Viteparallele[1]

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ah, zio, zio com’è, com’è spiegami tutto, spiega cos’è e intanto tutto si srotola come di un film la pellicola Lo zio (Paolo Conte, 1982)

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Ed è per voi sfruttati per voi lavoratori che siamo ammanettati al par dei malfattori eppur la nostra idea è solo idea d’amor. Addio a Lugano (Pietro Gori, 1895)

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Le

pietre durano più dei cristiani; ci son pietre che abbiamo calpestate io, mio padre, mio nonno e altri antenati nei tempi dei tempi. E ci sono scogli, passi, fontane, fasce che chiamiamo per nome: Margunaira, Bearetto, Figallo, Sciorba, Butassu, Strafurcu, Caneo, Cereixa, Giardino, Parafauda, Cantapernixe. Questi posti sono più di cinquant’anni che li cammino. Ho cominciato a conoscere le pietre da piccolo, la puddinga che si sgrana sotto i piedi e ritorna ad essere ghiaia e sabbia e le terre limose di argilla come quella con cui un dio fece l’uomo e la pietra arenaria più resistente, da scolpire e le ciappe di ardesia messe in piedi a confine. E poi ho conosciuto i cespugli, quelli robusti, quelli profumati, quelli spinosi, ed i rami a cui attaccarmi: mai al caco o al fico per non cadere di sotto. Camminando ho imparato a conoscere le distanze ed il tempo che ci vuole a percorrerle, come se chilometri ed ore fossero aspetti di un’unità di misura della vita. Per me camminare è il modo migliore per pensare, se sono solo, oppure per raccontare se c’è qualcuna che vuole tenere il mio passo ed ascoltare le mie storie.

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Sarà che comincio ad avere un’età bastarda, che mi sento giovane ma intanto i vecchi davanti a me sono sempre di meno e diventano rari e così voglio farli parlare al più presto, digerire i loro racconti, salvarli, essere io a raccontarli ancora per un po’ di strada. Un padre l’ho avuto per poco, in quella prima dozzina di anni in cui quasi non serviva. Forse lui non aveva granché da raccontare, aveva imparato i silenzi negli aridi campi di prigionia francesi del Magreb; e il resto non era stato memorabile. E così quando ho incontrato un paio di quelli nati nel venti, che hanno aspettato una vita che qualcuno li facesse raccontare, mi sono messo ad ascoltare, curiosare, domandare. Uno, Pierin, è abituato a farsi vedere appena dopo il mezzogiorno al Paris, a prendere l’Aperol, con un po’ d’acqua fresca, senza zucchero sul bordo del bicchiere; il secondo, Elio, è da sempre propenso alla clandestinità, al rifugio, alla riservatezza ed ho dovuto pasturarlo per un po’ prima che abboccasse.


C’è

una casa a Ventimiglia a fianco del mercato tra quelle costruite dai Notari ai tempi degli Hanbury. Lì intorno c’è il Canada, sull’altro cantone il Venti Settembre, poco lontano il Paris. Di fronte c’era il Ligure; al posto dell’Imperiale c’è una banca. E al primo piano ci sono due piccoli appartamenti. Uno è quello che Pierin chiama l’ufficio e gli serve solo per avere un telefono, con cui cerca ancora amici rimasti a vivere in Svizzera o in Argentina o a Montecarlo e insieme si lamentano della vita; l’altro è la tana per svernare di Elio e signora che durante la gran parte dell’anno stanno nella villa dei quattro venti a Perinaldo e scendono in città con la cattiva stagione. Elio e Pierin forse hanno in comune un periodo in cui tanti sulla frontiera facevano contrabbando, finita la guerra. Era roba da poco perché come dice Pierin qui non è mai stato il confine con la Svizzera. Ma Elio ha contrabbandato soprattutto anarchici e compagni e ognuno fa le cose in un modo diverso. Elio mi racconta che anche da ragazzi a Ventimiglia alta abitavano nella stessa scala in via Garibaldi 47 vicino a dove c’era una volta la farmacia e nel vicoletto il pisciatoio. Era una casa nella strada

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centrale del paese, l’unica carrozzabile dove c’erano anche il municipio, l’ospedale, la cattedrale medioevale, i carabinieri, il convento e un paio di osterie; tutto in meno di duecento metri. Elio abitava al terzo piano, Pierin al piano di sopra. Elio dunque conosce Pierin da ottant’anni, ma non ne parla, non è abituato ad esprimere giudizi, dice che sarebbe un compito troppo arduo a cui ha sempre preferito sottrarsi. Aggiunge solo che non ha mai lavorato per Lui, che anzi una volta era stato sul punto ma aveva capito che era troppo attaccato, come una patella a uno scoglio. A lui piaceva aver mano libera, lavorare sulla fiducia. Pierin invece ha un modo personale di giudicare; di uno dice che è torrasco e sostiene che tutti quelli di Torri hanno lo stesso stampo di furbi, travajusi*, ma inconcludenti e di un altro dice che è padano sottintendendo che tutti i padani, quelli della nebbia e delle risaie, sono diffidenti, tirati. E uno dei suoi migliori amici, con alle spalle una vita da romanzo, uno scappato da Sarajevo da ragazzo e vissuto da belva, selvatico e solo, era definito semplicemente giudeo. Il suo giudizio è semplice, per categorie mentali, quello è torrasco, questo padano, l’altro giudeo.


Quando dice di Elio che è anarchico, ha quasi il gusto di un complimento e di un rimpianto. Da ragazzi c’erano state anche altre situazioni ormai sfumate. Qualche volta Elio e la sorella di Pierin si erano incontrati per le scale e forse Elio le aveva lanciato qualche amo. Quella di Elio è una famiglia semplice di gente che lavora e qualche volta lui va alla caserma Vittorio Emanuele II a togliersi un po’ di fame mangiando con i soldati. E così Teresa, incontrata per le scale gli ripete una frase che forse ha sentito in casa: odori di rancio. Per lui è un’offesa. Ma poi Elio trova lavoro in ferrovia, va a sedersi soddisfatto all’osteria dove lavora Teresa e comanda un quartino. E quando lei si avvicina a servirlo, trova il modo per ricordarle che lui è quello che puzza ancora di rancio.

* lavoratori, laboriosi

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Con

gli anni si dorme di meno e Pierin ne ha ottantasette e la sera da un po’ di tempo fa fatica a prendere sonno. E poi c’è quella scena che gli viene in mente tutte le sere. Sono a cena da Tornaghi, il commissario Pavone è passato con la scusa di bere una volta; ha avvertito Marco Bassi che il giorno dopo passerà a prenderlo, arrestarlo, lui e suo padre Ettore. Li avvisa per dar loro l’ultima occasione per fuggire, in un certo senso sono tutti amici, compagni di ribotte. I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia e stavolta dovrebbero scappare loro. Pierin ha capito al volo ed ha subito pensato alle valli di Cuneo, già in mano ai partigiani ed ai contrabbandieri, alla possibile salvezza a Caraglio, a Castelmagno dove conosce molti amici. E’ pronto col tassista Cavallotti per portarli via, padre e figlio. Anche Marco ha capito, ma il padre è già anziano e non vuole lasciarlo solo; la mamma l’hanno già sistemata con l’aiuto dei Notari alla clinica Moro, sulla via Romana. Sono lì e si guardano indecisi; Marco si toglie dal polso l’orologio d’oro di marca e lo offre in ricordo

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a Pierin che tentenna, vuole ancora convincerlo a scappare. Così l’orologio lo prende la Giretto che gestiva il negozio dei Bassi. Quell’orologio gli manca da più di sessant’anni e quel gesto è l’ultimo che gli viene in mente ogni sera prima di addormentarsi. E prendere sonno è sempre più difficile.

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Quando

sono nato si parlava ancora del Pasubio e con memoria più fresca di Giarabub; tutti avevano conosciuto almeno una guerra e molti addirittura due ed essere stati ragazzi del novantanove era un titolo onorifico e dava diritto alla pensione. Scemo di guerra era un modo di dire comune e sulle corriere c’erano posti a sedere riservati per reduci ed invalidi. Qualcuno poteva dire di aver partecipato anche alla guerra di Spagna, magari con l’orgoglio di esser stato dalla parte giusta. In casa mia c’erano i diari di mia nonna Lilla in cui raccontava tutto quello che aveva potuto sapere dal quarantatre al quarantacinque e li leggevo nei giorni di pioggia e facevo domande sui nomi e sui posti. Ma un giorno, non molti anni fa, mi capitò in mano un diario simile a quello della nonna, raccontato dalla parte dei francesi di Garavan e Mentone. Fu così che scoprii che pochi anni prima, dal quaranta al quarantatre, la città di Mentone era stata italiana. A scuola avevo studiato di Nizza e Savoia, di Briga e Tenda ma nessuno neanche in casa mi aveva mai parlato di questi avvenimenti.

