo di aver conosciuto pe r tempo la mor te. Nella mia mente c ’ è l a cas sa della nonna quando ar rivano Pin Mamante e Spaggiari e Caram e l l o e cominciano a saldare lo zinco. In quel momento non capivo cer to la mor t e , m a vedevo con paura il fuoco vicino al viso della nonna che dor miva. E poi ricordo la cassa di mio padre quando avevo or mai tredici anni, os p i t a t a nella tomba di una famig lia, che non c’erano posti nei colombari. E loro non erano più ricchi com e quando avevano costr uito la tomba, p r i m a della guer ra, e così g li davamo qualcosa, anche verdura della camp a g n a , come fossimo manenti. La domenica andavamo a trovarlo ed era or mai estate e dovevamo spr u z z a r e insetticida e profumo perché la tomba era piena di odore e di moscerin i . E i padroni d ella tomba si lamentavano e non si sapeva cosa fare. Quando un paio d’anni dopo avevamo f inalmente fatto la traslazione i n u n loculo che si era liberato, il cop erchio della cassa era gonf io e si capiv a ch e l’odore era venuto da li. Oggi, dopo g li anni delle sicurezze, tanti dubbi mi sono tor nati e a volte a n ch e la reincar nazione mi sembra una buona illusione per passare meg lio i g i o r n i ,

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e la cremazione mi attrae come un sogno di leggerezza. Per me solo non temo, ma appena mi sento amato, mi pesa la responsa b i l i t à di un abbandono fatale e mi cres ce una strana cura per la salute, l’atten z i o n e per dove mettere i piedi. A volte mi piace entrare in un camposanto pieno di sole e penso che p e r i r us si e g li ing lesi sepolti nel vecchio cimitero di Mentone anche la loro t o m b a sia stata un sogno realizzato. Ai miei compleanni invitavo sempre Marilena e la nonna invece della t o r t a dolce ci faceva la pisciadela con le candeline. Dol ci non se ne usava, a par te il castagnaccio d’inver no, quando la stu fa e r a accesa. Cubaite e castagnole erano roba di città, di lusso. La pisciadela e Marilena erano rimasti due ricordi infantili spariti p r e s t o dalla mia vita. Più g rande avevo scoper to che la pisciadela cambiava n o m e lun go la Via Aurelia, passando da un paese all’altro, da un for no all’al t r o , s i chiamava pisciarà, sardenaira. Si aggiungeva l’origano, si tog lieva la ci p o l l a , si immaginavano discendenze storiche da Andrea Doria.

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Un sabato mattina di un paio d’anni fa vado a Mentone e faccio un g i r o a l mercato, e un’emozione mi entra dag li occhi. Sul cantone ci sono due t a rg h e e una dice che qui la Tavina vendeva fr utta e verdura e la Tatoune ha ve n d u t o la pichade dal 1917 al 1970. Abbasso g li occhi e trovo la pichadella d i m i a nonna che mangiavo con Marilena il gior no del mio compleanno. Marilena l’ho trovata vicino R oma, con tre f ig li g randi e una vita vissu t a c o n un’altra luce. Adesso so dov’è, ma non le ho scritto o telefonato. Forse qu a n d o f inirò di scrivere, le manderò questa storia. Col maestro R enzo avevamo lavorato la sera a copiare in bella i qua d e r n i della nonna, ad interpretare la scrittura e aggiungere note. Avvolge v a i l lampadario con un fog lio di gior nale f issato con le mollette da bucat o , ch e la luce cadesse proprio sulla vecchia lettera 32 Olivetti per vederci me g l i o e facevamo tardi aiutandoci col rossese di Canun. Quel sabato pomeriggio alle cinque pioveva. La saletta dell’archivio di s t a t o sembrava an cora più piccola e più piena. I quader ni scritti dalla non n a a i tempi della g uer ra (43-45) eran o diventati un libro di storia locale.

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L’indomani s fog lio il decimonono come faccio da quando avevo dieci a n n i e con cinquanta lire compravo il gior nale ed un gelato di vanig lia. C’è l’ar t i c o l o di presentazione del diario di un’ostessa Ventimig liese e di tag lio ba s s o l e estrazioni del lotto. Sulla r uota di Genova sono usciti i tre numeri i n f i l a quarantatré, quarantaquattro, quarantacinque. La nonna era già mor ta da vent’anni, il cuore stanco non aveva rett o ; m a quasi cer tam ente quel sabato era stata lì con noi. Spesso i segni sono più pieni del la realtà e le cose possono essere vere ch e l o si creda o no. Ho sempre saputo che la benedizione delle palme e deg li u l i v i , passa i sette colli e raggiunge ovunque tutti g li ulivi. Lo diceva chi vo l e v a tenere in casa il rametto d’ulivo benedetto senza farsi vedere davant i a l l a chiesa in processione. Ma quasi cer tamente ci sono altre cose che ar r i v a n o anche più lontane, ci sono tanti modi per comunicare e non li conos c i a m o ancora tutti. Non vado più al cimitero dai miei da tempo, ma mi piace en t r a r e in un cimitero francese piantato in un bosco di macchia mediter ranea, r o s s o di corbezzoli, odoroso di pini parasole; e ogni tanto tirare fuori quei qua d e r n i , quei ritag li di gior nale.

