SARDONIA
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Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe
Dicembre 2021/ Decembre 2021 Ilario Papa sardo Lollove rimase deserta Antioco Casula Montanaru Arthana da Mara Damiani Boboetto a Cagliari Doctor Livingstone I presume Piero Zuffardi Accabbadora Mito e realtà Modigliani in Sardegna Darwin L’Origine delle specie La congiura Camarassa Antonio Gramsci a Formia Antoni Simon Mossa Gavino Guiso Valeria Sechi Carla Deplano Materia Oscura Un Futuro per le Miniere Un altro Papa sardo Mario Cesare Josephine Sassu https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia
Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@ gmail.com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Controllo qualità Prof.ssa Dolores Mancosu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale
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uesto numero di Sardonia conclude l’anno 2021, in attesa del supplemento S’Arti Nostra che tratterà di quello che non abbiamo potuto pubblicare qui. Anche se per me il momento del bilancio é sempre stato il 15 agosto, anche la fine dell’anno permette di voltarsi e di contemplare gli avvenimenti e contabilizzare gli smacchi o i successi. Credo che Sardonia possa essere fiera del suo operato che si manifesta attraverso l’organizzazione di esposizioni sia in collaborazione con Terra Battuta che con l’Arrubiu Art Gallery Cafè ed ultimamente con l’offerta dell’agenzia Andrea Onali & Associati che ha messoin gestione il loro spazio di via Santa Margherita dove, fino al 5 dicembre, potrete ancora vedere le opere di Michelle Pisapia, particolarmente interessanti. Non possiamo quindi che essere soddisfatti sopratutto perché queste manifestazioni ci hanno permesso di incontrare non solo degli artisti/e ma anche di prospettare nuove sedi espositive sia a Sassari che a Iglesias e forse anche a Tempio Pausania. La morsa della pandemia non si é ancora allentata e nuove varianti sembrano voler rimandare alle calende greche il momento in cui potremmo finalmente fare a meno della mascherina e, grazie al vaccino, poter affrontare collettivamente questo morbo. Purtroppo la situazione in Francia e specialmente a Parigi, dove contavamo esportare alcune delle mostre già organizzate ed anche quelle future, non si stabilizza e rimangono ancora molte incertezze, quindi l’associazione Ici, là-bas et ailleurs, che generosamente ci ha proposto di utilizzare i suoi locali, non ci potrà ancora accogliere. Nel frattempo troviamo qui ed anche altrove, tante ragioni di felicitarci dell’attività artistica che mai si arresta e che cerca appunto di consolarci dei problemi che ci assillano e che cerchiamo di risolvere, di sormontare, di integrare alla nostra esistenza con alterna fortuna. La storia della Sardegna, sin dai suoi albori é sempre ricca di esempi positivi che ci dovrebbero spronare ed incitare a continuare nell’eccellenza cercando di sfruttare ciascuno i suoi talenti e le sue opportunità. Sono inoltre particolarmente lieto di aver organizzato la mostra dell’artista eccellente Mariolina Pittau che finalmente propone al pubblico un (piccolo) panorama delle sue squisitissime opere. Ringrazio Salvatore Atzeni per avermela presentata e sono lieto che abbia accettato “au pied levé” la proposta, possiamo quindi credere che niente sia veramente impossibile e con un po’ di perseveranza, tenacia, ottimismo ed impegno si riesce nonostante tutto a organizzare delle occasioni di incontro. La mostra é stata un successo e questo ci ripaga di tanti sforzi. Augurandovi una fine d’anno serena e appagata vi propongo un appuntamento per l’inizio dell’anno prossimo. Tanti auguri e buona lettura. Vittorio E. Pisu
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ILARIO PAPA SARDO N
el Novembre del 461 d.C., viene eletto Ilario, il primo papa sardo Nato in Sardegna, nel 449 Ilario fu inviato insieme a Giulio, vescovo di Puteoli, come legato di Leone I al Secondo concilio di Efeso (città dell’Anatolia, nell’attuale Turchia). Qui si batté vigorosamente per i diritti della sede romana e si oppose alla condanna di Flaviano di Costantinopoli. Per questo motivo fu oggetto della violenza di Dioscoro di Alessandria, e si salvò a mala pena. In una delle sue lettere all’imperatrice Pulcheria, rinvenuta in una raccolta di lettere di Leone I (Leonis I Epistolae, num.
XLVI., in P.L., LIV, 837 sq.), Ilario si scusava per non averle consegnato la lettera del papa dopo il sinodo, ma, a causa di Dioscoro, che tentava di impedirgli di andare a Roma o a Costantinopoli, aveva avuto grandi difficoltà nell’organizzare la sua fuga e per portare al pontefice le notizie del risultato del concilio. Secondo il Liber Pontificalis (raccolta di biografie dei pontefici risalente al V-VI secolo), dopo la morte di papa Leone I, un arcidiacono chiamato Ilario, “Hilarus, natione sardus” (di nazionalità sarda) fu scelto per la successione. Con ogni probabilità egli fu consacrato il 14 o il 19 novembre 461. Il suo pontificato fu mar-
cato dalla stessa politica vigorosa del suo grande predecessore. Specialmente gli affari della Chiesa in Gallia e Spagna richiesero la sua attenzione: a causa della disorganizzazione politica dei due paesi, per salvaguardare la gerarchia, era importante fortificare il governo della Chiesa. Hermes, un ex arcidiacono di Narbonne aveva acquisito illegalmente la diocesi di quella città. Furono allora inviati a Roma due prelati gallici per sottoporre al papa questo ed altri problemi della Chiesa di Gallia. Il 19 novembre 462 fu quindi convocato un sinodo romano che giudicò questi problemi. Ilario rese note le sue decisioni tramite un’enciclica inviata ai vescovi provinciali di Vienne, Lione, Narbonne e delle Alpi Marittime: Hermes doveva rimanere vescovo titolare di Narbonne, ma i suoi privilegi episcopali gli furono tolti. Il vescovo di Arles doveva convocare un sinodo all’anno a cui avrebbero dovuto partecipare tutti i vescovi provinciali che ne fossero stati in grado, tuttavia, le questioni importanti avrebbero dovuto essere sottoposte alla Santa Sede. Nessun vescovo avrebbe potuto lasciare la sua diocesi senza un permesso scritto del metropolitano; in caso tale permesso fosse negato, questi avrebbe potuto sottoporre l’appello al vescovo di Arles. (segue p 4)
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Foto sanlorenzofuorilemura
(segue dalla pagina 3) Riguardo alle parrocchie (paroeciae) rivendicate da Leonzio di Arles come appartenenti alla sua giurisdizione, i vescovi di Gallia avrebbero potuto decidere dopo un’apposita investigazione. Le proprietà della chiesa non potevano essere alienate finché un sinodo non avesse esaminato le cause della vendita. Poco tempo dopo, papa Ilario si trovò coinvolto in un’altra disputa diocesana. Nel 463, Mamerto di Vienne aveva consacrato un vescovo per la diocesi di Die, anche se questa Chiesa, in virtù di un decreto di Leone I, apparteneva alla provincia metropolitana di Arles. Quando Ilario ne venne a conoscenza, incaricò Leonzio di Arles di convocare un grande sinodo dei vescovi di molte province per investigare la questione. Il sinodo si tenne e, in base al rapporto sottopostogli dal vescovo Antonio, il 25 febbraio 464 produsse un editto (Epist., X., a Mamerto di Vienne) che incaricava il vescovo Verano di ammonire Mamerto affinché nel futuro si fosse astenuto da ordinazioni irregolari, altrimenti i suoi privilegi sarebbero stati sospesi. Di conseguenza, la consacrazione del vescovo di Die doveva essere sanzionata da Leonzio di Arles. In questo modo i privilegi primaziali della sede di Arles furono ripristinati
secondo quanto stabilito da Leone I. Allo stesso tempo i vescovi furono avvisati di non travalicare i loro confini, e di convocare un sinodo annuale presieduto dal vescovo di Arles. Anche i diritti metropolitani della sede di Embrun sulle diocesi delle Alpi Marittime furono tutelati dagli abusi di un certo vescovo Ausanio, particolarmente legato alle due Chiese di Nizza e Cimiez. In Spagna, Silvano, vescovo di Calahorra, aveva, con le sue ordinazioni episcopali, violato le leggi della Chiesa. Sia il metropolitano Ascanio che i vescovi della Provincia di Tarragona, si lamentarono di questi avvenimenti presso il papa e ne chiesero il giudizio. Prima ancora che giungesse una risposta alla loro petizione, gli stessi vescovi fecero ricorso alla Santa Sede per una questione completamente diversa. Prima della sua morte Nundinario, vescovo di Barcellona, espresse il desiderio che fosse scelto come suo successore Ireneo, anche se egli stesso lo aveva fatto vescovo di un’altra sede. La richiesta fu accordata, un Sinodo di Tarragona confermò la nomina di Ireneo, quindi i vescovi chiesero l’approvazione del papa. Il sinodo romano del 19 novembre 465, il più antico sinodo romano i cui archivi originali siano giunti fino
a noi e che fu tenuto nella basilica di Santa Maria Maggiore, decise sul problema. Dopo un’allocuzione del papa e la lettura delle lettere dalla Spagna, il sinodo decise che le leggi della Chiesa non dovevano essere derogate. Oltre a questo, Ilario inviò due lettere (Epist., XIII-XVII) ai vescovi di Tarragona, in cui dichiarava che nessuna consacrazione sarebbe stata valida senza la sanzione del metropolita Ascanio. Inoltre, a nessun vescovo fu permesso il trasferimento da una diocesi all’altra, così per Barcellona dovette essere scelto un altro al posto di Ireneo. I vescovi consacrati da Silvano sarebbero stati riconosciuti se fossero stati nominati in sedi vacanti, e parimenti avessero soddisfatto i requisiti della Chiesa. Il Liber Pontificalis ricorda un’Enciclica che Ilario spedì in Oriente, per confermare i Concili Ecumenici di Nicea, Efeso, e Calcedonia e la lettera dogmatica di Leone I a Flaviano, ma le fonti note non forniscono ulteriori informazioni. A Roma, Ilario lavorò con zelo per l’integrità della fede cattolica. Nel 466, l’imperatore Antemio aveva un favorito chiamato Filoteo, che frequentava riunioni di una setta eretica. Durante una delle visite dell’imperatore a San Pietro, il papa lo chiamò di fronte a tutti per rendere conto della
condotta del suo favorito, esortandolo a promettere che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per tenere sotto controllo l’eresia. Ilario fece erigere a Roma molte chiese ed altri edifici. A lui si devono due oratori nel battistero del Laterano, uno in onore di Giovanni Battista, l’altro di Giovanni apostolo. Dopo la sua fuga dal “Latrocinio di Efeso”, Ilario si era nascosto nella cripta di San Giovanni Apostolo, ed egli attribuì la sua liberazione all’intercessione dell’Apostolo stesso. Sulle antiche porte dell’oratorio può essere ancora letta questa iscrizione: «A San Giovanni Evangelista, liberatore del vescovo Ilario, un Servitore di Cristo.» Fece erigere anche una cappella in onore della Santa Croce nel battistero, un convento, due bagni pubblici, e biblioteche vicino alla Basilica di San Lorenzo fuori le mura. Fece costruire anche un altro convento all’interno delle mura urbane. Il Liber Pontificalis menziona molte offerte votive fatte da Ilario nelle varie chiese. La magnificenza e munificenza adottata nella sua attività edilizia produsse diversi giudizi negativi nei confronti di Ilario. Non fu tanto l’edificazione o il restauro dei numerosi edifici sacri, o le opere ornamentali realizzate per l’abbellimento (segue pagina 6)
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Foto dinamopress,it
(segue dalla pagina 5) e la decorazione di tanti luoghi di culto e proprietà della Chiesa, a generare dubbi e critiche, quanto piuttosto l’eccessiva ed inopportuna opulenza delle opere e degli arredi acquisiti o fatti realizzare. Eccessiva per la profusione di ori e altri materiali preziosi dappertutto impiegati con l’abbondanza di un mecenate rinascimentale; inopportuna perché, come osserva il Gregorovius, “mentre Roma precipitava nella miseria e moriva, le chiese si coprivano di pietre preziose e le basiliche traboccavano di tesori favolosi, davanti agli occhi di un popolo che si era dissanguato nel tentativo di armare un esercito e una flotta contro i Vandali.”. Se è infatti vero che in quel periodo nella Chiesa di Roma affluiva una fonte inesauribile di ricchezze, potendo oltretutto fare affidamento su una rilevante quantità di beni immobili, è altrettanto innegabile che un così rilevante utilizzo di ricchezze in opere di pura esteriorità del culto religioso sminuiva quel ruolo “pastorale” e “sociale” che ci si sarebbe potuto aspettare dalla Chiesa, soprattutto nel momento di grave crisi politica ed economica in cui l’Impero si dibatteva. Morì il 29 febbraio 468, dopo un pontificato di sei anni, tre mesi, e dieci giorni. Fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura. Ornella Demuru
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pochi chilometri da Nuoro sorge la frazione di Lollove, un piccolo borgo in pietra caratterizzato da casette basse inerpicate sul declivio di una collina, da cui si gode di uno stupendo panorama sulla vallata. Grazia Deledda scelse di ambientare qui il suo romanzo “La madre“. Entrando nel borgo si avverte da subito un’aura di malinconia e mistero che il silenzio sembra rendere più densa man mano che si passeggia tra le ripide e strette viuzze in acciottolato che conducono alle poche case ancora intatte. Casette in pietra con tetti a spioventi coperti da tegole d’argilla, finestre incorniciate d’azzurro, qualche vaso di fiori, comignoli e forni a legna emergono da una vegetazione incolta e rigogliosa. Pochissimi anche gli abitanti, appena più di venti anime. Gli anziani rimasti raccontano una leggenda legata ad un’antica maledizione: alcune monache francescane del monastero di Santa Maria Maddalena (oggi scomparso) furono accusate di intrattenere rapporti intimi con i pastori locali e per questo costrette ad abbandonare il villaggio. Ma la loro espulsione fu accompagnata da una dura maledizione che esse stesse scagliarono contro il paese e i suoi abitanti:
LOLLOVE RIMASE DESERTA
“Lollove, sarai come l’acqua di mare, non crescerai né mostrerai di crescere mai” A quanto pare, col tempo la leggenda sembra essere divenuta realtà: il borgo è rimasto piccolissimo, pur resistendo alla scomparsa grazie alla volontà dei pochi abitanti, da sempre dediti all’ agricoltura e all’allevamento. Una sorte analoga è toccata al borgo di Rebeccu, frazione del comune di Bonorva in provincia di Sassari, anch’esso condannato da una maledizione a non crescere mai di numero. Oggi totalmente disabitato, il borgo di Rebeccu sorse in epoca medievale e nel corso del XV secolo vide cominciare un inarrestabile declino dovuto a pestilenze e carestie generate, si dice, dalla “maledizione delle trenta case”. A scagliare l’anatema fu la principessa Donoria, figlia del re Beccu, da cui il nome del paese, che fu accusata di stregoneria e giustiziata. Colta dall’ira ella scagliò la maledizione secondo cui il paese non avrebbe mai superato le trenta abitazioni: “Rebeccu, Rebecchei, da’e trinta domos non movei” Sarà per le leggende e i racconti popolari che su di essi si tramandano, eppure questi borghi “fantasma” possiedono un fascino senza tempo. Nel corso del XIX e XX secolo, il mistero di Lollove
ha ispirato artisti e scrittori, tra cui Sebastiano Satta e, soprattutto, Grazia Deledda che nel 1920 lo scelse come ambientazione del suo romanzo “La madre”. L’opera, che ha dato a sua volta ispirazione a film ed opere teatrali, è incentrata proprio sulla storia proibita tra un giovane prete, Paulo, e la bella Agnese, come a ribadire l’aura peccaminosa e oscura del borgo. Comune a sé fino alla metà dell’Ottocento, oggi Lollove è l’unica frazione del capoluogo, pur distando da esso di circa 16 km. Negli anni Cinquanta del Novecento contava oltre 400 abitanti, ma oggi si anima soltanto nelle feste religiose: l’antica patrona santa Maria Maddalena (a fine luglio), l’attuale patrono san Biagio (a inizio febbraio), san Luigi dei Francesi (a fine agosto) e sant’Eufemia (a metà settembre). Anche a Novembre il borgo si accende, in occasione della rassegna Autunno in Barbagia dove, insieme alle pratiche e ai lavori artigianali, vengono mostrate le antiche case, che sembrano riprendere vita come nella sequenza di un film in bianco e nero. G. Day, I Villaggi scomparsi della Sardegna G. Manno, Storia moderna di Sardegna https://meandsardinia.it/ lollove-il-piccolo-borgo-nel-quale-grazia-deledda-ambiento-la-madre
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Foto a’innantis
asce Montanaru, uno dei poeti maggiori della letteratura in lingua sarda Uno dei poeti più noti e importanti in lingua sarda è senza dubbio Antioco Casula, noto con lo pseudonimo di Montanaru. Nato Desulo il 14 o il 15 novembre 1878, era figlio di un piccolo commerciante. Studiò sino ai 16 anni a Cagliari e al collegio di Lanusei, poi lasciò la scuola e, dopo una breve esperienza nella Guerra in Abissinia, si arruolò come sottufficiale nei carabinieri due anni dopo, curiosamente lo stesso anno in cui Peppino Mereu, altro poeta della stessa Barbagia con il quale in seguito avrebbe dato vita ad un dualismo creativo, si congedava dalla stessa Arma. Anche Montanaru fu destinato in Sardegna e ne girò diversi paesi, a partire da Tula. Scoperto da Ranieri Ugo (Ugo è il cognome), e da questi incoraggiato, cominciò intanto a scrivere per la Piccola Rivista, un periodico letterario di Cagliari fondato e diretto dall’Ugo stesso, e nel 1904 pubblicò la sua prima raccolta: Boghes de Barbagia (Voci di Barbagia), che uscì con illustrazioni di Andrea Valli. La prefazione la scrisse Ugo stesso, e vi raccontò l’arrivo dei primi versi: «E così, da Tula, un tale che si firmava “un carabiniere” mensilmente do-
ANTIOCO CASUL nava alla Piccola Rivista certe tenui poesie dialettali che mentre avean tutta la bellezza agreste ed affascinante della natura paesana, davano pure luccichii di sensi e passioni vibranti di modernità [...] era proprio un “carabiniere” che tra un rapporto di contravvenzione, un fortunato arresto od una ronda nojosa e sterile, trovava il tempo di leggere, studiare e discutere di teorie e postulati moderni, di arte e letteratura». La pubblicazione della raccolta e i pur sporadici contatti con gli altri collaboratori della rivista, gli fecero conoscere altri artisti dell’epoca, anche di altre discipline, ed a Nuoro conobbe Sebastiano Satta, Giuseppe Dessì e Francesco Ciusa Romagna. Nel 1905 si congedò perché, narrò egli stesso, «Mi mancava il tempo di leggere e solo la mente era vigile durante le notti insonni trascorse assai spesso al lume delle stelle o sotto la bufera»; tornò a Desulo, dove aveva ottenuto un impiego presso l’ufficio postale. Riprese privatamente gli studi, e qualche tempo dopo ottenne da privatista la licenza magistrale. Ebbe un incarico di insegnamento a Desulo, dove però continuava anche il servizio presso l’ufficio postale. Sposatosi nel 1909, ebbe cinque figli. Il maggiore, Antonangelo, morì a 5 anni nel 1914, l’anno dopo morì anche la madre, che si spense per un tumore. Casula si risposò nel 1916 ed ebbe altri due figli.