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Poi avevo trovato un librino di Calvino, non piĂš ripubblicato, col racconto di una gita degli avanguardisti di Sanremo a Mentone conquistata. CosĂŹ ho cominciato ad interrogare i miei testimoni. Tutto il paese di Mentone era diventato italiano anzi fascista, dalle scritte patriottiche, agli uffici pubblici, alla posta, alle scuole, ai giornali, alla farmacia. E Pierin mi racconta di una ditta italiana che installava serrature nuove, che quelle vecchie erano state fatte saltare tutte per vandalismo al momento dell’invasione. Mi racconta anche di un liceo scientifico aperto apposta per far diplomare i ventimigliesi, e mi fa i nomi di cinque o sei figli di buona famiglia passati con meriti per niente scolastici. Erano trascorsi pochi mesi da quando il centurione di Calvino aveva ammonito gli avanguardisti in visita a Mentone: un giovane che si trova oggi qui, e non porta via niente, è un fesso! Sissignore: un fesso.


Questa

me la raccontava già mia nonna che anzi l’aveva scritta nel suo diario il 15 ottobre del 44. Abbiamo appena finito di desinare che cominciano le scariche di bombe. Vicino a noi ne sono cadute ben bene: una sotto il caco, una nella fascia di Lanfredi e una sotto la nostra topia. La casa del Petaletu è stata circondata da granate: due sono cadute dietro la casa, un’altra di fianco e molte di sotto, dalla Casa del Vescovo, da Botti e da Riva. Una sola è andata a infrangersi ai Calandri e la fatalità ha voluto che vi fossero vittime. Una scheggia ha rovinato un ginocchio a Gustu u Rissu, perderà la gamba. Anche Rieta e Mario dei Carletti, ora ai Calandri perché sfollati, sono stati colpiti: Rieta è ferita alla testa e Mario è grave, proprio sventrato. I feriti sono stati caricati sopra un carro trainato da Elso, Pierin e Giuà u Rissu. E Pierin me la racconta così, con poche parole. Lo abbiamo portato con un tumbarello che di solito lo tirava un cavallo, fino a Ventimiglia alta dove era l’ospedale. Partiti quasi di corsa dai Calandri non abbiamo incontrato nessuno per la strada della Villa. Il dottor Gabetti era appena stato nominato primario. Ha fatto il possibile ma u Rissu se n’è andato per la setticemia. Il racconto da storia diventa presente. è impossibile paragonare lo sforzo di allora col modo di vivere di oggi. Saran-

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no stati quasi quattro chilometri in gran parte in discesa ma era strada sterrata, traversata da fossi, ritani, scavata dai temporali, con le ruote di legno che rotolavano a fatica e bisognava far presto che Gusto non perdesse tutto il sangue dal ginocchio colpito dalla scheggia. Finito il racconto abbiamo il tempo per commentare che era gente che non sapeva rinunciare alla vendemmia, malgrado le bombe. L’altro giorno ho provato a rifare da solo quella strada, a piedi, con le mani in tasca. Ho cercato le case che c’erano già a quei tempi, costruite una stanza alla volta, che si stringono salendo di un piano per star meglio in piedi, tenute insieme dalle chiavi antisismiche. Mi è sembrato un percorso di storie: la casa di Molinari e poi la fontana dei Porri al giardino, dove si saranno fermati a bere un po’ d’acqua e poi il cianetto dai Francescotti, il serro dei Buonsignore, la casa dei Calsamiglia, quella degli Spinei, la torre di porta Canarda, Il Forte, la Colla, l’Ospedale. Ma c’è sempre un altro lato nei racconti di Pierin come quando si ricorda di aver passato la notte con Lidietta nella torre medievale di porta Canarda perchè sotto le cannonate non avevano trovato miglior posto per remisarsi.


Ci

sono storie che bisogna ascoltarle per convincersi che ci sia qualcosa di vero. I racconti di Pierin spesso non sono verificabili, documentabili, potrebbero essere frutto di fantasia o di esperienze di altri. A volte tento di farmi precisare almeno l’anno, la stagione, che tempo facesse, ma alla fine mi arrendo. Conoscendolo da una vita, so che sono storie che gli somigliano, raccontate con la capacità di non farsi coinvolgere troppo dalle cose e dalle persone, con l’abitudine a vederne soprattutto il lato pratico. Con la cinquecento giardinetta a mezzo balestrino pagata 900mila lire era andato fino in Norvegia passando da Basilea. Era il periodo, negli anni dopo la guerra, che trafficava in dollari con un amico giudeo e apolide. Così li raccoglievano ovunque ed era capitato di seguire lo spettacolo Holiday on Ice e le acrobazie sul ghiaccio della pattinatrice Sonia Henie fin lassù in Scandinavia - Si guadagnava un due o tre per cento, racconta, e a volte andavamo a Parigi con una Cadillac targata Svizzera a cambiare dollari e marenghi d’oro. Con un altro giudeo guadagnavano cinquanta dollari ogni chilo d’oro trattato ma alla fine ebbero dei contrasti tra di loro per una questione di donne,

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che Pierin aveva più fascino e il giudeo era geloso. E passa a dirmi di quando con Moris Ergas aveva investito in un film con la Pampanini che non fu mai prodotto, o della volta in cui col camion guidato da Corradi Olimpio portò a Roma un quintale di caffè e fu truffato con un assegno a vuoto, perdette tutto e dovette ricominciare facendosi prestare diecimila lire da sua zia. Racconta anche di un mese a Berlino quando non c’era il muro e del tentativo di aprire un casinò al Cairo con un amico che faceva il croupier al Lido di Venezia: soldi e tempo persi. Una sera che siamo a cena da Romolo, Piero Caramello ci riconosce e si avvicina a salutarci; anche lui ha dei ricordi di Ventimiglia vecchia e i primi giri in macchina da ragazzo li ha fatti sulle macchine di Pierin. E poi proviamo ad elencare le automobili che ha avuto a partire dalla cinquecento giardinetta, a tutte le alfa, alla giulietta coupè e alle ultime jaguar. Ma la lista è troppo lunga. Partì per il Venezuela in nave da Genova che forse era il 1948, in compagnia del torrasco Guglielmi e del maestro Croese, il figlio del sarto che lavorava nell’atrio nella sua stessa scala. Aveva lasciato trecento marenghi d’oro a sua madre prima di


partire e si era portato un po’ di cose da vendere, cravatte in rayon e profumi. Arrivati gli volevano sequestrare tutto ma poi riuscirono a vendere e comprarono due camion ribaltabili residuati americani; ma uno aveva l’albero motore saldato e fu subito fuori uso. Visse un anno in Venezuela; tirò avanti per tre mesi con i soldi guadagnati dalla rivendita di una enciclopedia Treccani comprata da un ingegnere e venduta ad una banca. Laggiù trovarono il banchiere Enrico Galleani, sposatosi in Venezuela, travajusu e giudeo cagato. Ma al ritorno, senza aver fatto fortuna, era il momento di mettersi a fare case come faceva già suo nonno materno Angelo Bono che aveva costruito la villa per le suore di Belvedere e a mezzogiorno sua figlia gli portava da mangiare, a piedi dall’osteria di Ventimiglia vecchia.

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La

prima casa Pierin la costruì in via Vittorio Veneto e l’impresa era quella di Gianromeo De Villa arrivato da poco dal Cadore con tutta la famiglia. Ero in società con Semeria, croupier al casinò di Venezia, il padre di Bruno. Avevo capito che si poteva risparmiare abbassando l’altezza dei piani che allora normalmente era di tre metri. Facendo gli appartamenti alti due e ottanta si risparmiava materiale e si facevano uscire le cantine e i garages. Quasi contemporaneamente con Gastaldi, spedizioniere di fiori, costruivamo le villette del residence Sabbiedoro alle Calandre, dove prima c’erano fasce di rose in pien’aria. Vennero fuori sedici alloggi in quattro casette in cui io vorrei vivere, davanti alla più bella spiaggia naturale del mar Ligure. Glielo dico e quasi combiniamo l’accordo. Mentre racconta lo interrompo continuamente e mi ricordo che a sei anni tornando a piedi da scuola vedevo che stavano facendo gli ultimi ritocchi. Gli appartamenti avevano ognuno un nome scritto sulla facciata e così imparavo i nomi delle città europee: Amsterdam, Den Haag, Rotterdam erano gli appartamenti più vicini alla strada.