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Ci sono echi di memoria e luoghi e persone che non riesco più a sovrap p o r r e alla realtà di adesso, piazze che sono diventate piazzette senza che le c a s e intor no si siano spostate di un dito. Sembra l’ef fetto ottico di uno zoo m o d i un punto di vista che si è spostato, crescendo. Nena aveva un negozietto di verdura in piazzetta Morosini. Sulla destra d e l l a piazza c’era un edif icio con travi di legno ed archetti gotici che era s t a t o forse un ospedale. Nell’angolo c’era la bottega con una por ta che Nena a p r i v a con orari casuali, solo dopo aver raccolto in giro per le campagne un p o ’ d i bietole, insalata, cavoli. E f inita la merce, chiudeva f ino al gior no dopo. Fo r s e era abituata così dai tempi di guer ra quando la verdura c’era solo s e n o n c’erano stati bombardamenti. Qualcosa è rimasta seminata nel la mente ma quasi non me n’accorgo. Le u o v a si vendono ancora a mezza dozzina e le olive si misurano a quar te. Qua l c u n o pro va a misurare a palmi con un gesto istintivo. Da qualche anno s e n t o riparlare di bar rique e il vino francese è spesso bar riquato ma da bambi n o m i raccontavano di un contenuto più f isiologico. In dote valevano di più le fa s c e olivate, ora contano quelle pian e coper te di ser re. Le sveg lie non hann o p i ù

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le lancette e non fanno tic tac, le car riole non sono più di legno, si bu c a n o , fanno la r uggine. C’era una villa chiamata il giardino forse perché c’era la sorgente d’ a c qu a più fresca di tutta la collina come fosse il giardino dell’Eden, c’er a u n a cas a rotta, c’era la cor riera che scendeva da Mor tola con sopra Lored a n a e quando la vedevo alla fer mata, cor revo per incontrarla sulla strada g r a n d e , due chilometri più in giù come fosse l’acqua di un f iume. Poi qualcosa d i t u t t o questo ha smesso di accadere. Miriam la desideravamo tutti e la vog lia saliva mentre si avvicinava l a f i n e della sua per manenza al mare. Le avevo raccontato la mia vita, le avevo scritto il mio desiderio, l’ ave vo guardata a lungo con occhi parlanti. Avevo scattato delle foto cercando di mettere a fuoco g li occhi e sfuoc a r e i l mondo intor no, ed ero corso da un amico fotog rafo a sviluppare, ing ra n d i r e , stampare il suo sguardo ed il suo sor riso. Come un primitivo cercavo d i por tarle via con l’immagine anche il cuore, l’essenza.

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La memoria, aiutata dalle emozioni, aveva già f issato tutto almeno pe r u n a vita. Avevamo ascoltato un concer to da angoli diversi dello stesso p r a t o , intensamente vicini nell’aria te nera di un dopocena, come cantava Ba g l i o n i in quell’istante immenso. Poi era ar rivato velocemente l’indimenticabile settembre dai tramonti v i o l a . Ancora adesso dopo vent’anni le rarissime volte che ci vediamo, in mezz o a l l a gente, le nostre mani si cercano, si riconoscono e tremano e sento il pr o f u m o della vita. E’ l’unico incontro dal quale non sono mai uscito. Forse è lei quella ch e s i sveg lia con me al mattino davanti al sole che rinasce. T ra ginestre e f ichi d’india e un boschetto di lentisco che odora di cal d o , c i sono tre palmi di ter ra giusto per appoggiare i nostri piedi, su cui ci s i a m o abbracciati davanti al tramonto e abbiamo ridotto la distanza tra i n o s t r i corpi. E’ li che tor no a cercare la sorgente delle emozioni e dei presagi come fo s s e una fonte Castalia.

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Irene non era nata all’improvviso tanto che non posso ricordare un p r i m o incontro, un primo sguardo. Era una storia fr utto della capacità di ascol t a r l a , di lasciarla raccontare. E c’era stato un momento in cui Irene aveva c a p i t o di aver raccontato troppo, che non eravamo più due persone qualsias i . C o l tempo, incontrandoci in mezzo ag li altri, avevo imparato a leggere dei s e g n i che mi facevano sentire felice, senza sapere se fossero segni reali o i n ve c e il fr utto dell’adattamento della realtà ai miei desideri. E intanto invad e vo l a sua vita di gesti e pensieri come fosse me stesso. Il passare del tempo senza che ci fossimo persi pur tra tanti nuovi ost a c o l i , era rassicurante. Lei non aveva mai avuto una parola o un gesto impegn a t i vo ; dovevo capire da ciò che non diceva, una sfumatura della voce, una pos i z i o n e del corpo. Non si era mai negata, sottratta , non si era mai voluta o potuta dare. A volte disegnava soluzioni, possibilità; ascoltava i miei sogni, ricorda n d o s i sempre di raccontare che Lei ne aveva almeno un paio che non e r a n o compatibili con i miei. Forse era solo una mia invenzione, un’ecc e s s i v a capacità che avevo sviluppato, di vedere le cose che volevo attraverso l e c o s e