LA MONTANARU Per uno di questi, Antonello, compose “Ninna nanna de Anton’Istene”, una delle sue poesie più note. Conobbe epistolarmente Grazia Deledda, nel 1920, che non aveva mai incrociato nemmeno quando entrambi scrivevano nello stesso periodo su “La Piccola Rivista”. Le inviò in dono un componimento in cui le dedicava una riscrittura della metafora del fabbro artefice delle scintille che, dal settecentesco Cantoni Buttu in avanti, era un tema assai ricorrente e dunque una “prova di abilità” nella poesia delle Barbagie a ridosso del Gennargentu; le inviò inoltre un quadro che ritraeva la processione dell’Assunta sul Monte Ortobene e che la scrittrice nuorese appese nello studio della sua casa romana, invitando Casula a passare ad ammirarlo di persona. La lettera di ringraziamento della Deledda, conservata nell’epistolario dell’odierna casa-museo di Casula a Desulo, gli regalò in cambio intime riflessioni sul di lei scrivere che sono restate di una certa importanza nell’analisi deleddiana. Nel 1922 diede alle stampe “Cantigos d’Ennargentu” (Cantici di Gennargentu), che fu illustrato con opere appositamente realizzate da Filippo Figari. La raccolta ebbe un inatteso successo e richiamò interesse anche dal Continente; fu tradotta in inglese, fran-
cese, tedesco e italiano. Nell’isola fu la definitiva affermazione, «Con voci fraterne, quasi umili, con la lingua delle donne e dei padri antichi, il poeta parla al cuore e all’intelletto di tutti i Sardi» ne disse il Falchi. Nel 1925 Casula fu scelto per rappresentare la Sardegna al Congresso nazionale dei dialetti d’Italia di Milano. Ma nel 1928, appena lanciata la campagna fascista di repressione dell’uso di lingue non italiane, condotta in Sardegna con un certo rigore, Casula fu arrestato con l’accusa di favoreggiamento di alcuni latitanti. Fu riconosciuto in seguito innocente, scarcerato, ma tenuto sotto osservazione e minacciato di confino. Poco tempo dopo subì la morte di altri due figli, entrambi intorno ai 20 anni di età. Nel 1933 pubblicò “Sos cantos de sa solitudine” (I canti della solitudine), che riscosse un certo successo. Nacque ben presto una pesante polemica con Gino Anchisi, giornalista di credo fascista il quale, dopo aver sostenuto che Casula, bravo com’era, dovesse scrivere in italiano anziché in sardo, richiese il rispetto della legge nazionale che imponeva l’uso esclusivo della lingua italiana; l’Anchisi, chiosando con «Morta o moribonda la regione, morto o moribondo il dialetto [sic]», (segue pagina 10)
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Foto wikipedia
(segue dalla pagina 9) ottenne la censura dai giornali isolani tanto del sardo quanto di Casula, lasciando peraltro apparire che il poeta non avesse risposto. Casula aveva invece risposto, sostenendo che il risveglio culturale della Sardegna sarebbe potuto solo dal recupero della madrelingua; nei Sardi, osservò Casula, la “lingua dei padri” dopo tante traversie sarebbe un giorno assurta a lingua nazionale, giacché non si sarebbe mai spento nella loro coscienza «il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia auctotona». La replica del poeta non trovò mai pubblicazione nell’Unione Sarda, la cui redazione infatti la sottopose a censura seguendo le direttive del regime. Il giornale provvedette poi a giustificarsi nel seguente modo, in una lettera personale indirizzata a Casula il 12 settembre: «Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: «In nessun modo e per nessun motivo esiste la regione». Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo limitandosi a parlare di poesia dialettale [sic] senza toccare il pericoloso argomento!» Questo ed altri fatti non
Nella foto Montanaru tiene lezione in una classe elementare di Desulo
Nella foto della pagina accanto Montanaru con la moglie Basilia Murgia e Francesco Ciusa Nuoro corso Garibaldi 1925
impedirono però che il poeta divenisse in seguito Podestà di Desulo. Dopo la guerra aderì al Partito Sardo d’Azione, trovandosi più incline verso le posizioni dell’ala indipendentista del partito. Conobbe Ada Negri e Giuseppe Ungaretti, con il quale legò per avere anch’egli perso un figlio giovanissimo; con Ungaretti presidente, Casula fu nel 1948 nella giuria di un premio letterario che si concluse con la vittoria della sua poesia “S’Olia”. Conobbe anche il giovane Pier Paolo Pasolini, che studiava in quel periodo la poesia nelle lingue romanze. Conobbe Max Leopold Wagner, il quale si interessava del già importante poeta, ma per ciò che lo studioso desiderava conoscere della poetica sarda, lo indirizzò al poeta nuorese Franceschino Satta, conosciuto quando questi era stato maestro a Desulo. Nel 1950 pubblicò la raccolta Sa Lantia, che però non ebbe successo. Nel 1953 fu colpito da una paralisi e per un po’ continuò a comunicare in versi con altri poeti, per i quali era, quasi gergalmente, s’abile , che in sardo vuol anche dire “l’aquila”; ma nel 1955 ebbe un aggravamento e lo si dovette riportare a Desulo, dove avrebbe passato il resto dei suoi giorni su una poltrona. Solo e di comprensibile umore, disse di sé: «Ora posso
Foto antonioballero
tinentales E tue ses restada senza fruttos. A tie sempre sos impiegados Chi tentu han fama ‘e falsos e ladrones Ca sempre han giutu custos berrittones Che unu tazzu de boes domados. E has pagadu a sa muda donzi tassa Pòpulu sardu avvessu a obbedire Cun su coro siccadu in su patire, Cun su coro siccadu che pabassa! Ma coraggiu, coraggiu! Àtteros coros Oe Sardigna t’àniman sas biddas Commo su mortu fogu ettet chinchiddas Chi altas lughen’in tottu sos oros De custu mare ch’ispettat serenu Sa tua fortuna; e sied’issa accanta Pro te patria mia o terra santa Tenta sempre in penuria e in frenu. Sos fizzos tuos giòvanos e bellos Ardimentosos, giaman libertade E giustizia e donzi bontade Subra d’antigos òdios rebellos. E issos Patria a tie ti den dare Donz’umana potenzia e fortuna Gloriosa, comente dat sa luna Sa lughe a su serenu tuo mare. Ornella Demuru Fonti: Wikipedia
dire che vivo di memorie, di ricordi di amici morti o lontani, in gran solitudine. Triste sono ma orgoglioso della mia vita percorsa fra dure difficoltà». Morì due anni dopo, all’alba. Dopo la morte, il genero Giovannino Porcu fece pubblicare le ultime due raccolte, “Sas ultimas canzones” e “Cantigos de amargura”. La sua casa è oggi una casa-museo visitabile. A Desulo ogni anno ai primi di novembre Montanaru viene ricordato e celebrato attraverso il Premio Letterario della Montagna ‘’Montanaru’, tra i più prestigiosi della Sardegna. A tie, Sardigna! Sallude Sardigna cara!
O terra mia, Mamma d’òmines fortes, berrittados, De pianos e montes desolados, De bellas fèmminas e de poesia. Una die che perla ses cumparta Subra sos mares ricca d’onzi incantu E curreit de te su dulche vantu De sa fama, che vela in mar’isparta. Fin gigantes sos òmines e sas terras Fruttos daian caros che i s’oro, E in su mundu non b’aiat coro Chi no esset branadu cuddas serras De Gennargentu mannu e de Limbara O sas baddes de su Tirsu
e Flumendosa. E tue che una dea gloriosa Subras sas abas risplendias giara. Dae tando passein longos annos E tue rutta in bassu tantu sese Tue lizu de prìncipes e rese, Rutta che Cristos sutta sos affannos. Ma non t’avviles! Pes’alta sa testa Sardigna mia! E mira in altu mira Pustis de tantu dolu e de tant’ira Est tempus chi pro te puru siet festa. Sos buscos tuos ti lo s’han distruttos Cun piccones cun serras e istrales, Han’ingrassadu sos con-
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Foto ilfiletdiolimpiamelis
ARTHANA E L’IDENTITA DEL SUO TERRITORIO
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tudiare e comprendere l’identità di un territorio è indispensabile per giungere alla consapevolezza di proteggerlo, accrescerlo e valorizzarlo. Ogni zona della nostra isola ha punti di forza che le consentono di essere unica, ma per poterli scoprire è necessario studiarla attraverso: 1. La Storia. 2. Il Paesaggio. 3. Le tradizioni. 4. Il patrimonio immateriale ed orale. 5. I cittadini stessi. Uno strumento adatto per iniziare ad affrontare questa avventura è l’immagine raccontata attraverso il segno ed il colore, se ci pensate lo è sempre stato fin dai tempi più antichi, il disegno come primo strumento di comunicazione. Il progetto di Arthana (in italiano Arzana) nasce quasi un anno fa grazie a Opera.bio di Marco Bittuleri, il quale mi coinvolse nella creazione della LOLLA, quattro pensiline che il giovane imprenditore arzanese creò per il suo territorio di origine. In una in particolare mi coinvolse per inserire dei codici iconografici da incidere e forare in un pannello di metallo; lo scopo era raccontare l’unicità di Arthana e l’amore che lui le donava. Ed è da qui che nasce il nuovo progetto dedicato al paese, dove un sindaco appassionato circondato da un team di assessori e consiglieri immaginano prendendo spunto dalla Lolla una nuova veste per rappre-
sentarli e raccontarli al mondo. Ciò che vedrete è solo una parte del lavoro,ma è l’inizio di un cambiamento️: 1. Logo identitario e le sue declinazioni. 2. I tre parchi vissuti dalla cittadinanza. 3. La Mappa del territorio e la potenzialità di utilizzo. Ringrazio profondamente il Comune di Arzana per aver affidato la loro immagine nelle mie mani️ ,veramente onorata. Adesso che abbiamo finito tocca a voi, buon lavoro ragazzi! Mara Damiani. artista, designer e Art Director, nasce a Cagliari e consegue il diploma-laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, cui segue un Master in illustrazione all’Accademia Disney di Milano. Lavora nei campi del pubblishing, licensing e merchandising, collaborando da circa venti anni con The Walt Disney Company. Ha una vasta esperienza di design e illustrazione a livello internazionale e collabora inoltre con Milan Calcio, Mondadori, Egmont, Mattel, Bormioli, Clementoni, Cartorama, Leolandia, Expo 2015. Nella sua pratica di ricerca artistica personale, Mara Damiani re-investiga alcuni tratti caratteristici della Sardegna e li connette a nuovi design contemporanei da lei ideati, sperimentando anche nel settore dell’artigianto artistico. www.maradamiani.com
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n’istituzione nel mondo dolciario. Una tradizione che nasce negli anni ’70 e ora arriva nel cuore di Cagliari. Lo storico “Boboetto” della famiglia Diana apre nella via Cocco Ortu e per i golosi è subito festa. Il profumo delle caramelle e del torrone attira i passanti come una calamita, pochi metri più giù del Mercato di San Benedetto. Dolci di ogni tipo, zuccherosi e gustosi, squisiti cioccolatini e tanto altro. Philippe Diana, figlio d’arte della storica famiglia dolciaria, sa davvero come attirare i piccini e pure gli adulti. Classe 1978, suo papà e sua mamma sono stati tra i primi a portare in Sardegna negli anni ’70 i dolci e le caramelle colorate tanto ricercate durante le sagre di ogni tempo. “Prima l’offerta dei venditori era molto più limitata, con torrone e arachidi. Poi mio padre e mia madre, un sardo e una veneta, hanno portato vari tipi di caramelle, prima assenti. Il risultato? Scatoloni andati a ruba e svuotati subito”. I Diana, inoltre, facevano il giro di sagre, fiere e feste in tutta Italia, portando non solo dolci, ma anche altre bontà della nostra Sardegna. Col tempo la famiglia, inizialmente esclusivamente iti-
Lo storico “Boboetto” della famiglia Diana apre nella via Cocco Ortu e per i golosi è subito festa. Il profumo delle caramelle L’articolo “Boboetto” arriva a Cagliari: Philippe Diana porta in città quasi 50 anni di dolci e caramelle. cagliari.vistanet.it.
Il Boboetto Via Umberto I, 86 Villasimius Via Francesco Cocco Ortu, 23 Cagliari
nerante in ogni dove, ha scelto anche di sedentarizzarsi. Ecco allora che alla metà degli anni ’80 “Boboetto” prende forma nella storica attività di Villasimius, facendo innamorare locali e turisti. Caramelle, torrone, dolci, cioccolati di prima qualità, nocciole caramellate e molto altro. Ce n’è per tutti i gusti. E dal paese delle spiagge, Philippe ha deciso di trasferirsi nel capoluogo. “Dopo l’estate Villasimius si spegne. Allora, per evitare di rischiare le limitazioni di sagre ed eventi dello scorso anno, abbiamo deciso di chiudere momentaneamente lì e venire a Cagliari. Abbiamo voluto provare e speriamo vada bene”. Non ci resta più che provare alla famiglia Diana che il suo trasferimento a Cagliari, fermo restando la possibilità di gioire anche a Villasimius l’estate prossima delle delizie offerte dalla casa, é non solo fonte di profonda soddisfazione ed anche la possibilità di dimostrargli a che punto amiamo, e non da ieri, le sue delizie alle quali possiamo abbinare tanti ricordi felici di vacanze spensierate e di condivisioni amichevoli ed anche amorose che i loro deliziosi prodotti hanno suscitato e susciteranno ancora per il nostro più grande piacere, anche se staremo attenti a non abusarne per non rimpiangerlo alla prova costunme.
