Sardonia Gennaio 2021

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SARDONIA

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Ventottesimo Anno / Vingt Huitième Annèe

Gennaio 2021/ Janvier 2021

Pozzo su Presoni Marco Antonio Scanu PierPaolo Secci Le statue di Monte Prama Ruggero Baragliu Kernos Ceramiche Giuseppe Carta Museo Siamese Cardu Gigi Sanna Confini Orizzonti Gavino Ganau Il Parco Aymerich UGO 2 Cagliari città italiana 2020 Domenico Fontana e Pompei Nuraghe S’Urachi Culture dimenticate Se ti sabir https://www.vimeo.com/groups/sardonia https://www.facebook.com/sardoniaitalia


Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale

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uesto numero di Sardonia, che inaugura gli anni ‘20 del ventunesimo secolo, contrariamente a quello che affermavo l’anno scorso, é naturalmente un numero un pò speciale. Dopo quasi dieci mesi di pandemia, confinamento, stupidaggini di ogni genere ed altre castronerie sia pubbliche che private, sembra che finalmente un vaccino ci restituirà la spensieratezza alla quale eravamo così abituati prima da non farci quasi più caso. Come al solito queste pagine vi propongono delle scelte estremamente soggettive ed eccletiche come al solito, con una larga parte lasciata alla Storia più o meno recente ed anche alle situazioni attuali che sucitano polemiche forse un pò esagerate dai social media. La verità é che siamo sicuramente un pò stanchi ed abbiamo voglia di positività, di affetto, di scambi intelligenti e confesso che non mi sono mancati con i numerosi artisti che frequento ed anche solo telefonicamente le discussioni sono state interessanti e proficue in attesa di incontri più reali. L’ultimo numero di Sardonia, quello di Dicembre, era stato redatto interamente a Parigi, dove il covid-19 ha prolungato la mia permanenza, permettendomi comunque di incontrare numerosi artisti sia già conosciuti che altri che ho scoperto. Le condizioni di sociabilità non erano le stesse che qui in Italia, dove per queste festività di fine d’anno siamo costretti al confino più severo, senza parlare delle esposizioni ed altre manifestazioni impedite e forse (speriamolo) riportate a tempi migliori. Nonostante tutto gli Artisti continuano a lavorare, spesso abituati ad un certo ritiro della vita sociale ed a l’utilizzo solitario dei loro ateliers o dei luoghi che li sostituiscono, quando non hanno lanciato inziative on line, riunendo le produzioni in luoghi digitalizzati e fruibili solamente attraverso un computer. Ma la vita virtuale non potrà mai sostituire il confronto personale e fisico con un opera, che sia essa musicale, pittorica, scultorea e naturalmente gastronomica. Cagliari quest’anno é stata designata come la capitale gatstronomica dell’Italia e questo è naturalmente un segnale ed il riconoscimento dei fermenti di vita che da sempre animano la nostra isola ed i suoi abitanti. Tutto questo ci indica che dopo un brutto periodo il meglio può arrivare, cercando di trarne gli insegnamenti che non sono mancati, proponendoci in scala reale l’esperimento di tutte quelle abitudini che dovremo assolutamente modificare nel nostro comportamento sia sociale, che tecnico, industriale, commerciale ed anche artistico. Augurandoci che quest’anno di inizio di un ventennio sia veramente la partenza di un nuovo ciclo più virtuoso, più generoso, più ecumenico, più ecologico e naturalmente più simpatico per tutti noi. Buon Anno. V. E. Pisu


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POZZO SU PRESONI IL

tempio a pozzo nuragico Su Presoni (La Prigione) deriva il proprio nome da un reale, o presunto, utiIlizzo nei secoli passati della struttura come prigione campestre. Questa ipotesi è maggiormente plausibile se si ipotizza che nel periodo in cui ha svolto questa funzione fosse ancora integro il vestibolo. In questo caso si avrebbe avuto a disposizione un ambiente di circa 2 metri per 3,5 che magari ancora interrato e a cui si accedeva da una robusta porta simile a quella di ingresso al pozzo che si vede nelle immagini. Ovviamente è da prendere in cosiderazione anche il possibile aspetto simbolico del termine “prigione”, essendo riferito ad un edificio che poteva apparire un po’ tetro. I templi a pozzo nuragici erano essenzialmente costituiti da un vestibolo e dal pozzo vero e proprio che costituiva la cella, per usare un termine classico, o il sancta sanctorum, per usare un’espressione giudaico-cristiana. Il vestibolo era realizzato in aggetto e coperto, abitualmente dotato di banchine laterali idonee per appoggiarvi offerte, oggetti di culto e per accogliere i sacerdoti, o forse meglio, le sacerdotesse, come generalmente ritengono gli studiosi. La cella era invece costituita da un pozzo dotato di

copertura a falsa cupola, detta con termine greco, a tholos (ϑόλος), a cui si accedeva tramite una scala interna ricavata nello spessore murario. L’insieme della struttura era poi circondata da un muro che la delimitava come area sacra, chiamata ugualmente con termine greco, témenos (τέμενος). All’interno del témenos, oltre al tempio, potevano trovare posto la capanna del guardiano e della sacerdotessa e vari locali di servizio, come ad esempio il deposito per gli ex voto o gli arredi sacri. Il tempio nuragico Su Presoni potrebbe risalire alla metà del secondo millennio a.C., non è stato mai né scavato né ristrutturato e si trova, quindi, nelle condizioni in cui ce lo hanno consegnato i suoi 3.500 anni di storia. Dopo aver superato un basso muretto a secco, che potrebbe rappresentare ciò che rimane del muro che delimitava l’area sacra (il témenos), si passa attraverso i detriti prodotti dal crollo della parte anteriore del tempio e si presenta di fronte a noi il vestibolo libero dai detriti ed in fondo la porta che introduce verso cella. Il vestibolo misura circa 2 metri di larghezza e 3,5 di lunghezza, i muri laterali sono parzialmente integri con un’altezza media di circa 2 metri, delle banchine laterali rimane solo qualche traccia, il pavimento sembra assente. (segue pagina 4)