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E poi ricordo che il guardiano era Ildo Spinè; e che lui e suo fratello Italo, maestro di scuola, erano noti fascisti e all’osteria si diceva che avessero tentato di trafugare la salma di Mussolini. Da allora di case ne ha fatte millanta, e i due soli ristoranti della zona con la stella Michelin sono in case costruite da lui. Quando torniamo a parlare di vicende di costruttori, davanti a un semifreddo ai bescoteli di Bordighera mi dice semplicemente rana rupta et bos. E ci procura soddisfazione morale ed intellettuale aver condiviso la citazione senza bisogno di ripetere la favola di Fedro, nĂŠ di spiegare di chi stiamo parlando.


In

Venezuela erano andati in nave. Quindici anni dopo per l’Argentina c’erano i Caravelle con due motori a getto in coda. Pierin mi racconta della bella vita, dell’atmosfera, del tango Porteño, degli amici che aveva laggiù, ma anche dei nazisti scappati, dell’ex ministro della Yugoslavia monarchica prima di Tito, rifugiato laggiù, di un mondo che a me sembra un po’ da operetta. Ma poi viene a galla lo scopo dei suoi viaggi. Aveva sentito dire che in Argentina si poteva divorziare, mentre qui c’erano ancora l’indissolubilità del matrimonio ed il reato di adulterio. Siamo all’inizio del sessanta sotto la dittatura militare. Così in Argentina compra un terreno, una casa, tenta di prendere residenza e cittadinanza. Ma col tempo capisce che le cose non sono facili come gli avevano raccontato e che anche gli argentini vanno a divorziare in Uruguay. Resta solo il terreno che poi perderà in una delle tante vicende politiche di quel paese. Così deve aspettare che anche in Italia ci sia la legge sullo scioglimento del matrimonio e mi racconta che il suo fu il primo divorzio in provincia di Imperia. E fa il nome di segretari comunali e giudici

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e avvocati che conosceva e che lo hanno aiutato nell’impresa. Era l’inizio del settantuno. Dell’Argentina gli resta il rimpianto; più volte negli anni mi ha promesso, per avere ancora un sogno, che mi porterà a Buenos Aires, appena se la sente. E alla fine non sono sicuro se gli interessasse di più il divorzio o la bella vita.

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Questa

storia dei tempi di guerra, Elio l’avrà raccontata millanta volte in sessantanni per far capire come la situazione fosse diventata insostenibile per la popolazione che si trovava a dover subire oltre alla dittatura fascista, e all’occupazione tedesca, anche i bombardamenti delle truppe alleate. Qui siamo nel 1944; dai primi giorni di settembre alcune navi americane bombardavano la costa e l’entroterra, la Val Nervia, Perinaldo. Il nostro intento era di muovere verso le navi alleate e spiegare che sulla costa non c’era una linea difensiva di sbarramento tedesco tale da giustificare i ripetuti attacchi navali. L’idea di questa sortita fu mia: il 9 settembre 1944, insieme a Miseria Memmo, classe 1914, marinaio e panettiere e Tacchini Gino, classe 1924, panettiere che lavorava da Curti, organizzammo il piano. Ma Tacchini Gino, non potendo lasciare il posto di lavoro cui era indispensabile, fu poi sostituito da Boscaglia Emani, classe 1925; mi preme però qui ricordarlo, perché pochi giorni dopo questi fatti, Tacchini* fu mitragliato e ucciso dai tedeschi durante un rastrellamento, mentre tentava di fuggire per la traversa che da Via Garibaldi porta a Piazza delle Erbe. Ma ecco i fatti: il pomeriggio del 9 settembre passiamo il posto di blocco a Porta Canarda: io ero esonerato dal servizio militare, in quanto lavoravo nelle

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ferrovie, dove prestavo servizio negli impianti elettrici. Per arrivare a Latte dovemmo attraversare un campo minato, fino a giungere nella proprietà dei Marchesi Orengo. Lì, scesi verso Punta Mortola, ci impossessammo di un loro gozzo e ci mettemmo in mare verso le dieci di sera, col favore delle tenebre. Ben presto dalla postazione tedesca di Latte fummo fatti oggetto di un fuoco di mitraglia, ma essendo la barca di piccole dimensioni, riuscimmo ad allontanarci, anche perché i tedeschi non potevano accendere fari, essendoci l’oscuramento. Da quando eravamo a bordo era il marinaio Miseria che gestiva la situazione. Io venni messo al timone e istruito a tenere la rotta facendo riferimento a due stelle per portarci al largo, mentre gli altri due erano ai remi. All’alba del mattino dopo, verso le sei, un MAS della marina americana ci avvista e si avvicina a noi con varie manovre di accerchiamento per identificarci. Noi intanto avevamo issato una bandiera bianca. Raggiuntici e resisi conto che non avevamo intenzioni ostili ci trasbordarono sulla motovedetta e ci portarono a St. Raphael dove si trovavano le navi. Lì salimmo a bordo della nave ammiraglia, dove venimmo identificati con foto, impronte digitali e generalità. Interrogati, cercammo di spiegare le nostre intenzioni e la situazione della costa. Gli americani ascoltarono il nostro messaggio. Per confermare la nostra credibilità, lavorando io a Bordighera, comunicai che nella galleria di


Capo S. Ampelio era nascosto un treno blindato tedesco. Gli americani per accertarsi di quanto avevo detto la sera dello stesso giorno a bordo di un MAS mi condussero sul mare antistante Bordighera, dove infatti, avendoci scorto, il treno blindato uscì allo scoperto e aprì il fuoco. Tornammo allora a St. Raphael, dove praticamente fummo trattenuti come prigionieri e convogliati a Napoli. Da lì raggiungemmo Aversa e fummo inquadrati nella Quinta Armata, in cui erano riuniti tutti i resti dell’esercito italiano disperso. Nel campo per prima cosa ci fecero spogliare e ci disinfettarono. Poi ci chiesero dove volessimo essere impegnati; potevamo combattere o sul fronte di Monte Cassino o su quello di Bologna. Boscaglia Ernani si arruolò nei bersaglieri; Miseria Memmo in marina; io restai nel campo dove venni ricoverato in infermeria per un sopraggiunto aggravamento del mio stato di salute. Questo campo era in pratica un campo di concentramento, dove noi italiani non eravamo ben considerati, neppure gli stessi ufficiali, dagli alleati americani. Ci davano poca acqua da bere e poco cibo: ricordo che una sera era avanzato del semolino e ci era stato detto che potevamo prenderlo: ci fu una vera e propria ressa, in cui io rimasi calpestato nella calca. Poi si sparse la notizia che sul Mar Baltico gli americani e i russi si scambiavano i prigionieri: io ero di fronte al settore russo (non ho mai capito perché dei russi fossero lì), ma uno

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dei soldati russi non voleva imbarcarsi: fu preso a pugni e calci fino a vomitare sangue. In questo campo io restai tre mesi, per essere poi ricoverato in un ospedale americano vicino e da lÏ infine nell’ospedale dei Miracoli a Napoli, dove restai fin quasi alla Liberazione.

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* Deceduto il 4/12/1944


Mentre

stavo per finire di scrivere queste pagine, verso metà di settembre, sono salito a trovare Elio a Begliun, subito dopo un temporale. Parliamo del più e del meno e poi cerco di chiedergli un paio di precisazioni. Gli chiedo che cosa si fosse portato sul gozzo quella volta, immaginavo avesse almeno una borraccia d’acqua. Allora il racconto riparte da casa con tre o quattro gallette da soldato e qualche pezzo di corda di quelli usati per legare i remi agli scalmi (li chiama strepui, stroppi) e con una rivoltella a tamburo da carabiniere, mai usata, che poi finirà nel mare. A porta Canarda c’era un posto di blocco in un fortino vicino a dove abitava Armando u re di Calandri e passano grazie ad un tesserino di Elio da ferroviere addetto agli impianti elettrici. Poi racconta di Magnani che li fa camminare tra le mine dietro alla villa degli Orengo. Sono già le otto e mezza di sera e fa buio. Elio che è il più piccolo viene fatto salire sul tetto di una baracca e togliendo alcune tegole si lascia cadere direttamente nel gozzo. Apre la porta da dentro ed il resto è facile. Mentre racconta interviene sua moglie Velia e precisa che era di settembre come quello stesso giorno, sessantacinque anni prima.