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opo oltre mille chilometri e alcuni mesi di viaggio, 150 anni fa il giornalista Henry Morton Stanley arrivò a Ujiji, sulla sponda orientale del lago Tanganica, in quella che oggi è la Tanzania. Era stato mandato dal suo giornale di New York in cerca di un grande scoop, il ritrovamento di un leggendario esploratore di cui non si avevano più notizie da anni. Nel villaggio, che aveva raggiunto mettendo insieme varie e frammentarie informazioni, si ritrovò davanti un altro uomo bianco. Con ogni probabilità erano gli unici nel raggio di centinaia di chilometri, ed era piuttosto evidente che aveva trovato il suo uomo, e il suo scoop. Ma nel presentarsi gli disse comunque. «Doctor Livingstone, I presume» Presumeva giusto, perché quell’uomo, ormai anziano e acciaccato, era effettivamente David Livingstone, una celebrità del tempo per le sue scoperte nell’Africa centrale nei decenni precedenti. Non ci sono in realtà grandi prove che Stanley abbia pronunciato davvero quelle parole, e c’è anche la possibilità che quell’incontro avvenne qualche giorno prima del 10 novembre. Ma è certo che ebbe luogo, incrociando le mirabolanti e molto ottocentesche vite di due grandi
DOCTOR LIVINGST
vedi il video https://youtu.be/ g0wO783AqMw
esploratori. Quelle parole (in italiano diventate «Il dottor Livingstone, suppongo») ebbero grande fortuna, più di ogni altra impresa o scoperta sia dell’uno che dell’altro: da allora sono diventate una di quelle citazioni talmente diffuse che l’origine viene spesso ignorata. Livingstone era nato a Blantyre, nel mezzo della Scozia, nel 1813. Secondo di sette figli, già a dieci anni fu mandato a lavorare in cotonificio, dove il suo compito era stare sdraiato sotto ai macchinari per unire tra loro i fili di tessuto che si rompevano. Era un ragazzino ed era un lavoraccio, ma quel cotonificio era comunque migliore di altri perché, dopo i suoi lunghi turni, gli permetteva di frequentare una scuola. Il giovane Livingstone si appassionò allo studio, imparò il latino, mise da parte qualche soldo e si iscrisse all’università di Glasgow per studiare medicina. Intanto, era diventato anche un convinto cristiano, cosa che lo indusse a fare il missionario. La sua idea iniziale era di andare a evangelizzare in Asia, ma la prima delle due guerre dell’oppio, combattuta tra il 1839 e il 1842, gli fece cambiare piani. Partì quindi per l’Africa e nel 1841 arrivò a Città del
TONE I PRESUME Capo, nell’odierno Sudafrica. Tuttavia, come ha raccontato Historic UK, il suo obiettivo non era solo convertire quanti più africani possibile. «Puntava anche a scoprire la sorgente del Nilo Bianco (a quella del più piccolo Nilo Azzurro già ci era arrivato un secolo prima un altro scozzese)». Non trovò mai la sorgente, e pare peraltro sia stato un missionario di scarsissima efficacia. Ma fu comunque un grande esploratore, forse il più grande tra quelli che nell’Ottocento andarono in Africa, e per una bizzarra via traversa fu comunque responsabile della diffusione del cristianesimo in una zona del continente. Da esploratore Livingstone fece tre grandi viaggi, durante i quali percorse un totale di quasi 50mila chilometri, una distanza superiore alla lunghezza dell’equatore. Fu il primo occidentale a raggiungere quelle che scelse di chiamare Cascate Vittoria in omaggio alla regina britannica di allora. Fu, sempre per quanto ne sappiamo, il primo occidentale ad attraversare l’Africa in orizzontale, dall’odierna Angola fino a quello che oggi è il Mozambico. Attraversò per due volte la regione desertica del Ka-
lahari (la seconda delle quali con la moglie e alcuni bambini piccoli), trovò la sorgente del fiume Congo e, da ottimo cartografo quale era, mappò il corso del fiume Zambesi e fornì svariate informazioni su luoghi di cui l’Europa non sapeva niente. «Non è esagerato dire» ha scritto Historic UK «che i primissimi astronauti che andarono sulla Luna conoscevano più cose su quel posto di quante non ne sapessero gli esploratori vittoriani sul centro dell’Africa». In riferimento invece alle attività di proselitismo di Livingstone, qualche anno fa BBC scrisse: «le stime sul numero delle persone che convertì durante i tre decenni passati in Africa variano da uno a nessuno, e la variazione dipende dal fatto che Livingstone stesso rinnegò la persona che aveva convertito giusto qualche mese dopo averla battezzata». Il convertito era Sechele, leader di una tribù in cui Livingstone andò come missionario. Pare che si guadagnò le simpatie di Sechele dopo aver causato involontariamente la morte di un suo rivale, donandogli polvere da sparo, insegnandogli poi a scrivere e convincendolo a convertirsi. Emersero però due problemi. Il primo era che Livingstone era contrario (segue pagina 16)
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(segue dalla pagina 15) alla pratica di riti propiziatori per invocare la pioggia, e sembra che quello fosse un periodo di siccità e che proprio Sechele fosse solito guidare quei rituali. Il secondo era che Sechele palesò una certa insofferenza all’idea di rinunciare a quattro delle sue cinque mogli. Livingstone desistette e rinnegò la conversione di Sechele. Oltre che per le esplorazioni e le mancate conversioni, Livingstone è noto perché (seppur con certe incoerenze e con una mentalità da uomo del suo tempo) era contrario alla schiavitù. Cercava comunicazione e collaborazione con le popolazioni indigene e credeva nella sostituzione della schiavitù con pratiche commerciali meno disumane. Un suo motto, tra l’altro scritto vicino al suo monumento nei pressi delle Cascate Vittoria era: «cristianità, commercio e civilizzazione». Anche dopo essere diventato famoso e assai richiesto quando gli capitava di tornare nel Regno Unito, Livingstone continuò a viaggiare e nel 1866 partì per una nuova spedizione verso la sorgente del Nilo Bianco.- La missione aveva una durata prevista di due anni, ma ne passarono cinque senza sue notizie e molti pensarono fosse morto. In realtà era vivo, anche se malato e debilitato dai viaggi e dall’ennesima
DAVID LIVINGSTONE malaria. Scriveva pure lettere, che però non arrivavano ai destinatari, o che comunque non le condividevano. Arrivò invece da lui Stanley, dopo una vita altrettanto movimentata. Henry Morton Stanley era nato a a Denbigh, nel nord del Galles, nel 1841, l’anno in cui Livingstone partiva per la prima volta per l’Africa. Allora, però, Stanley si chiamava John Rowlands. Ebbe un’infanzia difficile e un’adolescenza non semplice, e a 17 anni trovò lavoro su una nave diretta verso l’America. Una volta arrivato prese piuttosto alla lettera il concetto di “farsi una nuova vita” e sostenne di essere Henry Morton Stanley, il figlio adottivo di un mercante di cotone. Il mercante esisteva davvero, ma non è certo che i due si siano mai incontrati né tantomeno che l’avesse adottato. L’uomo ormai noto come Henry Morton Stanley finì a combattere nella Guerra di secessione americana, prima con i Confederati e poi con gli unionisti. Dopodiché disertò, fece il marinaio, abbandonò la nave, girò il West e finì a fare il giornalista. Nel 1869 il direttore e fondatore del New York Herald gli disse di “trovare Livingstone”, intuendo la notevole portata
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HENRY STANLEY
di un articolo sul ritrovamento dell’esploratore. Stanley, che non era mai stato in Africa, si organizzò e partì per il continente, tra l’altro con una prima sosta in Egitto, dove era stato inaugurato il canale di Suez. In una lettera mandata al giornale scrisse: «Se è vivo, sentirete quel che ha da dire. Se è morto, lo troverò e vi porterò le sue ossa». Dopo un viaggio assai complesso, tra l’ottobre e il novembre 1871 Stanley arrivò, insieme a quel che restava della sua spedizione, nei pressi del lago Tanganica, dove secondo le ultime informazioni che aveva raccolto poteva trovarsi Livingstone. In effetti c’era, circondato dalle molte persone incuriosite dall’arrivo di un altro bianco. Secondo quanto Stanley avrebbe scritto in seguito, prima per il New York Herald e poi nel libro “How I Found Livingstone” (che nella versione italiana è Come ritrovai Livingstone in Africa centrale), le prime parole le disse lui. Le pronunciò motivate dall’emozione, dalla deferenza e dall’imbarazzo nel non sapere se abbracciare o meno l’oggetto delle sue ricerche, e furono appunto «Doctor Livingstone, I presume». «Doctor Livingston, suppongo». «Sì, e sono grato di poter essere qui ad accoglierla» rispose Livingstone. I dubbi sul fatto che quell’incontro avvenne in quel
modo, con quelle esatte parole, hanno diverse ragioni. Anzitutto, nel diario di Livingstone non se ne fa menzione. Inoltre è quantomeno sospetto che dal diario di Stanley manchino, forse perché strappate, le pagine su quel momento. Stando agli appunti di Livingstone ci sono inoltre motivi per credere che l’incontro avvenne anche un po’ prima, negli ultimi giorni di ottobre. Sta di fatto che Stanley trovò Livingstone. I due si fecero compagnia per un po’ e, per quanto lo consentivano le precarie condizioni del secondo, fecero pure qualche giro nei dintorni. Stanley lo invitò a tornare in Europa con lui, ma Livingstone restò lì. Andandosene, Stanley si adoperò perché a Livingstone arrivassero provviste e medicine. Livingstone morì meno di due anni dopo, a sessant’anni, nel maggio del 1873. Quelli che erano stati i suoi assistenti gli tolsero sangue e viscere, lo coprirono di sale, lo fecero seccare al sole e lo portarono fino a Londra, dove è sepolto a Westminster Abbey. Stanley tornò, raccolse i frutti del suo grande scoop e descrisse Livingstone con ammirazione e rispetto. «Suo è l’eroismo degli spartani, sua l’inflessibilità dei romani, sua è la perenne risolutezza degli anglosassoni», scrisse.(segue p 18)
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Fotto a innantis
(segue dalla pagina 17) Nel 1873 tornò in Africa, sempre per conto del New York Herald, come corrispondente di guerra. Dopodiché fu a sua volta esploratore, da un certo punto in poi per conto di Leopoldo II del Belgio, aprendo quindi la strada (non è chiaro quanto volontariamente o quanto invece suo malgrado) alla violenta colonizzazione belga di ampie zone dell’Africa. Gli ultimi anni della sua vita li passò tra Regno Unito, Stati Uniti e Australia, e morì a Londra nel 1904. Sechele, invece, vide Livingstone per l’ultima volta nel 1852. Lo incontrarono alcuni anni dopo alcuni missionari arrivati nell’odierno Zimbabwe, piuttosto sorpresi nel vedere che molte persone già conoscevano preghiere e riti cristiani. «Sechele li aveva battuti sul tempo», come scrisse BBC. Convinto della sua personale via al cristianesimo aveva infatti continuato a praticare, convincendo sempre più persone, di sempre più tribù, a fare lo stesso. Alla sua morte, nel 1892, aveva un seguito (religioso, ma non solo) di circa 30mila persone. h t t p s : / / w w w. i l p o s t . it/2021/11/10/il-dottor-livingstone-suppongo/ vedi anche h t t p s : / / w w w. p a n g e a . news/congo-giacomo-di-silvestro/
PIERO ZUFFARDI S
tudioso illustre ed insigne maestro nel campo della Giacimentologia, Piero Zuffardi nacque a Torino il 10 novembre 1916 e si trasferì in Sardegna, nel 1947, alle dipendenze della Società Montecatini, sia come vice direttore della Miniera di Montevecchio, sia come dirigente del Servizio Geologico della Società di Montevecchio. In questo ruolo realizzò un sistema razionale di ricerca fra i più avanzati nel campo minerario, mantenendo contemporaneamente uno stretto legame con il mondo universitario. Nel 1962, vinse la cattedra di Giacimenti Minerari presso la Facoltà di Ingegneria della Università di Cagliari ove non tardò a sviluppare una fiorente scuola di ricercatori nel campo della giacimentologia e della prospezione geomineraria. Ê in questo periodo, e sotto la guida di tanto maestro, che la scuola giacimentologica di Cagliari si afferma a livello europeo. Nel 1968 è eletto Presidente dell’Associazione per il biennio 68-69, essendo Vice Presidente l’Ing. V. Pruna e Segretario l’Ing. G.Boi. Sono anni difficili per l’industria mineraria e di riflesso per l’ Associazione. La Presidenza Zuffardi riesce comunque a mantenere viva l’attività dell’Associazione promuovendo incon-
Fotto parcogeologicomonteponi
Docente proponente: Antonietta Cherchi Commissione di laurea: Pasquale Mistretta, Francesco Corongiu, Sebastiano Barca, Antonietta Cherchi, Luca Fanfani, Giampaolo Macciotta, Antonio Ulzega, Roberto Valera, Rafaele Caboi, Francesco Leone, Paola Zudda.
tri scientifici, visite alle strutture minerarie e giornate di Studio estremamente significative. Nel 1973 fu chiamato dalla Università di Milano a ricoprire la cattedra di Giacimenti Minerari presso la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Anche in questa nuova sede fece fiorire la locale scuola giacimentologica, fino al 1987, quando venne deposto fuori ruolo, non cessando tuttavia di operare nel campo scientifico, anche in qualità di membro dell’Accademia dei Lincei. Scienziato di fama internazionale, fece conoscere in tutto il mondo la ricchezza del panorama minerario sardo. Un suo illustre collega francese lo definì…. “pour la mètallogènie europèenne, un ambassadeur fort efficaceè” . Il 2 giugno 1981 ottenne il conferimento della medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte da parte della presidenza della Repubblica italiana mentre il 25 febbraio 1994 ottenne la laurea “honoris causa” in Scienze Geologiche conferitagli dall’Università degli Studi di Cagliari. La motivazione della laurea: “Comprovati meriti scientifici e accademici! Rettore: Pasquale Mistretta Preside di Facoltà: Francesco Corongiu
I migliori dei suoi allievi hanno seguito la strada da lui tracciata, ricoprendo cattedre di tipo giacimentologico in varie università d’Italia. Con alcuni di essi e soprattutto con quelli sardi, ha mantenuto, sino alla fine, un forte rapporto, sia scientifico, sia affettivo. Tra le sue pubblicazioni citiamo : “The iron deposits of the Elba island (Italy): remarks for a metallogenic discussion” Libreriauniversitaria.it “Giacimentologia e prospezione mineraria” Pitagora Editrice Bologna “L’Uranio, cos’é, dov’é, come si trova “ Hoepli Muore a Milano il 28 giugno 2012. Ornella Demuru Fonti: Cronache dall’Associazione Mineraria Sarda https://archiviostorico. unica.it/persone/zuffardi-piero
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ccorre dire subito che questo libro “Accabbadora. Mito e realtà. Storia e reperti di un ritrovamento” (Grafiche Ghiani) assesta, grazie alle acquisizioni scientifiche, un bel colpo all’ipotesi che sia da liquidare tra le tante «invenzioni della tradizione» la misteriosa figura dell’accabbadòra (la donna che secondo una radicata tradizione orale, tuttora viva in Sardegna, interveniva per abbreviare l’agonia ed indurre una bòna morte). Poche questioni, nel campo dell’antropologia culturale, hanno alimentato un dibattito così lungo e, sembrava, senza via d’uscita fino ad oggi: è davvero esistita in alcuni periodi e aree della Sardegna, “l’uso d’affrettare la fine dei moribondi”, per dirla con Alberto La Marmora? Gli indizi non mancano e anzi sono una montagna a volerli cercare nelle raccolte di tradizioni popolari, negli scritti di antropologi culturali, folkloristi e cultori di cose sarde, nella letteratura di viaggio. Ne fanno cenno, nei loro memoriali, alcuni tra i più noti viaggiatori dell’Ottocento come Henry Smyth e John Warre Tendale, Emanuel Domenech e Gaston Vuiller. Riferendosi a quella primitiva forma di eutanasia, Tendale parla di «tenera e affettuosa pratica e delicato tocco inferto
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“Accabbadora. Mito e realtà. Storia e reperti di un ritrovamento” (Grafiche Ghiani)
Un libro scritto da quattro medici con la passione per l’etnografia svela con analisi scientifiche sui reperti ritrovati la veridicità dell’attività svolta nel passato per indurre una “buona morte”
da donne e uomini nel sopprimere vecchi malati e inabili». Durissimo invece Charles Edwards che nel 1889 in “Sardinia and the Sardes”, parla di «abominevole usanza meno male ormai fuori moda», riferendo il “costume degli antichi sardi” di uccidere i propri genitori quando si ammalavano. Una pratica, aggiungeva lo scrittore inglese, che ha lasciato «un’inconscia eredità di colpa» e alla quale si deve «l’espressione sgradevole del viso e il diffidente comportamento» dei contadini sardi. Tracce più precise si trovano nella memorialistica e nei ricordi consegnati alla cronaca come la testimonianza di un centenario di Trinità d’Agultu, che riferisce di una nonna, zia Cunsulèddha, che era stata l’ultima “femmina aggabbadòra” in Gallura. «Alla fine (racconta il vecchio), soffrì molto per queste sue prestazioni. Ne abbiamo sofferto tutti. Una mia nipote si è fatta suora per espiare. La chiamavano perché era molto forte e decisa. Non che andasse volentieri, anche se sapeva di fare un’opera buona». Alla sovrabbondanza delle testimonianze corrispondeva però l’assenza di prove, “la pistola fumante”, per così dire dell’esistenza dell’accabbadora.
MITO E REALTA’ A colmare questa lacuna provvede ora questo libro, a cui concorrono, quattro autori, medici con la passione della ricerca etnografica e antropologica: Aldo Cinus, Augusto Marini, Mariano Staffa, Roberto Demontis, ciascuno con un contributo specifico. La narrazione dell’avventurosa scoperta di una nicchia nascosta in una vecchia casa sarda è accompagnata da molte immagini che mostrano i reperti accuratamente nascosti all’interno di una parete: una “mazzocca di olivastro”; un tronchetto di legno, uno scalpello con punta piatta (noto col nome di sa misericordia) avvolto in ritagli di periodici religiosi risalenti
a metà degli anni 20 del 900; una moneta di rame; un dente umano: un rosario con medaglietta e un foglio piegato in quattro, con scritti a matita e in bella scrittura, nove nomi che la sconosciuta accabbadora aveva probabilmente aiutato a morire. La ricerca sui cognomi, sui ritagli di giornali, e sugli altri reperti aiuta il lettore a entrare nel contesto rurale in cui si mosse l’ignota proprietaria della mazzocca che presentava, «nell’estremità battente una piccola formazione pilifera, sottile, arricciata, di colore bianco». Sottoposta ad esami di laboratorio da uno degli autori, Roberto Demontis, medico legale e pro-
fessore all’università di Cagliari, ha consentito di arrivare alla conclusione che la traccia è «riferibile a sangue della specie umana e appartiene ad un individuo di sesso maschile». Cosa che riconduce ad un trauma capace di causare una lesione con sanguinamento. Una «modalità lesiva» molto rara: quelle più frequenti passate in rassegna dal prof. Demontis, non lasciavano tracce che potessero essere colte da qualcuno, non solo dall’occhio esperto di un medico. «Tra le più sicure il soffocamento per mezzo delle mani o con cuscino, con conseguente asfissia «per simultanea occlusione
degli orifici respiratori». Alla luce di queste prove si può forse concludere che nell’isola abbia attecchito una forma di “eutanasia”, di “suicidio assistito” nell’ambito di un’etica laica (fuori dal paradigma della «sacralità della vita» propria della tradizione morale del cristianesimo) nella quale la morte era concepita come beneficio per colui che moriva e per chi restava. Una morte pietosa, insomma. Non per niente “accabbadòra” non significa “colei che uccide”, ma colei che pone fine (ad una vita divenuta insopportabile a causa delle sofferenze), intervenendo per abbreviare l’agonia ed indurre una bòna morte. Lo storico Gianfranco Tore riassume un dubbio di sempre: «Una società arcaica e rurale, intrisa di moralità cristiana, poteva aver praticato per secoli forme di eutanasia senza che l’occhiuta vigilanza del clero e della santa inquisizione se ne accorgessero, ne punissero i responsabili ed estirpassero il fenomeno? Questo libro offre le prove attendibili che una forma di eutanasia rurale è esistita e fino al cuore della contemporaneità, se è vero che due episodi si verificarono l’uno in Gallura, a Luras, nel 1929, l’altro ad Orgosolo nel 1952». https://www.lanuovasardegna.it/tempo-libero/2021/11/09/news/
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o sapevate? Il grande pittore Amedeo Modigliani da ragazzo trascorreva le sue vacanze in Sardegna. Il padre del grandissimo pittore livornese Flaminio Modigliani era un imprenditore minerario che operava in Sardegna ricercando ed impiantando miniere di piombo e zinco. La ditta dei Fratelli Modigliani arrivò da Livorno in Sardegna intorno al 1874. Il padre gestiva la miniera di piombo di Baueddu (Malacalzetta). La famiglia aveva due tenute: una a borgo Sant’Angelo, frazione di Fluminimaggiore (con la magnifica Villa Alice), e l’altra a Grugua, frazione di Buggerru. In Sardegna pare (non ci sono documenti ufficiali al riguardo) che Dedo (così veniva chiamato in famiglia) Modigliani dipinse una delle sue prime grandi opere il ritratto di Medea Taci, giovane amica e compagna di giochi di Modigliani: i due si sarebbero incontrati nell’albergo Leon d’Oro di Iglesias, residenza commerciale dei Modigliani. Di questo passaggio della famiglia Modigliani resta nel borgo di Sant’Angelo ciò che resta della magnifica Villa Alice, grande costruzione su tre piani composta da una ventina di stanze, quasi tutte dotate di ca-
MODIGLIANI I minetto. Nell’ingresso posteriore, all’interno del giardino della villa, la scritta “1914 P.B. Villa Alice”. P.B. indica la data di costruzione e le iniziali dell’imprenditore Paolo Boldetti. Al piano terra si trovava la cucina, un bagno con vasca e fornello per l’acqua calda. I locali sono in evidente stato di abbandono e in alcune parti i soffitti sono pericolanti. Dal piazzale della villa si accede ad altri due edifici: il locale di un’officina e i locali destinati alle stalle. Accanto all’ingresso si possono osservare due antichi cannoni provenienti dalla torre di Cala Domestica, testimonianza della difesa dagli assalti barbareschi. Oggi villa Alice è completamente abbandonata, pericolante e ricoperta di piante infestanti. L’altra villa che i Modigliani possedevano dal 1862 nella vicina località di Grugua è stata acquistata da due famiglie di Buggerru e dopo un lungo periodo di abbandono è stata recuperata. Una leggenda narra che, da queste mura, siano passati anche il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena, come testimonia il busto del Re, presente ancora oggi nel giardino abbandonato. I Modigliani, famiglia di ebrei osservanti, arrivano in Sardegna a metà Ottocento e nel 1865 acquistano
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IN SARDEGNA da Milio Casella 12 mila ettari di terre ex demaniali con boschi, campi e giacimenti minerari fra i comuni di Iglesias, Domusnovas e Fluminimaggiore, una tenuta agroforestale enorme. La società Modigliani che verrà gestita dai figli Attilio, Alberto e Flaminio, padre dell’artista, sfrutterà le risorse carbonifere e minerarie della zona e sarà anche responsabile dell’indiscriminato taglio dei boschi secolari della zona, per realizzare carbone da legna e traversine per le ferrovie italiane. Si narra che Flaminio Modigliani, padre di Amedeo, sarebbe stato spesso ospite, assieme ai suoi figli, nell’albergo ristorante Leon d’ Oro di Iglesias gestito dal fiorentino Tito Taci e dalla moglie Ersilia, dove Amedeo avrebbe conosciuto una delle sue figlie, Norma Medea. Sarebbe questa giovane donna, scomparsa precocemente nel 1898, la musa e il soggetto del quadro ‘Medea‘ dipinto da Modigliani nel 1900 a Livorno prendendo spunto da una sua fotografia (anche se non tutti i critici sono concordi nell’attribuire questo dipinto a Modigliani). https://www.vistanet.it/cagliari/2021/11/18/lo-sapevate-il-grande-pittore-amedeo-modigliani-da-ragazzo-trascorreva-le-sue-vacanze-in-sardegna/
24 novembre 1859 veniva pubblicata per la prima volta “L’origine delle specie“ del naturalista inglese Charles Darwin, nella quale esponeva la sua teoria sull’evoluzione delle specie attraverso un processo di selezione naturale. Da cui nacque la corrente evoluzionistica contrapposta a quella creazionista. Tutte le 1.250 copie andarono quasi immediatamente esaurite e pochi mesi dopo uscì una nuova ristampa. Vediamo nel dettaglio come Darwin spiegava l’evoluzione della vita sulla Terra in questa teoria che rivoluzionò la scienza e il pensiero. Selezione Naturale. “Ho chiamato il principio secondo il quale ogni minima variazione viene mantenuta, se è utile, col termine di selezione naturale”. Così Charles Darwin sintetizzò le proprie riflessioni sui processi dell’evoluzione, figli appunto di un severo meccanismo selettivo. In breve: in natura ogni individuo tende a competere con gli altri per l’uso delle risorse, e in questa lotta con l’andare del tempo primeggiano le popolazioni che meglio si adattano all’ambiente, grazie al cambiamento di alcuni caratteri che vengono poi trasmessi alle nuove generazioni. (segue pagina 24)
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DARWIN L’ORIGINE DELLE SPECIE
(segue dalla pagina 23) Se tutto ciò trova oggi ampio riscontro nelle evidenze scientifiche, ai tempi di Darwin l’idea che l’essere umano (al pari di animali e piante) fosse il risultato di una lunga evoluzione, e non il frutto della creazione divina, era invece addirittura rivoluzionaria. Classe 1809, Darwin mostrò fin da bambino una grande curiosità per il mondo della natura, approfondendone in seguito lo studio, spaziando tra botanica, geologia e zoologia. Nel frattempo, strinse amicizia con vari scienziati e nel 1831, terminato il percorso universitario, partecipò a una spedizione in Galles per effettuare alcuni rilevamenti stratigrafici. «Di ritorno, salpò quindi a bordo del brigantino “HMS Beagle” per una lunga spedizione cartografica, in qualità di naturalista e con il compito di descrivere e catalogare le varie specie animali e vegetali che si sarebbero incontrate», racconta Telmo Pievani, storico della biologia ed esperto di teoria dell’evoluzione. Nel corso di quel giro del mondo, durato quasi cinque anni, Darwin ebbe l’occasione di lavorare sul campo mettendo in mostra notevoli capacità osservative che lo portarono a studiare sia un eccezionale numero di organismi viventi e fossili (di cui raccolse metodicamente diversi campioni), sia le caratteristiche geo-
logiche dei luoghi incontrati. Per analizzare nel dettaglio gli innumerevoli appunti e reperti accumulati, Darwin impiegò diversi anni, trascorsi in Inghilterra al fianco della moglie Emma Wedgwood, sua fidata e brillante collaboratrice. Ebbene, studiando la flora e la fauna incontrate durante il viaggio sul Beagle, lo scienziato rimase particolarmente colpito da alcune popolazioni di tartarughe e fringuelli delle Galapagos, differenti nell’aspetto isola per isola, ma allo stesso tempo accomunate da evidenti somiglianze fisiche. «Darwin ipotizzò che gli animali in questione avessero rispettivamente avuto origine da un’unica specie, diversificandosi poi a seconda dello specifico ambiente in cui si erano ritrovati a vivere», spiega Pievani. Nel 1858, dopo circa vent’anni di studi, due suoi amici (il botanico Joseph Hooker e il geologo Charles Lyell) presentarono le argomentazioni sulla selezione naturale alla Linnean Society, importante associazione londinese che si dedicava alla storia naturale. L’anno seguente Darwin diede alle stampe il suo saggio più celebre: “L’origine delle specie ad opera della selezione naturale, ossia il mantenimento delle razze avvantaggiate nella lotta per la vita”. In sostanza, egli spiegò come l’evoluzione fosse alla base della diversità della vita e come essa derivasse
appunto da un meccanismo di selezione naturale scaturito dalla lotta per la sopravvivenza. «Nel dettaglio, Darwin affermò che l’evoluzione di nuove specie a partire da un progenitore comune avviene tramite un accumulo di graduali e in apparenza poco significativi mutamenti: quelli positivi, ossia favorevoli alla sopravvivenza, vengono assimilati di generazione in generazione e trasmessi ai discendenti, divenendo dominanti e determinando la suddetta diversificazione», riprende Pievani. Peraltro, Darwin non comprese appieno i meccanismi dell’ereditarietà. Li sveleranno in seguito la moderna genetica (che mosse i primi passi nella seconda metà dell’800, con il monaco ceco Gregor Johann Mendel), la paleontologia e gli studi sul Dna. Queste discipline confermeranno la bontà delle riflessioni del naturalista inglese. Per la cronaca, va ricordato anche che il primo scienziato a proporre una teoria evoluzionista legata al cambiamento delle specie fu il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck (nell’opera Philosophie zoologique, del 1809) e che riflessioni simili a quelle di Darwin furono elaborate anche dal naturalista gallese Alfred Russel Wallace, con il quale egli si confrontò più volte.