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(segue dalla pagina 3) In corrispondenza della banchina destra è presente una nicchia che poteva costituire un piccolo ripostiglio o la sede per una statua o altro oggetto sacro. In basso, a sinistra della porta di ingresso della cella, uno spazio lasciato libero nell’opera muraria fa presupporre che da lì sgorgasse una vena d’acqua che poi era accompagnata all’interno della cella passando attraverso uno scavo prodotto nel gradino della porta. Il vestibolo non era a cielo aperto come si vede oggi, infatti si notano i muri realizzati in aggetto che congiungendosi avrebbero formato la copertura, alternativamente la chiusura poteva essere realizzata ponendo delle lastre a piattabanda, che è, come si può vedere dalle immagini, la soluzione utilizzata per il vano-scala. La porta di ingresso del vestibolo non doveva essere molto dissimile da quella integra della cella, poteva essere completata da un timpano su cui erano praticati dei fori sui quali fissare con del piombo fuso oggetti votivi in bronzo, come si è osservato in altri templi. Il vestibolo probabilmente era coperto di terra lasciando libera solo la facciata e, come si può notare, questa è tutt’ora la situazione della cella. La porta della cella, realizzata in aggetto, è larga 1,25 metri sulla soglia e

0,95 sul piano di appoggio dell’architrave, l’altezza, misurata tra il gradino e l’architrave è di metri 1,95. L’architrave, misura 2 metri di lunghezza con un’altezza media di 45 centimetri e una larghezza di 40, il materiale utilizzato è il granito. Il vano della scala misura metri 4,30 di lunghezza (misurata in senso orizzontale) e, mediamente, 90 centimetri di larghezza. La scala è purtroppo andata distrutta ma non doveva avere una disposizione molto diversa dalla copertura del vano: un pianerottolo orizzontale seguito da sei gradini che scendevano al pozzo. Il materiale proveniente dalla scala è andato a riempire la parte bassa del pozzo. I muri del vano sono stati realizzati con conci di porfido rosso appena sbozzati, mentre per la copertura sono state utilizzate lastre e gradini, ugualmente di porfido rosso, ma lavorati più accuratamente. Passiamo ora al pozzo vero e proprio, che, come già detto, era in realtà la cella del tempio, la dimora di Sa Mamma ‘e vuntana (La Madre del pozzo), come ci insegna la tradizione orale sarda. Esso è stato costruito con una tecnica in aggetto detta a falsa cupola o, con temine greco, a tholos (ϑόλος), che è quella tipica delle torri dei nuraghi. Praticamente, nell’esecuzione si procedeva facendo


sporgere il filare di pietre superiore rispetto a quello inferiore fino a ridurre il diametro interno ad alcuni decimetri, l’apertura rimasta, era poi chiusa con un masso disposto a piattabanda. Considerando la parte libera dai detriti della scala, il pozzo di Su Presoni mostra alla base un diametro di metri 1,60 e un’altezza di 5; per il diametro superiore, che non è stato ovviamente possibile misurare, si può presupporre che possa essere di 60-70 centimetri. La struttura del pozzo è stata costruita internamente con porfido rosso locale, di forma per lo più tondeggiante, che si presta meglio per realizzare una muratura curvilinea. Per il vano-scala, di andamento rettilineo, sono state invece utilizzate principalmente pietre sbozzate di forma allungata, a parallelepipedo. Questo denota una precisa scelta dei materiali, che si evidenzia anche nella zeppatura della parte bassa del pozzo (quella a possibile contatto con l’acqua) realizzata con basalto bolloso che si può presumere proveniente dagli altopiani vulcanici di Teccu e Su Crastu (Bari Sardo, NU), distanti in linea d’aria circa 8 chilometri. Questo dimostra l’esistenza di scambi tra le varie tribù e, forse, anche della partecipazione diretta delle popolazioni limitrofe alla costruzione del tempio che

doveva avere un’area di influenza che trascendeva quella di una singola tribù. Questo può essere osservato ancora oggi per molti santuari campestri della Sardegna ai quali tradizionalmente accorrono fedeli anche da località molto distanti, per loro sono pure predisposti appositi locali (is cumbessias). Entrando nel pozzo si può notare, frontalmente all’ingresso, un blocco di granito circondato da piccole e regolari pietre di porfido rosso disposte ad arco, probabilmente con una funzione di abbellimento. Tuttavia non sfugge che in estate quando l’interno del pozzo si presenta asciutto, questa roccia, forse per le sue caratteristiche lisce, compatte e cristalline, è l’unica che si presenta bagnata, vi si depone infatti la condensazione dell’umidità interna del pozzo. Altro particolare dell’interno del pozzo degno di nota è la presenza di due archi concentrici sopra l’architrave di ingresso. Apparentemente essi hanno una funzione puramente estetica, ma non può sfuggire che gli attenti costruttori del tempio così facendo hanno scaricato il peso della parte superiore della struttura ai lati dell’architrave, impedendone la possibile rottura. La rottura dell’architrave, che può essere notata (segue pag. 6)

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(segue dalla pagina 5) in varie costruzioni nuragiche, è normalmente evitata lasciando una finestrella al centro di esso (luce di scarico) per evitare che il peso della muratura soprastante gravi su quel punto. Qui a Su Presoni si è scelto una soluzione diversa, ma di indubbio rilievo estetico e funzionale. Il culto di “Sa Mamma ‘e vuntana” (La Madre del pozzo) A questo punto ci si chiederà: ma l’acqua dov’è? Tremila e cinquecento anni or sono doveva pur esserci, per cui sono necessarie alcune considerazioni. A sinistra del tempio, e a pochi metri da esso, scorre un rigagnolo che normalmente a secco, ma un centinaio di metri più a valle è presente una sorgente, abbondante anche in estate, per cui si può presupporre che anticamente essa sgorgasse più a monte. L’acqua, scorrendo a breve distanza dal tempio, penetrava all’interno, magari in punti ben precisi decisi dai costruttori, lo dimostra la risorgiva individuata a sinistra della porta di ingresso, la cui acqua era accompagnata all’interno del tempio tramite uno smusso prodotto nel gradino. Non ci deve meravigliare che l’acqua del pozzo fosse probabilmente quella stessa del rigagnolo, d’altronde nel tempio a pozzo di S. Vittoria di Serri era stata prevista, già in fase