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Elio racconta di essersi bagnato nel varo del gozzo e di essere rimasto bagnato per tutta la notte, fino all’incontro con i mezzi americani. Era l’aurora precisa, non l’alba. E lui fece una bandiera bianca con la maglietta che si era tenuta bagnata tutta la notte. Miseria che dei tre era il marinaio esperto e aveva il tatuaggio di una pellerossa sul braccio, è per primo a bordo della nave americana salendo la corda. A Perinaldo dicevano già che Elio era morto; a Ventimiglia dicevano che il panettiere Memmo Miseria era andato al mare per prendere acqua salata per impastare il pane, che non aveva più sale, ed era scomparso anche lui. Intanto a St Raphael Elio comincia ad avere dei dubbi, vede montagne di cibo e di ogni ben di dio e pensa che in fondo gli americani volevano quella guerra per poter invadere l’Europa con i loro prodotti. Arrivato poi ad Aversa viene colpito da un grave attacco di emottisi e aggregato assieme ad un gruppo di tedeschi prigionieri. Vive momenti di terrore temendo che scoprano che lui in fondo è un partigiano o comunque un antifascista. Con la sua tessera nera da ferroviere


si spaccia per fascista ed ottiene anche piccoli doni di cibo da parte dei tedeschi che lo vedono malato. Ma poi la situazione ha una svolta, gli americani lo caricano di articoli di conforto e lo lasciano andare a Napoli. Qui il racconto diventa un film. Fa amicizia con un napoletano esperto della vita e scambiano una parte delle saponette e degli spazzolini da denti americani con quattro piatti di fagioli con salciccia. Poi con un braccio fasciato e la faccia da scemo lo porta al cinema. Elio deve solo star zitto, pensa a tutto il compare. E vanno anche a portare via lenzuola da una piazza da un deposito, avvolgendosele intorno alla vita resa sottile dalla fame. Stavolta il racconto finisce così, in ridere, e mi sembra più sciolto, quasi più vero. Ma in pochi minuti è stato lì per piangere più di una volta.

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Verso

la fine del pasto gli chiedo come fossero venuti da Arezzo a Ventimiglia alta. Elio mi racconta senza entusiasmo tra forchettate di fagioli agli aromi e bicchieri di nostrale, che esperti spaccapietre erano venuti a costruire i muraglioni lungo la strada grande, la via Aurelia, fino alla frontiera e poi erano rimasti qui per sempre. E’ una strada che conosco, che ho camminato fin verso i vent’anni tutti i giorni per andare a scuola e la domenica a messa e che anche adesso ogni tanto vado a ripassare perchĂŠ ci sono seminati ricordi, dicerie, primi baci. Mia nonna mi raccontava di spaccapietre, con occhiali fatti di rete metallica per evitare che le scaglie entrassero negli occhi o rompessero le normali lenti di vetro, che spaccavano con punta e mazzetta la ghiaia del mare o del fiume per farne dei mucchi vicino alle case cantoniere da distribuire poi sulla strada che a quei tempi non era ancora asfaltata. Ma la storia dei piccapietra mi era sembrata subito una mezza risposta, buona per continuare a mangiare, sulla quale ritornare al momento buono. Passa meno di un mese ed Elio mi viene a trovare sul lavoro, andiamo a prendere un caffè, parliamo di storie di paese, usucapioni, dispetti, parentele,

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ma poi quando usciamo, in cento metri di marciapiede, mentre ci stiamo già salutando, riesce a confessarsi. Trova l’inizio dicendomi - devi averne passate tante anche tu - e subito attacca a raccontarmi di una volta che avrà avuto sette anni e in famiglia stavano facendo una foto di gruppo e qualcuno aveva detto una frase di quelle che le capisce solo chi ha intuito ed intelligenza. - La mamma la mettiamo lì a fianco di papà e dietro gli zii, i figli davanti, non troppo vicino che vi coprite, un po’ più stretti che non ci state tutti, e il bastardo dove lo mettiamo? - Lui, che ha due sorelle, aveva ascoltato e cominciato a pensare, ed erano passati anni. Dopo il soggiorno ad Aversa e all’ospedale di Napoli cominciò a risalire verso casa. Arezzo era quasi sulla strada e meritava una deviazione. Conosceva l’indirizzo di una zia. Le chiese con decisione se avesse qualcosa da dirgli. Alla fine gli rivelò un nome e un indirizzo. Andò a suonare a quella porta e venne una donna di casa ad aprire. Disse: sono Elio e voglio parlare col capofamiglia. Rimasero due mesi insieme, poi tornò dalla mamma a Ventimiglia e da quello che per vent’anni aveva creduto che fosse suo padre e che come padre rimase per sempre. Mamma Francesca gli chiese se fosse passato di laggiù. Lui annui e non ne parlarono mai più.


Il

Morbillo l’ho fatto durante le vacanze di Natale a dieci anni. Il giorno prima ero stato tutto il pomeriggio sulla giostra dei calcinculo ed avevo preso freddo. Al mattino mi sono svegliato con la febbre e all’improvviso ho scoperto quelle macchie su tutto il corpo. Allora ho riconosciuto il morbillo di cui mi avevano parlato e che mi avevano promesso come un passaggio per crescere e sono corso subito a letto che le macchie, come raccomandavano in casa, non mi andassero dentro, nelle vie respiratorie, per incuria. Rimasi in casa per tutte le feste, attento ai giornali, alla radio, alle chiacchiere. Due stanze più in là c’era l’osteria e un giorno, dopo capodanno, arrivò un vicino che aveva sentito di un ragazzo caduto al Passo della Morte. Passavano anche da noi ogni tanto per arrivare verso San Lorenzo, Villatella e fare l’ultima salita verso il Cornà e la Francia. Questo ragazzo toscano di poco più di vent’anni era volato nel vuoto. L’aveva trovato, già in Francia, uno che portava il cane nel suo giardino, al mattino presto. Il valico in dialetto si chiama passu d’a Trumba, come una tromba di scale, un vuoto profondo,

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uno strapiombo di sessanta metri in cui sono caduti piÚ di cento clandestini proprio dove ormai il cammino è in discesa e i cippi di confine sono stati superati. Elio mi racconta di Mamino che abitava nel Borgo. Era un randagio, un bastonato. Non usa però la parola cane che chiunque metterebbe con questi aggettivi. Dice che faceva il contrabbando con borse di paglia, non aveva neanche un sacco di tela da patate. E una mattina Elio incontra uno che chiamavano il bandito, che gli dice che Mamino è rimasto al passo della morte. Raccontando mi spiega che su quel sentiero non si poteva andare con scarpe con le stringhe, altrimenti si rischiava di inciampare, di rimanere impigliati senza avere neanche lo spazio per chinarsi. Quando sono potuti andare a riprenderlo un paio di giorni dopo, ufficialmente, col preposto, era mezzo mangiato dalle formiche.


Ci

vediamo un sabato a mezzogiorno all’osteria di San Martino. Elio lo conoscono anche lì. Ho un mucchio di domande da fargli ma c’è anche Velia, sua moglie. Mi stupisce la paura che hanno di raccontare cose di cinquanta anni prima. Hanno dato da mangiare a spagnoli che tornavano a casa per combattere il franchismo e gli hanno lavato i soli vestiti che avevano, li hanno fatti dormire nel loro letto, li hanno portati in Francia per sentieri da cacciatori e cinghiali. Allora avevano coraggio, adesso Velia* lo frena nel racconto. Ma lui aggiunge di quello spagnolo antifranchista di cui sapevano solo che si chiamava Alberto, e che lavando i suoi pantaloni avevano trovato una fialetta di cianuro nella tasca. Tempi duri in cui avevano imparato a tacere. Stiamo insieme mezzo pomeriggio e spesso abbiamo la bocca piena di ravioli o coniglio; ci aiutiamo con vino bianco del posto. Ma parliamo anche di tante storie. Io prendo qualche appunto su un quaderno blu, come faceva Francesco Biamonti, mi dice l’ostessa. La più bella storia è quella del maestro Salvatico, a cui Elio era rimasto legato anche perché finite le elementari gli aveva pagato l’iscrizione all’avvia-