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esistenti. Forse signif ica che tutto è dentro ogni cosa e dipende solo d a ch i guarda mettere più o meno a fuoco, aumentare o diminuire la profond i t à d i campo, l’ing randimento, per vedere o non vedere i par ticolari. Che g li anni passassero non mi spaventava: era tempo speso dietro a d u n desiderio, dunque ne valeva la pena. Dilatavo così il piacere che altri br u c i a n o in un attimo. E poi non c’è altro modo per uscire da un desiderio: o realiz z a r l o o spremerlo f ino all’ultima goccia, prima di buttarlo f inalmente via. Il lagaccio è fer mo e g li uchin muovendosi disegnano scie in ogni dire z i o n e seg uendo in liber tà il sof f io del loro vento. Le anatre mandarine imme rg o n o il collo f ino a sembrare boe di piume. I lunghi piumazzi delle canne do p o u n inver no più freddo dei soliti, suonano d’aria. C’era chi, sciamano di camp a g n a , pre vedeva la durata dell’inver no dalla lunghezza dei piumazzi. Il mare lievita e f iorisce di schiuma odorosa, a guardarlo dal f iume s e m b r a più alto, com e fossimo in Olanda. Il libeccio si vede ar rivare ancora più for te, al largo. Le alghe f iniscono s u l l a riva e ammucchiandosi cambiano di colore; sembrano fog lie d’autunno, s u b i t o

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ancora verdastre e poi sempre più rossicce e lucenti. Sug li scog li le pat e l l e s i tengono for te. Oggi c’è l’orchestra con tutti g li elementi, che accorda la ritmica az z u r r a delle onde con organi eolici di scog lio e gabbiani che svisano con la vo c e . S’intuisce l’orgog lio deg li scog l i di costa verso le pietre di cava por t a t e a difesa ar tif iciale dell’arenile. Il mare salta per ar rivare a toccare i gab b i a n i almeno con la schiuma. Senza accostare conchig lie all’orecchio, il m a r e suona. L’aria foschina al largo. Il sole candeggia di luce le creste del mare. T ra poco la musica diventer à u n a serenata. Almeno questo abbiamo condiviso: una delle cose più belle è e s s e r e soli su una spiaggia ventosa fuori stagione. Alle sette del mattino la luna c’era ancora. Era un f ilo, un segno di le g ge r a matita rosa, rotonda per fetta. La luna più sottile che io non abbia mai v i s t o . Poi è uscito il sole rosso e le ha cambiato un po’ il colore. Ho continu a t o a f issarla f inché ad un cer to punto è evaporata proprio sopra al camp a n i l e di Cervo e mi è sembrato di sentire una musica d’archi già conosciuta n e l l e

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sere d’estate, una ciaccona barocca che dalla chiesa dei corallini si alla rgav a ver so il mare. Subito dopo è iniziato il desiderio della prossima luna, qu e l l a par te di bello che viene dalle attese, dag li spazi tra le colonne, dai s i l e n z i tra le note. E ho cercato solchi fer tili e profondi in cui seminare, coltiv a r e i l giardino dell’eden, prof ittando della luna buona. Vog lio essere il tuo prossimo amore come fosse una vocazione, senza s a p e r e se ne hai uno adesso, quale sarà il percorso da fare per incontrar ti; s e n z a conoscere il tempo d’attesa, la durata, il f inale. Vog lio un altro a m o r e intenso. Colei che mi ha detto che vivo d’attesa, è stata per tante st a g i o n i una sorpresa stupenda, toccata con mano, sotto lo spettacolo del cielo. M a l e mani sono poco adatte a catturare il vento. Non aspetto che T u passi da qui, cammino, incrocio sentieri, assaggio s a l i t e e discese; come un rabdomante del cuore vengo verso di te. Sei già i l m i o pro ssimo amore; ho già raccolto le violette per te. Ho radici ed ali. Non ho imparato a tenere bene la penna, a masticare lentamente, ad asc o l t a r e chi sta parlando, a conoscere i colori.