di costruzione, la raccolta e l’immissione dell’acqua piovana, presumibilmente a causa di una vena poco abbondante. Queste considerazioni ci portano a ribaltare la genesi di almeno questi due templi a pozzo: non un tempio costruito sopra una vena o fonte sacra, ma era la costruzione del tempio, sede della divinità, Sa Mamma ‘e vuntana (che si può pensare come una emanazione della Madre Terra), che rendeva sacro quel posto e quella vena d’acqua. Questo ragionamento non contrasta con la tradizione orale della presenza di Sa Mamma ‘e vuntana in tutti i pozzi e le sorgenti. Ovviamente non tutti erano deputati al culto ma

solo quelli inseriti in un tempio. E’ fin troppo evidente l’analogia con la religione cristiana: l’uomo costruisce il tempio che poi diventerà la casa di Dio e il luogo eletto per il culto, anche se Dio è ovunque. In entrambe le religioni, qualunque sia stato il motivo occasionale che ha condotto a costruire il tempio proprio in quel determinato punto, questo luogo sarà sacro per la presenza del tempio stesso che è la sede della divinità, o il posto in cui essa si manifesta. Da questo punto di vista si può ritenere che l’espressione Tempio a pozzo sia più corretta, invece la più diffusa Pozzo sacro risulta meno rigorosa.


L’espressione Sa Mamma ‘e vuntana è una trasposizione del linguaggio parlato, per corretezza si dovrebbe scrivere: Sa Mamma ‘e funtana. Tuttavia si è preferito usare l’espressione orale per evitare errori di pronuncia specialmente da parte dei non sardi. Un elemento molto interessante del tempio a pozzo Su Presoni sono le incisioni presenti nel lato esterno dell’architrave di ingresso al vano-scala che conduce alla cella. In linea di principio si può escludere che appartengano al periodo nuragico, sia perché alcuni elementi le riportano a periodi successivi sia perché i costruttori dei nuraghi non erano (purtroppo)

molto avvezzi a praticare simili incisioni nelle opere (templi, tombe, capanne, nuraghi) da essi realizzate. Le incisioni non sono molto visibili ad occhio nudo sia perché poco profonde sia perché l’intero architrave presenta numerose colonie di licheni. Si è aggirato l’inconveniente con l’aiuto di una semplice tecnica di fotoritocco: dopo aver tracciato i contorni delle figure, la parte interna è stata poi trasformata in bianco-nero. Alcuni particolari posso essere sfuggiti, alcuni contorni erano da indovinare, tuttavia si ritiene di poter presentare delle immagini abbastanza fedeli alle originali.

Sono state individuate quattro incisioni che riportano ad altrettante immagini abbastanza definite. Vengono analizzate partendo da sinistra. Incisione n° 1. E’ la più nitida e precisa e sicuramente la più recente, vari elementi portano a pensare che possa essere stata tracciata relativamente da poco tempo. Sembra di poter individuare una figura femminile stilizzata. Bisogna però precisare che mentre la gamba destra (la sinistra per chi guarda) è chiaramente delineata, quella sinistra manca. E’ presente tuttavia una linea di rottura nella sfoglia superficiale del granito che poteva essere preesistente o è stata, forse, provocata dall’incisione. Essa segue specularmente l’andamento dell’altra gamba per cui è stata evidenziata come se costituisse la gamba sinistra. Bisogna inoltre precisare che per la “testa” si è presa in considerazione la parte più interna dell’incisione. Infatti la linea orizzontale che nell’immagine originale appare sopra la presunta testa, così come quella verticale che si nota a destra della figura, sembrano essere solamente le tracce di una preliminare levigazione della pietra. L’aspetto interessante di questa immagine, ammesso che rappresenti veramente una figura femminile, (segue pagina 8)

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(segue dalla pagina 7) è che l’ignoto incisore, coscientemente o inconsciamente, abbia rappresentato Sa Mamma ‘e vuntana. Se da bambino frequentava questo posto, chissà quante volte la madre gli avrà detto: non avvicinarti al pozzo perché lì c’è Sa Mamma ‘e vuntana? L’espressione Sa Mamma (o mama) ‘e vuntana non è certo di uso comune e viene ricordata (anche da chi scrive) utilizzata dalle madri per incutere timore ai bambini al fine di indurli a non avvicinarsi o sporgersi nei pozzi, in termini analoghi a quelli espressi dal prof. Giovanni Lilliu (La civiltà dei Sardi, 3° edizione, pag. 568). Similmente si può ritrovare la medesima locuzione riferita alle sorgenti ove il pericolo per il bambino è, peraltro, limitato. In entrambi i casi l’espressione usata per intimorire e tenere a bada i bambini denota, da parte della madre stessa, un ancestrale timore reverenziale, tramandato oralmente e presumibilmente per linea materna, fin dalla notte dei tempi, fino alle credenze religiose dei popoli nuragici e prenuragici. Incisioni n° 2 e 3 Queste incisioni, sicuramente molto più antiche della precedente, formano una coppia posta in posizione centrale il che fa supporre che siano state create per prime e contemporaneamente. Sem-

bra che rappresentino due figure femminili con una lunga tunica. Esse hanno i contorni scarsamente delineati, sono ben evidenti le braccia di entrambe e la testa della n° 3, alla quale tuttavia manca il collo. Questa eccessiva semplificazione delle incisioni porta a ipotizzare che anticamente potessero essere colorate. Ovviamente è piuttosto arduo dar loro un significato che è peraltro legato all’epoca in cui sono state incise. In prima ipotesi, se dovessero risalire al periodo romano classico, potrebbe trattarsi di due ninfe delle acque che sembrano quasi uscire dal pozzo. Alternativamente, ipotizzando che siano state create, se non contemporaneamente alla croce dell’incisone n° 4, almeno nello stesso contesto culturale, si può pensare che rappresentino due sante cristiane. Osservando e raffrontando tra loro le due figure si può ipotizzare che la n° 3, che ha un profilo chiaramente ingrossato, possa rappresentare una donna incinta. E quali erano le sante “incinte” del periodo paleocristiano? Viene in mente S. Elisabetta, madre di S. Giovanni Battista, che è spesso rappresentata chiaramente gravida. L’iconografia fa riferimento all’episodio descritto dai


vangeli, che racconta della visita che le fece la Madonna quando era incinta del Battista. L’altra è S. Anna, la madre della Madonna, che non è nota per essere rappresentata incinta, tuttavia è considerata la patrona delle partorienti per essere stata la madre di colei che generò Gesù Cristo. Il culto di S. Elisabetta può essere giunto in Sardegna con i primi cristiani. Ma quello di S. Anna, che non è citata dai vangeli ed è un culto è di origine greca, può essere arrivato solo dopo il 533 d.C. in seguito alla conquista della Sardegna da parte delle armate dell’imperatore Giustiniano, che la strapparono ai vandali.Infine, non si può neanche escludere che questa incisione possa rappresentare la Madonna, infatti talvolta è anch’essa rappresentata incinta. Riguardo alla figura n° 2 non è stato rilevato alcun dettaglio che possa indirizzare verso una possibile identificazione. Potrebbe essere una Madonna, che facendo riferimento al citato episodio del vangelo, viene talvolta rappresentata in coppia con S. Elisabetta gravida. In alternativa può essere una qualsiasi altra santa del periodo paleocristiano. Incisione n° 4 Considerata la sua posizione, si può presumere che essa sia stata incisa successivamente alle figure n° 2 e

