Terz’Ordine Carmelitano di Palmi
Catechesi eliane 2012-2013
Cettina Repaci. Presidente TOC Palmi (RC)
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1. Introduzione Il profeta Elia esercitò la sua attività in Israele nel regno del Nord, mentre era re Acab, nel secolo IX, più o meno dal 874 all’841 a.C. E’ uno dei personaggi del vecchio Testamento che vengono nominati più spesso nel nuovo Testamento, insieme ad Abramo, Mosè, David, Elia appunto. Egli è il profeta che comparirà alla fine dei tempi, prima che giunga il giorno del Signore; è misteriosamente già venuto in Giovanni Battista e appare con Mosè sul monte della trasfigurazione. Ricordate in Matteo cap. 17 3-10. Nella storia religiosa dell’antico testamento, i profeti hanno avuto grande rilevanza con il loro insegnamento e la loro predicazione. Essi hanno operato con la finalità precisa di riportare il popolo alla conversione, a ritrovare la fiducia persa nell’unico Dio, a riprendere il cammino verso il loro Signore. Fra tutte le figure profetiche dell’antico testamento emerge, come vedremo, la figura di Elia. In lui, per alcune sue peculiarità, i frati carmelitani hanno voluto riconoscere una figura ispiratrice della loro spiritualità, modello di santità sempre attuale. Il beato papa Giovanni Paolo II diceva, parlando ai carmelitani,: “Voi ancora oggi traete da Elia luce e forza per essere, a distanza di secoli, guide spirituali per i fratelli nel loro cammino verso Dio”. Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire per prima cosa chi è il profeta, cosa significa etimologicamente la stessa parola profeta. Da termine latino propheta, che ricalca a sua volta un termine greco, pròfetes, significa letteralmente “colui che parla davanti”, sia nel senso di chi parla davanti a tutti, pubblicamente, sia nel senso di chi parla prima, cioè di chi dice le cose prima che accadano, anticipa cioè il futuro: pro = davanti o prima, fetes, da femì = parlare, dire. Oggi, quando parliamo di un profeta, pensiamo a colui che predice il futuro e molto spesso lo ricordiamo nella sua accezione negativa; diciamo, profeta di sventura, di qualcuno che si diverte a predire il fututo. Dico si diverte, perché non è il caso di credere a nulla di quanto questa gente racconta. Nell’antico testamento invece, profeta è colui che parla in nome e per conto di Dio; le sue parole nascono dall’ascolto della parola di Dio di cui diventa un nunzio, un messaggero, portavoce della volontà, degli insegnamenti e degli avvertimenti di Dio. Tutte le religioni hanno o hanno avuto i loro profeti; l’ebraismo riconosce quattro profeti maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, e dodici cosidetti minori. Nell’islamismo viene riconosciuto un ruolo fondamentale a Maometto, considerato non tanto l’unico profeta inviato all’umanità, ma l’ultimo e il definitivo; e poi, tanto per citarne qualcuno, Zaratustra, profeta persiano; Vardhamam, profeta indiano ed altri sorti nei paesi orientali, ognuno dei quali ha dato origine poi con la sua predicazione ad una forma particolare di culto e di credenze. Il cristianesimo riconosce i profeti dell’antico testamento, ma non annovera profeti cristiani; in realtà la Chiesa cattolica, lo si spiega mella Lumen gentium, la Costituizone dogmatica della Chiesa elaborata dal Concilio vaticano secondo, ritiene che ogni cristiano battezzato, in forza della sua unione conCristo, diventi capace, sostenuto dallo Spirito Santo, di diffondere ovunque la testimonianza di Cristo, soprattutto con una vita di fede e di carità. Siamo insomma tutti profeti in quanto testimoni della parola del Vangelo, parliamo cioè, dopo aver ascoltato il Signore. Riprenderemo più avanti il significato dell’ascolto. Nella Bibbia la funzione del profeta è più che di predire, quella di ammonire il popolo di Israele che si è allontanato da Dio. Il profeta opera attivamente nella storia e in questo senso esercita quasi una funzione politica, giustificata e sollecitata da motivi di ordine morale e religioso. Infatti nei periodi storici in cui si susseguono guerre, carestie, disastri ambientali, nascita di culti idolatri, cioè periodi di estremo disagio e sofferenza per gli uomini, si fa sentire vibrante la voce del profeta, soprattutto nel contrastare la politica del re che è visto come colui che impone il suo potere e con esso la sua religione e la sua etica, cioè il suo modo di intendere i valori della vita. Il nostro Elia è un profeta misterioso, nel senso che irrompe improvvisamente nella storia di Israele così come all’improvviso sparirà; poche le notizie sulla sua vita, se non che proviene dalla città di Tisbe nel paese di Galaad, ed è per questo detto il tisbita, forse della tribù di Beniamino. Il suo intervento nella storia di Israele non è annunciato, di lui non si conosce neppure il nome del padre, elemento importante per identificare una persona, un po’ come il nostro cognome oggi. Questa assenza di notizie è significativa e viene così spiegata: il profeta è una figura carismatica, suscitata da Dio e il suo passato come la sua origine familiare non sono determinanti. Egli esiste solo per il suo rapporto con Dio e per il messaggio che deve annunciare; è servo della parola del Signore e abitato del mistero di Dio di cui porta il nome. Elia infatti significa il mio dio è Yahve, "El" (= il mio Dio) e "Ia" (= Yahve). 2
Come ho accennato prima, egli compare sulla scena intorno al 874 a.C. e la sua attività profetica è narrata nei due libri dei Re. In essi viene presentata la storia della monarchia ebraica dalla morte di Davide nel 970 circa, fino all’esilio del popolo di Dio in Babilonia nel 587, la cosidetta cattività babilonese. Incontriamo nel primo libro il re Salomone, famoso per la sua saggezza e l’equità dei suoi giudizi , cfr.1 Re 3 (16-28); leggiamo delle vicende che seguono la sua morte con la spartizione del regno in due parti: il regno di Israele a Nord della Palestina, e il regno di Giuda a Sud, in cui regnarono i figli di Salomone, Roboamo nel regno di Giuda, e Geroboamo nel regno di Israele. Dopo il crollo del regno del nord nel 721, la narrazione continua con la storia del regno di Giuda che, con la stirpe di Davide e il tempio eretto al Signore, era stato sempre il cuore del popolo eletto, fino alla distruzione di Gerusalemme e di Giuda nel 587. A parte la storia di Salomone e dei profeti Elia ed Eliseo, i libri presentano una biografia dei vari re sostanzialmente assai schematica. Essi piuttosto mettono in evidenza il decadimento di Israele e la disgregazione delle sue istituzioni, fatti che fanno risaltare l’operato dei profeti che si sforzano di orientare la speranza del popolo verso valori più spirituali, da comunicare anche agli altri popoli. Intorno all’847, nel regno di Israele governa il re Acab. Il padre, Omri, mediante un accordo politicoeconomico con il re di Tiro, aveva favorito il benessere economico del suo popolo, assicurandogli un livello di vita piuttosto alto. La gente stava bene, lavorava, commerciava, non si faceva mancare nulla. Dobbiamo però tenere presente che nell’antichità, ogni accordo, politico o economico che fosse, esigeva dalla controparte delle concessioni, anche di carattere religioso e culturale. Nel nostro caso, l’accordo con i popoli fenici di Tiro e Sidone ebbe come conseguenza il matrimonio di Acab con Gezabele, figlia del re di Sidone e, cosa più grave, l’introduzione in Israele del culto del dio Baal, a cui Gezabele era profondamente devota. Acab, che tuttavia era rimasto fedele al suo Signore, anzi si circondava di profeti della sua religione, aveva dovuto far costruire all’interno del palazzo una cappella dove la regina Gezabele potesse adorare il suo dio; ed egli stesso, sotto l’influenza della moglie, finì per professare indistintamente i due culti. Senza rendersene conto, Israele stava cedendo alla seduzione dell’idolatria, alla tenazione del credente che si illude di poter essere fedele a due padroni. Ma è solo un’illusione: come dice Matteo al cap, 6 del suo Vangelo: nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerò l’altro: non potete servire a Dio e a Mammona. Dal punto di vista economico e sociale, come abbiamo visto, il regno di Israele attraversa un momento di estremo benessere e di relativa pace; sono buone le relazioni con i popoli vicini e all’interno del regno convivono tranquillamente diversi gruppi etnici. A questo si accompagna una forma di tolleranza religiosa che favorisce lo sviluppo di altri culti, soprattutto quello del dio Baal. Tale culto era sollecitato dalla regina Gezabele nonché dai sacerdoti di Baal che usarono l’ignoranza e la semplicità della gente per attrarre il popolo a loro vantaggio, anche economico. Il dio Baal esercitava una grande attrazione all’interno di una civiltà prevalentemente agricola. Baal era il dio della tempesta e della pioggia, presiedeva alla fertilità della terra e alla fecondità del bestiame, una divinità a cui rivolgersi nei momenti di bisogno, molto più vicino ed accessibile del Dio di Israele invisibile, trascendente, misterioso, mai prevedibile, le cui vie e i cui pensieri sono tanto diversi da quelli degli uomini e non sempre da questi capiti. In Isaia cap. 55 (8-9) leggiamo: perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri. E’ necessaria una grande fede per abbandonarsi totalmente al Signore. Da Lui puoi soltanto attendere, ponendo tutta la tua fiducia nella sua fedeltà. Da Baal invece puoi comprare quello che ti serve; ad es. l’acqua, essenziale per vivere perché è lui che dà la pioggia, basta dargli in cambio qualcosa. In una terra semidesertica è facile conquistarsi la fiducia della gente umile: è questo l’inganno più grave, tipico dell’idolatria: Tu sai forse che l’idolo che veneri è un pezzo di legno o di pietra che non può darti nulla, ma ti illudi di piegarlo ai tuoi desideri in cambio di sacrifici e doni. Il giudizio che viene dato dalla sacra scrittura sul regno di Acab è estremamente negativo. Leggiamo in 1 Re 16,30-33. Guardando ai fatti con la luce della fede, l’autore biblico si accorge che tale benessere è fiorito su una cultura di morte, sulla decadenza dei valori della vita, sulla perdita degli ideali e soprattutto sulla perdita dei valori religiosi e della fiducia e dell’alleanza con il Signore. 3
Ho finora delineato brevemente la situazione del regno di Israele nel momento in cui Dio decide di mandare Elia a cominciare la sua attivitĂ profetica. Come si legge nel Siracide cap. 48 v,1: “Allora sorse Elia profeta simile al fuoco. La sua parola bruciava come fiaccolaâ€?. La prossima volta commenteremo il cap. 17 del primo libro dei Re che vi invito a leggere.
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2. Il coraggio di Elia. Prima parte Ho voluto intitolare così, “il coraggio di Elia”, questa nostra riflessione sugli episodi narrati nel capitolo 17 del primo libro dei Re, che hanno caratterizzato e segnato la vita del profeta, per evidenziare come non fosse affatto facile essere profeta nella propria terra ("nemo propheta in patria", dirà Gesù), perché quasi sempre le parole del profeta contrastano con lo stile di vita già acquisito e consolidato, solitamente di benessere e apparente tranquillità, contro il quale il profeta scaglia le sue parole di condanna e di rimprovero. Nessuno vuole sentirsi dire: "Bada, se continui a vivere così, se non modifichi il tuo agire e il tuo modo di essere, la tua vita sarà distrutta". Ecco perché “coraggio”, a sfidare i potenti, a svegliare la coscienza dei popoli, a mettere a rischio la propria stessa vita. Elia non ha paura di nessuna autorità umana, perciò è libero di rimproverare anche i re; questo coraggio indomabile, che lo ha fatto diventare popolare in tutta la tradizione a lui successiva, è dovuta al fatto che egli si considera essenzialmente ed unicamente servo di Jahve, e, come tale, non esita a rimproverare e correggere quelli che sbagliano. Né tanto meno egli appare timoroso di quello che la gente potrà dire di lui, come spesso accade a noi che teniamo in maggior conto il giudizio dell’opinione pubblica, ne temiamo le critiche ed evitiamo di compiere o intervenire con parole e azioni, in situazioni che sentiamo negative. Ma Elia è forte, intrepido, perché sa di avere accanto il Signore degli eserciti al quale ha offerto tutta la sua vita, che ha scelto di servire con tutte le sue forze, con tutto il suo cuore, con tutta l’anima. Il suo è un atteggiamento di totale offerta di sé, tipico dell’uomo biblico. Nel Deuteronomio leggiamo: “Ascolta Israele. Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,4-5). La vita di Elia appare così: egli ha messo il Signore al primo posto e al di sopra di tutto e di tutti; disposto ad ascoltarlo, a servirlo, ad amarlo. Credo sia una delle motivazioni per cui i frati eremiti del monte Carmelo hanno scelto di fare riferimento a lui come esempio da seguire nel loro cammino spirituale. Dedizione assoluta al Signore, coraggio delle proprie azioni, soprattutto se compiute per rendere onore al Signore Dio, preghiera e contemplazione: momenti essenziali del loro e nostro essere carmelitani. Abbiamo visto nel precedente incontro, come Elia irrompe all’improvviso nel corso della storia dei Re, con una profezia minacciosa, una parola profetica di castigo. (Leggiamo insieme il cap. 17, vv. 1-6) “ Per la vita del Signore”(v. 1). Le prime parole sono come un giuramento, di una tale intensità e profondità che nessuno può dubitare di esso, anzi può solo abbassare il capo ed ascoltare. Il popolo ha perso la sua alleanza col Dio di Israele, si è adagiato in una cultura di morte e di peccato, ha uscitato l’ira del suo Signore; merita un castigo. Con fierezza e coraggio, Elia pronuncia davanti ad Acab, che tace sotto il peso delle accuse, il messaggio del Signore, foriero di sciagura. “Alla cui presenza sto”(v. 1): questa espressione dà ancora maggiore vigore a quanto Elia sta per dire: egli è uomo di Dio, totalmente al suo servizio; ha assunto l’atteggiamento del servo che sta rispettosamente alla presenza del suo padrone ed è a sua completa disposizione, pronto ad obbedirgli senza discutere. Essere al servizio di Jahve equivale anche ad avere con lui un rapporto confidenziale e intimo, da cui nasce poi la totale disponibilità a diventare segno dell’azione di Dio in mezzo al popolo. Solo uno come Elia, che sa stare alla presenza di Jahve, Dio della vita, che sa com-patire(soffrire insieme) i drammi dell’umanità, poteva dare un annuncio così forte e coraggioso. Sono le sue principali caratteristiche e doti: ascoltare, servire e agire. Il riferimento alla nostra spiritualità è, come vedete, continuo; anche noi siamo invitati sempre ad ascoltare la Parola e a testimoniarla. Elia annuncia la siccità, non più rugiada, né pioggia: una calamità gravissima per un popolo che vive in gran parte, come abbiamo visto, di agricoltura e pastorizia, una sfida a Baal, il dio della pioggia e della fertilità dei campi, e ai suoi sacerdoti. Un annuncio di morte. Non solo la pioggia mancherà, ma anche la rugiada, che inumidisce il terreno di notte e lo rende fertile, anche quando non è il tempo delle piogge. Le parole di Elia evocano la visione di una chiusura totale del cielo, e di una terra completamente disseccata e sterile, ma sta anche ad indicare la chiusura del cuore dell’uomo che ha dimenticato il suo patto di alleanza con il Signore, significa che il peccato dell’uomo ha ormai raggiunto il suo culmine, che lo stile della sua vita è divenuto intollerabile e distruttivo. La terra di Israele diventerà un deserto (deserto morale, deserto fisico, portatore di morte), dal quale solo Dio potrà salvarlo. 5