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Uso delle approssimazioni, dei soprannomi; non sono cer to del conf ine t r a i l rosa ed il viola, tra il verde e l’azzur ro. Conosco il colore delle canne secche, il colore delle susine non ancora to c c a t e dalla mano, i f iori d’oleandro selvatico di f iume, di mimosa, di vale r i a n a rossa, di giaggiolo, g licine, aloe, convolvolo. Conosco il rosso d’uovo che somig lia al sole, quello dei merelli selvati c i e i l rosso fulgente del papavero che in dialetto chiamiamo baciadonna. Penso così mentre cammino in collina verso Pietralunga e nessuno sa d o ve cercar mi adesso; è una sensazione di liber tà come se fossi fuggito al t r o ve . Invece in basso si sente l’autostrada rotolante. I f iori gialli, i primi a maturare quando la primavera ar riva, cominciano o r m a i ad imbr unire. Scoppiano f iori blu di burage, un po’ più chiari di rosm a r i n o , malve viola, strelitzie arancioni, e un arcobaleno d’anemoni coltivati. L’acqua cade nelle vasche di chi ha il tur no della fontana, il polline d ’ u l i vo impolvera le rocche di ter re bianche. Chi mi incontra saluta e ris p o n d o in dialetto p er dare dei segnali di uno che conosce le piante, le piet r e , l e abitudini e cerco di far mi riconoscere: “bona”, “bona”.

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Poi incontro Mara, sessantenne mai cresciuta che aveva studiato in Ger m a n i a ad imparare la lingua per spedire i f iori ma è rimasta a dar da mangiar e a l l e galline. Sogn i sbiaditi, memoria slavata. E mentre i primi rospi cominc i a n o a cantare, mi por to via g li odori d i ginestra e lavanda distillati dal sole e t a n t i pensieri blu. Il mio primo lavoro pagato l’ho fatto qui tra murag liette a s e c c o , bagnavo un giardino di un architetto milanese, d’estate durante le va c a n z e da scuola. E’ meg lio che tor ni verso casa, le rondini la sera mi fanno tristezza, f i n d a quando le ritag liavamo nel car toncino nero lucido, per incollarle sui ve t r i delle f inestre. Da questa spiaggia si ar riva, si par te, si aspetta il tramonto. Gesti ed em o z i o n i diverse. Eppure la spiaggia è la stessa. Pensavo questo l’altro gior no per capire il sugo che mi da questa riva e d i l modo con cui guardo l’orizzonte. Ho scelto di non entrare mai in acqua, c o m e se fosse un modo per evitare le tempeste, e di usare tutti i miei sen s i p e r guardare, ascoltare, annusare; e più sensi uso, più mi sento felice.

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Il mare a volte sembra in salita, a volte piatto da camminare sulle co r r e n t i senza fatica, seguendone i perc orsi frattali. Più mi por ta via, più rim a n g o . For tuna che il mare non ha alberi, cespug li, sassi, inciampi, solo uno s t r a t o cremoso di celeste e sopra voli d’uccelli. E ogni tanto le onde imitano i vo l i dei gabbiani ed i gabbiani imitano il bianco delle onde. Il colore del mare non è nella sostanza del mare. Più scuro è il fondo p i ù i l mare è blu; se il fondale è sabbioso il mare sbiadisce celeste. E la luce da s o p r a rif l ette rimbalza, sembra uscire dall’acqua. Insomma il blu del mare è l a s u a cos a più bella e non esiste, è un sogno, un abbag lio; come la felicità di p e n d e da ciò che crediamo, da punti d i vista, da percorsi. Forse i marinai st a n ch i dopo gior ni di nave sognano qua lsiasi cosa che f inalmente non sia blu. L’orizzonte anche restando qui fer mo, cambia continuamente, appaion o n av i e isole lampi e nuvole che bevono nel mare. L’orizzonte è un f ilo che T u p u o i tirare dall’al tro capo per far mi sentire che ci sei. E verso sera la luce rif lessa dag li specchi d’acqua, disegna ombre si m i l i a quelle della l uce bianca della luna. L’acqua che distorce di più le immag i n i , è quella più trasparente.

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Un mezzo bicchiere può dissetare molto più di una bottig lia, dipende d a l l a sete. Antipolis è una città favolosa dove le mani si attraggono si tocca n o , s i sf iorano, si annusano. Antipolis è in mezzo al mare nel punto più vic i n o a l sole. Antipolis è di roccia dura. I gatti aspettano la notte per camminare s u g l i scog li dove a r riva la marea, e la luna si ritira a notte fonda. Se due son o qu i e si parlano dovrebbero f inire per capirsi. Ma quando si lascia la città ogni legame si af f ievolisce, svanisce la mem o r i a , i colori sbiadiscono, la mano si raf fredda, si perde la scia d’ogni ess e n z a ; vengono mille pensieri non detti, come succede spesso quando or m a i s i stanno scendendo le scale di casa. Sul lo stretto di Corinto, Rion e Antirion sono da sempre l’una di f r o n t e all’altra; alla stessa maniera ho cominciato a guardare Antipolis a p p e n a nato, come uno specchio che rif lette o una f inestra che si apre. Somig l i a a d un miraggio nel deser to o all’illusione d’acqua sull’asfalto d’estate; è s e mp r e li v icina e sempre si ritrae.