3, anche se, come già detto, probabilmente nello stesso contesto culturale e religioso. L’incisione è ben definita e rappresenta una croce greco-bizantina dall’andamento un po’ irregolare. Essa può essere datata ad un periodo immediatamente successivo alla citata conquista bizantina dell’isola del 533 d.C. Ovviamente la presenza di questi “segni” cristiani un tempio pagano necessita di qualche chiarimento che è rimandato al prossimo paragrafo. I primi cristiani giunsero in Sardegna nel II secolo d.C., come è riportato da varie fonti storiche, ed erano probabilmente dei deportati destinati al lavoro nelle miniere. Solo nei secoli successivi, grazie all’opera di proselitismo di predicatori giunti da Roma e da Cartagine, il cristianesimo si propagò dalle città della costa alle campagne e, successivamente, all’interno dell’isola. La sua diffusione non dovette essere molto rapida, se ancora nel 594 il papa S. Gregorio Magno scrivendo al cristiano Ospitone (considerato re della parte interna dell’isola) si lamentava del fatto che i suoi sudditi praticassero ancora l’idolatria. L’azione del cristianesimo sembra sia stata quella si sovrapporsi ai riti e alle credenze della religione pagana, prendendone gradualmente il posto. (segue pagina 10)

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(segue dalla pagina 9) Riporto un caso che mostra una chiara analogia con il tempio a pozzo Su Presoni, la fonte sacra Su Lumarzu. Essa si trova nei pressi dell’antico borgo medioevale di Rebeccu, ora frazione semiabbandonata del comune di Bonorva (SS). Quelle che ora chiamiamo fonti sacre, erano in realtà dei veri e propri piccoli templi realizzati in corrispondenza di una vena sorgiva superficiale. Essi rispecchiano la medesima architettura dei templi a pozzo. In particolare a Su Lumarzu, la cella ove sgorga l’acqua è realizzata come un pozzo in miniatura, con la sua piccola tholos. Ebbene, nella pietra posta a chiusura della tholos è stata incisa dai primi predicatori cristiani una croce, latina in questo caso. Essa non è facilmente visibile, è necessario sporgersi all’interno della fonte e guardare verso l’alto. Ovviamente era nascosta anche ai primi fedeli cristiani, ma è plausibile che altri simboli potessero essere posti esternamente, alla vista di tutti. Per questi motivi, è chiaro che l’intento di chi ha eseguito l’incisione era di consacrare al Dio nuova religione quella che, forse per alcuni millenni, era stata la dimora di Sa Mamma ‘e vuntana. Numerosi sono i nuraghi con nomi di santi o riferiti alla religione cristiana, o

le chiese costruite nei luoghi di culto utilizzati dalle popolazioni nuragiche. Cito come esempio la chiesa campestre di Santa Sabina (Silanus-OR) costruita in prossimità di un nuraghe, di una tomba di giganti e di un tempio a pozzo. E’ un chiaro esempio di questo sincretismo religioso che dovette esserci nei primi secoli della diffusione del cristianesimo in Sardegna. In questo contesto non deve meravigliare se nel 533 nel tempio di Su Presoni fosse ancora vivo il culto di Sa Mamma ‘e vuntana e se i predicatori giunti da Bisanzio abbiano cercato di indirizzarlo, opportunamente adattato, verso la nuova religione. Questo può spiegare perché nel pozzo siano state tracciate le figure di due sante cristiane che nella mente dei fedeli avrebbero dovuto sostituire la divinità nuragica, il tutto è stato poi siglato con la croce di Cristo. Rimane un quesito a cui dare ancora una risposta: ammesso che sia l’interpretazione corretta, perché è stata tracciata proprio la figura di una santa incinta? E’ logico ritenere che sia proprio perché a Sa Mamma ‘e vuntana, madre anch’essa, si rivolgevano le donne nuragiche nei momenti, certamente difficili, della gravidanza e del parto, e probabilmente anche in quelli successivi dell’allattamento. La nuova religione, non potendo certo sradicare que-


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sto culto, lo ha indirizzato verso una santa cristiana, protettrice della maternità. Questo lungo ragionamento basato in parte su prove, in parte su supposizioni, ci porta alla conclusone che nelle figure incise nell’architrave di Su Presoni, probabilmente c’è una prova “scritta”, anche se indiretta, del culto realmente praticato nel tempio: quello di una Dea Madre protettrice della gravidanza e del parto. Quindi non un generico culto delle acque, come talvolta viene affrettatamente detto. Infatti non si può pensare che una civiltà che era piuttosto evoluta dal punto di vista religioso, basti considerare l’importanza del culto dei morti o le varie tipologie di templi che venivano realizzati, fosse ancora ferma ad una concezione puramente animistica tipica delle età del neolitico e del paleolitico. Ovviamente nei templi a pozzo, nelle fonti sacre ed in altri santuari, erano praticati riti delle acque (e con le acque) ma l’oggetto del culto, si può ben pensare, non era l’acqua ma una divinità. Per concludere, facendo un ulteriore paragone con la religione cristiana, non si può affermare che essa pratichi il culto delle acque, eppure l’acqua è utilizzata in vari riti, alcuni semplici, altri di notevole rilevanza. https://www.atlantides.it/il-tempio-a-pozzo-supresoni.html?