«Darwin ebbe però l’indubbio merito di aver spiegato per primo i meccanismi e processi che contrassegnano l’evoluzione e la diversificazione delle specie, determinati per l’appunto da quello che si può definire “filtro ambientale”», sottolinea Pievani. La teoria evoluzionista di Darwin ebbe immediate ripercussioni non solo nel mondo scientifico, ma anche in quello filosofico. Essa alludeva, tra le altre cose, al fatto che nessun organismo può essere considerato “perfetto”, poiché un carattere dimostratosi favorevole in una determinata situazione potrebbe non esserlo in altre. Tutto ciò, in ambito religioso, demoliva ovviamente il mito dell’essere umano plasmato a immagine e somiglianza di Dio. «Darwin dimostrò come la casualità giocasse un ruolo fondamentale nei mutamenti degli esseri viventi, senza che vi fosse alcuna “finalità” stabilita da un’entità superiore», dice Pievani. «La sua idea andava dunque contro la concezione biblica, tramandata dalla Genesi, secondo cui le specie viventi sarebbero di creazione divina e per questo immutabili». Pur non negando l’esistenza di Dio, lo scienziato inglese mandò così in pensione le istanze del creazionismo, scatenando durissime controversie. (segue pagina 26)
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(segue dalla pagina 25) Le sue posizioni, che ponevano l’essere umano sullo stesso piano degli animali, arrivarono addirittura a essere considerate blasfeme. La Chiesa cattolica ne prese subito le distanze (mutando il proprio atteggiamento solo in tempi recenti), ma quella anglicana accolse le sue teorie, tanto che al momento della morte (1882) Darwin fu sepolto nell’abbazia londinese di Westminster. «Il dibattito aizzato dai creazionisti assumerà nuovo vigore nel XX secolo, a partire dagli Stati Uniti, dove alcuni ambienti religiosi radicali propugneranno un cieco fondamentalismo, assumendo il dettato biblico come unica verità», continua Pievani. «Le posizioni dei creazionisti hanno nel tempo assunto varie sfumature, virando per esempio verso il “creazionismo scientifico” o “disegno intelligente”, visione che accetta in apparenza l’evoluzionismo, ma che non considera la casualità il motore dell’evoluzione, chiamando di nuovo in causa una finalità divina». A dispetto delle argomentazioni dei creazionisti, la teoria darwiniana, seppure affinata e modificata da generazioni di scienziati, costituisce ancora oggi la base primaria per lo studio della vita e delle interazioni delle varie specie con gli ecosistemi in cui si trovano.
Gli studi di Darwin non riguardarono peraltro solo i processi che avvengono in natura, ma anche quelli messi in atto con la “domesticazione”, di cui trattò nel saggio “La variazione delle piante e degli animali in condizione di domesticità“ (1868). Lo scienziato inglese notò come l’uomo attraverso l’allevamento (Darwin stesso allevava piccioni), modifichi facilmente habitat e abitudini degli animali, favorendo in questo modo l’evoluzione di specie con caratteristiche diverse da quelle che si sarebbero prodotte in condizioni naturali. «Le intuizioni di Darwin circa l’evoluzione come adattamento all’ambiente hanno avuto importanti ricadute in ogni ambito del sapere, dalla filosofia all’informatica, in particolare negli studi sull’intelligenza artificiale», conclude Pievani. Alcuni hanno anche tentato di cavalcare i ragionamenti darwiniani per scopi poco nobili, richiamandosi al concetto di selezione naturale per giustificare pseudoscienze razziste. Quel che è certo è che il contributo offerto dallo scienziato inglese all’umanità fu di enorme valore. Darwin ha prodotto una decisiva “evoluzione” culturale e scientifica, di cui cogliamo tuttora i frutti. h t t p s : / / w w w. f o c u s . i t / s c i e n z a / s c i e n z e / c h a rles-darwin-evoluzione-origine-specie
LA CONGIURA CAMARASSA
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appresenta ancora oggi, a distanza di oltre tre secoli, uno tra i più avvincenti casi irrisolti nella storia della Sardegna, un vero e proprio giallo che ancora appassiona e che, se diventasse un film, terrebbe di certo incollati alla poltrona. E’ la “congiura di Camarassa” dietro alla quale si celano importanti retroscena che si inseriscono in quella Cagliari del 1600 che ancora risentiva, a distanza di tanti anni, delle lotte intestine tra la nobiltà locale e la Corona Spagnola. Era la sera del 21 Luglio del 1668 e lungo l’attuale via Canelles a Cagliari veniva ucciso il vicerè di Sardegna, don Manuel Gomez de los Cobos, marchese di Camarassa. A colpire a morte il vicario del re di Spagna e tutta la sua famiglia fu una selva di schioppettate scagliate da una finestra dell’attuale civico 32, in un nobile palazzo all’epoca abitato da don Antioco Brondo, marchese di Villacidro. Ma per quanto clamoroso, questo non era né il primo nè l’unico delitto consumato tra le mura del quartiere Castello. Pochi metri e pochi giorni collegavano questa brutale esecuzione a quella avvenuta circa un mese prima (la notte del 20 Giugno) ai danni della “prima voce” dello stamento militare, don Agostino
di Castelvì marchese di Laconi. Era il chiaro segnale di una lotta intestina destinata a dominare la scena politica sarda e portare avanti lontani sentimenti di vendetta che covavano da oltre un secolo sotto la cenere di antichi dissapori. La nomina del Marchese di Camarassa a viceré di Sardegna, avvenuta il 24 Maggio 1665 da parte del re di Spagna Filippo IV, non cominciava sotto i migliori auspici. Quest’ultimo otteneva la nomina in maniera del tutto inaspettata, dato che, dopo la morte del vicerè reggente don Luigi Ludovisi nel 1664, assunse temporaneamente la reggenza il governatore di Cagliari e della Gallura don Bernardino Mattia di Cervellon. La nobiltà feudale sarda, simpatizzante del Cervellon, si aspettava che il sovrano ne appoggiasse la nomina anche per il ruolo di vicerè e fu totalmente sorpresa quando invece fu nominato al suo posto il marchese di Camarassa. Nuovamente delusi nelle loro aspettative, dopo che il governo spagnolo continuava ad attribuire un peso politico pressoché inesistente al Parlamento, i nobili esponenti dei tre stamenti (i tre ordini in cui era composto il parlamento sardo), si strinsero nella lotta contro la Corona designando garante degli interessi locali (segue pagina 28)
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(segue dalla pagina 27) don Agostino di Castelví, marchese di Laconi. Quest’ultimo, temprato dalla vita e determinato ad ottenere potere e riforme, aveva da poco varcato la soglia dei cinquant’anni, rimanendo un uomo molto combattivo. Aveva perso una moglie, Giovanna Dexart, e nel 1665 sposò una sua giovane nipote, donna Francesca Zatrillas. La donna aveva la metà dei suoi anni, ma portava con sé la cospicua dote derivata dall’eredità paterna, insieme ai titoli di contessa di Cuglieri e marchesa di Sietefuentes. Ma oltre alla ricchezza del casato e alla giovane età, donna Francesca possedeva una bellezza senza precedenti. Il governo Camarassa, sotto le continue pressioni della Corona, si stava rivelando da subito ostile e pericoloso, costringendo, tra l’altro, il Regno di Sardegna al pagamento di una cospicua tassa (il donativo) che poteva essere corrisposta in denaro o uomini per finanziare l’esercito spagnolo contro l’avanzata del re di Francia Luigi XIV. Appoggiato dalla nobiltà sarda e sfruttando il legame di parentela con Giorgio di Castelví, membro del Consiglio Superiore d’Aragona a Madrid, nel 1667 don Agostino si recò in Spagna per interloquire direttamente con la reggente Anna d’Austria.
Il soggiorno del Castelví a Madrid si rivelò più lungo e difficoltoso del previsto: dopo aver tentato più volte invano di dialogare con la reggente, fece ritorno in Sardegna il 20 Maggio 1668 senza alcun risultato. Ma non era tutto. Il viceré Camarassa, approfittando dell’assenza dell’autorevole Castelví aveva aperto i lavori per la convocazione degli Stamenti e approvato la corresponsione del donativo. Si trattava di un dichiarato abuso di potere con il quale il viceré sembrava volersi beffare dei sardi. La tensione tra la Corona e la nobiltà locale era altissima e sfociò nel brutale assassinio di don Agostino di Castelví colpito da numerosi colpi d’archibugio e finito con 20 coltellate in quella che, a tutti gli effetti, sembrava una violenta e meditata esecuzione. Era da poco scoccata la mezzanotte e nell’attuale via La Marmora (all’epoca Calle Major) l’uomo passeggiava sulla strada del rientro verso casa. L’omicidio Castelví fu la prova di un malcontento soffocato troppo a lungo e gettò la nobiltà e l’intera città in un clima lacerante di paura e impotenza. Ma una domanda restava aperta. Chi aveva ucciso il marchese di Laconi? La prima a farsi avanti nell’accusa fu la vedova, donna Francesca, la quale accusò don Antonio de Molina e don Gaspare Niño, incaricati dal Camarassa del di-
sbrigo delle pratiche per la chiusura del parlamento e proprietari delle abitazioni che delimitavano l’area nel quale si era consumato il delitto del defunto marito. Ad avvalorare questa tesi furono alcuni testimoni, vicini alla fazione antiregia. Donna Francesca sosteneva che il vicerè Camarassa avesse ordito un complotto ai danni del marito e che si fosse servito dei due uomini per eliminarlo. Per paura di rappresaglie il vicerè offrí ospitalità presso il Palazzo Viceregio sia al Molina che al Niño, i quali poi fuggirono in Spagna. Inutile dire che questo fatto finí con l’acuire i contrasti e avvalorare i sospetti. Era solo questione di tempo. Trascorsero appena 30 giorni dall’omicidio Castelví e il viceré Camarassa aveva cominciato a girare per le strade di Cagliari con la scorta. La sera del 21 Luglio, dopo la messa nella Chiesa del Carmine nei pressi dell’attuale viale Trieste, un sontuoso cocchio faceva ritorno a Castello. All’interno c’erano il viceré, sua moglie Isabella e i suoi quattro figli. Superato l’arco d’accesso al quartiere, in corrispondenza della Torre del Leone, la carrozza imboccava via dei Cavalieri (attuale via Canelles) entrando nel
mirino di una guerriglia urbana senza precedenti. Dalla casa di Antioco Brondo, all’attuale civico 32, partirono alcune schioppettate che uccisero sul colpo il vicerè. Le grida dei figli attirarono alcuni passanti e il cocchiere accelerò la corsa verso il Palazzo per fuggire ad ulteriori colpi. Alcuni uomini si erano precipitati a chiudere le porte del Castello, proprio sotto la torre del Leone, ma furono anch’essi feriti a morte da un fuoco incrociato in corrispondenza dell’attuale Palazzo Zapata-Brondo e dalla casa di Don Francesco Cao, entrambe in prossimità della Torre. Seguí l’anarchia. Le persone evitavano di uscire di casa e chiunque, di nobile rango, aveva cominciato a richiamare in città i propri vassalli per farli membri della propria scorta. E naturalmente si cominció a collegare i due delitti, cercando ogni possibile espediente che potesse strumentalizzare l’ostilità e volgere la questione verso i propri tornaconto. Donna Francesca, cavalcando l’onda del sospetto seguita all’aggressione di Camarassa, tornò a rincarare la dose di accuse verso i mandanti dell’omicidio del marito, accusando, stavolta, donna Isabella, vedova del Camarassa. Presentò alla Reale Udienza (il tribunale supremo di Sardegna) un’istanza (segue pagina 30)
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(segue dalla pagina 29) per far riaprire le indagini, fornendo anch un nutrito elenco di testimoni che avvalorassero la sua idea. Oltre 30 testimoni confermarono la versione di donna Francesca. Tra queste una domestica al servizio del Palazzo Viceregio, tale Clementa Cannas, la quale giurò di aver sentito la viceregina delegare Niño e Molina di uccidere don Agostino di Castelví. Le due istruttorie furono portate avanti parallelamente, senza però giungere a nessun esito convincente, né per l’uno né per l’altro delitto. Data la situazione stazionaria e temendo per la sua incolumità, donna Francesca si trasferí nel suo feudo di Cuglieri, dove fu raggiunta, tra gli altri, da don Silvestro Aymerich, suo cugino, più giovane di lei, da parte di madre. Sui due avevano cominciato a circolare delle voci di un presunto “affair” già da prima della morte di don Agostino. Alcuni studiosi sostengono che il defunto marchese di Laconi fosse a conoscenza della tresca amorosa tra i due ma che il fatto non lo interessasse più di tanto, occupato com’era nelle manovre politiche. I due amanti, ad ogni modo, convolarono a nozze nello stesso anno con la benedizione di papa Clemente IX e del cugino di don Agostino,
don Artaldo di Castelví Marchese di Cea. Quest’ultimo coltivava da tempo il sogno di un governo centrale sardo emancipato dall’ingombrante e oppressiva presenza spagnola e stava radunando un folto gruppo di nobili e membri del clero che appoggiassero la sua idea. Ma il piano pacifico del marchese di Cea fu spazzato via dalla nomina del nuovo vicerè di Sardegna il 23 Agosto 1668, il duca di San Germano don Francesco Tuttavilla. Ricordato dalle cronache del tempo come un uomo superstizioso e volubile, capace per questo di azioni di grande crudeltà, il nuovo viceré ebbe il delicato compito di adoperarsi per risolvere il giallo che univa i delitti Castelví e Camarassa. Questi, deciso a risolvere al più presto la questione, anche perché temeva per la sua vita, annullò i due processi iniziati dalla Reale Udienza e ricominciò daccapo tutte le indagini, affidandole a don Giovanni Herrera, del Reale Consiglio di Napoli. Le nuove istruttorie ebbero inizio nell’aprile 1669 e collegarono immediatamente l’ostinazione di donna Francesca Zatrillas, che per prima e a più riprese si era scagliata contro il viceré e la viceregina, con la volontà di sbarazzarsi del marito, il quale rappresentava un ostacolo alla sua unione con don Silvestro
Aymerich. Vista in quest’ottica, dunque, sarebbe stata lei, con la complicità del suo amante, a far uccidere il marito, per poi strumentalizzare l’ostilità nei confronti del vicerè e favorire cosí il secondo delitto, ordendo una vera e propria congiura nei confronti del vicerè, appoggiata da altri nobili: don Silvestro Aymerich, il Marchese di Cea, don Francesco Portugues, don Gavino Grixoni, don Francesco Cao, don Antioco Brondo. Furono questi, secondo le dichiarazioni dell’ Herrera, ad uccidere Camarassa. Cosí con bando del 23 maggio 1669, affisso a Cagliari e Sassari, si dava mandato per la cattura dei congiurati e donna Francesca, condannati alla confisca dei beni, alla demolizione delle abitazioni e alla pena capitale. Furono poste grosse taglie sulle loro teste e la promessa di salvezza e fortuna a vita a chiunque li avesse consegnati, vivi o morti, al governo; al contrario, la stessa condanna a morte sarebbe toccata a chiunque avesse offerto loro rifugio e assistenza. Diramato l’ordine di cattura, i congiurati si dileguarono e tentarono la fuga, dapprima separandosi per poi riunirsi. La loro cattura avvenne in momenti e in circostanze diverse: donna Francesca riuscí a fuggire a Nizza e salvarsi, mentre Silvestro Aymerich, Francesco Cao
e Francesco Portugues furono decapitati immediatamente il 27 Maggio 1671 in Gallura. Le loro teste, svuotate e riempite di sale, furono esposte a Sassari e poi issate su tre lance alla testa di un lungo corteo di cavalieri che riprendeva il viaggio verso Cagliari. Il marchese di Cea e il suo servo Francesco Cappai, invece, furono mantenuti in vita, con quel poco di cibo e acqua che ne avrebbe garantito la sopravvivenza. Il macabro corteo raggiunse Cagliari in 12 giorni e si radunò sotto la torre dell’Elefante, dove i due sopravvissuti furono imprigionati per poi essere giustiziati sei giorni dopo. Il 15 Giugno 1671 nell’attuale Piazza Carlo Alberto, antica Plazuela deputata all’esecuzione capitale dei nobili, Francesco Cappai fu torturato e ucciso per mezzo della ruota medievale e don Artaldo fu decapitato al cospetto della folla. La sua testa mozzata fu rinchiusa assieme alle altre dentro una gabbia in ferro ed esposta sulla torre dell’Elefante per 17 anni, finché il viceré Nicolò Pignatelli Aragon ne richiese la rimozione. Ma l’esposizione delle teste non fu l’unico monito per la popolazione. Un’altra importante testimonianza, meno effimera della carne e destinata a durare fino ad oggi, fu affissa nel luogo del delitto Camarassa. (segue p. 32)
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(segue dalla pagina 31)Si tratta di un’epigrafe che riporta in lingua spagnola i tristi fatti del Luglio 1668, nonché i nomi dei congiurati e l’accusa di “lesa maestà”. L’epigrafe collocata oggi al civico 32 di Via Canelles a Cagliari. “PARA PERPETUA NOTA DE INFAMIA DE QUE FURON TRAYDORES DEL REY NUESTRO SENÕR DON JAYME ARTAL DE DE CASTELVì QUE FU MARQUES DE CEA DONNA FRANCISCA CETRILLAS QUE FU MARQUESA DE SETEFUENTES DON ANTONIO BRONDO DON SILVESTRE AYMERICH DON FRANCESCO CAO DON FRANCESCO PORTUGUES Y DON GAVINO GRIXONI COMO REOS DE CRIMEN LESA MAGESTAD POR HOMICIDAS DEL MARQUES DE CAMARASSA VIRREY DE CERDEÑA FUERON CONDENADOS A MUERTE PERDIDAS DE BYENES Y DE HONORES DEMOLIDAS SUAS CASAS CONSERVANDO EN SU RUINA ETERNA IGNOMINIA DE SUS NEFANDA MEMORIA Y POR SER EN ESTO SITIO LA CASA DE DONDE SE COMETIO DELICTO TAN ATROZ A VEYNTE UNO DE JULIO DE MIL SEICIENTOS SESENTA Y OCHO SE ERIGIO ESTE EPITAPHIO” In conclusione, dunque,