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mento. Ricorda l’ultima volta che si sono visti una domenica pomeriggio alla stazione di Ventimiglia; si era fatto beccare con una sigaretta in mano e il maestro lo rimproverava ancora t’on vistu; a t’on ditu che nu ti devi fumà. Aveva forse quattordici anni. Stava andando a lavorare a cottimo per la ditta Gaggero e Falco in un cantiere dietro Genova. Era con uno dei fratelli Farisano, costruivano la caserma di Bolzaneto. Rimango un attimo senza fiato, non so come chiederglielo. La rabbia per quello che è successo a Genova nel 2001 è ancora forte. La caserma è proprio quella e speriamo che resti nella memoria di tutti a lungo. Dormivano e mangiavano lì, sul posto di lavoro e avevano anche fatto una specie di sciopero lamentandosi per quello che gli davano da mangiare. A Bolzaneto ho imparato a rubare, mi racconta, e sento che fa ancora fatica ad ammettere. Ma precisa che rubava alla mensa, per la fame. Gli aveva insegnato Giovanni Rastello, raccomandandogli di prendere solo il necessario. C’era uno che era capace ad aprire i lucchetti della dispensa e prendevano un po’ di fagioli e pomodori. Rastello sarebbe morto da partigiano qualche anno dopo, il 24 ottobre del 44. E mi stupisco di come fa-


cessero allora ad avere questo tipo di informazioni in mezzo alla guerra. Ma il discorso torna alla scuola e a quando qualcuno aveva scritto sulla lavagna Viva l’Anarchia. E non si era scoperto chi fosse stato ma per Elio era quel Franceschi arrivato da poco anche lui da Arezzo. Adesso che si sono rincontrati a ottantanni, ne è certo. Poi mi recita a memoria due versi di una poesia che aveva studiato: Cuor di madre è d’ogni Dio più forte. Capisco che per lui è un ricordo importante ma lascio perdere, non so cosa dirgli. Tornato a casa trovo la poesia La madre del Pascoli e quando qualche giorno dopo gli porto il testo intero, gli vengono le lacrime agli occhi e mi spiega, adesso che ha più di ottant’anni, che era molto legato a sua madre e che niente è stato più importante di Lei. Sapeva di essere stato un figlio desiderato. E il suo soprannome era semplicemente Elio di Francesca. Quel giorno all’osteria di san Martino, mentre stiamo bevendo lo scolo della bottiglia e Velia è già in piedi, mi viene da chiedergli come si sono sposati e lui, come se si sentisse scoperto in una sua contraddizione, mi dice soltanto in chiesa, quasi sessanta anni fa di pomeriggio. E intuisco da un gesto

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della mano che il discorso è chiuso. Sei mesi dopo lo trovo preoccupato per cosa potrebbe succedere al suo funerale; lui che ha sempre cercato l’ombra, il silenzio, la clandestinità, non vuole cerimonie, bande, cortei. Lo ascolto, gli dico che l’importante è come si vive, che verrà un giorno che saremo morti tutti. Faccio fatica a capire la sua preoccupazione per quando non ci sarà più. Poi camminando verso casa, la sera, sulla spiaggia verso Nervia, metto insieme i pezzi del discorso e capisco che non vuole per la seconda volta finire nel lavoro di un prete contro la sua volontà**.

* Che tutti chiamano Lilia, ma io continuo a scrivere Velia come risulta all’anagrafe perchè sono stati molto simili anche nel nome.

** Elio si è spento il 22 ottobre del 2009. Come lui desiderava il funerale si è svolto in forma civile nel cimitero di Perinaldo.


In

corriera Tumeta ed Elio stanno salendo a Perinaldo. Nessuno dei due ha mai avuto la macchina. Il parroco, don Cassini detto Tumeta, è di ritorno dal mercato dove ha seguito il suo manente per controllarne meglio gli incassi. Me lo ricordo magro, piccolo, con la lunga veste da prete e la fila di trentatre bottoni come si usava allora, fare il gesto di rigirarsi il dito nel colletto. Ma c’è chi assicura che si vestisse anche in borghese e che avesse sempre un cambio d’abiti in un bar del centro, prima di ogni scorribanda francese. E ancora adesso sono in tanti a raccontare che un tale di un paesino in val Bevera sia suo figlio. Ma era un uomo più complesso che giocava a carte all’osteria col dottor Gibelli e quando era canonico primicerio aveva la casa piena di quadri di Garini ma brontolava che poi il pittore col prezzo dei quadri si inciuccasse ed andasse a donne. Quella volta in corriera sta leggendo il breviario. Elio nel sedile dietro legge i suoi libri. Leggi un po’ questo gli dice con aria di sfida e gli passa il Nuovo Vespro di Paolo Schicchi. Il parroco sfoglia curioso e poi restituisce con un gesto in punta di dita che Elio ancora ripete, come di chi non vuole sporcarsi le mani.

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Se Elio racconta di Tumeta vuol dire che un po’ in fondo gli piaceva. Come quando lo aveva sentito dire, dovreste apprezzare la fatica che faccio a farvi credere in ciò che io stesso non credo. Ma tante altre cose non è mai riuscito a mandarle giù. Elio parla più volentieri di quella bollata* di ragazzi che andavano da lui nella casa di Begliun per mangiare, bere, discutere e leggere qualche giornale o libro, quasi fosse una scuola di formazione civica e politica. E c’era chi non gradiva e la chiamava la casa dei Monsoni e chi con maggior sensibilità aveva detto non ho mai visto case così aperte. E una volta il sindaco Milio, per imbragarlo, stufo di questa autonomia, gli aveva addirittura offerto il posto da segretario del PCI del paese. Allora non hai capito, pensa Elio, ma non glielo dice subito. Maria, la moglie del sindaco, ha fatto lo stoccafisso ed in casa hanno sempre del vino buono: così Elio accetta l’invito a cena ma alla fine rifiuta l’incarico. Allora per evitare che nel paese soprannominato Stalingrado, crescessero idee fuori dal coro, il sindaco aveva chiesto aiuto giù a Ventimiglia se si potesse togliergli d’intorno quel rompiscatole. Il compagno incaricato della missione trova Elio che lavora di cazzuola e pennello al negozio della Nanda Tessitore, lo invita al caffè e subito gli spiattella


tutto - cosa hai fatto a Perinaldo - gli chiede. Non farmi perdere tempo che sto lavorando e dobbiamo finire, risponde Elio. E si ricordò di Cesarino che gli aveva riportato una frase che nemmeno lui aveva capito - bisognerebbe che ci togliessimo dai piedi il pittore maledetto -. Ma Elio mi confessa un rimpianto. Quando Fiore dei Murin era ricoverato al san Martino a Genova e lui andava a trovarlo, al piano di sopra c’era il sindaco Milio che era tosto alla fine; tutte le volte pensava di passare a salutarlo ma non è mai riuscito a salire quelle due rampe di scale. E mi sembra una delle poche cose della sua vita, tra quelle che ha deciso lui, che avrebbe voluto andassero diversamente.

* letteralmente Bollata: termine con il quale si indica il cerchio sull’acqua prodotto dal pesce che mangia gli insetti in superficie. Si usa per indicare cerchia, gruppo, giro di persone.

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Ci

sono leggende sul sindaco Milio di Perinaldo, l’unico sindaco rosso della provincia più bianca della Liguria durato in carica quarant’anni. Non per niente il mezzogiorno a Perinaldo era suonato dalla sirena del comune e dalla campana della chiesa, ciascuno per i suoi. Passavano a volte lassù, Pertini, Natta e comunisti di tutte le mene e l’enologo Gino Veronelli, anarchico per tutta la vita. Ma nel paese si dice sia passato anche Tony Negri nei tempi in cui era a Parigi e chissà quanti altri. Di Milio si racconta quando gli saltò la catena mentre era in fuga sul Poggio alla Milano-Sanremo o di quando si gemellò con la città di Vallauris grazie all’amicizia con Picasso. Chissà se è tutto vero. Aveva una vigna in Curli che Veronelli chiamava Romanèe come una delle zone più magiche della Borgogna vinicola. Erano viti centenarie piene di nodi nel tronco e con radici profonde e da qualche parte ci sono ancora bottiglie di quella vigna, sua nipote ne ha qualcuna. Il colore, manco a dirlo, è rubino carico. Io ho bevuto nel giorno della mia cresima una bottiglia del 1911, l’anno di nascita di mio padre e posso intuire. E’ come avere davanti uno che cinquan-

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ta anni prima era già lì. Il nostro però era vino di Canun, vicino al mare, fatto bollire poco nella tina, più chiaro. Una volta Milio passeggiava al braccio del senatore Papalia, discepolo di Natta. Cinquanta metri indietro nell’ombra del carugio Elio lo riconosce e fischietta un richiamo. Nel silenzio del paese di allora il fischio era meglio di un nome. Il senatore, come sente scibrare, lascia il sindaco e corrono ad abbracciarsi. Milio si limita a chiedere asciutto se si conoscono. Elio la racconta così l’amicizia: nel 1940 a Ventimiglia noi eravamo un gruppo di ragazzi. Ci incontravamo a casa di Vicari, dove l’atmosfera era di chiaro antifascismo. Io frequentavo anche la casa di Papalia, mio compagno di studi; lui suonava la chitarra, ci divertivamo a comporre qualche canzone e leggevamo anche dei libri. In questo contesto maturò la nostra coscienza politica. Non eravamo inquadrati in partiti politici o associazioni, ma stando a come procedevano gli avvenimenti, sentivamo l’urgenza di far sentire la nostra voce. Pensammo così di fare delle scritte politiche per il primo maggio, ma c’era troppa sorveglianza. Aspettammo qualche giorno per entrare in azione e scegliemmo il 4 maggio: eravamo Papalia Antonio, classe 1924, anche lui mio compagno di scuola, che diventerà senatore del PCI e morirà a Pa-