Noi non possiamo fermarci ad una lettura superficiale e letterale dell’episodio. Alla luce di una interpretazione teologica, la siccità simbolicamente, come abbiamo visto, si equivale alla siccità spirituale: a una fede arida, un’esistenza sbandata, una vita macchiata da violenze e ingiustizie, al rifiuto dell’Alleanza e della Parola. La rugiada è simbolo della Parola di Dio. Dice il Signore: “Sarò come rugiada per Israele; esso fiorirà come un giglio e metterà radice come un albero del Libano” (Os14,5-10), ma è simbolo anche dell’amore di Javeh per Israele, dell’amore fraterno che scende da Dio sul popolo eletto; “E’ come rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion” (Sal 133,3) . La pioggia a sua volta è simbolo stesso della Parola di Dio: “Stilli come pioggia la mia dottrina, scenda come rugiada il mio dire” (Dt, 32,2) , e del regno del Messia che viene sulla terra per inondarla di giustizia e di pace. Ma la Parola di Dio non viene più ascoltata e praticata. Sono le inevitabili conseguenze dell’idolatria del benessere, quelle che il profeta coraggiosamente pone di fronte ad Acab. Nelle parole di Elia risuona la denuncia del peccato e il conseguente castigo; ma in esse possiamo e dobbiamo sforzarci di leggere anche la speranza per la conversione e la salvezza. “Fino a quando lo dirò io” (v. 1) : Di fronte a tanto sfacelo, ancora il Signore lascia una porta socchiusa; sta all’uomo spalancarla per entrare di nuovo in comunione con Lui e riallacciare la vecchia alleanza. A questo servono le parole del profeta: a far sì che il popolo non solo prenda consapevolezza del suo peccato, ma senta in sé il bisogno del perdono e della ritrovata libertà dal peccato stesso. Allora il Signore avrà pietà del suo popolo e nella sua grande misericordia lo aiuterà come quando lo ha fatto uscire dell’Egitto e, nel deserto, lo ha dissetato con l’acqua che sgorgava dalla roccia e lo ha sfamato con la manna che cadeva dal cielo. Attraverso la sofferenza e la morte, Israele capirà il suo errore e la sua infedeltà, capirà che non è Baal a dare la pioggia, ma il Signore Dio, e che, adorando Baal, ha finito per morire di sete. Il profeta è dunque mandato da Dio per rivelare tutto questo al suo popolo, un popolo che egli ama, che non vuole perdere, perché perisca l’inganno e la sete non uccida, ma porti invece al riconoscimento della verità e i cieli si riaprano e la terra rifiorisca e per il popolo torni la vita. Il cammino è lungo e difficile, sia per il popolo che deve convertirsi, sia per il profeta che lo deve aiutare. Le parole di Dio sembrano a questo punto contraddittorie: manda Elia dal popolo per riportarlo alla fede, e subito dopo gli ordina: nasconditi, vattene da qui. Perché? Anche Elia ha bisogno di sofferenze, di ritrovare il Signore? Forse ha commesso un peccato di orgoglio, mentre dice, “fino a quando lo dirò io”? Comincia una specie di pellegrinaggio, fisico e spirituale, perché Elia sentirà sulla sua pelle gli effetti di quella carestia che aveva preannunciato. E si mette alla ricerca di cibo, simbolicamente alla ricerca dei valori della vita, dirigendosi alla sorgente della fede. E’ Dio stesso che lo guida sui sentieri di questo cammino, La prima tappa di questo viaggio, che vogliamo chiamare di redenzione, è al torrente Kerit, un affluente del Giordano. Elia viene mandato per vivere lì di ciò che il Signore gli dona. “Vattene di qui” (v. 3), gli dice il Signore, “dirigiti ad oriente, nasconditi”. L’ordine del Signore ha in sé un doppio significato: certamente una sua giustificazione storica. Possiamo immaginare che, dopo le minacce di carestia e di morte lanciate da Elia contro il re Acab e il popolo di Israele, la sua vita potesse essere in pericolo. Così Elia fugge per nascondersi nel deserto, va al Kerit, dove lo ha mandato il Signore. Ma perché proprio lì? Forse perché si trova nei pressi di Tisbe, la città natale del nostro profeta, i cui luoghi gli erano sicuramente familiari e dove poteva nascondersi con più facilità? Forse. Il Kerit è un torrente, un breve corso d’acqua che ha delle sue caratteristiche geografiche particolari. Il suo percorso è alquanto impervio, prima di giungere in una bella valle ricca di fiori e alberi. Voglio leggervi una descrizione del Kerit riportata dal Card. Martini in un libretto di riflessioni sul profeta Elia. “Cerchiamo di scendere anche noi verso il Kerit che, come altri torrenti di Israele, si trova quasi al fondo di un burrone. Percorriamo una pista sassosa, polverosa, molto ripida, che si snoda in mezzo a gole dirupate. La vegetazione è brulla, arida, qua e là possiamo scorgere delle grotte aggrappate sul fianco del burrone, Il sole stenta a penetrare tra le gole e il suo calore non ci raggiunge. Dopo aver superato, con una certa difficoltà, l’ultimo tornante della discesa, ci troviamo improvvisamente davanti a uno scenario delizioso: il sole illumina un’oasi dai mille colori, ricca di albicocchi, melograni, olivi, palme, datteri, aranceti, e un piccolo ruscello limpido scorre, sparendo e riapparendo tra la vegetazione, su un letto di ciottoli bianchi. E’ il Kerit, e per vederlo valeva la pena di fare tanta fatica”. E’ facile leggere in questo percorso tutte le difficoltà a cui deve andare incontro l’uomo nella sua ricerca di Dio, prima di giungere alla meta agognata!
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La fuga di Elia deve essere letta, anche e soprattutto, alla luce di un profondo significato spirituale. Di fronte a situazioni difficili, confuse, bisogna che l’uomo si ritiri per riprendere le forze, per ristorarsi, rinnovarsi, per essere in grado di affrontare nuovamente il pericolo. L’allontanarsi da un luogo che non è più sicuro lo ritroviamo anche nel Vangeli, quando Gesù, in Mt 10,23 dice: Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra. E Gesù stesso, quando sa che i Farisei tramano contro di lui, si legge, sempre in Mt.12, “si allontanò da lì”.“Vattene di qui, dirigiti verso oriente”, così come disse il Signore ad Abramo alle origini della storia della salvezza. L’oriente è il luogo da dove viene la salvezza, il simbolo di Cristo, del sole che sorge e che salva. Elia va nel deserto e si rifugia al Kerit per attingere più copiosamente la conoscenza di Dio, abbandonandosi totalmente in Lui. E beve l’acqua del torrente, e mangia il cibo che gli portano i corvi, il pane al mattino, la carne alla sera. C’è in questo episodio una chiara assonanza col racconto in Es. 16, 8-12. Anche lì è Dio che procura cibo agli Israeliti. La carne la sera, il pane al mattino. E dalla roccia sgorgherà l’acqua che disseterà, in Es 17,6. Non vi dice nulla questo pane che viene dal cielo, quest’acqua, l’unica che disseta, tanto da non farci sentire più sete? Elia ripercorre l’esperienza del popolo di Israele fuggito dall’Egitto, durante la quale, nel deserto, ha imparato a vivere in totale dipendenza dal Signore, dove ha imparato quella fede a cui ora sta venendo meno. “Nasconditi al Kerit” (v. 3) dice ancora il Signore. C’è un bellissimo riferimento nel Vangelo di Matteo (Mt 6,6) che è particolarmente caro a noi che viviamo del carisma carmelitano: “Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto (in abscondito) e il Padre tuo, che vede nel nascondimento, ti ricompenserà.” A questo nascondimento ci hanno sempre invitato i santi carmelitani; meditando nel profondo del nostro cuore, assaporiamo la Parola, ci nutriamo di essa, entriamo in comunione con Dio. Il Kerit diventa quindi il simbolo della preghiera nascosta, della preghiera contemplativa. Dobbiamo riuscire a creare il deserto intorno a noi per allontanare tutto ciò che ci disturba, e, anche se camminiamo a lungo nella desolazione, dobbiamo avere la forza di abbandonarci in Dio, di affidarci totalmente a Lui. E Dio che non ci dimentica, che vede nel segreto, ci darà il nutrimento necessario, come con l’acqua del torrente e il pane dei corvi al profeta Elia, per giungere a quella preghiera che, apparentemente povera, priva quasi di parole e di concetti, nutre abbondantemente lo spirito. O Maria, madre della preghiera, donaci di entrare nella preghiera misteriosa di Elia, dei profeti, di entrare nella tua preghiera, nella preghiera del tuo Figllo nell’orto del Getsemani, perché anche noi con lui ci nascondiamo presso il torrente Kerit per elevare al Padre il nostro grido di abbandono. La seconda tappa del viaggio di Elia è a Sarepta. Ma ne parleremo la prossima volta. Bibliografia: Martini, Il Dio vivente Costacurta, Il fuoco e l’acqua AA. VV., I figli dei profeti
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3. Il coraggio di Elia. Seconda parte In Lc 4, 24-26, leggiamo: “E aggiunse: “Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone”. Se un fatto accaduto ben 870 anni prima della nascita di Cristo viene ancora ricordato dagli Israeliti e ripreso da Gesù, vuol dire che esso suscitò grande scalpore e che il suo significato va oltre l’avvenimento in esso narrato. Ciò che ha colpito maggiormente la mente e l’animo degli Israeliti è stato certamente l’interesse che Elia dimostrò verso i pagani, per coloro che non appartenevano al popolo di Dio, ma che certamente Dio voleva conquistare a sé, e verso i quali l’atteggiamento degli Israeliti era stato sempre di rifiuto totale. Comincia dunque il secondo pellegrinaggio di Elia. La siccità ha raggiunto anche Elia; il torrente, il Kerit, si è prosciugato, non c’è più acqua dove dissetarsi e forse i corvi non verranno più a portare il cibo. Elia è in crisi; al limite della sopravvivenza, prova sulla sua pelle la conseguenza della profezia; non è più neanche sicuro dell’aiuto del Signore. Ma ecco il Signore ancora una volta gli ordina: Alzati! Lo manda a Sarepta, una cittadina della Fenicia, conosciuta dai suoi abitanti col nome di Akbar, che dista una decina di km. da Sidone. Vi ricordo che la Fenicia, con Sidone e Tiro, le sue due città più importanti, era dedita al culto di Baal e che la regina Gezabele proveniva proprio da Sidone, figlia del re Et-Baal. Sembra strano che il Signore, che prima ha ordinato ad Elia di nascondersi per sfuggire all’ira di Acab e di Gezabele, ora lo invii addirittura nella patria della regina, in mezzo ai nemici e agli adoratori di Baal. Elia vive un momento di dubbio e di perplessità, pensa di non essere in grado di capire i comandi del suo Signore. Ma li esegue ugualmente e si incammina verso Sarepta. Piano piano, egli comincia a prendere coscienza della sua missione; il suo compito è questo, convertire non solo gli Israeliti che si sono dimenticati del loro Dio, ma anche i pagani che non credono in Lui. Un po’ come faranno gli apostoli di Gesù quando cominceranno la loro predicazione e la loro evangelizzazione tra le popolazioni pagane. Prima di proseguire nell’analisi del brano, facciamo una breve digressione. Non so se ricordate o avete fatto caso ad un concetto che ho cercato di sottolineare nelle passate riflessioni: l’importanza che assume nella nostra vita di cristiani la capacità dell’ascolto, l’ascolto della Parola e l’ascolto degli altri, di coloro che ci stanno accanto, in mezzo ai quali noi viviamo e operiamo. Elia è per eccellenza colui che ascolta, che serve, che agisce; anche noi, abbiamo visto, siamo chiamati ad ascoltare, meditare, agire, testimoniare ciò che abbiamo ascoltato e meditato. Ma come ascoltiamo? Voglio farvi partecipi di una bella pagina nella quale mi sono imbattuta in uno dei testi che sto leggendo per questo lavoro.E’ un’analisi della capacità di ascolto dell’uomo moderno, di noi, insomma. Oggi si dice che l’uomo non è più in grado di ascoltare, per tre motivi: Primo, perché è stato “defraudato dell’orecchio”. Noi non ascoltiamo più perché siamo sopraffatti dalle immagini. Belle o brutte, accattivanti o meno che siano, noi siamo presi da ciò che ci viene continuamente offerto e ci riempiamo gli occhi di figure, colori, situazioni a volte strane; le guardiamo, le ammiriamo, ma più spesso senza approfondire ciò che vediamo per esprimere su di esse un giudizio; immagini veloci che non lasciano spazio al pensiero, ma che si insinuano ugualmente nella nostra mente. Secondo, perché è stato “defraudato del silenzio”. Siamo sommersi da una massa di informazioni, di parole, di nuovi concetti, che recepiamo senza analizzarli, che sono molto spesso banali e superflui; per questo, è sufficiente la tv, aperta a tutte le ore del giorno e, perché no, della notte, mentre si lavora, si studia, anche mentre si prega, perchè ci sentiamo soli, perché non sappiamo gustare il silenzio, che ci sembra insopportabile, non sappiamo utilizzarlo nel modo più adatto a noi, cioè per pensare. Terzo, perché è stato “defraudato dell’altro”. In un mondo in cui domina la ricerca del benessere materiale e del potere, ci siamo chiusi in noi stessi, nel nostro egoismo, che non lascia spazio al contatto con gli altri, abbiamo perso la fiducia nell’altro perché, è vero, 8
l’altro spesso ci ha deluso. Abbianmo perso il gusto del dialogo che ci consente di aprirci all’altro, di condividere pensieri, idee, momenti di gioia e di dolori; così come all’altro non lasciamo spazio per rivelare se stesso, per chiedere eventualmente aiuto; ci piace più discutere, dibattere piuttosto che ascoltare e dialogare. Dobbiamo allora recuperare questo momento essenziale della nostra formazione, e cioè l’ascolto, in particolare per noi cristiani l’ascolto della Parola, perché sia Dio a parlare a noi, e noi dobbiamo essere pronti, con l’orecchio, con la mente e col cuore, a tacere per ascoltarlo e quindi dialogare con Lui. E’ bene evidenziare che ci sono diversi modi di ascoltare. Nella tradizione ebraica sono descritti quattro diversi tipi di ascoltatori della Parola: c’è la spugna, l’imbuto, il colino, il setaccio. La spugna assorbe tutto, l’imbuto si riempie da una parte e si svuota dall’altra, il colino fa passare il vino trattenendo la feccia, il setaccio fa passare la farina trattenendo la semola. Nella parabola del seminatore in Lc 8, 11-15, leggiamo: “Il significato della parabola è questo: Il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza.” Abbiamo ancora visto come l’ascolto della Parola di Dio è strettamente legato all’azione, cioè come deve essere operativo, plasmare la vita in obbedienza alla Parola; così l’ascolto diventa proficuo, se trasforma la persona, se avviene col cuore, se plasmiamo su di esso le nostre scelte, le nostre decisioni. E’ proprio questo che ha fatto Elia. Ha rinnegato se stesso, rinunciato alla propria volontà, assecondando in tutto quella di Dio. Di lui fu scitto: “Andò dovunque lo conduceva la volontà di Dio, e operò in conformità alla parola divina”. E infine c’è l’ascolto che ci sostiene nei tempi di crisi, quando i problemi della nostra esistenza, le sofferenze, i dolori, le perdite sembrano sovrastarci, l’unico aiuto che abbiamo, l’unica guida sicura che non ci tradirà mai è la Parola di Dio. Essa ci fa comprendere che tutte le sofferenze dell’uomo possono e debbono essere vissute come un’occasione di crescita e di maturità. Come vedete, attraverso la lettura dell’azione profetica di Elia vengono offerti a noi tanti spunti di riflessione; basta non soffermarsi ad una lettura superficiale, ma chiederci piuttosto cosa Dio vuole dire anche a noi e cosa vuole da noi. Questo è importante, che tutti noi cresciamo spiritualmente dopo avere ascoltato e meditato le parole del Signore. Elia parte dunque per Sirepta di Sidone. Dio lo manda da una vedova, povera, con un figlio piccolo al quale non ha più nulla da dare da mangiare, pagana, come gli altri Fenici perché anche lei adora Baal. Alzati, gli dice, va in Sarepta di Sidone e ivi stabilisciti. Ecco io ho dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo. Dio si serve di tutti e di ognuno di noi per i suoi fini: così come al Kerit ha ordinato ai corvi di portare il cibo ad Elia, fa ora con la vedova di Sarepta. Io ho dato ordine di nutrire Elia; in realtà ha predisposto il suo animo ad ascoltare la parola di Dio. Questa di Elia diventa così un’opera di evangelizzazione in un paese straniero, nemico e pagano che soffre la carestia per le sue parole; opera che comincia con un soggetto debole, la donna è vedova, povera, sola, senza difesa, senza sostentamento; e proprio per questo è più amata da Dio. Sono tre le categorie di persone che ritroviamo nella sacra scrittura che più commuovono l’animo del Signore: l’orfano, la vedova, lo straniero, per indicare quelle più esposte e prive di mezzi e di protezione. Dio predilige i poveri, gli umili, i semplici, gli abbandonati, una categoria propria del Dio di Elia, del Dio di Gesù, del Dio del Vangelo. E noi? Come ci poniamo di fronte a questa categoria di persone? Siamo capaci di ascoltare l’altro quando questi ha “poco”, poco denaro, poca istruzione, poca efficienza? E non ci accorgiamo che, in compenso, egli ha un animo grande e accogliente, una grande onestà e sapienza di vita! Proprio ai poveri il Padre si è compiaciuto di rivelare i “segreti del Regno”, lo leggiamo in Mt 11,25; e Gesù aveva indicato la vedova povera, quella che aveva “poco”, come modello del vero discepolo, perché quel “poco” era tutto quello che aveva per vivere, lo troviamo in Mc 12,44, e lo aveva donato. Ma torniamo ad Elia e alla vedova e cerchiamo di immaginare la scena: Elia è in cammino, stanco, lacero, affamato e assetato. Arriva alle porte della citta di Sarepta, la siccità è arrivata anche lì; la terra è brulla, tutto sembra immobile, già morto. Vede una donna che raccoglie un po’ di 9