quale fu la verità sul caso Laconi-Camarassa? Probabilmente non la sapremo mai, ma è interessante riportare l’ipotesi di Dionigi Scano, il quale restituAntonello Angioni, isce un’immagine diversa e pittoresca del marchese di Laconi, descrivendolo come un dongiovanni senza La congiura di Camarassa scrupoli che aveva a cuore tanto la politica quanto le belle donne. Lo Scano prospetta un’altra ipotesi, secondo cui il Raimondo Carta Raspi, Castelví sia stato vittima di una vendetta d’onore doStoria della Sardegna vuta al congiunto di una sua amante. Del resto, il focoso marchese era già scampato a più di un agguato per motivazioni tanto politiche quanto Gian Michele Lisai, amorose e aveva nemici non solo tra le fila del governo spagnolo. La Sardegna dei Misteri Lo Scano poggia quest’ipotesi su una notizia di Padre e I delitti della Sardegna Giorgio Aleo, che visse proprio nell’epoca dei fatti. Il Marchese, racconta l’Aleo, la sera dell’omicidio era uscito proprio per raggiungere una dama, tale Maddalena Cugia, la quale avrebbe proposto ad un sicario di Dionigi Scano, avvelenare donna Francesca, di cui era gelosa. Donna Francesca Zatrillas Il sicario svelò il proposito alla Zatrillas e poi, per sfuggire alla vendetta giurata dalla Cugia, lasciò la https://meandsardinia.it/ Sardegna. quella-perpetua-nota-din- Insomma, quale sia la verità emerge una storia intricafamia-la-congiura-cama- ta dai contorni romanzeschi che non smetterà mai di suscitare interesse e curiosità. https://meandsardinia.it/ rassa/
Riferimenti bibliografici
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re colpi di frusta per salutare il capo del partito: così un vecchio carrettiere salutava ogni giorno Gramsci, rinchiuso nella clinica del dottor Cusumano a Formia. La clinica, ora abitazione civile, è un palazzo a tre piani, in periferia, con la vista sul mare. Gramsci arrivò a Formia il 7 dicembre 1933, trasferito, sempre in stato di detenzione, dal carcere di Turi, dopo una breve sosta nell’infermeria del carcere di Civitavecchia. Le sue condizioni fisiche erano gravi. Già nel 1933 a Turi, il prof. Arcangeli gli aveva riscontrato gravi lesioni tubercolari, la presenza del morbo di Pott, arteriosclerosi e ipertensione: era lucido, ma anche psichicamente era provato. La clinica di Formia non era assolutamente attrezzata per curare ed assistere un malato tanto grave, perché vi erano solo due medici generici (il dottor Cusumano e il dottor Ruggiero) per una trentina di malati, che tra l’altro, in alcuni periodi, erano molti di più. Anche il personale paramedico era scarso, poco professionale e preparato. Gramsci era sorvegliato da due agenti in borghese muniti di bicicletta, che restavano nella clinica, davanti alla sua stanza, dall’alba al tramonto, e cui davano il cambio altri due per la notte.
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Inoltre due agenti piantonavano la clinica, due il giardino e una pattuglia della milizia fascista faceva servizio permanente nella stazione ferroviaria, perché la direzione aveva raccomandato una sorveglianza speciale anche nel porto temendo addirittura che Gramsci potesse evadere, con aiuti esterni naturalmente, via mare. La cortina che il regime fascista gli aveva creato attorno, con lo scopo non solo di privarlo della libertà, ma di annientarne la dignità umana e culturale. “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” aveva affermato, durante il processo del Tribunale Speciale, il pubblico accusatore Michele Isgrò, condannandolo nel 1927 a 26 anni 4 mesi e cinque giorni di reclusione non gli impedì di comunicare con gli altri, di rimanere un uomo “vivo”. “Una sola cosa ci chiedeva, che noi rispettassimo in pieno la sua personalità, che in nessun caso e per nessun motivo lo considerassimo una persona esclusa dalla vita. Voleva essere, come è sempre stato, prima di tutto un uomo vero”, così dichiarava in una intervista a “Rinascita” nel 1963 il fratello Carlo. Nella clinica di Formia, Gramsci rimase per molti mesi a letto: non riusciva neanche a fare brevi passeggiate in giardino, (segue pagina 34)
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(segue dalla pagina 33) come scriveva la cognata Tatiana a Pietro Sraffa, l’amico di sempre. L’inserviente Geltrude Casaregola, l’infermiera Concetta Vellucci e l’appuntato Antonio Zaccariello lo ricordano come un uomo gentile e riservato. Non parlava molto con loro, non faceva grandi discorsi, ma riusciva ad esprimere verso chiunque entrasse a contatto con lui una grande umanità. Una statura intellettuale ed umana che veniva subito colta anche da quelle persone umili, non acculturate, non politicizzate, quali erano gli agenti, le infermiere, le suore, che durante tutta la sua permanenza nella clinica seguirono il progressivo deteriorarsi del suo fisico e colsero positivamente la lucidità, la dignità, con cui Gramsci sopportò la detenzione senza mai arrendersi, fino alla fine. Riusciva a comunicare, secondo le testimonianze a cui prima facevo riferimento, con semplicità con tutti, così come era riuscito, egli giovane intellettuale sardo, a comunicare con gli operai della Fiat di Torino negli anni venti senza mai imporsi in modo autoritario, ma con la sola forza delle sue idee, con la giustezza delle sue argomentazioni. Un capo: tale rimaneva anche durante la prigionia, perché un vero dirigente è colui che riesce a trasmettere un messaggio
e a far nascere negli altri una coscienza sociale. Geltrude Casaregola, un’inserviente che aiutava in cucina le suore, da me intervistata nel marzo del 1977 nella sua casa di Coreno (paese della provincia di Frosinone), ricordava Gramsci con commozione: “Quando sono arrivata a lavorare nella clinica Cusumano, c’erano già sia Gramsci, sia il generale Capello. Gramsci parlava poco con noi, anche perché il prof. Cusumano ci aveva invitate a non fare domande e a non parlarne tra noi. Gramsci non mangiava molto, alcuni giorni non toccava cibo. Il pranzo veniva portato ai carabinieri, che poi glielo servivano. A volte io stesso gli portavo il caffè. Era gentile, molto buono, quando mi vedeva mi salutava sempre per primo: “Buongiorno Geltrude”. Con me, spesso, c’era mia nipote, una bambina di circa cinque anni, e quando Gramsci ci incontrava si fermava a parlarle: un giorno le dette una canna e le disse che avrebbe potuto metterla a mare e pescare così dei pesciolini. Passeggiava per un paio d’ore con i carabinieri o in giardino o davanti la clinica. Pur non conoscendo tutti i particolari della sua vita, del suo arresto, sapevo chi era: ma per me era prima di tutto un uomo buono e gentile e quando parlavamo
di lui tra di noi dicevamo sempre questo.” Era sempre sorvegliato notte e giorno; anche quando veniva una signora, la cognata, a trovarlo, i carabinieri erano presenti. Non aveva nessun rapporto con il generale Capello, erano molto diversi. l generale era più alla mano, scherzava con noi, Gramsci invece era molto serio, dallo sguardo dolce e sofferente. Era malato, aveva la pressione molto alta.” Gli agenti di polizia e il personale della clinica capivano che egli non li riteneva responsabili del suo stato: cercava anzi di farli crescere, facendo emergere ciò che di buono c’era in loro: il senso di giustizia, con l’esempio della sua rettitudine, della sua onestà e della sua coerenza morale. Tutto questo non aveva bisogno per essere trasmesso, di sottili e capziose capacità oratorie. Significativa la lunga testimonianza dell’appuntato Antonio Zaccariello, da me incontrato nella sua abitazione di Formia, sempre nel marzo del 1977: “Quando Gramsci e il generale Capello furono trasferiti a Formia nella clinica del dottor Cusumano, io fui distaccato alla clinica, come postazione fissa, addetto alla sorveglianza dei due detenuti. “Eravamo in tutto una compagnia di 12 persone: nove carabinieri, due graduati e due sottufficiali; ci davano il cambio perché i detenuti fossero sorvegliati anche la notte.
Il Professor Gramsci (lo chiamò così per tutta la conversazione, con enorme rispetto) aveva una stanzetta con un balcone (naturalmente con l’inferriata) che si affacciava sul mare; lungo le pareti vi erano tante mensole di marmo, cariche di libri, giornali e riviste. Anche il tavolo sul quale scriveva e studiava era pieno di libri, di quaderni. “L’appartamentino” era costituito da due stanzette: un’anticamera, da dove noi attraverso lo spioncino della porta potevamo sorvegliare e non perdere mai d’occhio il Professore chiuso nella sua stanza. “Quando arrivava la cognata a trovarlo, assistevamo al colloquio perché dovevamo controllare che non si passassero armi o messaggi. La cognata veniva spesso: era una bella donna, simpatica, gentile, molto garbata. Con il Professore si comportava come una moglie: attenta, premurosa e interessata alla sua salute. Infatti le prime volte pensammo che fosse proprio sua moglie; poi però egli stesso ci disse che era la cognata e che la moglie viveva in Russia con i bambini. Parlava sempre di loro e un giorno tirò fuori dal portafoglio la fotografia dei figli e ce la mostrò: era molto commosso. “Era gentile con noi: non faceva dei discorsi veri e propri, prolungati, non parlava mai di politica,
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non accusava il fascismo o qualche altro della sua condizione, non cercava di convincerci alle sue idee politiche. Non era né burbero né violento, era proprio una brava persona, una scienza: infatti nella sua stanza leggeva, studiava e scriveva tutto il giorno, fino a notte inoltrata a volte. I giornali che leggeva non li ricordo, alcuni non erano neanche italiani. Aveva due ore d’aria e l’accompagnavamo a passeggiare in giardino; quando si ritirava nella sua stanza ci ringraziava per averlo accompagnato e lo stesso faceva molto gentilmente quando gli portavamo la posta. “Non si incontrava mai con il generale Capello; le due ore d’aria di cui tutti e due godevano, le facevano separati. Prima accompagnavamo l’uno, poi l’altro, Gramsci era più dignitoso, non si lamentava mai di niente; il generale, invece, si faceva aiutare sempre da noi per sedersi in poltrona, per mettersi a letto, ma si vedeva che non aveva un effettivo bisogno. Il Professore no, aveva molta dignità, si vedeva che era una persona superiore. “Fino alla fine del 1934, quando fui trasferito a Gaeta, Gramsci non fu sottoposto a nessuna visita specialistica né radiologica: l’avrei saputo, altrimenti, perché noi avremmo dovuto essere presenti. Veniva a trovarlo ogni tanto lo stesso dott. Cusumano. Perché
poi avrebbe dovuto curarlo? Secondo me stava bene, era stato solo (!) privato della libertà. “Gli feci notare che meno di tre anni dopo sarebbe morto, e che doveva pur soffrire di qualche male se lo trasferirono in un’altra clinica. “Sì lo so, fu trasferito in una clinica di Roma; ma se a Formia non era sottoposto a nessuna cura particolare, volva dire che non soffriva di nessun male”. (Logica stringente e sillogistica del “buon senso” di un uomo semplice). “Io lo ricordo come una brava persona, come una scienza. Un uomo che s’imponeva, che incuteva rispetto al di là del fisico”. Interessante a questo proposito la testimonianza di una donna che abitava nei pressi della clinica: “La prima volta che lo vidi, piccolo, gobbo, avvolto in una mantella nera da pastore sardo, tra due poliziotti, rimasi delusa. Mi avevano detto che Gramsci era il capo dei comunisti, un rivoluzionario, e lo avevo immaginato alto, imponente, e non così piccolo, minuto, stanco: però gli occhi erano chiari, vivi, penetranti, ti scavavano dentro. Si capiva, non so dire perché, che era un uomo straordinario”. Formia, però, viveva con indifferenza la presenza del detenuto Antonio Gramsci: solo poche figure dell’antifascismo sapevano chi fosse il sardo rinchiuso nella
clinica Cusumano. La scelta di Formia da parte del regime fascista fu dovuta, probabilmente, proprio a questa diffusa mancanza di politicizzazione, a questa indifferenza della popolazione. Benché ormai molto grave (ebbe infatti tre crisi acutissime che fecero temere il peggio) nel periodo formiano Gramsci studiava, meditava, continuava a seguire le vicende politiche del “mondo grande e terribile”, e scriveva tutto il giorno, chiuso nella sua stanza. Mentre il generale Capello (rinchiuso a Formia nello stesso periodo) andava a curiosare in cucina, scherzava con tutti. Gramsci per tutto il tempo che rimase nella clinica non si comportò mai in questo modo, come ricordava anche l’infermiera Concetta Vellucci, con la quale mi sono incontrata nello stesso periodo (1977) nell’ospedale di Minturno: “Ho lavorato per quarant’anni nella clinica del dottor Cusumano: quando Gramsci è arrivato, ero già lì. Lo ricordo come un uomo serio: studiava, leggeva e scriveva, chiuso tutto il giorno nella sua stanza. Passeggiava solo per un paio d’ore al giorno, sempre scortato dai carabinieri. Avevamo pochi contatti con lui, noi infermiere, perché i malati erano tanti e noi due sole, e poi perché il dottor Cusumano ci aveva detto di non fare domande”. Le chiesi se sapeva chi fosse Gramsci e perché fosse rinchiuso: “Sì, lo sapevo e per questo
non parlavo molto con lui, temevo di dire qualcosa che non dovevo e che Cusumano lo venisse a sapere; anche fra noi del personale parlavamo poco di lui”. Le domandai perché Gramsci volle andare via: “Precisamente non lo so, a noi non dicevano niente, ma poi perché doveva rimanere? Si sentiva prigioniero in una stanzetta in mezzo alla campagna. Forse a Roma pensava di essere più libero”. Proprio in quel periodo Gramsci concluse l’ultima fase della stesura dei Quaderni. Rielaborò organicamente e sistematicamente le note arricchendole di alcuni spunti aggiuntivi. Dopo i primi mesi del 1935 non scrisse più nulla, le forze lo abbandonavano ormai, giorno dopo giorno, ma manteneva i contatti con il mondo esterno, con i punti fermi della sua esistenza, con gli affetti che davano un senso alla sua vita di recluso: la madre, i figli e la moglie. “Come si può amare l’umanità (si chiedeva) se si è incapaci di amare una singola persona?”. Nel 1934 ignora ancora che la madre è morta dal 1932, perché glielo hanno tenuto nascosto. Con infinita tenerezza le manda gli auguri per l’onomastico. Il mare di Formia, che poteva vedere dal balcone della sua stanza al primo piano della clinica, (segue pagina 38)
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(segue dalla pagina 37) gli fa chiedere al figlio Giuliano: “Hai visto il mare per la prima volta… Hai bevuto molta acqua salata facendo i bagni?… Hai preso pesciolini vivi o dei granchi? Io ho visto dei ragazzetti che prendevano dei pesciolini nel mare con un mattone bucato…”.Svolge con affetto il ruolo del padre, assente fisicamente, ma che riesce comunque ad affermare la sua presenza costante, umana e responsabile, per la qualità del rapporto che sa instaurare con i figli lontani. Anche Delio e Giuliano avvertono il legame che, malgrado tutto, li unisce al padre, tanto che, come Togliatti scrive a Sraffa, dopo la morte di Gramsci: “Delio è stato molto colpito dalla notizia, tanto da farne una vera malattia, con febbre…”. Gramsci non riesce più a studiare, a lavorare, a riposare, è tormentato dall’insonnia, il suo sistema nervoso è ormai precario. Manca a Formia della tranquillità di cui ha bisogno, avverte con disperazione la necessità di un trasferimento e in questo senso sollecita la cognata Tatiana perché se ne interessi: “… Puoi domandare se, tardando ancora una soluzione, sia possibile per me cambiare alloggio provvisoriamente a Formia stessa. Il malessere di oggi è dovuto, in gran parte almeno, al fatto che non ho dormito: è giunta la fa-
miglia Cusumano e sulla mia testa è un continuo va e vieni…”. Sempre nella stessa lettera del 25 luglio 1935, a Tatiana, aveva chiesto il trasferimento alla clinica di Fiesole, perché lì avrebbe potuto essere operato e curato dagli altri mali di cui era affetto: “Ti posso dire che mi pare utile spiegargli come è stata scelta la clinica di Fiesole e come si sia cercato di tener conto specialmente delle esigenze della polizia, perché io sono realista e non mi nascondo le difficoltà…”. Intanto proprio negli incontri con il fratello Carlo, con Tatiana che andava a trovarlo ogni domenica e a volte si tratteneva per più giorni, e con Pietro Sraffa, si era avvertita precedentemente la necessità di inviare a Mussolini la richiesta di libertà condizionale, spedita il 24 settembre del 1934, secondo le norme dell’art. 176 del Codice di procedura penale. Il 25 ottobre del 1934, Gramsci ottenne la libertà condizionale e per la prima volta uscì con Tatiana dalla clinica. Secondo la testimonianza di Giuseppe De Meo, cognato di Bordiga, Gramsci e quest’ultimo si incontrarono a Formia nell’estate del 1935, mentre l’ingegnere napoletano si recava in bicicletta in un cantiere di lavoro. Non parlarono, si salutarono con affetto e commozione: “Ciao Nino” “Ciao Amadeo”. “Ama-
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deo lo aspettava nei pressi della sua villetta, poco distante dalla clinica, quando sapeva che Gramsci sarebbe passato per la passeggiata, per salutarlo, senza aggiungere niente altro al semplice saluto. Gramsci però gli fece sapere che non lo aspettasse più, perché non voleva che gli agenti si insospettissero e gli venisse tolta l’ora d’aria. Per un breve periodo di tempo i due si scambiarono brevi messaggi tramite un’infermiera che credo si chiamasse Teresa, morta qualche tempo fa. “Amadeo fece pervenire ad Antonio anche del vino rosso, prodotto in casa, che io stessa gli portai. Lo stimava molto e ne parlava sempre con grande rispetto”. Al di là delle divergenze politiche molto profonde, Gramsci e Bordiga, che avevano condiviso un grande ideale sociale e le lotte contro il fascismo nascente, mantenevano una profonda stima reciproca. Gramsci partì da Formia il 24 agosto del 1935, accompagnato dal prof. Vittorio Puccinelli, ed entrò nella clinica “Quisisana” di Roma, dove morì il 27 aprile del 1937. Il fascismo aveva senza dubbio privato un uomo della libertà, ma non era riuscito a “impedirgli” di lavorare e di lasciare un grandissimo patrimonio di pensiero. Mariangela Lombardi “MARXISMO OGGI” n. 34 Maggio-Luglio 1989) https://www.latina24ore.it/
asce Antoni Simon Mossa il 22 novembre 1916, architetto, artista, ideologo dell’indipendentismo