na famiglia – i Carroz - protagonista delle vicende storiche della nostra Isola a partire dal XIV secolo; una chiesa – il San Francesco di Stampace - che costituì punto di riferimento per la cristianità sarda per secoli e che, ancora oggi, evochiamo come luogo simbolo per la storia dell’arte in Sardegna; un ‘retablo’ e un pittore – Matteo Pérez - che pone in connessione Cagliari con Roma, Malta, Siviglia e il Perù. Sono gli ingredienti ‘superesclusivi’ di questa mia nuova avventura investigativa, rivolta a chiunque ami vivere la Sardegna e la sua storia come inedita trama di relazioni internazionali: luogo di approdo, al centro del Mediterraneo, prezioso riferimento per coloro che vissero il Mare Nostrum come continuo flusso di contatti umani, scambi, scontri ma, soprattutto, incontri. C’è l’atavico timore per il ‘pericolo’ turco e il bisogno di proteggere la ‘civitas christiana’ con possenti mura a presidio del regno; la necessità di esorcizzare la peste; c’è la pregnante fortuna della spiritualità tridentina e l’attecchimento della formula del cattolicesimo gesuitico; le ambizioni alchemiche di un nobile davvero sopra le righe; c’è l’evoluzione del francescanesimo cinquecentesco e la diffusione della stampa anche in Sardegna; (segue pagina 12)

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(segue dalla pagina 11) c’è la fortuna dei grandi artisti del Rinascimento italiano anche in territori ‘periferici’ afferenti alla corona spagnola; il contro-manierismo coloniale; infine, ancora nuovi motivi per riguadagnare il fil rouge culturale e istituzionale, esistito e misconosciuto, con l’Aragona e con Saragozza. Dedico questo studio – in un anno che tanto mi ha tolto ma senza riuscire ad estirpare la fiducia nel futuro – alla Pinacoteca Nazionale di Cagliari e al suo nuovo Direttore, il dott. Francesco Muscolino: luogo che conserva, onorevolmente e responsabilmente, il polittico studiato in queste pagine. Ringrazio per l’accoglimento del lavoro l’importante rivista Ars & Renovatio (Centro de Estudios de Arte del Renacimiento - Instituto de Estudios Turolenses) nella persona della direttrice, la prof. ssa Carmen Morte García (Universidad de Zaragoza), e tutti coloro che mi hanno supportato (e sopportato) nell’impegno della ricerca, fra cui mia madre (scomparsa meno di un anno fa ma sempre presente), la prof.ssa Pina Obinu, la prof.ssa Carolina Naya (Universidad de Zaragoza), la dott. ssa Marcella Serreli, l’artista Rossana Corti, tutto il personale e il Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Villamar, il prof. Roberto Scema; e - last but not least - i direttori del mio dottorato presso

l’Universitat de Lleida: i proff. Ximo Company e Alberto Velasco Gonzàlez. Il download dello studio è gratuito, al link http://artedelrenacimiento.com/.../pdf/5-Scanu-500-sardo. pdf, ma sarà presto disponibile anche sul mio profilo Academia. Sarà gradito, da parte vostra, ogni eventuale report successivo alla lettura del testo. Diciamo che questo è una specie di regalo di Natale (ricevuto da me ma riconsegnato a chiunque vorrà goderne) nella realtà poco confortante che attualmente viviamo, come luce a cui affido il compito di riaccendere la speranza. Come diceva una persona che ebbi modo di conoscere tanto tempo fa: “Dio liberi”! Marco Antonio Scanu


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on chiamateli giganti ma statue. Che ne sarà del sito di Mont’e Prama? A che punto è la telenovela sulla valorizzazione del terreno che ha restituito i giganti di pietra più famosi della Sardegna? Molteplici problemi si affastellano, amplificando l’aura di tristezza su quello che in tanti definirono a ragione (ma senza lungimiranza) uno dei traini maggiori per un’immediata forte ricaduta economica sulla Sardegna (con annessa crescita occupazionale). Che ne è del “brand mondiale” su cui puntare per far conoscere la nostra Isola nel Mondo? Ne parliamo con Carlo Tronchetti, archeologo oggi in pensione, che ha dedicato gran parte della sua vita

Editore: Tipografia 3 ESSE Data di Pubblicazione: agosto 2020 EAN: 9788896484036 ISBN: 8896484030 Pagine: 200 Formato: brossura

allo studio della Sardegna, da direttore della Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano, poi del Museo Archeologico cagliaritano. Tronchetti diresse gli scavi archeologici condotti nell’area di Mont’e Prama tra il 1977 e il 1979, quelli in cui, tra un’emozione e un’altra, fu scoperta gran parte delle statue. Prima di dar voce all’illustre (e simpatico) studioso, andiamo ad analizzare la situazione attuale di Mont’e Prama e di tutto quanto gravita attorno alla famosa collina del Sinis, partendo da un quadro riepilogativo generale. Sono passati poco più di quarant’anni (la prima testa di pietra fu trovata da un contadino che arava il suo campo nel 1974) dai primi scavi che hanno restituito una trentina di guerrieri, arcieri, pugilatori, più modelli di nuraghe, betili, tombe a pozzetto, un nuraghe e un piccolo villaggio di capanne, migliaia di frammenti di statue risalenti al (dibattuto) periodo che va dal IX al XIII secolo avanti Cristo. Si tratta delle sculture a tutto tondo più antiche del bacino del Mediterraneo: con ogni probabilità facenti parte di un sepolcro santuario monumentale per dei capi guerrieri nuragici, costruito e ampliato tra il periodo di massimo splendore (segue)

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(segue dalla pagina 13) e quello declinante della civiltà nuragica, che poi fu sopraffatta dall’invasione cartaginese. Una delle teorie sulla frammentazione delle statue, infatti, è legata a una distruzione del sito da parte dei Punici. Dagli anni Settanta a oggi sono stati fatti tanti errori: la separazione delle statue e dei reperti tra i musei di Cabras e Cagliari, la polemica “complottista” secondo la quale le statue di Mont’e Prama sarebbero state occultate per anni in un magazzino (scavate nel 1979, una parte fu esposta nel 1981 nel museo di Cagliari e lì rimase, mentre i frammenti restanti rimasero nel centro di Li Punti fino al completo restauro). Per non parlare dell’invasione di campo da parte di pseudo studiosi, improbabili esperti e delle loro opinioni scellerate, a cui si aggiungono i sempre più numerosi isolani orgogliosi, custodi di un culto-tendenza che fa proseliti ovunque: quello di considerare (a torto) i Sardi antichi la più antica e importante civiltà del mondo. A questi problemi vanno aggiunti quelli di natura burocratica (tantissimi) e tecnica (in parte utili) che vanno ad accrescere il marasma intorno a Mont’e Prama. Ad esempio, le anticipazioni fornite dal geofisico ed ex docente dell’Università di Cagliari