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Antipolis appare da lontano, sci vola sul mare, al tramonto si avvicina m a a l risveg lio sva pora come presenza vana. E’ il faro che salva, è la Madonna invocata nelle bur rasche. Se rie s c i a d ar rivarci ogni cosa accade e se ci por ti una donna, inizia la magia. Il Sole scende a spegnersi nel mare lì davanti e disegna un f iume di luc e f i n o ai T uoi piedi. Dalla Sua par te il sole vede il luccicare dei T uoi occhi rag g i a r e f ino a lui, come un palindromo di luce. E Picasso dal suo castello, g u a r d a sor nione promettendo ai suoi accoliti, nuovi periodi rosa. Ad Ant i p o l i s , tuttora, chi vuol capire capisce. Antipolis è per sempre. La cosa che mi piaceva di più da bambino era quel caldo nel letto al ris ve g l i o da una notte in cui avevo dor mito bene. Già allora lo chiamavo caldo an i m a l e per distinguerlo dal caldo atmosferico, afoso, insoppor tabile, che d’ e s t a t e non lasciava dor mire. La temperatura probabilmente era la stessa e non so bene che co s a m i rendesse il primo caldo piacevole, come fosse un caldo interiore, e d i l secondo insoppor tabile. Questa sensazione infantile l’ho sempre ass o c i a t a

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alla felicità. Così una gior nata f iniamo a casa mia, faccio cena, accen d o l e candele e g li incensi, stappo un teroldego, apro il cuore. Poi si va nel lettone e riprovo nell’abbraccio, senza cercare altri piac e r i , l o stesso calore animale e la coscienza abbandona lo spazio al bambino fe l i c e . E quando dopo qualche minuto mi sveg lio, so di aver provato il massimo d e l l a felicità, l’intenso, lo stato fetale, la semplicità. E in quello stesso quar to d’ora Lei decide che tra noi è f inita. Si sente ign o r a t a e lo nasconde, of fesa. Invece è il catalizzatore, il lievito, la favilla da c u i s i sprigiona il c alore. Sarebbe bello se le emozioni e i pensieri si trasmette s s e r o semplicemen te toccandosi, unendo le mani. Oggi i gabbiani hanno fatto gior n ata. Un libeccio, leggero, educato, li ha t e n u t i in aria senza bisogno di un colpo d’ala, più morbidi delle fog lie. Ogni tanto ne indovinavo il loro volo dall’ombra che passava veloce sull’a c qu a , ed ho fatto gior nata anch’io restando a guardare la luce abbarbag liant e . Cercherò di amar ti come amo il mare, senza toccar ti, snif ferò il tuo pro f u m o , ti vedrò brillare, brinderemo con la luce; guardando Te e il mare per o r e , m i

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espongo alla felicità come mi espongo al sole. Solo qualche rara notte di s t e l l e con un galetto di luna pudica, mi sorprende di più. Posso stare tutta la vita a guardare il cielo, il fuoco, il mare e non li vedr ò m a i due volte uguali. Le montagne, indif ferenti, mi mettono tristezza. Come un morbido prisma d’acqua, il mare divide la luce, cambia i co l o r i , i rif l essi, occhieggia, sor ride. E’ li che mi dimentico, incantato dalla sp i a g g i a che aspetta il mare per rifarsi una vita. Ho passato le ore a cercare di cog liere il momento in cui l’acqua di ve n t a schiuma lasciandosi por tare dal vento f ino alla f ine, ma restando se mp r e acqua di mar e, ed ho pensato che in fondo è quello che vor rei succedes s e c o n chi amo, essere una sola cosa che si mostra in due modi. Un bicchiere di m a r e , staccato dal mare, tor na ad essere niente. E anche ade sso mentre il sole ha già cominciato a chiudere i suoi r a g g i per poter scollinare, i gabbiani restano su come fanno i bambini d’e s t a t e nell’acqua mentre la mamma chiama con l’asciugamani in mano.

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Scena quasi per fetta; tra le nuvole, la luna come un buco nel cielo da cui s p i a r e l’inf inito, cigni sul mare veloci, pescatori di gianchetti, sole sulla T urb i a . L e ombre lunghe, sono più decise. Alberi ancora senza fog lie, gente anco r a c o l cappotto in attesa di pensare alla primavera promessa. Gior nata da be r e . M i guardo le ma ni, ansiose. Stasera Mor tola sarà come Argenteuil. Qui ho letto i mig liori libri. Gabbiani indaf farati, ridipingono il cielo. I l s o l e , ancora bianc o, comincia a maturare; sarà giallo st’estate. Il nuovo profumo del mare sale dai prati di posidonia in f iore. Riman e qu e l piccolo mal di gola fr utto dell’aria di una gior nata già battezzata ad ogni c o s t o come estiva. Il vento fa il suo lavoro di mischiare odori, suoni e seme n z e . I f iori di ginestra selvatica aspettano il momento in cui decideranno di f i o r i r e tutti insieme. A seconda di

come ti giri cambia l’accordo del vento n e l l e

orecchie, la luce bordeggiando veleggia lontana, il cielo g rigio nasconde i l f i l o che tiene i gabbiani sospesi, immobili. Da lassù guardano il mio Eden m e n t r e continua il suono bianco, ostinato della risacca da libeccio. Domani ci sa r à u n g ra n raccolto di vetrini di mare.

