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CRIMINALITÀ GIOVANILE
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Architettura di un genocidio testo e fotografie di Vincenzo Cammarata
Un fotografo. Un viaggio ad Auschwitz/Birkenau e la scoperta di una dimensione architettonica e urbanistica concepita scientemente per la pratica dello sterminio. Un luogo in cui anche il male, nella pi첫 devastante delle sue manifestazioni, ha trovato una sua forma perversa e una corrispondente dimensione estetica e funzionale
in questa pagina: Birkenau (Auschwitz II). La neve rende il filo spinato simile a uno spartito, su cui i camini risuonano fino a perdersi, testimoni della vastità del campo di sterminio (sopra). Birkenau (Auschwitz II). Il vagone bestiame in mezzo al piazzale d’ingresso fa da memento a chi ripercorre il cammino dei deportati (sotto)
in questa pagina: Birkenau (Auschwitz II). L’arredamento interno delle baracche era concepito per contenere il maggior numero di “corpi”, da alloggiare in batteria in maniera da far fronte all’affollamento. In totale furono deportate ad Auschwitz più di 1 milione e 300 mila persone. Di queste, 900.000 furono uccise subito al loro arrivo e altre 200.000 morirono a causa di malattie, fame o furono assassinate poco dopo il loro arrivo
AUSCHWITZ/BIRKENAU Una reazione fredda. Gelata. E non era per via dei trenta gradi sottozero che mi accolsero. Ero già stato a Dachau, vicino a Monaco, in Baviera. Due volte. All’impatto con l’Arbeit Macht Frei, con la storia, anche se in scala ridotta, ero abituato. I campi polacchi, soprattutto Auschwitz I, non mi fecero l’effetto dirompente che spinge qualche visitatore, almeno quelli più sensibili, a sospendere la visita per l’impossibilità di contenere dentro di sé il disgusto per i fantasmi e gli orrori che emergono.
AUSCHWITZ Le sembianze da caserma – perché tale era prima dell’onta che la ricoprì – non combaciavano con l’immagine di desolazione che mi aspettavo. Tutto troppo accogliente e statico. Come se fosse il set di uno dei tanti film sui nazisti che avevo visto fin da quando ero ragazzino. Sembrava che, improvvisamente, dovesse apparire da dietro un angolo o lungo la doppia recinzione elettrificata il tedesco con il suo pastore, tedesco pure lui. A rendere tutto più vero c’era una coltre candida di almeno trenta centimetri di neve, ideale per riconoscere fra le tracce lasciate il giorno prima dai visitatori quelle del crucco che, armato, pascolava il suo fido, crucco pure lui.
in queste pagine: Auschwitz I. Nei padiglioni della caserma i prigionieri diventano volti e nomi. Grazie alla maniacale efficienza nazista, alla metodica catalogazione fotografica, ritornano a essere persone che con sorda fierezza urlano a futura memoria in apertura: recinzione e torretta di controllo nel campo di Birkenau (Auschwitz II), costruito come ampliamento della caserma polacca della cittadina di Oświe̜cim (Auschwitz in tedesco), requisita dai nazisti subito dopo l’occupazione del 1939 e divenuta il nucleo principale del campo di concentramento originario (Auschwitz I)
BIRKENAU/AUSCHWITZ II Lì rividi Dachau, tante Dachau. Assuefatto dalla visita ad Auschwitz, nemmeno lì riuscii a farmi trascinare dalle emozioni. Continuai, invece, a osservare e fotografare quello che avevo notato durante la visita alla caserma (Auschwitz I): le anafore. Ripetizioni di elementi architettonici che con fare retorico, amplificavano tutto: un luogo dove l’uno non esiste se non accompagnato da una sequenza composta e ordinata di altri uno. Dalle “spine” del filo di recinzione a quello che rimane dei camini delle baracche tutto è cadenzato e multiplo. Come cadenzati e multipli erano i corpi vivi e morti che vi transitarono. Ho riflettuto spesso su quale sia il ruolo dell’architettura nella nostra cultura. Quella occidentale, figlia del Bauhaus tedesco: armonizzare e far convivere estetica e funzionalità nello spazio abitativo privato o socialmente condiviso. Ne sono convinto. O almeno dovrebbe essere così. Quello che accadde nei campi di concentramento e di sterminio nazisti dimostra come però l’architettura, così intesa, asservita al male, potesse trovare una sua forma, un suo peculiare gusto che, per chi progettò e mise in atto l’olocausto, richiedeva e giustificava perfino una certa estetica. Perversa. Il genocidio ha dunque un suo linguaggio architettonico, composto di interni che aprono verso esterni, che tratta di urbanistica e di design del paesaggio. Così si rendeva scientifico ed efficiente ciò che doveva essere sistematico. L’aspetto architettonico attuale è diverso. Le rovine rendono più struggenti gli spazi. Le ricostruzioni puntano a far rivivere l’orrore. Oltre, resta il ricordo di chi non appena giunto in quei campi perdeva la propria dignità di essere umano. Per qualcuno, grazie alle fotografie e alla fotografia, rimane ancora quel ricordo su di un muro. Un’architettura della memoria.