Gaetano Ranieri, autore di una ricerca con la tecnica del georadar, e secondo il quale l’area su cui si estende l’insediamento di Mont’e Prama è di circa 16 ettari, sono sicuramente interessanti ma inverosimili. Ranieri è convinto che il sito nasconda numerose sepolture, templi, strade ed edifici. Quella che è tornata alla luce sarebbe solo una piccola parte di ciò che ancora è sotto terra. Tutto molto bello ma forse le priorità sono altre e questa ulteriore interpretazione non ha fatto che rendere ancora più caotica la situazione. Ormai in questa telenovela ci sono troppi protagonisti e la trama si è

fatta molto intricata e di difficile lettura (come per ogni telenovela che si rispetti): Comune di Cabras, Soprintendenza, privati, curia (proprietaria di parte dei terreni limitrofi), ministero. Di recente, infatti, anche il buon Dario Franceschini si è recato nel Sinis, definendo i giganti un’icona nazionale, al pari del Colosseo e dei Bronzi di Riace. Che solerzia, che originalità, ministro.. In realtà di novità nemmeno l’ombra. Il giorno dopo, infatti, tutto è ritornato come prima, il sito recintato e i giganti di nuovo nel dimenticatoio. E i risibili fondi per gli espropri e la sistemazio-


ne dell’area? Soldi scarsissimi, al contrario dei ritardi e dei discorsi, numerosissimi e cresciuti in modo esponenziale, che gravitano su Mont’e Prama e che fanno da contorno alle “nozze con i fichi secchi”, unico reale destino del sito. Centu concas, centu berrittas, risultato: il sito non è visitabile, gli scavi sono fermi da tempo, l’area in questione è recintata e non accessibile. Per trasformarlo in un sito fruibile servirebbero camminamenti, illuminazione, servizi igienici, parcheggi e un sistema per convogliare le piogge. Andiamo a fare chiarezza con il professor

Tronchetti, vediamo se facendo parlare chi quel sito lo conosce bene, si riesce a restituire un po’ di magia e di poesia al luogo e a quelle statue, offesi da tanta, troppa gente. Buongiorno Professore, che succede intorno alla vicenda Mont’e Prama? C’è una curiosità morbosa. Sembra quasi che la gente comune non creda a ciò che dicono gli studiosi. “Non è che “sembra”. Purtroppo la maggior parte delle persone è convinta che gli archeologi, per qualche misteriosa ragione, vogliano tenere nascosta la realtà di Mont’e Prama. Questo per diversi motivi. Primo: tutto il batta-

ge mediatico uscito fuori quando le statue sono state restaurate, sul fatto che fossero state tenute nascoste nei magazzini per 30 anni. Come ben si sa erano già in piccola parte state esposte nel Museo e non era stato possibile restaurarle tutte per motivi di spazi dove lavorare e di denaro (il restauro completo è costato più di un milione di euro). Poi si sono aggiunte le ricostruzioni sulla base del georadar fatte da Gaetano Ranieri, che dire fantasiose è poco. Il georadar indica anomalie, sia naturali che artificiali, e finché non si scava non si può dire niente di sicuro. Infine Mont’e Prama è stata cavalcata da gruppi di persone con evidenti interessi di promozione personale che niente hanno a che fare con l’archeologia, e che non conoscono (o fingono di non conoscere) la realtà dei fatti”. A che punto sono gli scavi e gli espropri, lì sotto c’è la possibilità di trovare altre statue? “Sullo stato degli espropri e degli scavi non sono in grado di rispondere. Essendo in pensione già da diversi anni non sono più coinvolto nelle attività sul campo. So solo che ci sono fondi per lo scavo, che dovrebbe riprendere, penso quando la stagione sarà migliore. La possibilità che ci siano altre statue è concreta. (segue p.16)

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(segue dalla pagina 15) Le tombe monumentali con lastrone, sopra cui sono stati scaricati i frammenti di statua, proseguono verso Sud, e quindi è verosimile che ci siano ancora statue”. Mont’e Prama può diventare un sito visitato e valorizzato, ad esempio come Barumini? “Ritengo sia un po’ difficile che Mont’e Prama possa diventare un sito visitato e fruito come Barumini, per il semplice motivo che Barumini è un complesso edificato di mole ragguardevole con il nuraghe, le capanne del villaggio, eccetera. Mont’e Prama, allo stato attuale delle conoscenze, consiste in una lunga fila di lastroni che coprivano tombe, con i resti di un piccolo nuraghe e una capanna. Mi sembra che non ci sia niente di monumentale che possa attirare molti visitatori, anche se si trova in una zona turistica anche dal punto di vista archeologico (Tharros) e quindi una certa circolazione di visitatori interessati nella zona c’è”. Cosa ne pensa Professor Tronchetti. Sono giganti, eroi.. o? “Giganti o eroi? Io ho già detto più volte che “giganti” non si riferisce alla reale altezza delle statue, ma a come venivano percepiti i defunti e le statue dalla gente del periodo. Quando noi oggi diciamo che Beethoven è un

gigante della musica non vogliamo dire che era alto tre metri, vogliamo dire che spicca sopra tutti gli altri. Così in un periodo in cui i defunti erano sepolti in pozzetti coperti da pietre, il vedere una serie di tombe coperte da un lastrone sopra cui stava una statua di dimensioni assai superiori alla statura umana del periodo, li faceva percepire come esseri superiori, appunto “giganti”. Per eroi sono molto più dubbioso. Eroe è un personaggio che compie imprese sovraumane, come Ercole. Magari anche quei defunti le avranno compiute, ma noi non lo sappiamo, quindi chia-

marli eroi mi sembra fuori luogo. Il nome più preciso sarebbe “statue di Monte Prama”, ma così non attirerebbe per niente l’attenzione e non renderebbe l’idea”. Esistono questi fondi per gli espropri o il sito resterà non valorizzato per chissà quanto tempo? “Mi rifaccio alla seconda risposta: non sono in grado di rispondere, essendo al di fuori delle attività di Monte Prama”. Che cosa ne pensa del radar e della possibilità che lì sotto ci sia una “metropoli”? “Il georadar è uno strumento utile e che viene adoperato per vedere se nel sottosuolo sono