legna e pensa: ci sarà qualcosa da mangiare. Le chiede da bere e la donna si avvia verso la fonte non ancora completamente prosciugata. Ma mentre si allontana, ecco Elia le chiede del cibo; e a lei che gli dice che ha appena quanto basta per lei e il figlio, e poi moriremo aggiunge, parole terribili, Elia chiede addirittura di provvedere prima per lui e poi per il figlio e per se stessa. La vedova, che ha riconosciuto in Elia un uomo del Signore, non si tira indietro; di fronte alla morte sicura, nasce, dalle parole di Elia, una piccola speranza; “ perché, ha detto il Signore, la farina nella giara non finirà e così l’olio nell’orcio”. La vedova ha fiducia e si affida totalmente a lui: sa che il Signore la ricompenserà come fa con tutti i deboli che si affidano a Lui. Elia riprenderà le forze e la vedova e il figlio avranno di che mangiare. Non grandi quantità; nella giara ci sarà sempre e soltanto un pugno di farina e nell’orcio una piccola quantità di olio, ma è quanto basta per sopravvivere. La giara e l’orcio non si svuoteranno finché durerà la siccità: è Dio che dà la vita, oggi con la farina, domani con la pioggia. Il miracolo che Dio opera con la vedova è un miracolo misurato, goccia a goccia, non fiumi di olio e montagne di farina, ma un orcio con un po’ di olio e un po’ di farina nella giara. Quello che serve per vivere non si esaurirà mai; ne resta sempre una piccola parte, perché si possa continuare a credere, continuare a fidarsi, giorno dopo giorno, come con la manna nel deserto, come con il pane quotidiano che chiediamo nel Padre nostro. Il dono di Dio è inesauribile, come è inesauribile la pazienza dei poveri, come la fede, alimentata dalla presenza amorevole di Dio nella nostra vita quotidiana. A questo punto bisogna fare alcune considerazioni. Abbiamo visto come nella giara era rimasto appena un pugnetto di farina, così come nell’orcio una piccolissima quantità di olio. Dell’una e dell’altro la donna ha certamente finora cercato di usare con parsimonia, per farli durare più a lungo possibile. Ora però è vicina la fine, non c’è più nulla da fare; non sarà certo quell’ultimo pezzo di pane che consentirà loro di sopravvivere alla tremenda carestia; ma ha un figlio e l’amore per lui e per la vita va al di là di ogni razionalità. La donna sa che devono morire, ma il suo istinto di madre, prima ancora che il senso forte della sopravvivenza, la spingono ancora una volta a preparare un pezzo di pane. Una studiosa di Elia vede in questo racconto una forte analogia con l’episodio di Abramo che porta il figlio Isacco al sacrificio estremo chiestogli da Dio. E pur sapendo che di lì a poco, egli dovrà morire, durante il tragitto per salire sul monte, lo salvaguardia, perché non debba farsi male, gli dà da portare la legna e tiene per sé il coltello e il fuoco. Così fa la vedova; con le ultime energie, cucina ancora per il figlio. A lei che non ha nulla si avvicina Elia, chiede aiuto, chiede la vita, da bere e da mangiare. Ma è stato proprio lui che ha provocato con la siccità questa situazione di carestia e di morte; ora chiede acqua e cibo. E’ stato mandato per dare, ora sta chiedendo. Ma chiede, per dare. Ricordate l’episodio di Gesù con la samaritana alla fonte. Gesù che è sorgente di acqua viva, chiede acqua alla samaritana: dammi da bere, dice. Ancora, sulla croce: ho sete! Chiede, perché aspetta da noi una risposta positiva, di fede, di libertà, di amore. Ma andiamo avanti e leggiamo l’ultima parte di questo capitolo. Il racconto dell’incontro tra Elia e la vedova di Sarepta ha, a questo punto, un risvolto tanto impensabile quanto grave. Quando sembrava che la vita nella casa della vedova potesse tornare alla normalità e riprendere il suo corso tranquillo, adesso c’era da mangiare, ecco che improvvisamente si verifica un fatto tragico: il figlio della donna si ammala e muore. La morte è sempre vissuta come un momento tragico nella vita degli uomini; la morte di un bambino poi, di un innocente, è assolutamente inaccettabile per l’uomo. La morte, ma già anche la malattia grave fa nascere nell’uomo un moto di ribellione, di disperazione, sia in chi la subisce, sia anche in chi è molto vicino al malato e soffre e patisce con lui. Il tema della malattia grave, come quello della morte, è presente nella Sacra Scrittura diverse volte. Nel Vangelo di Marco, al cap. 9, per es., leggiamo tutto il dolore di un padre che chiede aiuto e pietà a Gesù per il figlio epilettico. In Matteo, al cap. 15, partecipiamo al dolore della donna cananea per la figlia tormentata da un demonio, “Pietà di me, Signore, aiutami,” dice, quasi identificandosi con la figlia. E anche nel racconto di Lazzaro in Gv. 11, c’è questa forma di condivisione delle sofferenze delle due sorelle: “Signore, il tuo amico è malato”. Possiamo distinguere tre momenti in questa parte del racconto: la malattia mortale del figlio della vedova; le invettive della donna; la guarigione del bambino e la riconsegna alla madre. Il bambino cessa di respirare. La morte del figlio della vedova sembra smentire la promessa di vita che Dio aveva fatto alla donna attraverso Elia. A che serve la farina e l’olio, se il bambino si ammala e cessa di vivere? La reazione della donna è violenta e rivolta contro se stessa, si autoaccusa, “la mia iniquità”, dice, e contro Elia; è arrivato lì con una promessa di vita ed ecco i risultati; lo fa sentire responsabile della morte del figlio. 10
Elia è certamente affranto per quanto succede, anche imbarazzato perché le parole della donna sono una chiara accusa contro di lui. Ma cosa può dirle? Cosa si può dire a chi subisce un dolore così atroce? Non c’è spazio per parole di conforto! Elia sembra sopraffatto dal dolore e dal mistero terribile di un Dio incomprensibile. Ma ha un’intuizione. Capisce che non è il momento né di consolare né di tentare di discolparsi: prende il ragazzo, sale nella sua camera, lo stende sul letto e invoca il Signore. Ancora una volta fa nascere la speranza nel cuore della donna. Le prende il figlio dalle braccia. Il rischio è grande, se Dio non ascolta la preghiera del profeta. Ci vuole una grande fede per prendere quel bambino dalle braccia della madre, così come serve una grande fiducia alla madre per lasciarselo prendere. Elia assume simbolicamente su di sé la morte del bambino; si sdraia su di lui tre volte, diventa come lui, ma restando vivo, portatore di vita. Il Signore ascolta la preghiera di Elia; il bambino che ritorna a vivere è il riconoscimento del potere e della fede di Elia ma anche dell’obbedienza e della fiducia della madre. La donna riconosce nella fede la presenza del Signore: “Ora so davvero che tu sei un uomo di Dio e che la Parola del Signore sulla tua bocca è verità”.
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4. Il sacrificio di Elia sul monte Carmelo 1Re 18 L’episodio, di cui ci occupiamo questa sera, racconta di un momento particolarmente intenso nell’attività profetica di Elia. Se mi consentite una battuta, nelle “puntate precedenti”, abbiamo visto come ci sia sempre in lui un rapporto privilegiato, intimo, quasi confidenziale con il Signore. Ricordate le sue parole: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto”. L’espressione non sembra nascere da una sua presenza, davanti al Signore, occasionale, momentanea, ma piuttosto da una normalità di vita quasi in comune. L’abbiamo visto all’opera nel momento in cui deve affrontare il re Acab e gli Israeliti adoratori del dio Baal; lo abbiamo poi seguito nel nascondimento presso il torrente Kerit, in cui viene esaltato l’aspetto contemplativo della sua vita dedicata al Signore; (contemplazione e azione: abbiamo sottolineato, comportamenti che saranno fatti propri dall’ordine carmelitano); lo troviamo adesso, in questo episodio, mentre adempie, ancora una volta, con coraggio e sicurezza, l’ultimo incarico del Signore: sfidare lui, da solo, i 450 sacerdoti di Baal, per affermare che il Signore è l’unico Dio in Israele. Ancora una volta, al servizio del Signore, egli diventa segno dell’azione di Dio in mezzo al popolo. Così infatti si esprime quando prega sul Carmelo prima del sacrificio: “Signore, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, oggi si sappia che sei Dio in Israele e che io sono tuo servo”. Vi riassumo brevemente la prima parte del capitolo 18. L’episodio è lungo e complesso: proviamo ad esaminarlo con attenzione, seguendo passo passo i vari momenti. In premessa viene naturale chiedersi perché i fatti narrati siano ambientati proprio sul monte Carmelo. Geograficamente, esso si trova sul confine tra il regno di Israele e il territorio dei Fenici; nel primo, nella parte sud-orientale del monte Carmelo, si praticava il culto a Jhave, unico Dio e Signore, il Dio dei padri; nel secondo, nella parte nord-occidentale, che si spinge direttamente sul mare Mediterraneo ( i Fenici, ricordiamolo, erano un popolo di abilissimi navigatori, favoriti in questo dal fatto che utilizzavano un legno proprio della loro regione, il famoso cedro del Libano, particolarmente leggero ma forte e resistente, con cui costruivano le loro navi.. Hanno percorso tutto il Mediterraneo, sono giunti fino in Africa e qui hanno costruito una famosa citta, Cartagine, che nel futuro sarebbe stata poi acerrima rivale dei Romani); in questa zona si praticava il culto del dio Baal. E col matrimonio di Acab, re di Israele, con Gezabele, regina fenicia, tale culto aveva finito per coinvolgere anche tutto il popolo. Il monte Carmelo appare lo scenario ideale per rappresentare la situazione in cui viveva allora il popolo di Israele; da una parte fedele alla religione dei padri, ma attratto, dall’altra, dai culti idolatri del dio baal. Simbolicamente, dunque, il monte Carmelo rappresenta il cuore del popolo, diviso tra Jahve e Baal. Abbiamo parlato, se ricordate, nel primo incontro, di sincretismo religioso, di una religione cioè che si avvale di due diversi culti, mescolandoli insieme, così da non saper distinguere cos’è giusto e cosa sbagliato. Ecco dove interviene Elia ed ecco lo scopo della sua azione: riportare il popolo alla sua unica vera religione. Il duro rimprovero che egli rivolgerà al popolo: “Fino a quando zoppicherete da entrambi i piedi?”, è significativo di questo atteggiamento del popolo che, forse senza rendersene conto, ha finito per adorare due divinità, una vera, reale, viva; l’altra, un idolo, una pietra, costruita dall’uomo, che non ha occhi per vedere, non ha orecchi per sentire. “Zoppicare con due piedi”: è un’espressione un po’ difficile da interpretare; forse si fa riferimento alle danze sacre che venivano eseguite a volte in onore di Jahve, altre in onore di Baal, ma sicuramente essa sta simbolicamente ad indicare l’incapacità del popolo di scegliere da che parte stare, di assumere una posizione netta, una mancanza di decisione. Una cosa è certa: che il popolo vive in uno stato di confusione e di non osservanza della legge del Signore. Per questo il Signore lo ha punito, per questo ha inviato il suo profeta. Torniamo ai fatti. Elia ha ricevuto un nuovo comando del Signore. E’ passato un po’ di tempo da quando era giunto a Sarepta di Sidone, non sappiamo bene quanto, e, nonostante la carestia che si è abbattuta sul paese, il popolo non è cambiato, ha continuato a peccare nei confronti del Signore. La pazienza di Dio non ha limiti, è vero; egli ha aspettato, ha aspettato con Lui il profeta Elia, ma la mente dell’uomo è ottenebrata, il suo cuore indurito dal male. E allora, che fare? Abbandonare il popolo al suo destino? Ma è il popolo al quale Dio ha assicurato la sua alleanza! E allora Dio, anche qua consentitemi una battuta, parte all’attacco: non solo con la parola di Elia, ma con i fatti: Gli adoratori di Baal dovranno essere 12