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Le gocce cadono sul lastrico facendo campanelli e l’odore di pioggia evap o r a t a sulla ter ra calda mi fa sentire come da bambino; i gabbiani giocano c o n l e pozzanghere del cielo. Cerco l’a rcobaleno con cui prevedere come and r a n n o le stagioni ed i raccolti: tanto vino, tanta polenta, tante castagne. Ci sono altri odori nella mia memoria, come quello dolciastro del s a n g u e lasciato dai g raf f i dei roveti, raccog liendo le more, quello della calce ba g n a t a per dare il bianco e l’odore delle fog lie di pomodoro sotto il sole d’ago s t o , e quello delle galline libere nel cor tile, quello delle fog lie d’acanto tag li a t e d i fresco. Intanto le gocce d’acqua stanno appollaiate sui f ili della luce f ino a dive n t a r e troppo g randi per restare in equilibrio. E comincio a camminare per prendere la pioggia sul viso, carezze nat u r a l i . Ascolto i suoni cambiare, cor ti ovattati morbidi, senza profondità. Le gocce adesso più rade, cadendo sulle pozzanghere disegnano c e r ch i per fetti che neanche Giotto e mi liberano i pensieri. Colei che amo, sa che non la disturbo, non la sollecito, tento un sogno g ra t u i t o . Vive la sua vita, ci passiamo i segnali della nostra esistenza, come attrave r s o

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un morbido vetro sur realista. Una gior nata come questa sarebbe tristis s i m a , g rigia; ma il cuore si solleva, vola. E sono poche le cose che potrebbero d a r m i la stessa calda durevole sensazione. E’ bastato vederci ieri per dieci mi n u t i e sono passati f iumi di gioia Ci sono piante che vivono d’aria, di sabbia, di sale, orchidee, stelle alpin e . C h i mi attribuisce una vita vir tuale, non sa capire. Il suono della pioggia quando cade sulla ghiaia, sug li scog li, sul mare , s u g l i alberi, sulle pozzanghere è lo stesso da quando cielo e ter ra furono div i s i . E da piccolo nei gior ni di pioggia recitavo un mio lamento che mi fa c e v a star bene e il piacere veniva dall’ascoltare il mio stesso suono. Solo do p o h o scoper to che ci sono cantilene rituali, recitazioni ed il suono occulto d i O M . E’ in gior nate così senza aurora, senza scintille di sole che capisco da c o s a viene il benessere che ho. Il g rigio e la nebbia aumentano la bellezza de l fa r o . Nel mio vaso alchemico distillo la luce che mi da. Bisogna conoscer m i b e n e per capirlo.

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Provo a dir telo ma non m’intendi, la mia ricetta per te non funziona. Ab b i a m o usato lo stes so profumo e mangiato allo stesso desco, ma solo io sono s t a t o felice senza dover f ingere. Anche i millanta gabbiani che abitano il lagaccio volano la stessa aria a d i e c i alate dal mare ma percor rono disegni diversi, imprevedibili. Non ti h o m a i vista vestita di chiaro, non hai mai acceso il nostro cero davanti alla f in e s t r a per ché potessimo trovarci in caso di buio. Ci sono stati momenti che io battezzo felicità, in cui i desideri ult e r i o r i evaporavano al calore della tua presenza ma mi hai riempito soprattut t o c o n l’assenza e l’ attesa. Adesso mi sento ancora in tanti posti diversi, in una casa col camino a c c e s o , in una casa minimalista, su un sentiero d’agavi e scog li, in un abbrac c i o d i pelle nuova, in una veranda da cui si vedono sfumature d’inf inito, i n d u e mani che sf idano g li sguardi circostanti; tutte fonti perenni. Alcuni sono ricordi, altri sono rimasti sogni, eppure mi danno ugual m e n t e luce al cuore, alla mente, alla pelle. La somma di tutto, l’insieme, il tot a l e m i riempie la vita; cresce come un albero, ogni anno con un cerchio conce n t r i c o

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dopo l’altro. E dalla crescita si possono dedur re i segni delle stagioni c a l d e , le gelate, le sciuttine. T i ho sognata, lo sai. E nel sogno mi hai detto che “tutto può succe d e r e ” . “Specialmente con te”, ti ho risposto nel sogno. Dicevano i vecchi che i s o g n i del mattino sono quelli che si avverano. La prossima donna la vor rei che non fumasse, che avesse un giardin o c o n dentro un gatto di nome R omeo che mangia g li avanzi e le labrene e s i fa le unghie su un albero d’ulivo. Vor rei incontrarla su una spiaggia de s e r t a con un libro di Pavese o Biamon ti in mano. Vor rei che non stesse ascol t a n d o musica, ma il suono del vento, che fosse venuta a piedi. Vor rei non cer c a r l a , non metterci impegno, ma solo t rovarla ed essere trovato. Vor rei che Lei fosse sempre ironica e mai cinica, che non mi sprecass e , ch e mi aiutasse ad alzare il cielo. Vor rei che la prossima donna non vendess e m a i la nostra storia in cambio dell’inizio di una storia nuova. Vor rei che sapesse prender mi tutto senza aspettarsi altro; che asco l t a s s e tutto il mio r eper torio, che camminasse con me sug li scog li più aguzzi s u c u i