dova; Vicari Eliano, classe 1923, fratello di Vicari Fulvio, cui è intestata la sezione ANPI di Ventimiglia, ed io, classe 1924. Scrivemmo frasi contro il fascismo sui muri della città, alla marina, al mercato, al cimitero. Alcune me le ricordo ancora: “Donne svegliatevi! Pane ai vostri bambini e morte a Mussolini”; poi “Pane e pasta, di Mussolini ne abbiamo a basta” e ancora sulle mura del cimitero “Vento, vento portalo qua dentro che tutto il mondo sarà contento”. L’indomani vennero arrestate dalla milizia fascista circa trenta persone, ma nessuno sospettava di noi. Qui finisce il primo racconto; ma un giorno torniamo sulla storia delle scritte sui muri. Il podestà aveva dato l’incarico al fascista cavalier Ernesto Tonon, che aveva un negozio di pitture e vernici, di fare una perizia per trovare chi avesse fatto le scritte e la sua sentenza indicava come responsabili sovversivi francesi per via del tipo di vernice usata. A quei tempi, racconta Elio, lavoravo da Taverna a fare i tacchi per le scarpe militari. Dal lavoro che facevamo si capisce da che parte stava il padrone. Mentre lavora Elio si accorge che ha le maniche della giacca ancora macchiate della stessa pittura usata per le scritte sui muri, allora dice, vado a pi-

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sciare, scende al piano di sotto a togliersi la giacca, rivolta le maniche e quando finisce il lavoro se la mette sotto il braccio anche se fa freddo, torna verso casa e va a nasconderla nella soffitta della chiesa della confraternita dei Neri, di fronte a casa. La madre capisce, senza chiedere niente. Poco dopo riuscÏ ad entrare a lavorare nella sottostazione delle ferrovie facendo come esame un incastro a coda di rondine. E questo è un altro pezzo di questa storia.

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Le

cose più importanti Elio me le racconta per strada quasi fingendo di non potersi trattenere. Stavolta usciamo dalla Parigina dove abbiamo preso un cappuccino e parlato mezz’ora di tempo e balle. Lì, dietro l’angolo, c’è la stazione dei treni, dove lui ha lavorato a vent’anni. Così non resiste, mi spiega finalmente come ha lasciato il posto da ferroviere. Lavorava agli impianti elettrici, alle linee aeree, quelle che davano la tensione ai Trolley; con un collega avevano deciso di compiere un gesto dimostrativo, di mandare in corto circuito tutti gli impianti elettrici della stazione. Il sabotaggio era pronto, ma un tedesco vicino a loro, con la massima calma, con un italiano perfetto e gelido, dice poche parole che sono un processo per direttissima. Dice: troppo bene vi siete sbagliati, perché io possa pensare ad un errore. Smontano tutto, ripristinano in fretta e poi Elio esce, scende la scaletta in via Hanbury e va col fiato in gola, verso Ventimiglia alta, non c’è tempo per avere pisciogna. Prende un paio di cose ed è pronto a tentare di notte l’uscita in mare.

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A sua madre racconta qualcosa ma non le dice dove sono nascoste le bombe, che non possa tradirsi. La storia della spedizione a remi la conoscevo già, adesso conosco un altro perché. L’amico ferroviere, rimasto turbato dall’esperienza, non sarà mai più se stesso.

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Ogni

tanto Elio andava a Genova e si portava qualche amico fidato. Entrava nella sede della federazione anarchica a cercare libri, giornali, materiale di propaganda e nuovo coraggio, entusiasmo. Stupiva i compagni di viaggio entrando sicuro e tutti lo conoscevano e lo salutavano. Raccontando mi parla di Paolo Schicchi anarchico siciliano, e allora io che lo sto curando da un po’ gli tiro fuori una copia di una vecchia rivista che mi è appena arrivata da una libreria antiquaria e gli viene il magone. Al racconto anche Velia che fa fatica a seguire completamente il filo del discorso, ma ha dei lampi intensi, svela l’indirizzo “Vico Agogliotti, cancello”. Quando provo a cercare l’indirizzo sulle cartine, per fare eventualmente un passo a vedere alla prima occasione, non riesco a trovarlo. Ricomincio a pensare che sia una via di Atlantide, che forse mi stanno raccontando un sogno, una favola, un mondo utopico, una città del sole. Dopo un po’ scopro una traccia nel sestiere di Portoria, oggi totalmente ricostruito, diventato il moderno quartiere di Piccapietra; allora mi ricordo di quando da bambino, cioè negli stessi anni del dopoguerra di cui mi racconta Elio, andavo con mia

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zia a vedere il monumento al Balilla li vicino. E mi raccontava la storia della rivolta contro i soldati austriaci al grido “Che l’inse?” di un ragazzo che lanciò il primo sasso. Poi un giorno il monumento non c’era più, era stato spostato e avevamo dovuto chiedere informazioni per ritrovarlo. Così era sparita anche la sede della federazione anarchica che era lì vicino. Poi Elio mi racconta del movimento degli anarchici Bulgari e di quando aveva aiutato Eva che portava, in treno, i soldi di un gruppo anarchico da Montecarlo in Italia e lui all’ultimo momento nella galleria delle Calandre, si era tolto le scarpe ed aveva infilato i soldi sotto i suoi piedi prima della visita di dogana e così erano riusciti a passare in un pomeriggio afoso d’estate sudati di caldo e di paura.


Elio

cammina come un cameriere facendo quasi scivolare i piedi. Ha una postura un po’ curva quasi a uovo, almeno adesso, da quando lo conosco io. A me sembra un Elfo, un personaggio shakespeariano, uscito dal sogno di una notte di mezza estate. Da fermo riunisce le mani come per deferenza, rispetto. E’ un mangiapreti eppure mi ricorda un cardinale di Manzù, semplice, solenne, saggio. Ha un basco taglia 57 con una piccola visiera, si direbbe una coppola, come se sua madre gli dicesse ancora di mettersi il cappello che c’è umidità. Mi fa pensare ad un animale selvatico di cui devi conoscere le abitudini, l’albero in cui ha fatto la tana, l’ora in cui esce all’aria e permettergli di conoscere le tue. Sorride scoprendo un po’ i denti; si ferma ad assaporare le idee che sente raccontare. Ed ho trovato sue tracce in luoghi, case, osterie e soprattutto in molte persone che avevo conosciuto e con cui mi ero trovato bene anch’io.

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Raccontavano

di quello che passava ogni mattina in bicicletta a ponte san Luigi pedalando sulla faticosa salita della Croce di Mortola, da Latte a Grimaldi, che la strada a mare non c’era ancora; finché qualcuno notò che cambiava spesso la bicicletta, una Olmo, una Bianchi Campagnolo, una Legnano. Si capì che entrava in Italia in treno vestito in tuta da ciclista e ritornava ogni giorno in Francia con una bicicletta nuova di contrabbando. Ma c’era stato un contrabbando ancora più curioso in vista del 16 settembre 1947 quando Briga e Tenda dovevano passare alla Francia con tutto il contenuto di case, uomini e cose. Nei giorni precedenti vini, vermouth, calze e anche, come scrissero i giornali, sette milioni di scope,* furono stivati nei magazzini e diventarono francesi alla mezzanotte. Una volta avevano portato in barca da Cap Martin fino a punta Migliarese stecche di vaniglia del Madagascar che doveva finire nella ricetta del Vermout bianco della Martini. Ma era successo che si era rotta qualche confezione ed era rimasta la scia di profumo in Arziglia. Allora si erano studiati di spargere ancora altra

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vaniglia in giro per confondere completamente le tracce a eventuali sgarasacchi* in ispezione. Sui sentieri incrociati che portano al Grammondo da Villatella, da Torri, da Olivetta, mi raccontano di quella volta che la finanza aveva fermato uno che saliva dai Carletti con una damigiana sulla spalla. Ma la damigiana era vuota: se siete ancora qui quando torno col vino, vi offro da bere, aveva detto il contrabbandiere. E l’aveva scampata bella perché nella veste della damigiana vuota, tra il vetro e l’intreccio in vimini, c’era il morto, c’erano i soldi da portare in Francia e non lo avevano scoperto.