sbugiardati, sconfitti definitivamente; il popolo dovrà vedere con i suoi occhi la loro falsità, comprendere che è stato ingannato con parole vuote e menzognere e finalmente scoprire dove è la verità. Dice il Signore ad Elia: Va e presentati ad Acab, perché invierò la pioggia sulla terra. Se Dio fino ad ora è stato paziente, ora dimostra la sua pietà per il popolo peccatore, quella pietà che libera dal male e salva. Manderà la pioggia, segno sicuro che vuole salvare il suo popolo. Elia si affida ancora una volta al comando del Signore ed obbedisce. L’incontro tra questi due personaggi è drammatico: Acab accusa Ellia di essere la causa della morte del suo popolo, Elia gli rinfaccia la sua di colpa, di avere cioè ceduto all’idolatria e di avere abbandonato la religione dei suoi padri. E’ singolare che questo intervento del Signore avviene proprio nel momento in cui Acab dà ordine al suo ministro Abdia di percorrere tutto il paese alla ricerca di erba per sfamanre cavalli e muli, così da non dovere uccidere il bestiame. Ma, e la sua gente? Chi la sfama? Acab pensa solo alla ricchezza e al potere, soprattutto militare. Adesso Elia lo mette di fronte alle sue responsabilità: è il re e il suo peccato che stanno rovinando il popolo, coinvolgendolo nella follia dell’idolatria. E’ questa la causa della rovina di Israele; la carestia è invece il presupposto della salvezza, perché spinge il popolo a riconoscere il suo peccato, a pentirsi ed essere degno di ricevere il perdono. E proprio per smascherare l’inganno dell’idolatria, Elia lancia la sfida: ordina ad Acab di convocare la comunità dei sacerdoti, sono ben 450, sostenuti dalla regina Gezabele, e il popolo di Israele sul Monte Carmelo, perché finalmente si faccia chiarezza su chi è il vero Dio. Un bel coraggio quello di Elia; sono di fronte, da una parte Elia, solo, che lancia la sua sfida inesorabile, rimproverando il popolo per la sua incoerenza, dall’altra le voci urlanti dei sacerdoti di Baal. Il popolo, chiuso nel suo egoismo, forse sorpreso dagli avvenimenti, ancora una volta non ha la forza di decidere, di esporsi. All’invito di Elia: “Se il Signore è Dio, andate dietro a Lui, se invece lo è Baal, andate dietro a lui”, il popolo non risponde nulla, Tace, disorientato. Vi è un episodio pressochè simile nel libro di Giosuè, al cap. 24, quando, radunati in assemblea a Sichem tutte le tribù di Israele, gli anziani, i capi, i giudici e gli scribi del popolo, Giosuè pone loro praticamente la stessa domanda: “Se vi dispiace servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre i fiumi, o gli dei degli Amorrei, nel paese nel quale abitate. Quanto a me e alla mia casa, vogliamo servire il Signore”. Per tre volte Giosuè pone la stessa domanda al popolo e per tre volte il popolo risponde deciso “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dei”. Ad Elia invece il popolo non risponde nulla. Ma Elia non lascia solo il suo popolo, lo aiuta, indicando il segno che rivelerà la verità: preparerà un sacrificio agli dei, si farà l’offerta con preghiere e canti, il vero Dio si manifesterà, rispondendo con il fuoco che consumerà l’offerta. Leggiamo insieme ciò che succede, ai vv. 25-29. Abbiamo assistito al confronto tra il profeta Elia e i seguaci di Baal, tra il Signore di Israele, Dio di salvezza e di vita, e l’idolo muto, senza consistenza, che nulla può fare, né in bene né in male; ma anche al confronto tra due modi completamente diversi di rivolgersi a Dio e di pregare. I sacerdoti di Baal gridano, si agitano, danzano, saltano, in uno stato di esaltazione fisica e psichica sempre maggiore, tanto da farsi incisioni sul corpo e riempirsi di sangue, neanche avvertendo dolore, quasi che queste manifestazioni avessero in se stesse la capacità di provocare una risposta dal dio, come se dipendesse dalla propria forza vitale dare vita a qualcosa che non esiste. Il loro comportamente assurdo nasce dall’inganno che essi coltivano in se stessi, convinti che con azioni estreme potranno sottomettere l’idolo alla loro volontà. Il risultato è il nulla! A nulla valgono infatti le urla, le invocazioni, le danze sfrenate, l’eccitazione fino a cadere in trance, i sanguinamenti dei 450 sacerdoti di baal: per tutto il giorno attendono un segno, una risposta. Ma c’è il silenzio più assoluto, è il nulla quello che ottengono. Ed Elia si prende gioco di loro: gridate più forte, gli dice, forse il vostro dio non ha sentito, forse dorme o ha altro da fare. Apriamo una breve parentesi. Immagino sappiate che ancora oggi ci sono cerimonie di questo genere, anche se non hanno nulla a che fare con le antiche forme di idolatrie; in alcuni movimenti pseudo religiosi, ma soprattutto nelle sette, e ce ne sono tante, è possibile assistere a queste forme di autoesaltazione, a preghiere gridate con la bocca piuttosto che col cuore, a movimenti incomposti del corpo, talvolta purtroppo anche a sacrifici umani. Ho sentito di gente che, al culmine dell’eccitazione e dell’esaltazione, comincia a dire parole incomprensibili che vengono scambiate per preghiere in lingue sconosciute. E tanta gente ci crede, così come crede nei maghi, negli amuleti, nei talismani, nelle carte, negli oroscopi. Tutto legato alla superstizione, al credere che, servendosi di questi marchingegni, si 13
possa riuscire non solo a tenere lontano il male, ma addirittura a modificare lo svolgersi degli avvenimenti. Quanta gente nel nostro tempo butta via i soldi in maghi e megere! Spesso tutto questo nasce dal fatto che non troviamo risposte che ci soddisfino in Dio, nella Parola del Vangelo, senza pensare che Dio non è fatto per come lo pensiamo noi, che il suo giudizio non è il nostro giudizio e che spesso egli può sconvolgere le nostre attese, Ci aspettiamo che Dio si comporti in una certa maniera, secondo l’immagine che ci siamo fatta di lui, lo riduciamo a nostra misura, secondo la nostra convenienza e rimaniamo delusi e increduli. Il Dio di Elia, il nostro Dio, è un Dio vivo, che è al di là di ogni nostra immaginazione e ogni nostro pensiero, che si rivela per amore, che sconvolge le idee e la vita dell’uomo. E’ un Dio che ha tanto amato gli uomini da sacrificare il suo unico figlio unigenito, fino alla morte, fino allo scandalo della croce. Noi sappiamo che la preghiera più sincera, che arriva direttamente a Dio è quella silenziosa, pulita (consentitemi questo aggettivo), che nasce nel profondo del nostro cuore dove solo Dio ha accesso; solo Lui, perché a volte nemmeno noi stessi siamo consapevoli dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti L’atteggiamento di Elia è ben diverso da quello dei sacerdoti di Baal! Egli è il solo a parlare veramente, è lui il profeta, colui che con la sua parola interpreta la realtà e ne svela il senso. I sacerdoti di Baal non parlano, abbiamo visto, gridano, e Baal mostra la propria inesistenza, tacendo. Elia invita il popolo ad avvicinarsi a lui, vuole che diventi partecipe e protagonista della preghiera e di quanto sta avvenendo. Leggiamo vv. 30-35: “Elia disse a tutto il popolo: «Avvicinatevi!». Tutti si avvicinarono. Si sistemò di nuovo l'altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei discendenti di Giacobbe, al quale il Signore aveva detto: «Israele sarà il tuo nome». Con le pietre eresse un altare al Signore; scavò intorno un canaletto, capace di contenere due misure di seme. Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna. Quindi disse: «Riempite quattro brocche d'acqua e versatele sull'olocausto e sulla legna!». Ed essi lo fecero. Egli disse: «Fatelo di nuovo!». Ed essi ripeterono il gesto. Disse ancora: «Per la terza volta!». Lo fecero per la terza volta. L'acqua scorreva intorno all'altare; anche il canaletto si riempì d'acqua”. Nel gesto di Elia che erige l’altare è rappresentato un momento liturgico di grande suggestione; se l’altare è un luogo sacro che indica la presenza del Signore, le dodici pietre che lo compongono, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: Israele sarà il tuo nome, rappresentano il popolo stesso, che, per la mediazione del profeta, simbolicamente è posto davanti a Dio, e diventa anch’esso altare, luogo di offerta e di sacrificio. La preghiera che Elia rivolge al Signore di Israele è densa di significato e di fede: Dio deve manifestarsi perchè il simbolo diventi realtà e il popolo ritrovi la sua identità di popolo del Signore. Leggiamo vv. 36-37: “Al momento dell'offerta si avvicinò il profeta Elia e disse: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose per tuo comando. Rispondimi, Signore, rispondimi e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!»”. Elia si rivolge al Signore chiamandolo Dio dei Padri, quasi a ricordare al Signore la sua antica alleanza col popolo eletto, e nomina Israele e non Giacobbe, perché anche il popolo si senta coinvolto nella preghiera, essendo proprio il regno del nord che, come abbiamo visto, si chiamava regno di Israele, ad avere perso la sua alleanza con Dio. E Dio interviene per convertire Israele, togliendolo dall’inganno dell’idolatria e portandolo alla salvezza. Leggiamo vv. 38-39: “Cadde il fuoco del Signore e consumò l'olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l'acqua del canaletto. A tal vista, tutti si prostrarono a terra ed esclamarono: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!»” Il fuoco, in cui Dio si è altre volte manifestato, ricordiamo l’incontro di Mosè col Signore al roveto ardente e il monte infuocato sul Sinai nell’Esodo cap. 19, è il segno dell’amore di Dio che risponde alla preghiera e si rivela al suo popolo, non solo bruciando l’offerta, ma prosciugando tutta l’acqua che era stata versata nel canaletto. E’ il simbolo dell’amore di Dio, un amore che brucia ma non distrugge, anzi rinnova, trasforma e ricrea il nostro cuore. E così, come dice papa Benedetto XVI, grazie al fuoco dello Spirito santo, grazie all’amore di Dio, noi siamo realmente vivi. 14
Alla vista del fuoco, tutti si prostrano a terra e, finalmente presa coscienza dei loro peccati e dei loro errori, riconoscono il vero Dio. E a voce alta, proclamano: Il Signore è Dio, il Signore è Dio. L’idolatria è finalmente vinta. Il verso 40 recita così: Elia disse loro: “Afferrate i profeti di Baal: Non ne scappi uno”. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torente Kison, ove li scannò. La vittoria del Signore si manifesta anche nell’uccisione dei profeti di Baal. Noi oggi, che siamo figli di Cristo, della Parola di Dio, cresciuti nella legge della mitezza e dell’amore che si sublima nella morte in croce dello stesso Gesù, che abbiamo imparato a conoscere l’infinita misericordia di Dio, non riusciamo a comprendere questa carneficina ordinata da Dio e compiuta da Elia, ma nella Sacra Scrittura, nell’antico testamento, la morte del nemico è indispensabile per riaffermare la sovranità dell’unico Dio. Come è detto nel Dt. cap. 13, tutti coloro che cercano di allontanarci da Dio, devono essere messi a morte, e continua….. “fosse anche tuo fratello, tua moglie, un tuo amico ad istigarti a seguire altre divinità che non conosci, la tua mano sia la prima ad alzarsi contro di lui per metterlo a morte, e dopo di te, tutto il popolo, perché è il delitto più grande cercare di allontanarci dal Signore”. La morte dei 450 profeti di Baal è il riconoscimento della santità del Signore, il suo rifiuto del male e di ogni connivenza con esso, la dimostrazione che la scelta dell’idolatria si equivale ad una scelta di morte. E se vogliamo approfondire questa analisi e chiederci quali sono gli idoli che ci impediscono oggi la conoscenza del Dio vivo, si fa molto presto; gli idoli personali: orgoglio, ambizione, ricerca del benesere e del potere; e poi la sottomissione alle opinioni e alle abitudini degli altri, alla falsa cultura, alla paura della gente e di ciò che può dire o pensare di noi, l’adeguarsi al pensiero comune anche se non lo si condivide, il non essere in grado di esprimere la propria opinione, nel sottostare anche a ciò che riteniamo sbagliato per evitare problemi, e via dicendo. Tutte queste cose ci tolgono la libertà e la purezza del cuore e della mente, tutte queste cose sono idoli. Ha detto Gesù: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”; possiamo aggiungere il Dio vivo, il Dio di Elia, di Maria, dei santi. Vivit Dominus, dice la traduzione latina del testo della Bibbia, comunemente conosciuto come: Per la vita del Signore. Dio è vivo, il nostro amore sia dunque per il Dio vivo, di fronte al quale tutti noi stiamo.
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5. Elia e la nuvoletta che sale dal mare Elia e la nuvoletta che sale dal mare: questo racconto dell’attività profetica di Elia è stato per me sempre ricco di suggestioni. Al grande fracasso dei sacerdoti di Baal, alla tensione quesi palpabile dello scontro tra Elia e i profeti, all’agitazione del popolo e alla sua comprensibile ansia nel non sapere cosa sarebbe successo, subentra ora un momento di assoluto silenzio. I sacerdoti sono tutti morti, il popolo è ritornato a casa con nel cuore la grande pena di aver provocato col suo peccato tutti i disastri degli ultimi tre anni; anche il re Acab è andato a mangiare e a bere, perché, come gli ha detto Elia: “Sento un rumore di pioggia torrenziale”. Elia è rimasto solo sul monte Carmelo, solo col ragazzo che lo serve. Forse anche lui è in ansia; il Signore ha compiuto il miracolo, si è manifestato nel fuoco, ora però deve mandare la pioggia. Si siede per terra, si prostra anzi, ponendo la faccia tra le ginocchia quasi a toccare col viso la terra arida, senza erba, in atteggiamento di preghiera, completamente immobile; si auto obbliga a non guardare verso il cielo, e prega, prega per richiamare la presenza di Dio e la sua azione che sente imminente, perché mandi sulla terra la pioggia benefica. Per sette volte Elia manda il suo ragazzo a scrutare l’orizzonte, a controllare il cielo verso il mare. Per sei volte il ragazzo va e ritorna senza vedere nulla. I numeri sono naturalmente simbolici, il sette è importante perché è segno di completezza; il sei è il numero dell’uomo che da solo non può far nulla. La settima volta, infatti, ecco la nuvoletta appare all’orizzonte; piccola come il palmo di una mano, essa è simbolo del Messia, secondo quanto disse il profeta Isaia: Le nubi faranno piovere il giusto. Sappiamo che le nuvole assumono a volte figurazioni strane, mosse come sono dall’aria, ma la definizione biblica, una mano d’uomo, ci spinge a riflettere sul significato della sua forma. E’ una mano d’uomo, ed è simbolicamente la mano di Dio, quella stessa che, alla fine del brano “è sopra Elia”, come a dire: l’intervento è divino, è un evento di grazia; quella nuvoletta diventerà un grosso nuvolone nero che coprirà il cielo e lascerà cadere sulla terra abbondante pioggia benefica. E, infatti, la pioggia arriva, come promesso da Dio. Elia corre ad avvisare Acab il quale sale sul carro, simbolo di potenza e regalità, per ritornare a Israel. Anche Elia, cinti i fianchi, corre, veloce, e lui, a piedi, arriva ad Israel prima ancora di Acab. E’ la sicurezza che Dio ha mantenuto la sua promessa, è la gioia perchè il popolo di Israele ha riconquistato il suo Dio, che mette le ali ai piedi di Elia. La sua gioia però non durerà a lungo; ma questo lo vedremo in seguito. Ora ritorniamo alla nuvoletta. Nella litania, che solitamente recitiamo alla Vergine del Carmelo, ad un certo punto, ci rivolgiamo a Lei chiamandola “Pioggia ristoratrice nella siccità”. In questa espressione c’è un chiaro riferimento al racconto che vede Elia protagonista sul monte Carmelo dell’incontro-scontro con i profeti di Baal. La siccità di cui si parla è quella che ha afflitto per più di tre anni il popolo di Israele, colpevole di avere abbandonato la religione dei Padri e tradito l’alleanza col Signore per dedicarsi al culto del dio baal; è altresì il simbolo di un cuore arido, senza fede, senza amore. E la vergine Maria, “pioggia ristoratrice”, è simboleggiata nella nuvoletta che, piccola come mano d’uomo, sale dal mare, portatrice di quella pioggia benefica che rappresenta per il popolo di Israele la fine della terribile siccità, e per tutti noi, il perdono di Dio per i nostri peccati, ottenuto con la mediazione della Vergine madre di Dio. La tradizione cristiana, e in particolare gli scrittori del Carmelo, secondo una interpretazione che è stata accolta poi dal papa san Pio X, hanno visto, dunque, nella nuvoletta la prefigurazione della vergine Maria che ha donato “l’acqua viva” di Gesù, la vera pioggia. Dal suo grembo è nato il Salvatore che ha dato vita e fecondità al mondo. E’ così il monte Carmelo, dal quale appunto Elia scorge finalmente la nuvoletta, è stato collegato sempre alle due eccelse figure bibliche, il profeta Elia e la vergine Maria. Su questo monte iniziarono un’esperienza eremitica alcuni devoti giunti fin qui dall’occidente al seguito delle Crociate, intorno al 1100. Sono i primi frati in cerca di solitudine, di silenzio, per poter meglio vivere nella sequela e nella obbedienza a Gesù Cristo. Si costruirono delle cellette, in cui vivevano isolati, ma, ed ecco la cosa particolarissima, al centro, tra le cellette, costruirono una cappella dedicata alla vergine Maria e la loro devozione li portava a visitarla continuamente, a metterla al centro della loro vita quotidiana. La presero come patrona, promettendole il loro fedele servizio, chiedendole protezione e mediazione nella ricerca continua di unione con Dio. Diventeranno i fratelli della beata Vergine del monte Carmelo, e la Vergine li ha ripagati, donando la sua protezione con un segno che ancora oggi i frati portano con estrema riverenza, lo scapolare, consegnato a San Simone Stock, del quale, naturalmente in forma ridotta, ci vestiamo anche noi.