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camminano g li innamorati; che trovassimo lo stesso passo, la stessa and a t u r a o che fossi io a fare un po’ di fat ica a starle dietro. Vor rei che Lei odorasse d’arancia sbucciata, che por tasse jeans e cam i c i a a quadretti, che fosse disposta ad essere sorpresa, che non avesse nell a v i t a niente di più impor tante. A me qualche volta è capitato. Vor rei sentir mi appagato della sua volontà. Solo un uomo stupido non è a n ch e un po’ donna ; quella che cerco forse sono io. In principio era Kant l’Emanuele, poi Apollo che guida le muse, poi O r fe o l’incantatore che vince le tenebre. E dopo Stravinsky vennero R avel e B i l i t i s ; tutti miti su cui costr uire un’intesa. Quando un incontro diventava amore, una volta dicevano “ si parlano”. E d i o ho sempre aggiunto, chiunque sia stata, che noi “camminiamo”. Ho sco p e r t o cos ì tutti i sentieri di mare. Succede durante il tempo di essere colti dalla sorpresa, dalla distrazio n e . S i viaggia un po’ assenti, assor ti, si cammina f ino a trovarsi all’improvv i s o i n un paesaggio cambiato, altro sole, altra stella polare. Era la f ine d’un a g o s t o

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afoso con le tapparelle abbassate sul nostro pianto. “Sei proprio disp e r a t o “ mi diceva. Non avevo mai pianto prima, né per la nonna, né per mio p a d r e ; imparai che le lacrime danno più confor to delle parole. E venne la spianata di Nauplia che sembrava la rotonda di sant’Ampeli o , c o n dietro le scalinate verso via dritta ed il paese vecchio in una allucina z i o n e visiva come dopo una festa ad E leusi ed un telefono da chiamare semp r e p i ù spesso. Era la vana ricerca di un altro mito, dopo i primi fondanti. Or m a i l e por te di Micene erano state varcate. Da allora, più spesso, ho saputo piangere di gioia, dovevo passare da l a g g i ù per essere qui. E’ così che ho pensato che abbiamo Dei che ci mandano, che non par tiam o m a i da capo, che bisogna solo saper andare. Ho imparato l’alchimia di fondere g li elementi e l’ar te di farli coagul a r e i n uni tà per un po’, ho imparato ad ascoltare la musica terapeutica del ma r e ch e concilia e sciog lie i g r umi, ho trovato consonanze. Ma far mi chiamar e p e r nome è ancora dif f icile.

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Mercoledì di Pasqua, è quasi il plenilunio del mese ebraico di Nisan. A r r i vo da solo che manca qualcosa alle nove, guidando la mia centododici bic o l o r e ; ar rivare in a nticipo è il solo modo che conosco. Faccio un giro con le m a n i i n tasca mentre aspetto g li altri. Saremo una dozzina in tutto, ostentata m e n t e pochi, come quelli che fer mandosi nell’ultimo banco esibiscono la l o r o umiltà. Mi hanno se ntito dire “speriamo che ar rivi”; forse tutti hanno dei d u b b i sul motivo che ci por ta lì e qualcuno li esprime con le lacrime. Lei a r r i v a sull’ottoecinquanta blu che guid a Nini. Il p rete che viene da fuori è salito un attimo a salutare il suo vecchio ves c o vo . C’è chi legge, chi suona: sembra la scena di un teatro Brechtiano e l’emo z i o n e è quella di una prima. Siamo nella chiesa del mio battesimo e della cre s i m a , del funerale della nonna ed ora del nostro matrimonio. Piove come d’ a p r i l e e fa ancora un po’ freddo. Avevamo scelto l’ora perché il sole ent r a s s e per pendicolare dalle vetrate a colorare di giallo l’altare come fosse un d a t o r e di luce. E’ stata la mig lior cosa fatta insieme, un regalo che entrambi ab b i a m o fatto a Nini. A lui piaceva che iniziassimo così “senza rispetto umano”.

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Una sera d’autunno, sono passati anni e persone, cammino eccitato in qu e s t i posti, prima salgo in Peidaigo a vedere il tramonto dietro il Grammon d o p o i scendo e girandomi vedo la luna sul campanile. T ra luna e tramonto, s u u n palcoscenico illuminato con ar te, vor rei riuscire a vedere tutto lo spett a c o l o . Mi sembra di essere nel luogo da cui tutti i punti par tono, esaltato dal ve l o c e cambiamento del cielo. Cerco di travasare la mia emozione mentre il sangue scor re più veloc e . M a questa luna stupenda è solo mia, non condivideremo il prossimo avve n t o . Non so se ho perso prima la speranza o la vog lia, ma so che è stata L e i a tog lier mele. Mi ha svuotato come un crème caramel scavato da piccole cucch i a i a t e frettolose, mi ha asciugato come un mandarino rimasto sull’albero f u o r i stagione. Non sono pentito, sono solo un po’ stanco. La mia vocazione di comunione è stata sconf itta dalla sua cer tezza ch e l e emozioni le prova da sola.