sardo Di origini algheresi, Antoni Simon Mossa nasce a Padova il 22 novembre 1916, si laurea in architettura a Firenze ed avvia le proprie attività a Sassari e ad Alghero, dove si interessò al catalano locale e alla lingua sarda. Antoni Simon Mossa è considerato il padre del moderno nazionalismo sardo. Ma anche se viene ricordato principalmente per le sue opere architettoniche ed il suo impegno politico, Mossa è stato uomo di straordinaria poliedricità, operante con passione e competenza anche nel campo della letteratura così come della musica e del cinema. Suoi, tra i tanti, i progetti architettonici della Scala del Cabirol, che consente accesso alle Grotte di Nettuno ad Alghero, alla cupola policroma di San Michele, l’importante contributo al Master Plan della Costa Smeralda ed il Museo del Costume di Nuoro. Anche in campo cinematografico, Simon Mossa sviluppa il suo animo artistico e si forma quale intellettuale completo. A Firenze frequenta il CineGuf e con Fiorenzo Serra (futuro regista etnografico sassarese) inizia un proficuo sodalizio. (segue pagina 40)
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(segue dalla pagina 39) Proprio in Toscana sviluppa la passione per l’arte cinematografica, formandosi con la scuola francese del tempo: il realismo poetico di Jean Renoir e di Marcel Carné, il rigore di Duvivier, l’avanguardia di L’Herbier. Fondamentale è stata, inoltre, la visione di film che hanno segnato l’epoca e che hanno fatto la storia del cinema, tra i quali “Metropolis” di Fritz Lang ed i capolavori, dal taglio antropologico, di Flaherty e D.W. Griffith. Scrive un libro di grammatica algherese e nel settembre del 1959 fonda una scuola in cui, fino al 1970, s’insegnava l’algherese e si conducevano lezioni in catalano di archeologia, storia e cultura sarda. Dal 1961 al 1971 fu presidente del “Centre d’Estudis Algueresos” di cui era stato anche fondatore. Nel 1959 conosce il fotografo e storico Pere Català i Roca, col quale avviò delle corrispondenze. Mossa intraprese viaggi di studio in Corsica dove ebbe modo di conoscere Petru Rocca; nel 1961 visitò in Catalogna Jordi Pujol i Soley; nel 1964 visitò i Paesi Baschi e la Galizia, l’Alsazia nel 1965, nel 1966 le Fiandre, il Galles e la Scozia, ed infine la Frisia nel 1967. Nel frattempo, comincia a partecipare al movimento nazionalista sardo.
ANTONI SIMON MOSSA
Introdusse una nuova teoria basata sul riappropriamento dell’identità sarda, definita come una comunità con storia, lingua e cultura propria in pericolo d’estinzione. La soluzione per porre fine al neocolonialismo italiano sarebbe stata l’adozione di politiche ispirate al socialismo e, attraverso l’indipendenza dell’isola, costituire una federazione europea di comunità in seno alla quale la Sardegna avrebbe così potuto intessere una rete di relazioni autonoma tra i vari stati, e stabilire un rapporto privilegiato con la Catalogna e la Corsica. Nel 1964, pur facendo parte del Partito Sardo d’Azione, fondò insieme a Giampiero Marras il “Muimentu Indipendhentistigu Revolussionàriu Sardu” e nel 1966 il gruppo clandestino “Sardigna Libera”; nello stesso anno fu anche eletto consigliere comunale del comune di Porto Torres. Morì prematuramente di malattia il 14 luglio 1971. Influenzò intellettuali e politici come Giovanni Lilliu, Antonio Ballero de Càndia, Sergio Salvi, Carlo Sechi Ibba e Gustavo Buratti, e molte delle sue idee sono state adottate dall’area autonomista e indipendentista moderna. Fonti: Wikipedia ArchivioSimonMossa.it vedi https://youtu.be/JgXg27gTv1g SASSARI.
GAVINO GUISO
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er l’archeologa Pietra (della sovraintendenza di Cagliari-Oristano) ancora, è difficile comunicare l’archeologia poiché “è rischioso divulgare ipotesi poco certe, capaci di creare falsi come nel caso delle pietre trasportate da Mago Merlino a Stonehenge”. Nel merito dell’osservazione Giacobbo ha condiviso una personale soluzione, l’onestà: “Bisogna raccontare l’esistenza delle diverse ipotesi e trattare il prossimo come vorremmo essere trattati, ovvero con onestà. Dobbiamo, ancora, avere il coraggio di raccontare anche i ‘lavori in corso’, magari il turista tornerà negli anni per sapere cosa è successo in quel particolare sito. Secondo una ipotesi gli Shardana erano le guardie personali di Ramses II, secondo un’altra versione erano invece una sorta di ‘top gun’ noti per le loro capacità militari. Nella Cittadella dei Musei di Cagliari sono esposti alcuni scarabei egizi: non è provato che fossero le guardie del corpo del faraone ma perché non divulgare questa ipotesi? Per un rettore di una facoltà egizia essi erano le bodyguard del terzo faraone della XIX dinastia. Perché non possiamo avere il coraggio di condividere queste ipotesi?”.
Roberto Giacobbo: per raccontare la storia della Sardegna ci vuole coraggio. Perché i Giganti di Mont’ ‘e Prama sono un problema per l’Italia centralista.
ggi ho avuto l’ennesima conferma di quanto Anthony Muroni sia la persona giusta al posto giusto, dotata non solo di serietà e preparazione (ed esperiemza), ma anche dello spirito necessario a valorizzare la scoperta forse piú importante in campo archeologico degli ultimi 50 anni: i Gigantes di Mont’ ‘e Prama, sino a prova contraria la piú antica testimonianza di statuaria dell’intero bacino del Mediterraneo Sul suo profilo Facebook riporta una sintesi della visita di Claudio Spanu all’Università di Sassari in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Antony Muroni racconta: “Questa mattina, durante l’inaugurazione dell’Anno accademico dell’Università di Sassari, il capitano della Dinamo Lab ha richiamato i valori più profondi del progetto “Un futuro da Giganti”, che vede uniti la Fondazione Mont’e Prama, la stessa Università, la Dinamo Sassari e il Banco di Sardegna. “Il consiglio che mi sento di darvi è di essere curiosi e di provare a cambiare sempre punto di vista. Noi ci chiamiamo giganti per la similitudine con i Giganti di Mont’e Prama, enormi sculture di pietra che rappresentano guerrieri dell’era nuragica. Penso che dentro ognuno di voi (segue pagina 42)
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Foto gavinoguiso
(segue dalla pagina 41) ci sia un gigante, pronto a venire fuori: non solo attraverso lo studio e la disciplina, a volte anche attraverso le difficoltà della vita. Per questo vorrei che vi arrivasse il mio messaggio forte e chiaro: gli unici limiti che vi ponete sono quelli che avete nella testa, non abbiate paura. Sfidate le vostre paure, mettetevi in gioco: fatevi aiutare dalle istituzioni e provate ogni giorno a essere un po’ più giganti del giorno prima. A volte bastano piccole cose: vivere in maniera civile, rispettando il prossimo, magari evitando di parcheggiare sugli scivoli o in uno stallo per i disabili, guardando con empatia chi abbiamo vicino. Un futuro da giganti è alla portata di tutti.” Sottoscrivo parola per parola quanto detto sia dal Capitano della Dinamo Lab che da Anthony Muroni e l’occasione mi é ghiotta per riportare di seguito una lettera che il mondo accademico italiano (piú esattamente l’Istituto Italiano di Preostoria e Protostoria) invió al giornalista e appassionato studioso Sergio Frau, reo di voler esaltare la storia dell’antica civiltà dei sardi. E piú in dettaglio la lettera dice, tra l’altro: “Non è necessario che le ricordi la storia recente e contemporanea per sottolineare il ruolo nefasto che
un uso scorretto della documentazione e dell’informazione archeologica può avere nel suscitare nostalgie di paradisi perduti ed età dell’oro, e nel fornire il pretesto per rivendicazioni di superiorità culturale ed etnica e per aspirazioni autonomiste che sarebbe difficile giustificare altrimenti. Francamente, mi sembra che molte delle sue tesi si prestino, seppure non intenzionalmente, ad alimentare manifestazioni del genere”. Rispetto a queste parole espresse ufficialmente dalla cultura italiana non posso che continuare con ancor maggiore impegno personale la battaglia, condivisa con tanti amici, per costruire tra i sardi la consapevolezza del proprio ruolo storico e delle immense potenzialità di sviluppo che possono derivare da un nuovo patto con la Repubblica Italiana finalizzato alla sostituzione dell”attuale inadeguato Statuto della Sardegna con una nuova Carta de Logu noa federalista che restituisca ai sardi la propria autonomia storica e la propria dignità. Gavino Guiso http://www.gavinoguiso.it/2021/11/21/roberto-giacobbo-per-raccontare-la-storia-della-sardegna-ci-vuole-coraggio/ http://www.gavinoguiso.it/2021/11/15/perche-i-giganti-di-mont-e-prama-sono-un-problema-per-litalia-centralista/
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VALERIA SECHI L
e ventenni in felpa e micro shorts l’hanno squadrata da capo a piedi per poi sentenziare: «Beh però, per l’età che hai sei ancora figa». L’età che ha Valeria Sechi è 55 anni, un’età da mamma, da zia, da «sciura milanese con gonna al ginocchio e tacco 5»: non l’età di una modella che insieme a un gruppo di poco più che adolescenti fa veloci cambi d’abito in un furgone durante un servizio fotografico. E invece Valeria Sechi modella lo è da 5 anni, dopo essere stata commessa, donna delle pulizie, operaia agricola, venditrice nei mercati rionali e porta a porta, telefonista, fattorino e tanti altri lavori, oltre che moglie (per più di 25 anni) e mamma di cinque figli, tre femmine e due maschi tra i 16 e i 30 anni. Valeria è una modella nonostante le prime proposte ricevute (e rifiutate) fossero pubblicità di pannoloni per l’incontinenza, montascale e adesivi per dentiere. «E sai perché? Perché dopo i 50 le donne sono viste come quelle che perdono i denti, non riescono a salire le scale da sole e se la fanno anche addosso. Ma quando mai... Io voglio testimoniare che invecchiare è un privilegio, che le donne over 50
«A 55 anni faccio la modella: invecchiare è una bellezza» Valeria Sechi https://www.materiagrigia.blog/
hanno un’infinità di cose da dare e da fare, che “ormai è tardi” non esiste perché forse il meglio deve ancora venire. Io a 50 anni mi sono accorta che stavo per rientrare nella categoria delle invisibili, come tutte le donne della mia età considerate “anzianotte” e ignorate dalla moda e dalla pubblicità: perché a promuovere le creme antirughe sono modelle di 20 anni che le rughe non sanno neanche cosa siano? È una presa per.... i fondelli. Allora mi sono lanciata, sperando che il paracadute si aprisse. È andata, ho iniziato a fare la modella over anta con il mio sedere poco tonico, il seno non pervenuto e la pancia di 5 tagli cesarei. Ma sono io». Più di 30 anni fa. Valeria Sechi arriva da Carbonia e i suoi primi 23 anni li ha trascorsi a Cagliari. «Quando ho conosciuto il mio futuro marito, in Sardegna per il servizio militare, ero convinta che fosse solo l’amore a spingermi a seguirlo, in realtà (ma l’ho capito dopo) non vedevo l’ora di andare via». La sua infanzia e adolescenza non sono state facili: «Mio padre era ludopatico, spendeva ogni centesimo al gioco. Era mia madre (segue pagina 44)
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(segue dalla pagina 43) con il auo stipendio da insegnante a tenere in piedi la famiglia. Non l’ha mai lasciato e io l’ho incolpata per non averlo fatto, per averci fatto vivere tra sfratti e ufficiali giudiziari. Poi da adulta ho iniziato a comprenderla, so quanto ha sofferto e che miracoli ha fatto. A 23 anni me ne sono andata con mio marito, ho ricominciato la mia vita a Brescia. Sognavo la famiglia stile Mulino Bianco, volevo tanti figli e dedicarmi a loro. Invece il passato mi ha inseguito e mi sono ritrovata con un uomo accanto molto diverso da quello che immaginavo e molto simile a mio padre. Spendaccione, incapace di gestire il denaro: per 30 anni ha inseguito i suoi sogni mentre io mettevo insieme il pranzo con la cena per i miei cinque figli. Ho fatto qualunque lavoro, anche il più umile. Quando ci staccavano la luce e portavano via i mobili ai ragazzi sorridevo, dicevo “domani andrà meglio”. Con pochi soldi cercavo di provvedere almeno all’essenziale, come cibo, quaderni e dentista, mia madre è stata bravissima a insegnarmi come si fa. Non so cosa sia una crema per il viso o per
il corpo, un trattamento estetico, quando i capelli a 30 anni hanno iniziato a diventare grigi ho deciso di non tingerli: un po’ perché costava, un po’ perché quel grigiore era un segno di me, del tempo che passa e meno male che passa. Non li ho mai tinti neanche dopo, quando avrei potuto». A un certo punto però Valeria ha detto basta. «Ho compiuto 50 anni, davanti a me ho visto meno tempo di quello indietro. Ho chiuso con mio marito e sono andata via con i miei figli. Ne avevo 4 ancora a carico, abbiamo cambiato casa, ho trovato lavoro come fattorino, il mio primo posto fisso: 700 euro al mese, più gli extra con le pulizie nelle case. L’inizio della mia, la nostra rinascita». Ma non era abbastanza, perché dopo tanta fatica Valeria sentiva di dover fare qualcosa per se stessa: «Volevo dire che ci sono, esisto, come tutte le over 50 che lavorano, spendono, soffrono e vanno avanti con una forza incredibile. Siamo il motore di un paese che invecchia, dobbiamo stare al centro e non all’angolo». Ecco le prime foto, del viso e a figura intera, e le prime mail spedite a decine e decine di agenzia
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«senza filtri e photoshop, anzi con i difetti ben descritti caso mai non li notassero, come le gambe storte». Le immagini girano e dopo i primi rifiuti a pannoloni e roba simili, Valeria inizia a diventare popolare grazie alla pagina Instagram vale−greymodel dove pubblica le sue foto e di sè scrive: “La bellezza non ha età, mamma di 5 e ancora viva, spaccio ottimismo”. Nella pagina che oggi conta 17mila follower c’è spazio per il decalogo della rinascita, pezzo forte del blog “Materia grigia, il blog che ti valerizza”. A luglio Valeria Sechi si è licenziata: «Ho lasciato il posto fisso da fattorino, mia madre ha detto “sei pazza”». Ha aperto un’attività che si chiama Vipuntozero, accessori moda come borse, stole, fasce e abiti realizzati con materiali recuperati. E continua a sfilare «anche intimo per Calvin Klein», e a posare per aziende di abbigliamento e cosmetici, protagonista di copertine e campagne pubblicitarie internazionali. Senza paura, a 55 anni, di sentirsi bellissima. h t t p s : / / w w w. l a n u o v a s a r d e g n a . i t / r e g i o ne/2021/11/22/news/a-55-anni-faccio-la-modella-invecchiare-e-una-bellezza
econdo una recente diramazione dell’ANSA Jennifer Lopez avrebbe declinato l’invito del suo primo fan e primo cittadino di Cagliari a fargli visita e ad essere insignita della cittadinanza onoraria. La città avrebbe infatti disatteso le aspettative come candidata a Capitale del Mediterraneo, Candidata a Capitale della Cultura, Candidata a Capitale del Verde e Candidata all’Oscar, piazzandosi all’ultimo posto con un premio di consolazione ad hoc quale Candidata al Pangolino d’Oro. Hanno provato a stupirci con effetti speciali: giostre multicolor, frutti giganti, panem et circenses, piramidi di Pistoletto e sacchi di Burri dai miasmi fetidi assurti a marcatori territoriali di un’élite autoreferenziale attenta alle problematiche socio-antropologiche della società complessa. Come il sentito problema delle radici. Sì perché gli alberi di Cagliari hanno le radici, checché ne dicano i detrattori: lo dimostra la scienza attraverso un esercito di fedeli esperti precettati dal partito. Fu così che nel silenzio metafisico della città chiusa al morbo iniziarono a riecheggiare le virili falci e le siderurgiche seghe. Fu così che da un giorno all’altro (segue pag. 46)
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LE LE SEGHE SEGHE SULLA SULLA CITTA’ CITTA’
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(segue dalla pagina 45) si abbatterono gli anarchici arbusti, incapaci di opporre resistenza agli intrepidi giardinieri. Caddero indiscriminatamente, uno dopo l’altro, pini vincolati di Buoncammino e, per non far torto a nessuno, anche quelli non vincolati ma pur sempre sani di Elmas e Pirri; lecci e jacarande di Via Dante e del Largo Carlo Felice, mimose di Molentargius. Infine fu la volta dei 233 ficus vincolati di Viale Trieste che, invece di essere tutelati e messi in sicurezza facilitando pedoni e micro viabilità attraverso pavimentazioni flottanti furono sostituiti da bonsai cinesi: fragosissimi ma privi di radici. A nulla valse l’opposizione al piccone risanatore di frange minoritarie di popolazione. Tra una giostra e una sega, la nostra sentinella in piedi sprezzante del pericolo portava avanti con solerzia noncurante propagande culturali d’altissimo spessore: mentre tentava invano di ricontattare Jennifer promuoveva al contempo biografie di personaggi illustri del calibro di “Io sono Giorgia” soggiogando cittadini inermi e provati da anni di pandemia. Nell’anarchia generale e nell’assoluta perdita di senso civico ebbe inizio il punto di non ritorno. Tutti i cittadini buttarono quotidianamente sacchi
dell’aliga direttamente dalle finestre delle abitazioni; anche le donne cominciarono ad urinare negli angoli delle vie del centro; sparirono tutti i campi di grano, anche quelli di Mogol e Battisti; aumentarono esponenzialmente le sentinelle in piedi; si ripristinò la Santa Inquisizione; si tagliò l’illuminazione pubblica dopo il tramonto per annientare la movida che fu sostituita dai roghi del sabato sera in Piazza Garibaldi, dove il comitato Viva Savonarola bruciava libri, topi, streghe, consumatori di oppio, bevitori d’assenzio, omosessuali e tarantolate; si cucinarono migliaia di cani e gatti fino ad esaurimento scorte in una estenuante competizione con Quartu; si registrò pure qualche sporadico caso di cannibalismo; qualcuno optò addirittura per una scelta radicale sulla scorta delle suggestioni offerte dal Barone rampante: arrampicatosi sulle cime più alte dei ficus di Viale Merello (i soli scampati alla furia devastatrice del partito e sola igiene del mondo) non fece più ritorno sulla terra. Carla Deplano https://www.facebook.com/photo.php?fbid=4799837636735790&set=a.435970653122532&type=3&notif_ id=1637773099172249&notif_t=feedback_reaction_generic_tagged&ref=notif.