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Il racconto biblico del profeta Elia e della nuvoletta è ricordato ancora oggi, ogni anno, nella festa del 16 luglio, dall’ordine dei Carmelitani, come per ribadire che anche noi, come gli antichi padri riconosciamo nella nuvoletta la vergine Maria, portatrice di grazie per l’umanità. Il collegamento con la nuvoletta è semplice e naturale; la Vergine, al suo apparire nella storia di salvezza dell’umanità, è quasi sempre nascosta, umile e povera, non conosciuta da alcuno. “La sua umiltà fu così profonda che ella non ebbe sulla terra attrattiva più potente e continua che quella di celarsi a se stessa e ad ogni creatura per non essere conosciuta che da Dio solo” (da uno scritto di san Luigi Maria Montfort). La nuvoletta diventa pioggia abbondante e portatrice di vita; Maria è portatrice di Cristo, di quell’acqua viva, abbondante, che salverà l’umanità dal peccato e dalla morte. E come cresce la nuvoletta che, piccola e bianca, diventerà un nuvolone nero che coprirà il cielo, così l’azione salvifica di Maria è destinata a crescere sempre di più. Quanto più ella è stata umile e nascosta all’inizio della storia dell’uomo, così sarà sempre più grande e la sua influenza riconosciuta da tutti col passare dei tempi. A lei, madre e sorella di tutti noi carmelitani, ci rivolgiamo nella nostre preghiere con estrema fiducia, convinti che, con la sua mediazione, otterremo dal Padre tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
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6. Elia nel deserto Con il cap. 19 del primo libro dei Re, comincia una nuova fase, un nuovo ciclo della vita e dell’attività profetica di Elia. Abbiamo a lungo parlato del coraggio di Elia; adesso verrebbe spontaneo intitolare questa parte del nostro lavoro: “La debolezza di Elia”, perché, come vedremo, egli si pone davanti alle vicende della sua vita in maniera esattamente opposta da come lo abbiamo finora conosciuto e, francamente, il suo atteggiamento appare a prima vista inspiegabile. Lo abbiamo lasciato vincitore sui profeti di Baal, sterminati sul monte Carmelo, lo abbiamo visto annunciare, con orgoglio giustificato, la pioggia benefica che poneva fine all’incubo della siccità e della morte per il popolo di Israele, abbiamo assistito, cosa più importante, al riconoscimemto da parte degli Israeliti di Jahvè, unico e vero Dio e Signore. Sembrava conclusa felicemente la missione che Dio aveva affidato al suo profeta così da farci pensare che nulla ormai avrebbe potuto turbarlo o metterlo in pericolo. Egli è vincitore, ha imposto al popolo di Israele quanto il suo Dio gli aveva ordinato. Ma non è così! Proprio quando comincia a sentirsi al sicuro, quando ha acquisito la certezza della manifestazione della potenza di Dio, attraverso il sacrificio sull’altare e l’arrivo della pioggia, ecco, proprio adesso, comincia per Elia un periodo di angoscia e di paura. Gezabele, la regina idolatra di Baal, informata dal re Acab di quanto era accaduto sul monte Carmelo, invece che sentirsi vinta dagli avvenimenti, pronta a riconoscere il suo peccato e a farsi perdonare da Elia e dal suo Dio, continua a mantenere il suo atteggiamento di supremazia non solo su Acab, ma, e soprattutto, nei confronti di Elia. Diviene ancora più violenta, vendicativa; manda a dire ad Elia che la sua fine è decretata. Elia ha ucciso di spada i profeti di Baal; ebbene ella gli promette solennemente che, entro il giorno dopo, anche egli farà la loro stessa fine. Notate che non glielo dice di persona, ma glielo manda a dire, con l’arroganza di chi si sente forte, di chi esercita potere di vita e di morte su tutto e tutti e non teme la reazione dell’avversario. Ma forse la realtà è un’altra: Gezabele è fortemente superstiziosa, come tutti gli idolatri, e ha paura di Elia, paura anche di vederlo o toccarlo; manda i suoi fedelissimi ad avvisarlo che lo ucciderà, atteggiamento strano per chi vuole uccidere veramente, perché lascia così ad Elia il tempo di fuggire. Elia che, se ricordate, era giunto di corsa ad Israel, arrivando, spinto da una forza sovrumana, addirittura prima di Acab che viaggiava sul carro trainato dai cavalli, perchè la gioia della vittoria, del ritorno di Israele al suo Dio gli aveva messo le ali ai piedi e voleva essere lui ad annunciare la bella notizia della fine di un incubo, ebbene, a questo punto, Elia si sente perso. La paura di essere ucciso gli penetra lentamente dentro le ossa e non gli lascia respiro, è più forte di ogni altro pensiero. Ecco cosa riesce inspiegabile, come dicevo prima, che un uomo della sua statura spirituale, improvvisamente, si spaventi delle minacce della donna, quasi fosse un perdente, un vinto e non un vincitore. E’ come se, dopo tanto coraggio, tanta fatica, gli sia crollata addosso tutta la stanchezza del mondo; “un crollo nervoso”, lo definisce il card. Martini nell’esaminare l’atteggiamento di Elia, come quando –dice- ci impegniamo con tutte le nostre forze per raggiungere un determinato risultato e, una volta raggiuntolo, ci lasciamo andare, svuotati da ogni energia. Ma non è solo la stanchezza fisica a provocare questo crollo, quella certo c’è anche in Elia, che ha preteso dal suo corpo più di quello che è normale, dopo la corsa pazzesca, in gara con i cavalli di Acab, per giungere ad Israel. In Elia gioca una parte importante la consapevolezza che i fatti non hanno preso la piega che immaginava. La regina Gezabele non si è convertita, non ha riconosciuto in Elia il profeta del Signore; questo gli provoca sofferenza e certo anche delusione, pensa che Jahvè lo ha abbandonato, che gli ha fatto sperare quella vittoria piena che invece non si è verificata. Così ecco il crollo, la paura, l’angoscia. Si ritrova solo, non c’è nessuno che lo possa aiutare, nessuno a cui rivolgersi. Tra l’altro, la sua condanna a morte rende difficile per chiunque solo l’avvicinarsi a lui. La solitudine, in questo momento, è l’elemento centrale dell’esperienza di Elia; è la percezione dolorosa di un abbandono tanto più penoso e profondo perché non viene solo dagli uomini, ma anche da parte di Dio. Egli non ne sente più la presenza: dov’è Dio mentre vogliono far morire il suo servo?. Nel vuoto che sente intorno a sé e che gli penetra nella mente e nel cuore, l’unico sentimento che avverte è la paura e l’angoscia della morte, ed è tale che quasi desidera affrettarne l’arrivo. Paradossalmente si cerca la morte, perché si ha paura della morte. La morte, la fine di tutto, sembra 18
l’unica via d’uscita, ed Elia la invoca dal Signore: “Ora basta Signore. Prendi la mia vita, perchè io non sono migliore dei miei padri”. Ma Dio ha preparato per lui altre strade. Ci sarà una morte, sì, ma non quella fisica. Ci sarà la morte di se stesso, la morte del suo orgoglio. Morirà il suo sentirsi “giusto servitore di Dio”. Dovrà passare attraverso il deserto, purificare il suo cuore e imparare le strade dell’umiltà, perché l’umiltà è la sola strada che conduce a Dio il quale si fa trovare soltanto da un cuore umile. Dio non forza mai la mano, ma prepara; a volte permette che questa preparazione passi anche attraverso eventi drammatici, come è successo ad Elia, ma anche nella prova più grande, non si allontana mai dall’amico. Gli esegeti, nell’affrontare la lettura di questo passo, nell’esaminare le motivazioni dello sconforto di Elia e del suo stato d’animo, lo accostano ad altri episodi e situazioni pressochè simili, presenti in altri libri del vecchio testamento: ad esempio a Mosè, che nel deserto del Sinai ad un certo punto si rivolge al Signore dicendogli: Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo. Fammi morire!(Num 11,14-15), o a Tobia, quando, provato nel corpo e nello spirito, esclama: E’ meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia (Tb 3,6), o a Giobbe che dice: preferirei essere soffocato, la morte piuttosto che questi miei dolori”; ed alcuni citano anche lo sconforto di Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, o la frase di Gesù angosciato nel Getsemani “La mia anima è triste fino alla morte”. Per tutti, lo sconforto nasce dall’avere sperimentato il fallimento della propria vita. Talvolta anche a noi, miseri mortali, succede di dover affrontare momenti difficili nella nostra vita, quando sembra che tutto si accanisca contro di noi, che non ci sia via d’uscita da situazioni gravi che spesso si accavallano l’una sull’altra, non ti lasciano respirare. Succede, dicevo, che la mente precipiti in una sensazione di sconforto assoluto, di angoscia profonda; il cuore si chiude, ti senti solo, perso, col desiderio di fuggire da tutto e da tutti: sono i momenti più tristi della nostra vita, in cui non senti nemmeno più la voce di Dio che cerca di consolarti, che ti parla. Il tuo cuore diventa un deserto, arido, senza amore, senza pace, senza speranza. E’ quello che succede ad Elia e vi è per lui una sola soluzione: fuggire. Ed è ciò che fa. Va verso Bersabea, poi lascia anche il suo ragazzo, il servitore che sul Carmelo aveva visto salire dal mare quella nuvoletta, piccola come mano d’uomo, segno della pioggia imminente, lo lascia, non perché non lo ami e vuole preservarlo da morte sicura, ma perchè, nei momenti di massimo sconforto, non sopportiamo la presenza di nessuno. E si incammina verso il deserto; il deserto è esso stesso morte, perché lì la vita è impossibile. Elia dunque fugge, perché ha visto il pericolo e lo teme, ma ha anche visto il fallimento del suo operare, l’inutilità di tanto combattere. Viene da chiedersi: ma dov’è il coraggio di Elia, quello zelo, quell’ardimento che lo ha portato con sicurezza davanti ad Acab a minacciarlo di morte, se non fosse tornato alla religione dei suoi padri? Sembra di non riconoscerlo più. O meglio, a ben guardare, riusciamo, in questo suo atteggiamento di debolezza e di paura, a vedere la sua umanità, a vederlo uomo come noi, con tutte le paure e incertezze, con tutte le debolezze proprie della natura umana, un uomo bisognoso di protezione, sconfitto dalla vita, ma anche fiducioso nell’aiuto del Signore. La sua fuga, che storicamente è dovuta alla paura della morte, un sentimento istintivo, irrazionale, diventa per il Signore un’occasione provvidenziale di recupero. Dio interviene nel momento del cedimento, del crollo, della maggiore umiliazione di Elia, perché Dio sa come riportarci a casa e come ricostruirci con amore. Dopo un giorno di cammino, stanco e ormai senza più alcuna fiducia, Elia si ferma; si corica sotto un vecchio e rinsecchito ginepro e si addormenta. Il sonno è anch’esso un modo per fuggire dalla realtà e dalle difficoltà della vita che a volte appaiono insopportabili. Ma qui, abbiamo finalmente ancora una volta l’intervento del Signore che, come abbiamo cercato di dimostrare anche nelle precedenti relazioni, non abbandona mai i suoi figli ed interviene quasi di persona, quando vede che l’uomo da solo ormai non ce la fa più. Mentre Elia dorme, infatti, Dio manda il suo angelo consolatore che fa quasi da mediatore tra Dio e il suo servo amareggiato. L’angelo lo tocca e gli dice: alzati e mangia! La forma è quella solita, del comando, a cui Elia ubbidisce; mangia e beve quello che l’angelo gli ha offerto. Un breve accenno ad un brano degli Atti degli apostoli, in cui si vive una vicenda quasi simile. Se ricordate, a Pietro messo in carcere e posto in catene, un angelo del Signore tocca il fianco e gli dice: alzati, in fretta; e Pietro viene liberato dalle catene. Anche l’angoscia che ha subìto Elia è come una catena che gli attanaglia il cuore. Elia, dopo aver preso cibo, di nuovo si stende per dormire.
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Se in questo sonno abbiamo raffigurato l’abbattimento totale del profeta, la mancanza di volontà a resistere e a lottare contro la morte e il profondo sconforto, è evidente che un intervento non è sufficiente. Elia ha bisogno di un nuovo impulso; che non manca; infatti di nuovo l’angelo ritorna, di nuovo lo tocca per svegliarlo, gli ordina di alzarsi e di mangiare. Alzati e mangia: il comando dell’angelo del Signore rafforza l’immagine di un Dio che provvede al nutrimento del suo popolo, finchè egli ne avrà bisogno. E aggiunge: altrimenti il viaggio sarà troppo duro per te. La ripetizione è necessaria, perché riprendere a vivere non è facile e bisogna avere tanta fiducia e soprattutto ascoltare e obbedire. Ancora una volta ci vengono in aiuto gli esegeti che ci fanno notare come il cibo che l’angelo offre al profeta, una focaccia e un po’ d’acqua, è un cibo cotto. Qualcuno dunque ha pensato ad Elia, si è preso cura di lui mentre egli si lasciava andare alla morte, al punto da cuocere il pane da offrirgli; allora vale davvero la pena di vivere anche nella sofferenza, perché abbiamo la prova che la vita di ognuno di noi è preziosa agli occhi di Dio ed Egli se ne prende sempre cura. Il cibo dell’angelo non è solo per sopravvivere; bisogna riprendere le forze per poter ricominciare a camminare e il viaggio sarà lungo. E’ evidente, in questa parte del racconto, l’atteggiamento di Dio che si avvicina all’uomo dolente, malato nel corpo ma ancor più nello spirito. E lo cura mediante il sonno e il cibo, con amore e senza rimproveri, fa notare ancora il card. Martini, invitandolo a lasciarsi ristorare dalle risorse naturali, il sonno appunto che, da perdita di coscienza si trasforma in ristoro, il cibo, che dà nuova vigoria al corpo. Il Signore consola sempre con amore, con pazienza infinita, senza affliggere ancor più l’uomo peccatore con parole severe, con rimproveri. Dolcezza e pazienza, i rimedi di cui si serve Dio per aiutare i suoi figli. E dunque Elia, ritemprato nel corpo e nella mente, riprende il cammino nel deserto, verso una meta questa volta, e non per fuggire lontano da chi voleva ucciderlo, una meta che porta direttamente a Dio. Quella che era cominciata come una fuga, diventa ora un pellegrinaggio che consentirà a colui che ha attraversato la morte e ne è uscito, di vedere Dio. L’angelo gli ha parlato di un cammino che deve compiere, un cammino positivo, e anche se il traguardo è lontano, Elia non ha più paura. Intuisce che la meta da raggiungere è l’Oreb(il Sinai), dove Mosè ha ricevuto forza e coraggio da Jahvè. L’esperienza dunque del deserto è si per Elia l’esperienza della prova, della tentazione, delle potenze ostili che costantemente insidiano la vita, ma è anche esperienza di passaggio. Quello che egli sta compiendo è un viaggio di penitenza e di resurrezione nello stesso tempo, un riappropriarsi della fede di Israele, una rinascita, per ricominciare dallo stesso luogo da cui avevano cominciato gli antichi padri sul monte santo di Dio, un rinnovo dell’antica Alleanza tra Dio e il suo popolo di Israele. Elia camminerà intrepido, pieno di gioia e di entusiasmo, per quaranta giorni e quaranta notti, per vivere una nuova esperienza di Dio. Il suo cammino viene accostato all’esodo del popolo di Dio dall’Egitto, quando Israele, dopo aver viaggiato per quarant’anni nel deserto, sostenuto dal cibo inviato da Dio dal cielo, sotto la guida di Mosè, giunge finalmente al Sinai dove riceve il dono dell’Alleanza. E come Iahvè appare a Mosè sul Sinai, così Elia giunto sull’Oreb vivrà l’esperienza unica dell’incontro con Dio.