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Quando hai cominciato ad apparire nei miei pensieri come appaiono un s o l e o una luna, non ho cercato di chiudere g li occhi, anzi credo di averli spal a n c a t i un po’ per lo

stupore e molto di più per disponibilità ad accog liere i t u o i

raggi. Ho pensato che fosse inevitabile l’incontro con le mille cose ch e h a i e che non bastano mille donne per metterle insieme tutte e che tu r e s i s t i per ché nessuno ti scopra. Ed ho pensato alla ventura di trovare una cosa senza cercarla, al coragg i o d e l cuore di seguire un’intuizione e sono diventato sempre più curioso di sc o p r i r e sorprese ed emozioni più numerose delle parole che conosco per raccon t a r l e . Un setaccio di nuvole leggere spolverava di luce il mare, il blu disegn av a l e montagne per sette leghe, i nostri pensieri si sf ioravano. Non ti dirò ciò che desidero, altrimenti non si avvera; lo penserò ogni vo l t a che mangerò la prima ciliegia, la prima fragolina di bosco. Non spreche rò questa vita con gof f i tentativi di modellarla, di ren d e r l a simile alle m ie attese. Il senso di questo momento sta in tutta la strad a ch e abbiamo percorso, nella sete che abbiamo avuto, nel blu che abbiamo v i s t o . Conta solamente che almeno per adesso sono qui.

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Amo la principessa cattiva che si ar rende, il semplice che nasconde il b e l l o , il sor riso imper fetto. Amo il miraggio, la scoper ta, l’attesa. Amo le don n e c o l tailleur ed i capelli cor ti. Amo Narciso che ama se stesso. Amo l’impos s i b i l e , l’inar rivabile, l’aquilone che vola solo se è legato al f ilo. Amo l’inn o a l l a gioia, la canzone del diser tore, le tourbillon de la vie. Amo il giardino c o n l e fog lie secche, il f iore poco coltivato, il pistacchio, i marosi. Coltivo la vo g l i a di andare a Samarcanda, a Macondo, nella ter ra promessa. Mi entus i a s m a la scoper ta di luoghi seg reti, nascosti, di idee, pensieri, frasi; le camm i n a t e solitarie, la conoscenza delle pietre su cui appoggiare i piedi. Amo la poesia ignota, i riti, i simboli, i pochi libri; le violette, le lucci o l e , l e per seidi, le fog lie che imparano a volare, il canto delle cicale e delle rane. D e l l a F rancia amo il sauter nes, il per ac, Monet, Ben Vautier. Piuttosto che vo l a r e spero di spic care il volo; amo di più i prossimi cinque minuti che l’ete r n i t à . Mi piacciono g li elenchi, la memoria, il ricordo, le coincidenze, i mo m e n t i condivisi, la comunione dei santi, g li ossimori, le metafore, le parab o l e , i l signif icato delle parole, il travisamento dei signif icati, l’arguzia. E l’ amore provato molto più dell’amore ricevuto, molto più dell’amore d a t o .

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Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi Elenchi


bia Sacro F ior e a r ’A ia A roma di Mirra d G ia o Inson n ia d llo ra Oc r a o d l e Z afferano E il e

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Avorio, Alabastro, Dolomia Ossimoro Affinata, Elegante di Grande Complessità e Struttura Con Sentore d’Amaro Sindrome di Stendhal Austera Aristocratica Stella Cometa


Epidermica Ambigua Profonda Nascosta Muta Ascente Stitica Numero primo Catara Malmostosa Altera Permalosa



Blu pervinca Borragine Issopo Genziana Lavanda Blu Oltremare Cobalto Blu di metilene Lapislazzuli Matisse Yves Klein Le sedie di Nizza Uomini Blu Poltiglia Bordolese Blu tango Blu tango Blu



Sfumatura, Riflesso, Magia, Abbaglio, Barlume, Essenza, Immaginazione, Utopia, Sinestesia, Carezza d’aria, Nebbia, Doppio sogno, Trasparenza, Ologramma, Reveries Doppio sogno, Trasparenza, Ologramma, Reveries Immaginazione, Utopia, Sinestesia, Carezza d’aria, Nebbia, Sfumatura, Riflesso, Magia, Abbaglio, Barlume, Essenza,


In questi anni ho scritto e camminato molte volte. Mi è servito a sentirmi leggero, a scaricare le zavorre consce e inconsce. Adesso mi sono accorto che assieme alle nuove, c’erano ancora alcune vecchie bisacce pesanti ed ho provato ad alleggerire lo spirito in vista del volo libero.


finitodiimpaginareneldicembre2005daR


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