presenti anomalie che possano indicare la presenza di resti antichi, presenza che poi deve essere verificata con lo scavo, perché le anomalie possono essere naturali o artificiali. Ad esempio a Nora il georadar ha indicato che nell’area del Foro esistevano anomalie che si sono rivelate opera dell’uomo (un quartiere tardo-punico). Che a Monte Prama ci sia una metropoli mi sembra altamente improbabile. Lo strato di terreno che copre il crostone sterile è molto basso; poi i centri urbani nascono in Sardegna in un periodo successivo. Il piccolo nuraghe sca-

vato recentemente vicino alla necropoli era già in vista, e quindi se realmente ci fosse una città (come viene descritta) con strade, gradinate, templi, qualcosa si dovrebbe vedere e sopratutto sarebbe stata toccata dalle arature che hanno portato alla scoperta delle statue”. È vero che i reperti sono rimasti nascosti per tanto tempo? Qui sono ironico perché le persone comuni ignorano che dietro una ricostruzione partendo da frammenti, ci deve essere un lungo studio. “In parte ho già risposto, ma preciso. I frammenti di statua dopo gli scavi del 1975, 1977 e 1979, erano mi-

gliaia e chi ha visitato il Centro di Li Punti durante il restauro ha visto quanto spazio occupavano. La Soprintendenza nel 1980 (l’anno dopo la fine degli scavi), disponeva di uno spazio per laboratorio di restauro di circa 15×5 metri, assolutamente insufficiente per un lavoro del genere. La richiesta di fondi al ministero per affittare uno spazio adeguato per il tempo necessario e dotarlo delle attrezzature non fu nemmeno presa in considerazione e ci fu dato solo un piccolo finanziamento con il quale si ripulirono e consolidarono i resti. In più ci dotammo di un sistema espositivo solo per i frammenti di statue più significativi: due torsi, tre teste una base, un braccio, un paio di modelli di nuraghe. Il resto rimase conservato nel deposito del Museo finché arrivarono spazi e fondi. Le operazioni di restauro iniziarono nel 2005 e terminarono nel 2012, perché si trattava di lavori lunghi e complessi, che hanno dato risultati ottimi”. Grazie Professore e a presto. “Spero di esser stato esauriente. Grazie di avermi interpellato”. Federico Fonnesu https://www.vistanet. it/cagliari/2019/11/11/ non-chiamateli-giganti-ma-statue

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iamo veramente felici di annunciare l’apertura della mostra personale di Ruggero Baragliu, la quarta e ultima tappa di un più ampio progetto espositivo che nel corso del 2020 ha coinvolto altri tre artisti accomunati dall’origine nuorese – Gianni Casagrande, Vincenzo Pattusi, Vincenzo Grosso – chiamati a confrontarsi con un’eredità concettuale forte quale quella del romanzo postumo “Il giorno del giudizio” (1977) di Salvatore Satta (1902-1975), e dunque con l’identificazione del capoluogo barbaricino con un metaforico “nido di corvi”. Un (pre)concetto identitario, questo, di per sé negativo ma difficilmente ignorabile, con cui la stessa intelligentsia locale, nei decenni più recenti, ha fatto dei conti un po’ approssimativi, quasi si trattasse di un mantello ancora troppo caldo per quanto ruvido, confortevole perché recante la traccia della propria impronta. La mostra di Ruggero Baragliu propone una selezione di opere su tela e su carta e in mdf facenti parte della recente produzione dell’artista e rappresentative del suo approccio pittorico e scultoreo: la riflessione centrale sull’immagine si esprime attraverso le costanti di una visione frammentata e di una messa a fuoco parzia-

Frammenti Ruggero Baragliu a cura di Chiara Manca e Cecilia Mariani

fino al 16 gennaio 2021 dal martedì al sabato dalle 16 alle 18.

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le, entrambe esplicitate da strategie di sottrazione e semplificazione che esaltano il valore del segno e del colore e che palesano la distanza esistente tra l’immagine di partenza e la sua restituzione finale. A questi lavori si aggiunge quello concepito appositamente per il progetto curatoriale, una grande installazione a parete in cui il discorso sattiano rivive attraverso una rielaborazione autoriale, lineare e tridimensionale della colonna visiva presente nel volume di Cord Riechelmann. MANCASPAZIO è a un passo da quella che per Nuoro è stata la galleria d’arte più significativa fino agli anni ’90, la Chironi88 di Sandra Piras, figura fondamentale nel panorama artistico isolano che con le sue esposizioni è stata un’apripista per l’avanguardia visiva in Sardegna. Seguendo il filo e l’insegnamento della Chironi88, MANCASPAZIO nasce per la scoperta o la riscoperta degli artisti contemporanei, lasciando aperto il dialogo con quelli storicizzati, dei quali sarà possibile conoscere lavori ancora inediti, di particolare interesse. Ogni mostra di MANCASPAZIO sarà accompagnata da un catalogo bilingue, illustrato mediante fotografie di Nelly Dietzel, curato nella grafica da Sara Manca corredato dai testi di Chiara Manca tradotti da Shahrazad Hassan.


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ernos Ceramiche produce ceramiche artistiche interamente realizzate a mano facenti parte della più antica tradizione Sarda. I manufatti delle nostre linee di ceramiche Artistiche vanno dall’oggetto esclusivo e personalizzato secondo le richieste del cliente, al complemento d’arredo, dal vaso al bassorilievo, dal servizio da tavola al pannello pittorico. La Kernos Ceramiche prende il suo nome dagli antichi incensieri rituali. Nata a Cagliari nel 2003, è un’azienda artigianale a conduzione familiare, dove si disegnano, producono e commercializzano ceramiche interamente realizzate a mano. Le collezioni sono sempre nuove ed originali pur nel riguardo verso una preziosa tradizione. Le ceramiche artistiche si legano al territorio anche attraverso una continua ricerca estetica, che si prefigge di fondere il patrimonio culturale con l’innovazione e il gusto moderno. La qualità, il gusto, la cura dei particolari e il rispetto per una preziosa tradizione, fanno sì che le nostre collezioni siano sempre nuove

e originali, pur nel rispetto dell’arte antica dell’artigianato ceramico. I nostri manufatti vanno dal complemento d’arredo ai servizi da tavola. I soggetti decorativi riprendono motivi zoomorfi originali o ispirati alla cultura dell’Isola come la pavoncella, i fenicotteri, il corallo, e ben si prestano per decorare diversi ambienti, in più declinazioni. I colori esaltano la freschezza delle bellezze naturali come il mare, il sole e le sabbie dorate filtrati alla luce del gusto personale delle artigiane.