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7. Elia sull’Oreb Devo confessarvi che avuto delle notevoli difficoltà ad affrontare questa pagina della storia di Elia. Non è mai stato facile questo lavoro, ma l’esperienza vissuta da Elia sull’Oreb, il suo incontro con Dio, che è un momento centrale della sua vita, il momento cioè in cui il Dio vivente si rivela a lui per esporgli quali sono i suoi progetti, cosa vuole da lui, in sostanza, cosa vuole da noi, mi ha turbato profondamente. Si conclude il lungo itinerario di fede compiuto da Elia, che, partendo dalla “notte oscura”, attraverso i segni che riceve nel deserto, giunge finalmente a cogliere la presenza di Dio. Parliamo di teofania come apparizione, rivelazione di Dio, un’esperienza che ti coinvolge totalmente e ti cambia la vita. Leggiamo insieme questa parte del cap. 19. Se avete notato, all’inizio del racconto si pone subito un problema di interpretazione del testo: per ben due volte si ripete la stessa scena, la stessa domanda del Signore, la stessa risposta di Elia; non solo, ma vediamo Elia che, su invito del Signore, al versetto 11, esce dalla caverna e si ferma sul monte per vedere il suo passaggio, mentre, al versetto 13, leggiamo ancora che Elia, sentito il mormorio del vento, esce e si ferma all’ingresso della caverna. Non si capisce perciò se Elia è già uscito dalla caverna una prima volta ed è poi rientrato per uscire di nuovo, o se l’autore ha voluto presentarci la stessa situazione per due volte, quasi a rimarcare quanto stava accadendo. Io credo che Elia sia uscito una prima volta dalla caverna seguendo le parole di Dio e che, quando si è reso conto che Dio non era nel vento impetuoso, né nel terremoto, né nel fuoco, sia ritornato dentro per uscire poi, una seconda volta, quando ha avvertito “il mormorio di un vento leggero”. Ma andiamo avanti con ordine. Elia arriva all’Oreb, che poi è il Sinai, e trova riparo in una caverna, un luogo protetto, un utero, come è stata definita, da dove rinascere un’altra volta, per trascorrere una lunga notte nell’attesa della luce dell’alba: è il tempo dell’attesa, della ricerca e dell’ascolto del Signore. Egli è finalmente pronto ad incontrare Dio; egli che aveva fatto tanto per Dio, adesso, fermo nella notte, nella caverna, in silenzio, attende l’incontro personale con Lui. La parola di Dio è semplice: Che fai qui, Elia?, con una sfumatura di velato rimprovero, come a dirgli: ma cosa combini, cosa fai qui, da solo? Ed Elia risponde manifestando la sua desolazione: “Sono pieno di zelo per il Signore” (cioè di amore assoluto, esclusivo, di donazione totale verso la missione che gli è stata affidata, la salvezza di Israele); ora ha bisogno dell’aiuto di Dio perché la sua vita è in pericolo,(emerge ancora la sensazione del fallimento di cui abbiamo parlato); gli Israeliti infatti hanno abbandonato l’alleanza col Signore, demolito i suoi altari, ucciso i suoi profeti. Elia ha capito che la ragione del suo sconforto non è tanto la propria personale sconfitta in questa vicenda, quanto la sconfitta di Jahvè (sconfitta apparente, vedremo), la convinzione che la vera religione sia ormai morta e la fede nell’unico Dio definitivamente spenta. “ Esci, gli dice Dio, e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Dopo avere aiutato Elia a chiarirsi le vere ragioni del suo sconforto, lo invita ancora a porsi in attesa. “ Alla presenza del Signore” è un richiamo alle origini di Elia; ricordate le sue prime parole davanti ad Acab: “ Per la vita del Signore alla cui presenza io sto”. E’ un ritornare agli inizi del suo cammino di fede. “Ed ecco il Signore passò”. Nel momento in cui Elia si pone davanti a Jahvè, egli fa l’esperienza di una triplice dimostrazione di potenza: il vento impetuoso, il terremoto, il fuoco. Secondo la tradizione biblica, un forte vento d’oriente aveva diviso il mar Rosso consentendo al popolo di Dio di fuggire dall’Egitto; giunto alle falde del Sinai, il popolo aveva assistito a un terremoto, segno della presenza divina sul monte; e ancora, il fuoco aveva accompagnato il viaggio di Mosè nel deserto, la stessa colonna di fuoco che era passata in mezzo alle carcasse degli animali divisi da Abramo, la notte in cui stipulò l’Alleanza con Dio; anche nel monte Carmelo Dio si era manifestato nel fuoco che aveva bruciato la vittima sacrificale di Elia e sconfitto i profeti di Baal. Ma questa volta Elia si accorge che vento, terremoto e fuoco sono vuoti della presenza divina. Il Signore non si è manifestato in essi. Il testo biblico dice chiaramente: Ma il Signore non era nel vento, non era nel terremoto, non era nel fuoco. Adesso Dio si manifesta in modo del tutto diverso e quasi sorprendente: nel mormorio di un vento leggero, in una voce di silenzio che svanisce. Non è più il Dio forte e potente che Elia ha sempre annunciato, ma un Dio quasi a misura d’uomo, da riconoscere nell’intimità, paziente e benigno, misericordioso e pietoso. Dio sceglie 21
di parlare al suo popolo con una presenza calma, lontana da ogni spettacolarità; ed Elia, sintonizzandosi sulle nuove scelte di Dio, trova la forza di fronteggiare la sua paura, liberarsi degli schemi mentali in cui aveva racchiuso Dio, e ascoltare la voce del silenzio, un richiamo profondo che, sottile, sale da dentro il cuore dell’uomo, che è poi la voce stessa di Dio, per custodirla e annunciarla di nuovo alla sua gente. Elia si copre il volto, perchè, come è detto nell’Esodo (30,20), “nessuno può vedere Dio e restare vivo”. Vediamo un momento qual è il significato dei simboli e dei segni presenti in questo capitolo del libro dei Re. Jahvè si è sempre manifestato attraverso segni diversi, segni forti. Ricordiamo la colonna di fumo che non si ritirava mai dalla vista del popolo di Israele, né la colonna di fuoco durante la notte, (Esodo, 13,22); il fuoco che divora senza distruggere e si muove come si muove lo stesso Iahvè; lampi, tuoni, suoni fortissimi di tromba, il monte fumante (cap. 19 dell’Esodo), sul quale “era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace”. Il vento, il fuoco, il terremoto sono segni ben noti in tutta la Scrittura: indicano la presenza del Signore sul Sinai e nel cammino nel deserto. Anche nel Nuovo testamento troviamo i primi tre segni del racconto di Elia; “il rombo, come di tuono che si abbatte gagliardo”, oppure “lingue come di fuoco” (At. 2,23) o ancora, “quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui si erano radunati tremò, e tutti furono pieni di Spirito Santo(At.4,31). Non troviamo però il mormorio di un vento leggero, anche se possiamo, per analogia, avvicinarlo a quella “brezza leggera” al soffio della quale Dio passeggiava nel giardino dell’Eden (Gen.3,8). Abbiamo già detto che gli esegeti spiegano il mormorio del vento leggero con cui si manifesta Jahvè, come un simbolo dell’intimità con cui egli vuole parlare con i suoi profeti, simbolo della dolcezza, della familiarità con cui Egli si avvicina a noi. Nella tradizione del Carmelo appaiono alcune interessanti riflessioni sulla manifestazione di Dio ad Elia attraverso “il mormorio di un vento leggero” o come traducono alcuni dall’ebraico: “voce dal tenue mormorio”. Nel cap. 2 del Libro 3° della Institutio primorum monachorum, l’autore vede nella brezza leggera la rivelazione del giudizio di Dio nei confronti degli idolatri e l’annuncio della pace che sarà proclamata dallo stesso Elia a quei sette mila israeliti che sono rimasti fedeli a Jahvè: così la brezza leggera viene identificata con lo stesso Elia che ha ascoltato la voce silenziosa, l’ha fatta sua ed ora la trasmette agli altri. San Giovanni della Croce scrive, nel suo Cantico spirituale, che quel “sibilo di aura soave” è ascoltocontemplazione di Dio che dona al credente quella capacità spirituale necessaria per poter comprendere il progetto divino sull’uomo; e ancora, egli identifica la brezza leggera come la Parola di Gesù che fa rinascere a vita nuova dopo il peccato. E sempre per restare in tema di segni, la tradizione carmelitana vede nel ginepro, sotto il quale si è addormentato Elia, rappresentata la Croce di Cristo, nel pane cotto l’Eucaristia e in Elia, che trascorre 40 giorni e 40 notti nel deserto, lo stesso Gesù. Infine l’espressione usata da Elia per rispondere alla domanda di Dio, la ritroviamo scritta su un foglio in un quadro resa in latino: zelo zelatus sum pro domino deo exercituum, con alla base un braccio che impugna una spada fiammeggiante. Nel 1595 il Priore generale dell’Ordine, padre Stefano Chizzola, fece riprodurre questo disegno con la stessa scritta sullo stemma dell’ordine carmelitano, che ritroviamo ancora oggi come nostro emblema ufficiale. Il segno armonizza bene contemplazione e azione e costituisce per il Carmelo un forte richiamo allo spirito missionario e all’evangelizzazione. Per tornare ad Elia, adesso Dio gli affida tre nuovi incarichi, incarichi importanti che indicano la fiducia che Dio ha nel nuovo Elia. Per la sua azione ci sarà un nuovo re a Damasco, un nuovo re a Israele, e anche un nuovo discepolo che proseguirà l’operato di Elia. Ungerà, dunque, dei nuovi re e, soprattutto, ungerà Eliseo che diventerà profeta al suo posto. I tre vendicheranno Dio il quale si riprenderà Israele; egli ha salvato sette mila israeliti, testimoniando così che non ha abbandonato il suo popolo. E, a proposito di questi settemila che sono rimasti fedeli al Dio dell’Alleanza, essi vengono visti come “il piccolo resto” di Israele, gente umile e semplice che vive, nel silenzio della vita quotidiana, l’obbedienza alla parola del Signore; sconosciuti agli uomini, ma conosciuti da Dio che invita il profeta a considerarli come suoi compagni di viaggio. Il profeta, abbandonando ogni orgoglio e presunzione, si lascia guidare adesso da Dio sulla via della fraternità con tutti i piccoli della terra.