* Finanzieri ** Frontiere nazionalismi e realtà locali - edizioni gruppo abele -


Al

mattino al “Venti settembre” ci sono quelli della frutta e della verdura per il primo caffè; al pomeriggio quelli del mercato dei fiori. Siamo nel cinquanta. Poche donne vanno al bar da sole. Alla sera poi sono solo uomini. Maddalena la baiocca è un’ostessa d’esperienza: nei friscioi di gianchetti, barando, aggiunge la zucca grattata ma a chi se ne accorge ne allunga un paio sottobanco. Entra uno mai visto e a colpo sicuro cerca Elio con lo sguardo e lo chiama. - Come hai fatto a conoscermi - gli chiede Elio. Ma l’altro è sicuro, gli hanno spiegato bene, non può sbagliare, in fondo si gioca un pò di libertà. Elio se lo porta a casa, mangiano qualcosa, parlano poco. Il giorno dopo restano al riparo. Quando fa notte e c’è una bella luna, passano dal Cornà verso Mentone. E’ un certo Pietro Angaramo prete spretato ed anarchico in fuga, uno che aveva scritto una lettera aperta al papa. Come me la racconta Elio, quasi non mi sembra vero, mi sembra un’altra leggenda. Allora mi metto a cercare e trovo un libro di Bakunin dal titolo Libertà e Rivoluzione con una prefazione all’edizione del ‘68 di Piero Angarano.

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E’ già qualcosa ma Elio è deluso, si aspettava molto di più, lo aveva conosciuto come in racconto epico, degno di una canzone o un romanzo. Poi un giorno scopro da Sellerio un librino blu con l’autobiografia di “una donna Libera” che racconta quando un amico le domandò se volesse “leggere la lettera

aperta che l’ex prete Piero Angarano aveva scritto al papa Pio XII e per la quale era stato condannato, insieme al direttore dell’Avanti che l’aveva pubblicata, a un anno di carcere con la condizionale”.

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Ecco da cosa scappava.


C’erano

pochi maestri che hanno insegnato a generazioni di ventimigliesi: la maestra Laura e Salvatico e Ballestra. Io avevo Ballestra, mi racconta Pierin. Salvatico - aggiunge - era un pò matto. Diffatti - gli dico - era il maestro di Elio; e così ridiamo. Poi avevo studiato anch’io da maestro e a diciannove anni frequentavo la facoltà di lingue e letteratura italiana alla cà Foscari. E si infila la mano nella giacca e mi fa vedere il tesserino da studente di allora. Ma arrivò il servizio militare, come allievo ufficiale negli alpini. Ero finito in centro Italia a Tarquinia; quando c’è stato l’otto settembre sono scappato prima a piedi fino a Pisa e poi col treno fino a casa. Ero uno sveglio. A Ventimiglia alta avevamo l’osteria e tre case, due in faccia all’oratorio dei Neri ed una cantina su due piani. L’osteria era la Manaccia dal soprannome del marito di mia zia, un napoletano. Abitavamo sopra alla farmacia verso la colla. Erano i tempi dei primi calabresi: Papalia, Calcopietro, Fusco, tre famiglie di falegnami, ebanisti. Ero diventato amico di una donna che lavorava al consolato francese in una villa dove adesso c’è una banca, una bella villa della fine del secolo, che era stata costruita dai fratelli Davigo in un parco tropicale di palme.

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La donna mi aveva fatto avere un passaporto giornaliero per la Francia. Le barche partivano dagli scoglietti con la roba e andavano a remi verso Mentone. Io andavo col taxi di Cavallotti fino alla frontiera. Lui mi aspettava a ponte san Luigi ed io entravo in Francia a piedi ed andavo ad aspettarli al molo du taurin, a Garavan. C’era un tavolo dove ci si incontrava per concludere gli scambi. Portavamo di là riso e formaggio e rientravamo con pepe di cajenna e champagne. Al ritorno i gozzi attraccavano al porto Pegogliu tra la punta della Rocca e la Ciapa e bisognava portare su la roba per una lunga scalinata fin sulla Colla e poi alla cantina. E una volta mentre salivamo con Lurè du Vacca, dalle navi cominciarono a sparare e dovemmo abbandonare il carico per riprenderlo più tardi, fortunatamente salvo. Un’altra volta al ritorno il gozzo si era scontrato con un tronco galleggiante ed aveva dovuto attraccare sotto Muru Russu, i marinai erano rimasti li due giorni in attesa di fare trasbordo e intanto gli portavamo da mangiare e loro bevevano champagne. Mio padre lavorava in ferrovia ed era il capo del deposito degli oli per ingrassare, vicino al deposito dei treni francesi. Così dicendo mi lascia capire che qualcosa riusciva a far passare anche da lì.


Via terra il lavoro lo facevano quelli di case Canun, Ottavio e suo fratello. A spalla era più sicuro ma più faticoso e si portava solo roba di poco peso ma di valore. Con la Wilna abbiamo fatto società per un po’. C’erano tanti che vivevano sul contrabbando; una tabaccaia di via Chiappori si infilava cinquanta marenghi nella ciamporgna e passava così la dogana. Poi Soleri che si capiva di meccanica aveva adattato dei motori da macchine alle barche ed andavamo fino ad Antibes, Cannes e st.Raphael a prendere soldi e pelli per le concerie. Una volta avevo una barca intera piena di barilotti di Marsala e lo portammo al locale davanti al casinò di Cannes. L’ho lasciato raccontare, avrò detto dieci parole in tutto, gli ho chiesto di Fusco, diventato disegnatore di Tex, gli ho chiesto di Canun dove mia nonna comprava il vino per l’osteria Ma era solo per fargli capire che non parlava da solo, che riuscivo a stare dietro al suo discorso.

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Verso

sera chiamano Elio, gli mandano un biglietto a Perinaldo con la corriera, di venire subito a Ventimiglia. Trova qualcuno che gli da un passaggio e scende. L’ha chiamato Bacì detto Garibaldi, che c’è qualcuno che ha bisogno di Lui. Si incontrano sull’angolo del bar Imperiale che è già scuro. Mi racconta quasi di corsa, quasi di nascosto, come svelando un segreto. L’uomo che lo cerca arriva da Milano, è uno che vuole passare in Francia. Parla con l’uomo, non riesce a convincersi; prova a chiedergli notizie, - se non hai fatto niente perché scappi, non mi piace questa cosa non rientra nelle mie idee. Cosa fai di mestiere -. “Il ballerino”, gli risponde. E’ Pietro Valpreda. La fuga non viene organizzata. Si lasciano come si sono trovati. Forse gli brucia ancora troppo la fine di Pinelli e poi ha naso, intuito. Garibaldi resta stravolto dall’esito dell’incontro, non si fa più vedere in giro per qualche giorno. Una settimana dopo al mattino alle cinque quando è ancora buio, siamo in inverno, arrivano a Perinaldo, alla casa in Begliun, due fari di una macchina. C’è Sparisci, spaventato che Garibaldi si è chiu-

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so in camera e non apre nemmeno a sua moglie. Scendono in fretta a Ventimiglia e sfondano la porta. Lo trovano con le vene dei polsi tagliate e le mani immerse in una bacinella d’acqua. Lo portano all’ospedale e si salva. La storia finirebbe qui. Non mi racconta altro e cercare di capire l’epoca esatta dei fatti è difficile. Forse è dopo i tre anni di carcere preventivo del ballerino quando era in attesa di altri processi. Trentacinque anni dopo quei fatti, passo ad Elio un libro che racconta della storia di Pinelli scritta da Sofri, lo legge tutto d’un fiato, forse per trovare conferme ai suoi pensieri, alle ragioni che lo hanno spinto a tirarsi indietro, e me lo paga perché se lo vuole tenere.


L’avvocato

Mario Tessitore morì nel mese di marzo scivolando per cinquecento metri nella scarpata ghiacciata davanti alla ex caserma della Guardia Armata di Frontiera diventata rifugio, sul lato sud est del monte Grai ad un niente dai duemila metri di altezza. Ci pensa un attimo fa un po’ di conti e poi precisa la data; il diciotto marzo del sessantasei. Quelli che erano con lui si fermarono in tempo. C’era anche Franco Superina. Era nevicato contro la parete e la neve aveva reso il sentiero ghiacciato. Mario voleva far presto a tornare a casa, che aveva un figlio piccolo, voleva essere lui a dargli da mangiare. Gridò scivolo, scivolo e rotolò per qualche centinaio di metri. Quando Elio e quattro o cinque della camera del lavoro e gli altri con le ricetrasmittenti, andarono a recuperarlo il giorno dopo, era diventato un nodo di ghiaccio. Dovettero buttargli addosso dell’acqua calda perché il suo corpo si distendesse; allora il sangue usciva da tutte le parti e sembrava fosse vino che zampillava da un tino bucato. A Melosa c’era il procuratore della pretura di Taggia per fare l’inventario degli oggetti personali.