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a materia oscura cela ancora molti segreti. Gli scienziati non sanno quasi nulla di questa sostanza che occupa una grossa porzione dell’universo. Per poterla studiare è stato organizzato il progetto Aria, il cui fine consiste nella creazione nella miniera di Monte Sinniti, nel Sulcis-Inglesiente, di una colonna di distillazione di 300 metri destinata a separare l’aria dall’argon. Questo gas è, infatti, essenziale per poter “osservare” la materia oscura, come dimostrato dall’esperimento DarkSide-50, condotto nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Un investimento importante Si tratta di un progetto unico nel suo genere, supportato economicamente da vari enti. Finora la regione Sardegna ha contribuito alle spese con 2,7 milioni di euro, mentre la Carbosulcis (la società che gestisce la miniera di carbone) ha versato 1,5 milioni per l’adeguamento dell’infrastruttura. Un investimento di oltre 2 milioni dovrebbe, infine, consentire l’installazione dell’impianto nel pozzo Seruci 1. “Al momento pensiamo a una produzione di argon pari a 20 tonnellate, ma puntiamo ad aumentare
Foto gettyimages
MATERIA OSCURA
progressivamente fino al limite massimo di 300 tonnellate”, dichiara il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Fernando Ferroni. Le caratteristiche dell’impianto “L’argon è un gas presente nell’aria e molto poco costoso, ma deve essere prodotto in un ambiente protetto”, spiega Ferroni. Quando si trova nell’atmosfera, infatti, il gas, a causa dell’azione dei raggi cosmici, da origine all’isotopo argon 39, non idoneo ai fini dell’esperimento. “Per impedire che questo accada si prende l’aria da un luogo che, come la miniera, è protetto dai raggi cosmici e quindi povero di argon 39”, prosegue il presidente dell’Infn. Per evitare sprechi di energia eccessivi, l’impianto sarà dotato della capacità di funzionare a bassissime temperature. Il completamento dei lavori richiederà ancora qualche mese. Una volta messa a punto la colonna di distillazione inizierà una fase in cui verranno svolti vari test necessari per verificarne il corretto funzionamento. Oltre all’argon, l’impianto sarà in grado di produrre altri gas utilizzabili in campo biomedico. https://tg24.sky.it/scienze/2018/09/22/studio-materia-oscura-miniera-sulcis
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Foto irenefassini/sararuggieri
sole che si riflette sul mare e sulla macchia mediterranea scompare gradualmente. Un buio interrotto solo dalle luci delle torce elettriche si fa spazio mentre il montacarichi scende per decine di metri nella miniera. «È un senso di spaesamento». Enrico per dieci anni ha scavato gallerie ed estratto carbone tra Nuraxi Figus e Seruci. È uno dei più giovani minatori di Carbosulcis. Per alcuni suoi colleghi è un lavoro che proseguiva da 30 anni. L’ultima miniera di carbone della Sardegna, Monte Sinni, a metà tra Carbonia e Iglesias, il 31 dicembre 2018 ha terminato definitivamente l’attività estrattiva. Ma da almeno due anni la maggior parte del lavoro era già concentrato sulla speranza di una nuova vita per l’impianto e per i suoi 200 operai. È questa trasformazione, non il passaggio improvviso dalla luce al buio, a generare quel senso di spaesamento. Cambiare lavoro dopo decenni. Non più scavare ed estrarre carbone, ma riempire e chiudere le vecchie gallerie e montare nuove strutture per ricerche scientifiche all’avanguardia con applicazioni che vanno dalla diagnostica tumorale alla ricerca della materia oscura. Una riconversione che
UN FUTURO PE
In cerca della materia oscura del Big Bang nell’ultima miniera di carbone del Sulcis La miniera di Monte Sinni/Nuraxi Figus-Seruci ha cessato la produzione di carbone il 31 dicembre 2018. Lì dentro il Laboratorio nazionale del Gran Sasso (Istituto nazionale di Fisica nucleare), il Cern di Ginevra e l’Università di Princeton vogliono realizzare una torre di distillazione criogenica, più alta della Tour Eiffel Testo, foto e video: Irene Fassini e Sara Ruggeri
proietterà la miniera nel futuro, dal carbone alla fisica nucleare, dando la possibilità di restare a vivere in una terra dove il tasso di disoccupazione è tra i più alti in Italia. Per due secoli il Sulcis ha segnato la storia della Sardegna, tra picchi di lavoro e periodi di grave crisi. La prima attività estrattiva risale al 1853, a Bacu Abis, a pochi chilometri da quella che 170 anni dopo sarebbe diventata l’ultima miniera di carbone: Monte Sinni, che include i siti produttivi di Seruci e Nuraxi Figus. Per l’Italia, nella prima metà del Novecento, il carbone del Sulcis è stata una risorsa da sfruttare per un tentativo di indipendenza energetica, durante la Prima guerra mondiale e nel periodo fascista. Un comune, Carbonia, è stato fondato nel 1937, su volontà statale, per accogliere i minatori. Quella che oggi è una città di circa 30mila abitanti, nei suoi anni d’oro era arrivata a 60mila residenti. Molti immigrati da altre regioni: Veneto, Marche, Sicilia. I lavoratori impiegati nelle miniere erano circa 18mila. Ma già negli anni Sessanta le prime cave iniziano a chiudere, a partire da Bacu Abis. E con esse si apre il periodo delle grandi proteste sindacali.
ER LE MINIERE L’Enel nel 1965 diventa titolare della miniera di Seruci, allora la più importante del bacino carbonifero del Sulcis, ma poco dopo frena l’attività estrattiva perché ritenuta antieconomica. Fino a quando nel 1976 viene costituita la società pubblica Carbosulcis per rilanciare l’area di Monte Sinni e ridare lavoro al territorio. Il secondo obiettivo riesce, il primo no. La lignite, il carbon fossile tipico di queste aree, è geologicamente giovane, povero di potere calorifico, contiene molto zolfo e ha bisogno di un lungo trattamento che lo rende meno pregiato di altri carboni. «L’azienda ha avuto problemi da quando è stata creata, tra scioperi e cassa integrazione», racconta Enrico. «È sempre stato difficile piazzare il prodotto, perché presto le leggi sull’inquinamento e sull’impatto ambientale hanno reso meno interessante per l’Enel sfruttare il carbone, che doveva essere trattato. Inoltre immettere sul mercato il carbone sardo era difficile perché costava di più rispetto all’estero: qui il costo del lavoro è maggiore e rende il nostro carbone meno competitivo rispetto a quello di Stati dove un minatore è pagato molto meno». Nel 2012, dopo decenni di lotte sindacali, le perdite della società arrivano a 48,5 milioni di euro.
Due anni dopo si decide per un piano di chiusura, approvato dalla Comunità europea. Entro il 2018 l’estrazione di carbone deve cessare. Entro il 2027 devono essere concluse le attività di messa in sicurezza e ripristino ambientale. Ma nel frattempo Carbosulcis si inventa una nuova vita per le miniere: progetti innovativi nel campo delle energie rinnovabili e della ricerca scientifica. La fine dell’era del carbone. La riconversione Nel sottosuolo di Monte Sinni ci sono circa 30 chilometri di tunnel e gallerie. Scavati in decenni di vite lavorative. Prima a Seruci. Poi a Nuraxi Figus. E anche quando era ormai chiaro che il carbone sardo non conveniva più si è andati avanti. Il lavoro, nel Sulcis, era questo. «Era l’unico impiego che c’era se non si voleva emigrare», ricorda Enrico. «Nel 2006, quando sono state fatte le assunzioni per l’ultimo progetto di rilancio, il lavoro nella zona era praticamente a livello zero. Bisognava inventarsi qualunque cosa per tirare avanti». Anche adesso nel Sulcis la disoccupazione è al 17,7 per cento, tra le più alte in Italia. Ma quella giovanile è al 46,8 per cento. Mentre nell’isola i Neet, (segue page 50)
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MARE DI SARDEGNA
Foto irenefassini/sararuggieri
(segue dalla pagina 49) gli under 30 che non cercano lavoro, non studiano e non sono in formazione professionale, sono al 27,7 per cento. E, nonostante Carbosulcis ancora oggi dia lavoro a circa 200 dipendenti, gli ultimi minatori rimasti si chiedono cosa sarà di loro dopo la riconversione. La strada è segnata: se i progetti non funzioneranno, nel 2027, dopo le attività di messa in sicurezza e la riduzione delle gallerie a circa 10 chilometri dei 30 originari, la chiusura sarà definitiva. Ma i progetti ci sono e sono numerosi. Il primo riguarda proprio la modalità di riempimento e chiusura dei vecchi tunnel. Gli scarti di lavorazione della centrale Enel di Portoscuso, distante una decina di chilometri, saranno pompati nel sottosuolo e usati per chiudere le gallerie in disuso. Si tratta di rifiuti non pericolosi, ceneri gessi e fanghi, che consentiranno a Carbosulcis di ottenere ricavi e al contempo proseguire le attività di messa in sicurezza del sottosuolo. Ma c’è molto di più. «L’azienda sta portando avanti con impegno tutta una serie di nuovi progetti nel campo delle energie rinnovabili e della ricerca», spiega Stefano Farenzena, ingegnere geotecnico, responsabile sottosuolo di Carbosulcis.
«Stiamo facendo studi sulla possibilità di immagazzinamento dell’energia prodotta dalle fonti rinnovabili. Mentre in ambito ricerca ci sono il progetto Spirulina, il progetto Ulisse e il progetto ARIA». Piani che prevedono una riconversione della miniera, ma anche una nuova formazione per gli operai. «La maggior parte di noi arriva da cantieri dove si è lavorato duro», ricorda Enrico. «La nuova gestione ha creato alcuni timori perché soprattutto gli operai anziani fanno fatica a imparare nuove attività che saranno il futuro». Un futuro che ha poco a che vedere con la routine nel sottosuolo cui sono abituate le famiglie di queste terre da generazioni. Solo l’inizio del turno di lavoro è lo stesso: un suono meccanico, ripetitivo. Un operaio si dedica alla salita e alla discesa di chi attacca o stacca la sua giornata. «La gabbia arriva», dicono i minatori e si preparano all’ingresso nel grande ascensore che li porterà a 430 metri sotto il livello del mare. Non sono ammessi ritardi perché la discesa e la salita sono solo due per turno. Il gruppo di minatori, una ventina in tutto, si presenta puntuale per l’«ingabbiata» di discesa. Sono già equipaggiati: tuta da lavoro, scarponi an-
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ti-infortunio, casco, guanti, torcia e autorespiratore. Durante il periodo di produzione le 24 ore erano scandite da quattro turni di lavoro da 8 ore, che si accavallavano tra loro per due ore. Poi, nell’ultimo periodo, i turni erano stati ridotti a tre, sempre da 8 ore. Una volta scesi a 430 metri sotto al livello del mare, ci si dirigeva verso i diversi cantieri: avanzamento dello scavo, taglio e asportazione del carbone dai pannelli di coltivazione, manutenzione e movimentazione dei materiali. Chilometri e chilometri di linea produttiva. Oggi invece si lavora solo sulla manutenzione delle strutture e dei servizi in galleria. «Le misure di sicurezza sono molto precise, rigide, oggi come in passato», dice Stefano. Lui in altre miniere che ha visitato non lavorerebbe mai. Dei 200 dipendenti di Carbosulcis, sono 60 i minatori che lavorano nel sottosuolo oggi. Una sola di loro è donna. In quelli che sono ricordati come tempi d’oro, nonostante Carbosulcis sia stata un’azienda in sofferenza fin dalla nascita, i dipendenti erano 480. Molti vengono dal Sulcis. Un mestiere, quello del minatore, molto duro, ma di-
feso con l’orgoglio che si trasmette da padre in figlio. Figli che ancora oggi a Iglesias, nel Sulcis, rincorrono una professione in via d’estinzione scegliendo di frequentare l’istituto tecnico minerario. È uno dei tre ancora attivi in Italia, gli altri due pure si trovano in località che hanno una lunga storia nel settore: Agordo nel bellunese e Massa Marittima nel grossetano. È qui che i giovani vengono formati per intraprendere una carriera che a oggi non si sa se abbia ancora possibilità di occupazione. E la domanda che si fanno tutti, qui a Monte Sinni, sulla riconversione della miniera è una sola: «Sarà giusto?». C’è grande incertezza sul futuro, tra chi si chiede se questo cambiamento dal quale non si può tornare indietro porterà a qualcosa o se invece alla fine avrà ragione chi sostiene che sarebbe stato meglio continuare a fare i minatori. Ora ci sono otto anni davanti, meno di due lustri, per riuscire a modificare la funzione di Carbosulcis. «Abbiamo capito che è importante che l’azienda si sappia evolvere per accogliere qualsiasi progetto venga proposto», continua Enrico. «L’obiettivo è andare avanti a lavorare. Qualunque cosa sia il futuro di questo posto». (segue pagina 52)
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(segue dalla pagina 51) I progetti Il futuro sono alghe, anidride carbonica e, soprattutto, la materia oscura. Carbosulcis non vuole lasciare nulla di intentato. In collaborazione con il Crea dell’Università di Cagliari è prevista la costruzione e sperimentazione di un fotobioreattore per la coltivazione di spirulina, un’alga azzurra con numerose proprietà, usata in agricoltura come fertilizzante ma anche per l’alimentazione. Per le sue proprietà la Fao l’ha indicata come uno dei superfood del futuro. L’impianto è in funzione da dicembre 2018 ed è in fase di test. C’è poi il progetto Ulisse, per lo stoccaggio geologico di anidride carbonica a 500 metri di profondità, nelle gallerie della miniera. L’obiettivo è condurre esperimenti sulla CO2, con applicazioni anche nella fisica della materia grazie alla schermatura del sistema geologico nel sottosuolo dai raggi cosmici. Un altro progetto cerca invece di sfruttare il carbone rimasto: nulla verrà più estratto, ma i residui fossili potranno essere utilizzati per la lisciviazione, una procedura che consente di estrarre dal carbone numerose sostanze che possono essere utili nel settore agricolo come fertilizzanti. Inoltre le gallerie che non saranno interrate e dovranno restare fruibili
potrebbero rivelarsi utili per lo stoccaggio nel sottosuolo dell’energia prodotta grazie a generatori eolici o pannelli fotovoltaici sotto forma di aria compressa. L’energia così immagazzinata potrà poi essere utilizzata per far girare turbine in grado di produrre energia elettrica. Come quella necessaria per il progetto che tra tutti sembra essere il più avanzato, tanto da poter rendere Monte Sinni un polo all’avanguardia. Dal carbone estratto nelle viscere della terra alla materia oscura Grazie al supporto della Regione Autonoma della Sardegna, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare con i suoi Laboratori del Gran Sasso, insieme all’Università di Cagliari e all’Università di Princeton, hanno individuato il sito di Monte Sinni per realizzare Aria, un progetto unico al mondo. Si tratta di una torre di distillazione criogenica, più alta della Tour Eiffel, installata in uno dei pozzi della miniera. Lì dove una volta veniva estratto il carbone, ora sarà prodotto un gas fondamentale per lo studio della materia oscura. «Aria sarà la colonna di distillazione criogenica più alta al mondo e con una capacità di produzione unica», spiega Federico Gabriele, ingegnere gestionale
responsabile del progetto Aria-INFN. «La torre di distillazione è composta da 28 moduli centrali e dai cosiddetti top e bottom module, ossia il condensatore ed il rebollitore». Il pozzo di Seruci 1 ha un diametro di 5 m e una profondità di 348 metri. Il principale elemento che uscirà da Monte Sinni sarà l’Argon 40, che potrebbe essere distillato grazie all’installazione nei pozzi di Seruci di un impianto tecnologico di altissimo livello. «L’Argon 40 è un gas nobile comune, stabile e non radioattivo», racconta Federico Gabriele. «Ma, cosa più importante, ha caratteristiche tali da permettere meglio di ogni altro di studiare l’interazione della materia oscura». Le applicazioni e i vantaggi del progetto Aria. «La colonna che compone Aria sfrutta la differenza di volatilità tra i diversi isotopi della sostanza», prosegue Federico Gabriele. «Il processo è a temperatura criogenica, quindi circa a 180° C al di sotto dello zero. Al contrario dei classici processi di distillazione in cui si apporta calore, qui si apportano frigorie per liquefare la sostanza da distillare che poi tenderà in maniera naturale a evaporare e quindi a sollevarsi all’interno della colonna stessa».