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8. Elia e la vigna di Nabot Nabot di Israel aveva ereditato dai suoi avi un appezzamento di terreno coltivato a vigna cui è particolarmente legato e a cui dedica probabilmente tante ore di lavoro durante il giorno. Un cittadino qualsiasi Nabot ma benestante, conosciuto da tutti, stimato per la correttezza della sua vita. Ebbene, per sua sfortuna, la sua proprietà confina col terreno sul quale il re Acaro sta costruendo la sua villa in campagna; e quest’ultimo ritiene che il possesso di quella vigna gli sia assolutamente necessario! L’avrebbe trasformata in orto, o in giardino, vicino alla sua casa. Quindi Acab che, come possiamo intuire, nonostante le batoste che ha subito fin’ora, con la carestia, la fame, l’uccisione dei sacerdoti di Baal, è rimasto fondamentalmente lo stesso re prepotente e dittatore, chiede a Nabot di vendergli la vigna: gliela avrebbe pagata bene o, anche, avrebbe potuto dargli in cambio un altro appezzamento di terreno, forse migliore di quello. Sappiamo quanto sia profondo, quasi indissolubile, il legame tra l’uomo e la sua terra, soprattutto quando è lui stesso che la lavora con le sue mani, che la fa fruttificare col lavoro duro e continuo. La terra coltivata, la proprietà, è parte integrante della famiglia, procura il sostentamento necessario, a volte anche la ricchezza; il fatto poi che sia coltivata a vigna la rende ancora più preziosa. Quanti riferimenti simbolici abbiamo nella Bibbia a proposito della vigna in cui il Signore manda a lavorare i suoi operai perché producano molto frutto! Se a ciò si aggiunge il fatto che, per legge divina, solo il legame con la terra ereditata dai padri dava all’uomo il diritto di cittadinanza, che cioè il possedere un pezzo di terra dava il diritto di essere Israelita, e ancora che, sempre per legge divina, ogni proprietà appartiene a Jahvè e, per questo principio, è inalienabile, non può cioè essere venduta o ceduta, allora capiamo quale fosse il legame tra Nabot e la sua terra. Vediamo di approfondire il concetto di proprietà, per come si ricava dalla lettura dei testi sacri. Secondo la Legge, la proprietà poteva essere venduta soltanto a un appartenente alla stessa famiglia. Si legge nel libro del Levitico al cap. 25, vv. 23-28. (Il Levitico è l’insieme delle leggi, delle prescrizioni religiose a cui si devono attenere gli uomini ed ha carattere quasi esclusivamente legislativo). Nel cap. 25, il Signore dice a Mosè: Le terre non si potranno vendere per sempre (cioè mai) perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri o inquilini. Come dire, quello che noi possediamo non ci appartiene, non è nostro in virtù del nostro potere o capacità di acquisto, ma solo perché Dio ce lo ha concesso, ci ha dato la possibilità di goderne fino alla fine dei nostri giorni per lasciarlo poi ai figli ed eredi. E nel libro dei Numeri, (Nm 36,7) viene ribadito ancora questo concetto di appartenenza della terra sempre allo stesso popolo. Infatti, dice il Signore: Nessuna eredità tra gli Israeliti potrà passare da una tribù all’altra, ma ciascuno degli Israeliti si terrà vincolato all’eredità della tribù dei suoi padri. In Ezechiele, infine, leggiamo, (Ez 46,18): Dice il Signore, Il principe non prenderà niente dell’eredità del popolo, privandolo, con esazioni, del suo possesso; egli lascerà in eredità ai suoi figli parte di quanto possiede, perché nessuno del mio popolo sia scacciato dal suo possesso. i pare estremamente chiaro: il principe, il re non può assolutamente alienare, prendere o comprare ciò che appartiene al popolo. In forza di questa legge e sulla base della parola di Dio, Nabot respinge quindi la richiesta di Acab. Egli ben sapeva che ciò che possedeva non era, in fin dei conti, suo, che non poteva essere venduto. Di quella terra egli era soltanto l’amministratore, doveva conservarla per tramandarla ai figli. Infatti, risponde ad Acab: Mi guardi il Signore, come dire, sono un uomo timorato di Dio, che non può essere corrotto. La mia vigna non può essere venduta perché il dono di Dio “non ha prezzo”. E’ un concetto questo che dobbiamo fare nostro. Tutto ciò che possediamo, e non solo i beni materiali ma anche quelli spirituali, non sono nostri per farne ciò che vogliamo, ma doni di Dio da amministrare, e bene, per passarli poi agli altri. D’altronde, lo sappiamo bene che, da ciò che facciamo noi oggi, dipende il benessere delle generazioni future. Questo discorso vale soprattutto se pensiamo a quanti danni ha compiuto e sta compiendo l’uomo nei confronti della natura, quante trasformazioni essa subisce per via dello sfruttamento irrazionale da parte dell’uomo. Ricordate la parabola del Signore in Luca al cap. 19, in cui si narra di un padrone che, prima di assentarsi, consegna ai suoi servi (e chi sono questi servi se non proprio noi?) delle mine da custodire e fare fruttificare; ed uno di questi, per timore, ignavia o indifferenza, nasconde questa mina e la riconsegna al 23
padrone al suo ritorno. Ma questi lo rimprovera: non ti ho dato il dono perché tu lo tenessi nascosto, ma per farlo fruttificare! Anche il significato della parabola è chiaro: tutto ciò che ci è dato da Dio, deve dare frutto, deve essere messo al servizio degli altri, altrimenti diventa una sorta di proprietà privata, che egoisticamente utilizziamo solo noi, mentre ci è stata donata perché la amministrassimo anche a beneficio degli altri. Lo dice anche san Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (cap. 4, 1-2): “Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”. E non ci riferiamo soltanto a cose materiali, perché, nella seconda lettera a Timoteo, attribuita a san Paolo, leggiamo: e le cose che hai udito da me alla presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri. In questa vicenda, dobbiamo considerare anche lo stato sociale dei due protagonisti. Da una parte Nabot, un tranquillo cittadino di Israele per il quale quella vigna era, probabilmente, l’unico bene in suo possesso; dall’altra il re Acab, ricco, potente, proprietario di beni immensi, che non aveva certo bisogno di quella vigna per sopravvivere. Per Nabot, legato alla tradizione dei padri e alla legge di Dio, quel bene è inalienabile, sacro, perché è il bene della famiglia da cui si ricava sussistenza e che, abbiamo visto, non ha prezzo. Acab invece appartiene ad un tipo di società nuova, una classe di gente che si è arricchita con il commercio, che, se non può comprare ciò che desidera con il denaro, trova altri mezzi, come la corruzione e la violenza, pur di raggiungere il proprio scopo. Nabot, da una parte, solo ed indifeso, a difendere i propri diritti; dall’altra Acab, circondato dalla solidarietà di quelli che gli vivono intorno, una solidarietà del male perché tutti, da Gezabele agli anziani, ai nobili, ai testimoni, al popolo, per paura o per tornaconto, aiutano Acab nell’azione delittuosa che si va delineando. Anche se è triste ammetterlo, così va la vita. Chi già possiede, vuole avere sempre di più: è la cupidigia del potere, il desiderio incontrollato di possedere qualcos’altro oltre quello, ed è tanto, che già si possiede; e nessuna legge, neppure quella divina, pone un freno a questa smania di ricchezza e di potere dell’uomo. Nabot, dunque, oppone un netto rifiuto al desiderio o, se volete, al comando del re, per tutte le motivazioni di cui abbiamo già parlato. La reazione di Acab al rifiuto di Nabot di cedergli la vigna è simile a quella di un bambino viziato e capriccioso che vuole un giocattolo o un dolce, fate voi, che gli è negato. Il bambino strilla, pesta i piedi, si agita fino a stancare quelli che gli stanno intorno che finiranno, forse, per accontentarlo. Acab, a modo suo, fa i capricci pure lui: è offeso, deluso, amareggiato e se ne va a letto, sta col viso rivolto verso la parete, non vuole vedere nessuno, non mangia, non parla più. Ma come si è permesso quell’individuo, una persona così misera, di negare al suo re ciò che gli ha chiesto, come è possibile trattare così un re potente come lui? Si delinea qui il perenne conflitto tra il povero e il ricco, tra il debole e il potente, il servo e il padrone, conflitto che si ripeterà purtroppo sempre nella storia dell’uomo, in cui è sempre il debole a perdere e soggiacere alle pretese del potente. Di fronte a quest’ atteggiamento di delusione, di amarezza, ma anche di sdegno di Acab, riaffiora la perfidia, la cattiveria di Gezabele (è sempre lei la causa primaria dei mali di Acab, che è per conto suo un debole e un incapace davanti alla prepotenza della moglie). Per lei non è accettabile che si dica di no al re, è lui la legge, è lui il diritto, è lui la giustizia. Una concezione estremamente dispotica e dittatoriale del potere politico. E Acab, come Pilato, si lava le mani, lascia che sia la moglie a mettere le cose a posto, a fargli ottenere quanto è in suo diritto possedere. La prevaricazione politica è a questo punto totale. Gezabele ordisce un inganno, un tranello e con l’aiuto di due falsi testimoni fa condannare Nabot. Prevale la corruzione, col denaro si corrompono i tribunali, si viola la legge. Uomo innocente, Nabot è giudicato dal tribunale colpevole di bestemmia nei confronti di Dio e del re, e legalmente, ironia della sorte, con un processo farsa, è mandato a morte. Gezabele, soddisfatta, va da Acab a dirgli: puoi prendere possesso della vigna perché Nabot non c’è più, è morto! La cupidigia ha avuto il sopravvento, distruggendo qualsiasi altro sentimento; è divenuta avidità e avarizia, sentimenti pericolosi perché conducono agli altri peccati. La vicenda triste di Nabot è una tragica testimonianza delle ingiustizie che, in ogni tempo e in ogni luogo, vengono compiute dai potenti, da coloro che comandano. In un passo dell’Antico Testamento, nel libro di Qoelet, in cui il predicatore s’identifica, con un artificio letterario, al vecchio saggio re Salomone, nel cap. 3, dopo avere affermato che c’è un tempo per ogni cosa (un tempo per nascere, un tempo per morire) e che, con una visione un po’ pessimistica, è inutile che 24
l’uomo si affatichi perché ciò che Dio ha fatto è immutabile ed eterno, e che l’uomo come gli animali è destinato a morire, fa una considerazione interessante ai fini del nostro racconto su Nabot. Dice il saggio: Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto della giustizia c’è l’empietà. E ancora, a proposito della proprietà, Isaia (5,8) dice: Guai a voi che aggiungete casa a casa, e unite campo a campo, perché non vi sia più spazio e così resterete soli ad abitare nel paese; e, più avanti, al n. 23: Guai a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente! Per i Padri della Chiesa, la vicenda di Nabot si rivela sempre attuale. Vorrei leggervi quanto scrive a proposito sant’Ambrogio, vescovo di Milano, vissuto tra il 350 e il 397, studioso della Bibbia alla luce degli insegnamenti che essa ci dà: “La storia di Nabot quanto al tempo è antica, quanto alla pratica è di tutti i giorni. Chi, infatti, essendo ricco, non desidera ogni giorno i beni altrui? Chi, essendo molto facoltoso, non cerca di cacciare il povero dal suo campicello e di allontanare il misero dal podere ricevuto in eredità dagli avi? Chi si accontenta di ciò che ha? Di quale ricco non accende il desiderio un podere confinante? Dunque non è nato un solo Acab, ma, ciò che è peggio, ogni giorno nasce un Acab e mai muore per questo mondo. Se ne vien meno uno, ne sorgono molti; son più numerosi quelli che rapinano di quelli che perdono. Non un solo Nabot povero è stato ucciso; ogni giorno un Nabot viene oppresso, ogni giorno un povero è ucciso. E aggiunge ancora in un'altra pagina: “La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri; perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo?” E ancora: “Tu, o ricco, non dai del tuo al povero, quando fai la carità, ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso, tu solo la usi”. Ancora oggi la Chiesa ci invita a mantenere un atteggiamento di sincera solidarietà verso coloro che non possiedono nulla. Per chi volesse approfondire il pensiero della Chiesa sulla proprietà, può leggersi cosa dice, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, il settimo comandamento, al n. 2402 2 segg. A questo punto della vicenda, entra in scena il nostro profeta Elia che, come avrete notato, ancora non era stato mai nominato; ancora una volta, all’improvviso, quando meno lo si aspetta. Leggiamo i versetti dal 17 al 19. Ancora una volta, dunque, il Signore si serve di Elia e lo manda da Acab, ed Elia, ancora una volta, assimilando in sé gli stessi sentimenti di Dio, non può restare silenzioso davanti alla sopraffazione, si sente profondamente turbato e colpito da ciò che è avvenuto. Nel nome di Jahvè egli difende il piccolo contro il grande, il semplice contro l’astuto e ristabilisce la giustizia, perché Dio non tollera certe azioni, non approva la prepotenza dell’uomo, specialmente se questi è un re a cui Egli ha affidato un popolo da curare ed amare. Colpisce duro Elia: “Hai assassinato e ora usurpi”. La legge di Dio è stata violata con l’assassinio e con il furto. La colpa di Acab è ancora più grande perché, gli dice Elia: “ hai fatto peccare Israele”; infatti, tradendo la legge di Dio, Acab ha coinvolto nel tradimento tutto il suo popolo. Adesso arriverà il castigo: Per questo dice il Signore: “Nel punto ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue”. La collera di Dio è terribile e il suo castigo lo è altrettanto. Leggiamo ancora: vv. 20-26. L’ultima parte del racconto è concentrata sul pentimento di Acab; egli capisce di aver superato ogni limite con questa ennesima azione delittuosa, di aver compiuto il male davanti a Dio e davanti agli uomini; si pente, digiuna, indossa il sacco sulla pelle, cammina a testa bassa. Si vergogna certo dell’infamia compiuta, anche se non direttamente, perché, vigliacco come tutti i malvagi, ha demandato a Gezabele il soddisfacimento della sua cupidigia. Dio crede al suo pentimento e manifesta la sua misericordia, concedendo al re una dilazione del castigo. Forse è solo un modo di dire, ma spesso sono i figli a pagare le colpe dei padri. Nel corso di questi incontri abbiamo visto delinearsi la figura di Elia profeta, uomo di Dio e uomo del popolo. Elia è uomo d Dio perché vive alla sua presenza, ascolta la sua voce, diventa interprete e messaggero del Signore nel momento in cui si lascia coinvolgere dai problemi di quelli che soffrono subendo ingiustizie. Diventa così uomo del popolo, pronto a difenderlo, aiutarlo, sostenerlo. E’ anche artefice del pentimento di chi ha sbagliato perché il mettere l’uomo davanti alle sue responsabilità provoca in lui la presa di coscienza del male commesso che lo induce poi al cambiamento, alla trasformazione. Così si giunge alla conversione di Acab e con lui di coloro che ascoltano e accettano la parola di Dio. E’ d’altronde questa la missione della Chiesa che tende a liberare l’uomo da ogni situazione di oppressione, fisica o morale, che lo circonda e da cui è spesso condizionato, con l’opera di evangelizzazione che l’ha 25
sempre caratterizzata in ogni tempo, e soprattutto oggi in cui sembra che l’uomo si allontani sempre più da Dio. Questo era certo l’intendimento di Benedetto XVI nel promulgare l’anno della fede: far riprendere coscienza all’uomo della sua vera natura, aiutarlo, attraverso la Parola, a ritrovare se stesso. E questo sarà certamente lo stesso intendimento di papa Francesco, e noi tutti ci auguriamo che lo Spirito Santo lo aiuti a portare avanti questo faticoso cammino. La Chiesa dimostra da sempre un’attenzione particolare per lo stato sociale, cioè per la condizione delle famiglie, dei giovani, dei lavoratori, delle donne e così via. E tutto ciò è estremamente positivo perché la Chiesa sa che il malessere, determinato da situazioni sociali di disagio e di bisogno, può degenerare in un rifiuto di Dio e in una ricerca spasmodica del benessere materiale, dell’utile raggiunto anche con mezzi illeciti. Forse ci siamo un po’ allontanati dal racconto biblico; ma è proprio questa la sua funzione: Nabot diventa l’emblema di tutto ciò che è nostro compito perseguire: proteggere i deboli, non cedere alle lusinghe dei potenti per ottenere con ogni mezzo ciò che vogliamo, rispettare tutto ciò che è degli altri, denunciando ogni abuso che ci capita di conoscere. Abbiamo visto come ciò che è accaduto a Nabot è purtroppo ancora e sempre attuale. Sta a noi cristiani infondere, con la nostra testimonianza, in chi ci circonda, l’amore per i poveri, per la pace, la solidarietà, il senso della legalità, contro ogni prevaricazione. E allora, camminiamo, andiamo avanti, come ci dice oggi papa Francesco. Che Dio lo benedica.