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Poi al funerale civile, a Ventimiglia, c’erano tanti, tutti, anche Pierin che in fondo dell’avvocato apprezzava lo spirito, l’intelletto, ma non capiva le idee. Elio mi racconta anche di un comizio dell’avvocato a Perinaldo quando era esponente dello Psiup e nella piazza della chiesa c’erano solo tre persone. Ma dice anche che da Mario aveva sentito dire per la prima volta la parola federalismo. Raccontando è come se vedesse delle foto. Quando Elio ha incontrato quaranta anni dopo il figlio di Mario per capirsi è bastato che si dicessero: son brutti tempi, questi. Un giorno alla fine d’agosto vado a trovare Elio nella casa di Begliun. Beviamo una bottiglia di rossese di san Biagio che gli ha portato Pia il giorno prima. Poi mi fa salire di sopra e mi mostra dei libri, ne prendo uno di Pavese, un’edizione del cinquantadue de Il compagno. Quel libro ha la mia età, lo terrò per ricordo. Sul comò c’è una foto in una cornice d’argento: è Mario Tessitore davanti ad un microfono che fa un comizio. I ricordi sono brutte bestie. Ancora adesso, racconta Elio, quando sono a Perinaldo, al mattino d’estate, guardo il primo sole che appena nasce si specchia proprio sul rifugio dei Grai in quel pezzo aperto sopra al bosco.


Questa

pagina faccio fatica a metterla insieme, ho dovuto fare delle domande crude a Elio. Eppure ho visto in lui la necessità di raccontarmi questa storia, di lasciare un ricordo di uno dimenticato. Alberto abitava a Nervia dietro alla chiesa di Cristo Re. Era alto, magro, elegante, bello. E nel descriverlo si sente la convinzione che fossero belle anche le sue idee. I familiari erano morti nel primo bombardamento aereo su Ventimiglia venerdì dieci dicembre del quarantatre.* A quattordici anni era già in montagna. Con Elio, nel dopoguerra, girano in vespa e fanno attività anarchica. Una volta che si fermano a cagare sotto la passerella, dalla sciumaira, Alberto ammette di aver sparato in quello stesso posto alla testa di un tedesco. E’ un brutto segreto da custodire. Ma la rabbia di Alberto cresce e comincia a parlare di bombe con troppa facilità per esempio passando davanti al Bar Ligure deserto. Con Elio per un po’ si allontanano. Poi quando lavora a Sanremo, offre a Elio la chiave di una casa, di un rifugio se dovesse servire, ma lui non accetta.

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Tra gli appunti delle frasi che mi ha detto Elio, trovo scritto: ha sparato a Sanremo e poi si è fatto fuori, era armato come un brigante. Aveva rivoltella e fucile. Era stato per un po’ rifugiato nel cimitero della foce, quello dei russi e degli ebrei prima di uccidersi. Aveva detto a qualcuno salutami Elio e Bacì. E mentre fatica per non mettersi a piangere, Velia interviene e ricorda che era il dieci di dicembre 1953, dieci anni dopo il primo bombardamento di Ventimiglia.* E ritorna quell’immagine di bello con foulard e berretto americano, che si lavava con saponette camay.

* Caterina Gaggero Viale - Diario di guerra della zona Intemelia 1943-1945 - Alzani Editore, Pinerolo


Ho

una foto di gruppo presa nell’angolo dove via Garibaldi si piega, proprio sotto al portone della scuola di via Lascaris. Sul portale della scuola si legge Regia scuola Complementare Camillo Cavour - Scuole Elementari. I ragazzi sono un centinaio tra cui mio padre che potrebbe avere una quindicina d’anni e perciò è tra i più alti, nella fila addossata al muro. Gli insegnanti sono pochissimi forse tre o quattro in tutto. Sulla lunga balaustra soprastante sono appoggiati un bambino, altre due persone e Serafin, il figlio della macellaia, in compagnia del suo cane. La macelleria è ancora adesso lì di fronte. Serafin non l’ho conosciuto: era già un uomo stempiato nella foto che credo di poter datare intorno al 1925. Di Serafin mi dicono che aveva allevato un cucciolo di volpe che teneva legato vicino alla macelleria, e che sua madre, la macellaia, era la sorella del medico Ferrero e che aveva una moto Ariel 500 che faceva invidia a tanti. Mi racconta Elio che una volta Serafin aveva preso una manzetta comprata a Carrù e prima di portarla all’ammazzatoio l’aveva bardata da signora con collane e stoffe damascate e l’aveva accompagnata a teatro facendola entrare fino davanti alla biglietteria.

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Erano tempi che al teatro si rappresentavano le operette e togliendo le poltrone dal salone si facevano veglioni con signore ingioiellate. Il padre di Pierin, di poche parole, suonava il clarinetto.

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A

San Biagio dedicano la nuova piazza del comune a Sacco e Vanzetti. Non ci sono motivi speciali per farlo, i due anarchici non sono nati qui, non ci sono mai stati, è un puro simbolo. E’ un ventitré agosto come il giorno in cui li uccisero a Charlestown, condannati per un omicidio non commesso. Oggi è l’ottantesimo anniversario. Ci sono bandiere, gagliardetti e cappelli in testa. Poi ci sarà un convegno sulla pena di morte. Ci sono socialisti e massoni soprattutto, dice Elio, anarchici pochi. L’Anpi è il gruppo più numeroso e qualcuno riconosce Elio e tenta di battezzarlo, coinvolgerlo con un fazzoletto rosso al collo. Lui è schivo e non sa dire di no, si trova convertito da anarchico a comunista. E il parroco benedice la targa. Viva! Poi pezzi di pisciadela e turtun e vino bianco di uva tabacca. Bella festa dicono a Elio, e lui non resiste a dire quello che gli bolle nella trippa: ecco perché hanno dedicato questa piazza a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, è qui che tutti questi estranei oggi li hanno ammazzati di nuovo.

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conosco Pierin da cinquantanni, lui conosceva mia nonna, mio padre, mia zia. Veniva a mangiare il coniglio con le olive all’osteria di Bataglia che era due stanze più in là di quella dove sono nato io. Sulla collina attraversata dalla vecchia via Julia, venivano all’osteria anche Elio e Tessitore e Landi e Miseria, chi beveva, chi giocava a belota, chi a bocce. E c’è stato un momento nei primi anni del cinquanta che eravamo lì tutti, anche io con loro. Era quando a primavera, dall’angolo della terrazza, alzando un po’ la voce, chiamavamo Alfrè che portasse una cuffa di fave che le nostre erano finite. E non c’erano altri rumori a parte le voci, il raspare della risacca e qualche cane che baunava. Cinque anni fa quando ho incontrato di nuovo Pierin, il suo amico giudeo era già malandato e andavamo a trovarlo a Monaco dove viveva in trenta metri di casa nel grattacielo dell’Annonciade e gli portavamo due etti di parmigiano e ci fermavamo dieci minuti a fargli compagnia. L’anno scorso è morto lasciando tutto ad una fondazione ebraica. Da allora Pierin ha cominciato a dirmi che per il suo funerale è già tutto a posto, che paga da anni per farsi cremare; poi mi ha raccontato che una domenica mattina era salito in cattedrale e dopo la

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messa delle undici, quando tutti erano usciti, era entrato cinque minuti. E’ in quella chiesa che il vescovo Rousset lo ha sposato, con la prima moglie. Nel frattempo se ne sono andati il padano, il giudeo, il torrasco e qualcun altro, ma non l’ho visto piangere. Adesso, quando sta bene, sale a Ventimiglia vecchia forse a cercare la giovinezza in quei duecento metri di strada tra la cattedrale e la scuola di via Lascaris, dove in mezzo c’era la casa dei suoi, l’osteria di Ravotto e quella della Manaccia. Forse cerca un Dio a buon prezzo che non pretenda molto, che si accontenti di un segno esteriore, una presenza fuori orario la domenica mattina. C’è un detto che Pierin mi ricorda, per chi ha vissuto una vita abbondante e si trova a fare i conti con una specie di religione della morte; dice in dialetto quandu u cù u l’è frustu anche u pater nostru u ven giustu!


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BIBLIOGRAFIA Adriano Sofri - La notte che Pinelli - Sellerio Editore, Palermo Caterina Gaggero Viale - Diario di guerra della zona Intemelia 1943-1945 - Alzani Editore, Pinerolo Maria Occhipinti - Una donna libera - Sellerio Editore, Palermo Bakunin - Libertà e Rivoluzione - Avanzini e Torraca Editori con introduzione di Pietro Angarano Jean-Louis Panicacci - Menton dans la Tourmente Societe d’Art et d’Histoire du Mentonnais Renzo Villa - I toponimi delle due Mortole - Cumpagnìa d’i Ventemigliusi Mario Giovana - Frontiere Nazionalismi e realtà locali - Edizioni Gruppo Abele Italo Calvino - L’entrata in guerra - Einaudi Gian Antonio Stella - L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi - BUR Biblioteca Universale Rizzoli Luoghi della memoria, memoria dei luoghi nelle regioni alpine occidentali 1940-1945 Bur edizioni srl

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