Dal Colorado si estrae l’Argon che poi sarà portato in Sardegna per essere purificato. Il gas Argon40 prodotto dalla torre di distillazione criogenica servirà ai fisici del Gran Sasso per studiare le particelle di materia oscura, ma l’obiettivo è trasformare l’ex miniera in un polo industriale per la produzione di isotopi stabili che trovino larga applicazione nelle scienze ambientali e agricole, nella medicina nucleare (PET), nella diagnostica medica (il BreathTest per l’Helicobacter pylori), incluso lo screening per la lotta al cancro. L’Infn e la Princeton University hanno registrato un brevetto per una nuova tipologia di Positron Emission Tomography (Pet), apparecchiatura per la diagnostica tumorale, che avrà la possibilità di ridurre l’utilizzo della dose di tracciante radioattivo grazie a una risoluzione molto più efficiente. Questo aspetto porterà benefici soprattutto in ambito pediatrico rendendo molto meno invasivi esami di questo tipo facilitandone allo stesso tempo l’attuazione. I costi di produzione grazie ad Aria saranno abbattuti rispetto agli attuali metodi basati su altre tecniche: il processo sfrutta la differenza di volatilità dei diversi isotopi e può essere definito «naturale». (segue pagina 54)
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(segue dalla pagina 53) Isotopi stabili come l’Ossigeno 18 e il Carbonio 13 hanno interesse sul mercato internazionale, in un settore dal quale attualmente l’Italia è esclusa, e le infrastrutture di Monte Sinni potrebbero essere utilizzate in futuro proprio per produrli. «Nel mondo ci sono solo 4 o 5 impianti di questo tipo», dice Federico Gabriele, «e il costo di acquisto di questi isotopi può variare tra i 1000 e i 3000 dollari per grammo. L’abbattimento dei costi di produzione con l’impianto Aria è stimato attorno all’80-90 per cento». Si parla di un mercato in espansione con volumi di circa 200 milioni di dollari l’anno. Oggi questa è la speranza più grande di Monte Sinni: che un gas invisibile assicuri un futuro luminoso ai minatori del Sulcis. L’obiettivo per tutti è continuare a salutare la luce all’inizio e alla fine del loro turno di lavoro, entrando e uscendo dalle viscere della terra: un mestiere diverso, sempre nella miniera. Testi foto e video di Irene Fassini e Sara Ruggeri Ringrazio Dolores Mancosu per avermi segnalato questi interessantissimi articoli che lasciano immaginare un altro futuro per la regione. https://www.corriere.it/ speciale/cronache/2019/ miniera-sulcis/
UNA ALTRO P IL
22 novembre dell’anno 498, a distanza di meno di un cinquantennio dall’elezione di Papa Ilario, veniva elevato al soglio pontificio un altro Papa sardo, si trattava questa volta del diacono Simmaco. Probabilmente originario di un piccolo centro dell’oristanese, che da lui poi prese il nome (Simaxis), qui Simmaco nacque da Fortunato. Queste sono le uniche informazioni conosciute sul legame di Simmaco con la Sardegna. I suoi genitori dovevano essere pagani perché il giovane Simmaco viene battezzato a Roma. Più tardi diviene diacono della Chiesa romana, gli anni sono quelli che precedono e seguono la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Anastasio II muore il 19 novembre 498, tre giorni dopo nella Basilica Costantiniana viene eletto Simmaco, ma in maniera inaspettata, lo stesso giorno, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, viene eletto papa anche il presbitero Lorenzo. Questa doppia elezione porterà ad un ulteriore periodo di tensioni, la crisi prenderà il nome di “Scisma laurenziano”, dal nome dell’antipapa. Il conflitto aveva alla base l’attrito tra occidente e oriente, che ormai andava avanti da mezzo secolo. I teologi monofisiti, sconfitti al Concilio di Calcedo-
PAPA SARDO nia del 451, si erano riorganizzati ed avevano dalla loro parte l’imperatore Anastasio I. La crisi si acuì sotto il Patriarca di Costantinopoli Acacio che ripudiò le definizioni del suddetto Concilio Ecumenico, questo provocò lo scisma acaciano. Alla base di tutte queste tensioni Simmaco era stato eletto dai vescovi ed approvato dalla folla come pontefice in grado di lottare per la difesa della Fede. Lorenzo venne eletto dal partito filo orientale, fedele all’imperatore bizantino, che auspicava un’accettazione della dottrina monofisita. In Italia all’epoca, dopo accordo proprio con
l’Impero d’Oriente, regnava Teoderico (meglio conosciuto come Teodorico il Grande), sovrano Goto di fede ariana. A lui venne chiesto di dirimere la questione e di decidere chi dei due era il vero pontefice romano. La scelta del re ricadde su Simmaco, ma anche questa scelta fu contestata. I detrattori di Papa Simmaco diffusero degli scritti che lo accusavano di aver offerto una somma considerevole a Teoderico, ma il fatto non è stato mai provato. Dopo un anno di relativa pace, il 500, la lotta s’inasprì nuovamente: alla base delle nuove contestazioni vi era la data della Pasqua. Simmaco aveva deciso,
dopo uno studio a riguardo, di celebrarla il 25 marzo (in linea con la tradizione romana), mentre gli orientali la festeggiavano il 22 aprile. Con delle false accuse, i detrattori di Papa Simmaco, riuscirono ad attirare l’attenzione del re Teoderico. Questi dopo un primo mancato confronto con il pontefice a Ravenna, sfumato per via di un tranello teso a Simmaco, fu costretto dal partito orientale ad inviare un “Visitator”, ossia una specie di supervisore che dovesse verificare le accuse. In questo modo però la potestà di Simmaco veniva a decadere, il Visitator infatti veniva nominato
quando una sede era vacante ed occorreva una momentanea figura super partes in attesa che venisse nominato il nuovo vescovo. In questo caso si trattava però di un vero e proprio abuso. Simmaco venne accusato e si stabilì un processo. Simmaco non si tirò indietro (sarà la prima ed unica volta che un pontefice finirà sotto processo), dopo una delle prime sessioni (di rientro alla Basilica di San Pietro, ormai sua roccaforte, con Roma quasi totalmente in mano ai sostenitori di Lorenzo) a Simmaco viene tesa un’imboscata, molti dei suoi muoiono, altri sono gravemente feriti, ma Simmaco si salva miracolosamente. Dopo questo episodio, anche sotto promessa di forte scorta armata il pontefice si rifiuta di prendere parte al processo. Il procedimento si arenò, fino a quando, i vescovi, riluttanti a voler procedere, perché le irregolarità erano troppe ed anche perché non ritenevano che il papa potesse essere sottoposto a processo. Quindi tutto decadde. Lorenzo abbandonò Roma, ma poco dopo le accuse ripresero, stavolta intorno al patrimonio dei “Titoli romani” (le parrocchie romane) che poi verranno assegnati ai cardinali. Per almeno due anni infuriò una vera e propria guerra civile, Simmaco, (segue pagina 56)
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(segue dalla pagina 55) sempre asserragliato nella Basilica di San Pietro, ma una pausa della guerra tra persiani e bizantini venne in aiuto di Simmaco. L’Imperatore, proprio in questo periodo di pace, poté rivolgere i suoi eserciti verso il re dei Goti in Italia, a questo punto Simmaco inviò il Diacono Dioscoro d’Alessandria a Ravenna e questi riuscì a convincere che rinsaldare il soglio pontificio di Papa Simmaco poteva essere d’aiuto per lui in chiave anti-orientale. A questo punto i sostenitori dell’antipapa Lorenzo erano costretti a restituire i “Titula” requisiti con la forza. Questo atto del re appoggiava implicitamente la riforma voluta da Simmaco per l’impossibilità dell’alienazione dei beni ecclesiastici. Negli anni successivi Papa Simmaco si adopererà molto per abbellire od edificare chiese e basiliche. Farà il possibile anche per alleviare le pene dei vescovi cattolici in nord Africa, dov’erano perseguitati dai Vandali ariani. Dopo oltre 15 anni di pontificato Papa Simmaco morì il 19 luglio del 514. Venne sepolto nella basilica di San Pietro, ma il suo sepolcro andò in seguito perduto. La sua festa si celebra il 19 luglio. www.vistanet.it/cagliari/ un-altro-papa-sardo-simmaco
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econdo di tre figli, Mario Cesare nasce a La Mure (Grenoble) il 5 novembre 1925 , da genitori sardi Giorgio Cesare e Assunta Coppo. La delicata situazione politica europea, dovuta all’instabilità dei rapporti tra le varie nazioni, porta i coniugi Cesare ad abbandonare il progetto di un futuro migliore in terra francese. La famiglia fa ritorno in Sardegna, stabilendosi a Gergei (Sud Sardegna), paese natio del padre Giorgio nel 1934. Muore il padre Giorgio l’anno successivo. Da questo momento spetta unicamente alla madre Assunta prendersi cura dei suoi tre figli Antonio, Mario e il piccolo Paolo. Dal canto suo, Mario inizia a svolgere diversi lavori, tra i quali quello del “servo pastore” e del contadino. L’istinto artistico si manifesta precocemente in lui, ma la difficile situazione economica, vissuta dalla famiglia, non gli consente di supportare la sua abilità manuale con un regolare percorso di formazione. Nel 1945 é chiamato a svolgere il Servizio di Leva Militare per il quale è costretto ad allontanarsi dal proprio paese per circa due anni. Al termine del servizio di Leva ritorna a Gergei. Dieci anni dopo muore la madre Assunta. Parallelamente al mestiere di imbianchino e di po-
MARIO CESARE tatore si dedica costantemente alla pratica artistica. Alle prime sperimentazioni eseguite con il pennello sulla tela, ancora troppo acerbe sotto il profilo tecnico-stilistico, a partire dalla fine degli anni Sessanta fanno seguito quelle, ben più riuscite, con la spatola. A dicembre del 1974 espone i suoi dipinti nella prima mostra personale che si tiene nel Palazzo Civico a Cagliari, organizzata dall’Associazione “Amici del Libro”. Ad aprile dell’anno succesivo espone le sue opere pittoriche nella seconda personale allestita nella Galleria d’Arte Sardegna a Sassari. A settembre 1975 rea-
lizza la sua terza mostra personale nella Galleria d’Arte “Gruppo R” a Iglesias. L’amministrazione comunale di Gergei gli commissiona nel 1976 un monumento ai compaesani caduti nel corso dei due conflitti mondiali. Mario realizza una scultura in pietra arenaria, raffigurante un soldato inginocchiato, sulla cui spalla destra poggia la bandiera dell’Italia. La scultura viene collocata sopra un alto basamento in cemento, di forma cilindrica, circondato da lastre rivestite in marmo con incisi i nomi dei soldati caduti. Poiché ritenuta troppo piccola rispetto al ba-
samento, poco tempo dopo, l’artista chiede di sostituire la scultura originaria con quella che, ancora oggi, è possibile osservare nell’attuale Piazza Monumento che si trova all’ingresso del paese. Tra il 1977 ed il 1984 decide di interrompere l’attività espositiva, e di ritirarsi, definitivamente, nell’intimità della vecchia dimora paterna, che nel frattempo è diventata il proprio studio d’artista. Continua a dipingere e a disegnare, contemporaneamente si dedica all’attività di scultore e incisore. Nel 1985 abbandona la pratica artistica e si dedica principalmente alla scrittura.
A seguito di un intervento di riqualificazione della Piazza Monumento a Gergei, nel 2002, la scultura realizzata da Mario Cesare negli anni Settanta viene collocata sopra un nuovo basamento di forma piramidale, sui cui lati compaiono i nomi dei soldati caduti in guerra. Assieme agli amici Luigi Olianas e Maria Rosaria Mannoni, dal 2002 al 2009 cura la pubblicazione di cinque raccolte, intitolate “Poesie e Disegni di Mario Cesare”, che contengono una nutrita quantità di scritti sulla natura, sull’arte, sulla Sardegna, sulla religione e sull’uomo in quanto essere sociale e politico. Nel 2003 muore il fratello Antonio. Nel 2008 il fratello minore Paolo muore suicida gettandosi in un pozzo. Nel 2011 prende parte alla presentazione del libro a lui dedicato, “Mario Cesare – un artista difficile”, scritto da Salvatore Serci. Dopo le mostre degli anni Settanta, questa è l’unica ed ultima manifestazione pubblica, finalizzata a promuovere la sua arte, alla quale l’artista partecipa in prima persona. 2012 Celibe e libero da vincoli genitoriali, Mario Cesare muore il 20 marzo all’età di ottantasette anni. https://www.associazionemariocesare.it/
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“Nel percorso, più che ventennale, del mio lavoro, le tematiche affrontate hanno subito lievi variazioni, impercettibili ad occhio nudo, ma sostanziali: passando da una visione globale e vaga, di problematiche legate alla Natura e alla Vita, i temi sono rimasti gli stessi ma, via via, declamati con maggiore intimismo, spostando l’accento sostan-
JOSEPHINE SASSU
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Josephine Sassu, vive e lavora tra Oristano e Banari, dove si trova il suo studio. Tra gli anni Ottanta e Novanta frequenta l’Istituto d’Arte di Sassari, poi prosegue gli studi presso la nascente Accademia di Belle Arti della stessa città. Nel 1995 esordisce nel mondo dell’arte, partecipando, sia nell’isola che fuori, a numerose mostre personali e collettive. Nei venticinque anni di lavoro, la sua costante artistica è la lievità effimera, estetica e concettuale dell’opera che, materializzandosi in varie forme e materiali, non è mai in linea con le più consolidate e ortodosse tecniche accademiche. Attualmente accosta alla carriera artistica quella da insegnante nella scuola pubblica, insegnando presso il Liceo Artistico di Oristano.
ziale sulla mia esistenza. Pensiero persistente, e pilota, in tutta la mia produzione, è poi, anche, la riflessione continua sull’essenza dell’arte e dell’essere artista (specie marginale, come io sono). Ma, definire il confine tra le due cose mi è difficile, il terreno è reso scivoloso dal mio relativismo: così quello che è assoluto per l’arte, con la A maiuscola, lo diventa anche per me, con la a minuscola; così, però, anche l’insignificanza del mio lavoro, al cospetto del percorso millenario dell’arte nella storia dell’umanità e del sistema dell’arte contemporanea, effimere rispetto al Tempo, che tutto ha trasformato e trasforma, da un Big Bang all’altro, magari. Nella mia produzione i materiali e le tecniche si sono di volta in volta adeguati alle situazioni: consequenziali alle necessità iconologiche proprie del progetto intrapreso, imprescindibili nella lettura filologica delle opere. Non posso però dire di avere tecnica, non certo se per questa si intende l’applicazione di un protocollo accademico: disegnare, cucire, modellare, sono sempre azioni compiute mettendo in pratica solo competenze basilari. Ne consegue che le forme prodotte nei vari lavori hanno variazioni macroscopiche, il senso a cui queste vorrebbero giungere, rimane invece sostanzialmente immutato”. Josephine Sassu
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n occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, domani anche il Museo Diocesano Arborense partecipa alla ricorrenza istituita nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, organizzando un evento volto a sensibilizzare l’opinione pubblica e ricordare che qualsiasi atto che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata, è da considerarsi violenza. Per l’occasione il Museo ha selezionato un’artista donna e raffinata come Josephine Sassu. Le sue due opere, “My life review experience”, verranno esposte nell’ambito della mostra “Madri. Arte paesana nella ceramica moderna italiana”. Ad accompagnarle ci sarà inoltre una rara medaglia della prima metà dell’ottocento, voluta da Carlo Alberto, che sancisce l’abolizione del feudalesimo in Sardegna. Lo sforzo e lo slancio verso la modernità del sistema economico di allora, e di conseguenza sociale, purtroppo ancora oggi non è coinciso con un grado di civiltà che vede invece ancora la donna discriminata e privata del suo ruolo nella società, in subordine
GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Museo Diocesano Arborense Via Duomo, 1 09170 Oristano Aperto dalle 11 alle 13 e dalle 17 alle 18 e visitabile nei giorni a seguire secondo i normali orari di apertura del museo (giovedì e venerdì dalle 17 alle 20, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20).
all’uomo. Parteciperanno all’evento, che avrà inizio alle 10 una rappresentanza degli alunni del Liceo Artistico e del Liceo Classico. Sarà presente l’artista Josephine Sassu e Francesca Marras del Centro antiviolenza Donna Eleonora di Oristano che patrocina l’iniziativa. L’esposizione sarà aperta al pubblico dalle 11 alle 13 e dalle 17 alle 18 e sarà visitabile nei giorni a seguire secondo i normali orari di apertura del museo (giovedì e venerdì dalle 17 alle 20, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20). Il Centro Antiviolenza Donna Eleonora di Oristano si trova in Via Tirso, n°8, 09170 Oristano Telefono: 0783 71286 È fondamentale in questo momento di grande difficoltà sanitaria e sociale, che le donne che subiscono violenza sappiano e vengano informate con tutti i mezzi possibili, che i servizi di sostegno sono presenti e operativi. Il Centro Antiviolenza Donna Eleonora si è organizzato per rispondere all’emergenza COVID-19 e alle disposizioni emanate dal governo con l’istituzione della zona rossa a livello nazionale e regionale (in allegato la delibera della RAS), in modo da non lasciare sole le donne che hanno subito violenza. Per le emergenze, il Centro è in stretto contatto di collaborazione con le FF.OO e la Prefettura.
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