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9. Elia ed Eliseo Con quest’ultima relazione su Elia, concludiamo il racconto e le meditazioni sulla sua presenza e i suoi interventi nella storia dei Re di Israele, per come li abbiamo letti nei Libri dei Re nella Bibbia. Se ricordate, quando Elia, per fuggire da Gezabele, attraversa il deserto aiutato dall’angelo del Signore e giunge sul monte Sinai, lo stesso sul quale Mosè aveva incontrato Dio, è protagonista di una misteriosa teofania: Dio gli si rivela attraverso il mormorio di un vento leggero, e l’impatto è così forte che Elia sente la necessità di coprirsi il capo con il mantello. Qui Dio gli affida una triplice missione: ungere, come re di Aram, Hazael, come successore di Israele, Ieu, e come profeta suo successore Eliseo. A quest’ultimo compito egli provvede quasi subito, mentre le altre due missioni verranno portate a termine dallo stesso Eliseo. Al tempo di Elia vi erano in Israele numerose comunità profetiche e coloro che vi appartenevano erano chiamati “i figli dei profeti”; questi facevano vita in comune ed erano guidati da un capo spirituale che li ammaestrava, che molto probabilmente potè essere Elia prima e, dopo, Eliseo. La paternità spirituale di Elia era riconosciuta un po’ da tutti questi giovani che dedicavano la loro vita a Dio e all’osservanza della sua legge, e poi, nel prosieguo del tempo, fu accolta da tutti coloro che scelsero la vita monastica come simbolo di castità, di povertà, digiuno, preghiera, virtù. San Girolamo, una delle figure più ricche di eloquenza tra i Padri della Chiesa, vissuto verso la fine del IV secolo dopo Cristo, anche egli monaco e istitutore, cioè maestro di aspiranti monaci, ha scritto che ogni uomo, nella sue scelte di vita, qualunque sia la strada che ha deciso di percorrere, ha davanti a sé un modello al quale si ispira; ebbene, con riferimento alla vita monastica, san Girolamo dice che la figura a cui i monaci si ispirano è il primo tra loro, cioè Elia, e poi Eliseo, le loro guide sono i figli dei profeti che abitavano i campi e il deserto, dove facevano le tende presso le acque del Giordano. In particolare, per quel che riguarda i monaci carmelitani, abbiamo già visto come sia profondo il legame con Elia profeta. Torniamo alla missione che Dio ha consegnato ad Elia, trovare cioè un successore che, investito del suo carisma profetico, continui il suo ministero. Come Mosè pose la sua mano sul capo di Giosuè per comunicargli il suo spirito, così Elia dovrà ungere Eliseo per consacrarlo a Dio. L’ attività profetica di Elia è stata troppo importante e determinante in molte vicende della storia di Israele, perché tutto finisca con lui. E adesso che egli è pronto per concludere la sua esistenza terrena, bisogna che trovi un degno successore che continui la sua opera di predicazione, perché il popolo mantenga la sua alleanza con Jahvè e allontani da sé il culto idolatra di altre divinità. Leggiamo cap. 19 dal primo libro dei Re, vv. 19-21. E’ il momento successivo all’incontro con Dio sul’Oreb. Questa rivelazione, questa presenza tangibile di Dio ha dato nuovo vigore e coraggio al nostro profeta. Il card. Martini dice di immaginarlo con la pelle del volto raggiante, come se riflettesse il mistero del Dio vivente. Elia incontra quasi subito Eliseo, un giovane benestante, figlio di Safat, originario di un piccolo paese agricolo non lontano da Tisbe, da cui proveniva lo stesso Elia. Magari si conoscevano già, o per lo meno Eliseo aveva sentito parlare di Elia come profeta e uomo di Dio. Eliseo era intento a lavorare nei campi; la Scrittura dice che arava con 12 paia di buoi davanti a sé: una esagerazione certo per chi ha dimestichezza con la vita di campagna, ma probabilmente il testo vuole sottolineare che il giovane apparteneva a famiglia facoltosa, un ricco signore di campagna, con proprietà terriere così vaste che erano necessari tanti buoi e tanti aratri per lavorare tutta la terra. Ebbene, adesso questo giovane si trova davanti qualcuno che gli cambierà totalmente la vita, un uomo di Dio, povero, malvestito, al quale forse vorrebbe dare aiuto, dal quale invece inaspettatamente arriverà la “chiamata” del Signore. Questa non ha confini né limiti, sociali o razziali o culturali: tutti, senza distinzione alcuna, possiamo godere dell’attenzione di Dio. Elia gli passa accanto e, senza dire parola alcuna, gli getta addosso il suo mantello, un gesto fortemente simbolico. Non si ferma Elia, neppure per vedere l’ eventuale reazione di Eliseo, ma, compiuto il gesto, che corrisponde all’unzione richiestagli dal Signore, si allontana, con un atteggiamento quasi di indifferenza, come a dire: io ho fatto quel che dovevo, ora tocca a te! Il mantello è simbolo di colui che lo porta, della sua personalità, del suo stesso esistere e, in qualche modo, anche del diritto di proprietà della persona sulla quale lo si stende. Il suo dono diventa perciò il segno che Eliseo dovrà continuare la missione di Elia, godendo nello stesso tempo di tutti i suoi carismi. Nel gesto di Elia che getta sul capo di Eliseo il suo mantello, gli esegeti hanno voluto vedere Gesù che, apparso agli apostoli dopo la sua resurrezione, soffia su di essi lo Spirito di Dio, perché siano in grado di fare ciò che 27
egli stesso aveva fatto, e cioè rimettere i peccati. Così anche Eliseo, dopo la scomparsa di Elia, avendone ricevuto lo spirito, compirà le stesse azioni, gli stessi miracoli. La sua vita, le sue profezie saranno quasi un ripercorrere la vita profetica di Elia. Eliseo riconosce la chiamata di Dio, e certamente egli ubbidirà, anche se sul momento chiede una dilazione, un differimento; vuole congedarsi dal padre e dalla madre. Elia acconsente, ma gli ribadisce: sai bene cosa ho fatto per te, ricordandogli la responsabilità di cui è stato investito e che, quando il Signore chiama, occorre rispondere, subito e senza tentennamenti. Ricordate nei Vangeli quanti hanno abbandonato ogni cosa appena Gesù, guardandoli, ha detto loro: Seguimi! Pensiamo a Simone, Andrea ,Giacomo, Giovanni; in Marco 1,18, leggiamo: “Subito, lasciato il padre con i garzoni, lo seguirono”; e ancora l’episodio di Levi, l’esattore delle imposte, uomo ricco, con un buon lavoro; sempre in Marco 2,14: “alzatosi, lo segui”, senza discutere, senza nemmeno chiedere perché e dove. E in Matteo 18, 21-22, ad uno sconosciuto che, alla chiamata di Gesù, risponde “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”, Gesù risponde: “Seguimi, e lascia i morti seppellire i loro morti”. In verità, il padre di questo sconosciuto non era morto, soltanto alquanto anziano, e l’uomo avrebbe voluto poterlo assistere fino alla fine: ma Gesù lo scuote dagli indugi e dalle scuse con cui cerca di ritardare la sua sequela. Alla luce del N.T., Elia ed Eliseo sono il prototipo di tutti coloro che si mettono alla sequela di Cristo, senza opporre alcuna resistenza, ma pronti ad obbedire alla chiamata. Sono anche il prototipo di tutti coloro che si dedicano alla vita monastica, mettendosi insieme, in obbedienza, per imparare ad obbedire a Dio e a disfarsi dei falsi idoli. Eliseo si dimostra disponibile ad intraprendere un cammino al quale non era certo preparato, ma vuole prima congedarsi dai suoi e lo fa alla grande, quasi per lanciare un segnale che ormai la sua vita ha preso un’altra direzione. Ammazza dei buoi, brucia la legna degli aratri per cuocerne la carne che condivide con tutti, segno di distacco e di abbandono dei propri averi. Si fa povero (pensate per un attimo a Francesco di Assisi), si spoglia delle sue vesti e si mette al servizio di Elia per vivere con lui e come lui, per imparare a dominare se stesso, il proprio corpo e i proprio spirito, per imparare ad ascoltare la parola del Signore ed essere in grado di compiere la missione profetica che gli è stata affidata. Immaginiamo anche che restituisca il mantello ad Elia (lo riceverà definitivamente più tardi), quasi a voler significare: io ho ancora molto da imparare da te, prima di poterlo indossare. Elia ed Eliseo trascorrono, insieme anche agli altri profeti, alcuni anni insieme, durante i quali Eliseo ha modo e tempo per assimilare lo stile di vita e gli insegnamenti del suo maestro; questi, seguendo i comandi del suo Signore, continua ad intervenire nella storia dei re di Israele come fa, per esempio, nell’episodio della vigna di Nabot. Ma ormai gran parte della vita del profeta si è compiuta, siamo alla fine dell’itinerario di fedeltà a Dio e al popolo di Israele. Ancora una volta Elia è pronto ad ubbidire al suo Signore; sa che Dio vuole rapirlo in un turbine di vento e di fuoco, e per questo momento vuole essere solo. Così cerca di tenere lontano sia Eliseo che gli altri figli dei profeti che si accompagnano a lui; ma non vi riesce. Eliseo non lo lascia e anche gli altri discepoli lo seguono. L’insistenza di Elia a voler tenere lontano da sé Eliseo in questi ultimi spostamenti, e la risposta di Eliseo che ribadisce di non volerlo lasciare, ci spinge ad una riflessione. Il nostro essere cristiani, come molto spesso ascoltiamo nelle omelie di padre Carmelo, non si esaurisce nell’osservanza della liturgia o nelle devozioni o in obblighi o divieti che la Chiesa ci pone, ma piuttosto nella relazione intima, profonda che riusciamo a stabilire con Dio, nel cammino che compiamo insieme a lui durante la nostra vita, per essergli sempre più vicini col cuore e con le azioni. E’ pur vero che spesso Dio ci mette alla prova, che permette che le tentazioni di cui è cosparsa la nostra vita abbiano il sopravvento, che a volte ci sembra di attraversare periodi di aridità spirituale in cui Dio appare lontanissimo, ma è anche vero che questi momenti servono per rafforzare la nostra fede, per consentire alle nostre vite di prendere la direzione giusta. E anche noi, in questi momenti, quando abbiamo la sensazione che sia Dio a volerci tenere lontani da lui, anche noi, come Eliseo, dobbiamo dire: No, Padre mio, io ti seguirò fino alla fine, io non ti lascerò mai. Compiono dunque insieme le ultime tappe della vita di Elia. Vanno prima a Galgala, poi a Betel, a Gerico e, infine, giungono al Giordano. Probabilmente Elia, che sente vicina la sua fine, vuole congedarsi dalle varie comunità profetiche riunite in questi luoghi. Tutti sanno che Elia sta per lasciare questo mondo, e tutti lo comunicano ad Eliseo il quale raccomanda loro di non dire nulla. Certo è che egli non lascia solo il suo maestro ed anche i 50 discepoli li seguono da lontano. Vogliono tutti assistere al momento finale, come se non sopportassero l’idea di dover 28
abbandonare Elia. Il momento del distacco è doloroso, tanto da non riuscire a parlarne; ecco perché Eliseo risponde ai profeti: Lo so, ma non dite nulla. Il non parlarne, a volte, ha il potere di allontanare la tristezza per la definitiva lontananza. L’ultima impresa di Elia ricorda molto da vicino quella di Mosè che stende le mani sul mar Rosso che si apre per lasciar passare gli Israeliti che ritornano a casa; o il gesto di Giosuè di fronte alle acque del Giordano, che si aprono per far passare l’arca dell’Alleanza portata dai sacerdoti e il resto del popolo. Soltanto che sia Mosè che Giosuè entrano nella terra promessa, Elia invece sta facendo il cammino inverso. Il suo cammino su questa terra sta per compiersi. Egli prende il mantello, lo arrotola, percuote con esso le acque del Giordano che si dividono e i due passano all’altra sponda, camminando sull’asciutto. L’attraversamento del Giordano rappresenta simbolicamente il superamento delle passioni umane, la purificazione dello spirito ottenuta attraverso tante prove e l’adesione totale a Dio. Elia ha assolto il compito che Dio gli ha affidato, la cura di Israele e del suo popolo, con costanza e coraggio e ora, come colui che vince una gara, è pronto a ricevere dal Signore la corona di un premio eterno. Da questa parte c’ è la terra promessa nella quale tutti vorremmo vivere, dall’altra, dove adesso è giunto Elia, la fine della vita. Da lontano i cinquanta figli dei profeti assistono alla scena. L’ultima conversazione tra Elia e il suo discepolo rivela che, sotto la scorza dura e intransigente di Elia, si nasconde un cuore dolce e generoso: Cosa vuoi che io faccia per te prima che sia rapito lontano da te? Eliseo si sente finalmente e totalmente amato da Elia ed ha il coraggio di chiedergli: Dammi due terzi del tuo spirito; chiede di essere scelto e riconosciuto come suo primogenito, erede diretto dello spirito di Elia. Hai chiesto una cosa difficile, gli fa notare Elia; lo spirito non si eredita come un bene terreno, però Dio può far conoscere ad Eliseo se egli è davvero il successore di Elia o non lo è. Bisogna che Eliseo veda Elia salire al cielo, deve sperimentare, quasi fisicamente, il momento della separazione definitiva, altrimenti non potrà ricevere il suo spirito. Come gli apostoli che vedranno Gesù ascendere al cielo, avvolto da una nube. Lo vede, lo vedono, sono quindi eredi del suo spirito. E’ solo tenendo gli occhi completamente fissi in Gesù che noi possiamo operare con la potenza del suo spirito. Ed è ciò che Gesù promette agli apostoli, come Elia ad Eliseo: Voi riceverete potenza, cioè capacità, forza per operare e testimoniare la parola, quando lo Spirito Santo verrà su di voi. E’ quel che accade ad Eliseo, che avrà su di sé lo spirito di Elia, fissando gli occhi su di lui nel momento in cui viene rapito in cielo; potrà così profetare e operare come il suo maestro. Ad un tratto, agli occhi sbarrati per lo stupore di tutti i presenti per l’imprevedibilità di quanto sta accadendo, in un turbine di vento e di fuoco, un carro viene giù dal cielo trainato da cavalli di fuoco, che s’ interpone tra Elia ed Eliseo, Elia sale sul carro, nel movimento gli cade il mantello, e scompare alla vista di tutti. Eliseo ha una reazione violenta: è di fronte ad un mistero più grande di lui; grida, si strappa le vesti, lo invoca: Padre mio, Padre mio. Con queste parole egli ribadisce il rapporto filiale che si era instaurato tra i due, ma soprattutto vuole dirci: egli è il mio padre spirituale, sono stato guidato da lui, sono partecipe del suo carisma profetico. Raccoglie il mantello che avvolgeva il suo maestro, che era il simbolo della sua stessa persona, di ciò che era stato e che aveva rappresentato, lo raccoglie, lo sente suo e si dirige verso il Giordano: deve tornare indietro. Come i discepoli di Gesù raccolgono la sua eredità, dopo aver ottenuto lo Spirito Santo il giorno di Pentecoste, e cominciano la loro predicazione in tutto il mondo, operando come aveva fatto Gesù, cacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, imporranno le mani sugli infermi e li guariranno, così Eliseo, con nelle mani, quasi materialmente, lo spirito di Elia, accostandosi alle acque del Giordano, fa esattamente quello che aveva visto fare al suo maestro, e le acque del Giordano si dividono per consentirgli di passare. Il mantello gli era stato dato a pieno titolo; egli aveva bene assorbito gli insegnamenti di Elia e aveva ora ricevuto quella doppia porzione di spirito che aveva chiesto, quella porzione di eredità che spetta ai primogeniti di ogni uomo. Eliseo riattraversa il Giordano per ritornare nella terra promessa, avendo come testimoni i figli dei profeti che adesso si prostrano davanti a lui, riconoscendogli la stessa autorità di Elia, Adesso è lui il loro maestro e profeta, è lui che ha ereditato lo spirito e la forza di Elia, oltre cha la virtù di convertire gli animi dalla incredulità alla fede, attraverso una vita mortificata e paziente. Il rapimento di Elia su un carro di fuoco ha colpito naturalmente non solo gli esegeti e studiosi di teologia, ma anche letterati ed artisti, che hanno riprodotto l’avvenimento ciascuno naturalmente secondo la propria sensibilità e più o meno aderenti al fatto narrato.
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Questo carro di fuoco che scende dal cielo ha scatenato anche la fantasia e l’immaginario di chi crede negli extraterrestri. Fantasie, certo, che, se lasciate nell’ambito dell’ immaginazione, non fanno alcun danno. Quello che appare certo e condivisibile è che il profeta Elia è entrato nell’eternità senza passare attraverso la morte, divenendo il testimone della presenza di Dio in un uomo giusto, di chi ha creduto dal profondo del cuore nella vita eterna promessa da Dio a tutti i giusti, così che, essendo vissuto in comunione perfetta con Dio, ascende direttamente alla luce celeste. Come dice il salmo 15, al versetto 9: “Non abbandonerai, o Signore, la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi mostrerai il sentiero della vita, gioia piena davanti al tuo volto, delizia alla tua destra per sempre”. L’uomo che ha fatto esperienza piena di Dio, sa che nulla mai lo potrà separare da lui. Dio è con lui e lui con Dio, per sempre. Voglio concludere con le parole del card. Martini: “Tutti dunque entreremo nella Gerusalemme celeste, come Elia vi è entrato col carro di fuoco. Elia è il simbolo della nostra vita e della nostra morte; il suo lasciarsi portare dalle ali dell’amore, dai cavalli di fuoco, è immagine della vita cristiana, è immagine della nostra morte, ed è questo il messaggio, la certezza che portiamo con noi”.
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