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GIUSEPPE CARTA

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iuseppe Carta è un pittore e scultore italiano riconosciuto a livello internazionale. L’artista crea, con l’antica tecnica della fusione a cera persa, sculture in bronzo, alluminio e resina policroma a Pietrasanta, luogo emblematico della scultura a livello mondiale. Il candido marmo di Carrara, altro elemento importante della produzione di Carta, regala alle sue sculture quelle trasparenze e quelle velature che tanto richiamano le sue nature morte dipinte dal realismo assoluto, quasi esasperato, che per tanti anni, fin dall’inizio degli anni Novanta, hanno contraddistinto la partecipazione di Carta all’importante Arte Fiera di Bologna. Opere che l’artista dedica alla Natura tanto da intitolarle Germinazioni, opere che per Carta sono una “rappresentazione esuberante della Vita stessa, un Inno alla Natura, una Denuncia allo sfruttamento incontrollato del pianeta Terra”. Melagrane, peperoncini, limoni, fragole, pomodori, olive e grappoli d’uva installate in location ed eventi di grande richiamo internazionale. Nel 2009 è invitato alla 53a Biennale di Venezia, dove espone una complessa installazione scultorea intitolata “La rinascita della foresta dopo l’incendio”, che

propone poi nel 2011 a Euroflora Genova. Nel 2012 l’invito del Teatro del Silenzio di Andrea Bocelli lo porta a realizzare una gigantesca melagrana di oltre 9 metri. I suoi giganti scultorei conquistano l’Italia ma anche la Cina dove nel 2015 su invito del Consolato Generale d’Italia a Chongqing realizza Capsica Red Light, una grande installazione bronzea di 5 peperoncini rossi. Nello stesso anno è all’EXPO Milano 2015 nel padiglione Kip Onu e nel padiglione Cina, dove nella popolata città di Chongqing è installato un peperoncino alto oltre 7,50 metri. Nel 2016 a Milano a Eataly, il tempio dell’eccellenza italiana in fatto di cibo e produzione enogastronomica, è promossa la mostra Giuseppe Carta. Germinazioni. I diari della terra. La mostra è poi allestita nelle sedi di Eataly di Torino, di Bologna e poi nel 2017 di Roma. Nel 2017 a Pietrasanta, in Toscana, è inaugurato il grande evento Giuseppe Carta. “Orti della Germinazione” (regia di Alberto Bartalini, cura di Luca Beatrice) con oltre 120 opere esposte tra dipinti e sculture, tra cui The Red Giant, un gigantesco peperoncino rosso lungo 18 metri che sembra nascere dalla terra. The Red Giant, insieme ad altri 20 splendidi peperoncini rossi, (segue pagina 22)

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(segue dalla pagina 21) diventa poi l’imponente scenografia del Teatro del Silenzio di Andrea Bocelli. La collaborazione con Bocelli continua a Roma con il charity event Celebrity Fight Night con l’esposizione al Colosseo dell’imponente Melagrana, già simbolo del Teatro del Silenzio 2012 e dell’Andrea Bocelli Humanitarian Award, premio conferito a celebrità quali Sophia Loren, la principessa Rania di Giordania, George Clooney, Sharon Stone, Nicolas Cage, Lionel Richie. Un altro grande peperoncino è esposto ad Alba (Piemonte) nelle reali cantine vitivinicole di Fontanafredda, patria del famosissimo Barolo.. Nel 2018 in Toscana la gigantesca Melagrana è ospitata nella città di Pontendera quale installazione permanente, mentre in Piemonte ad Alba, nella cantine reali vitivinicole di Fontanafredda ,domina un gigantesco grappolo d’uva voluto da Oscar Farinetti e creato da Carta quale Monumento al Nebbiolo. Con i suoi peperoncini rossi, 25 esposti a Genova nei giardini dei Parchi di Nervi e al Porto Antico, conquista il pubblico di Euroflora Genova 2018 e alla fine di giugno The Red Giant, il peperoncino lungo 18 metri esposto prima a Pietrasanta e poi al Teatro del Silenzio di Andrea Bocelli, trova quale luogo ideale di

esposizione Fico Eataly World di Bologna, la fabbrica italiana del cibo più importante del mondo. .In Calabria, a Diamante, è insignito dall’Accademia Italiana del Peperoncino del titolo di Ambasciatore del Peperoncino nel mondo. Su invito del Museo di Monsummano Terme (Pistoia) espone una installazione di dipinti e sculture nella mostra Oasi. Alla fine dell’anno il Polo Museale della Puglia e il MIBAC celebrano l’Anno del Cibo Italiano con le opere di Giuseppe Carta promuovendo il grande evento espositivo Giuseppe Carta. Epifania della terra. Sculture imponenti di peperoncini, fragole, pomodori, limoni e melagrane - in bronzo, alluminio e resine policrome - seguite da dipinti raffiguranti nature morte di commovente veridicità, sono allestite nei gioielli storici e architettonici della regione: il Castello Svevo di Bari, di Manfredonia, di Trani e di Gioia del Colle. Iniziano le riprese del film CARTA del regista Dado Martino, che affascinato dalle opere e dalla vita di Carta così ricca di esperienze e di contaminazioni vissute in giro per il mondo dall’Occidente all’Oriente, decide di girare il film tra la Sardegna a Banari il paese dove Carta è nato e cresciuto, la Liguria dove si è formato prima come musicista e poi come artista, ma anche tra la Toscana e l’Emilia Romagna.


Nel 2019 altri importanti eventi e riconoscimenti attribuiscono a Giuseppe Carta il titolo di Maestro della Luce e dei Grandi Frutti della Terra. Su invito della Direzione del Polo Museale della Puglia la sua scultura Germinazione della Paceè esposta alla presenza del Ministro alla Cultura Bonisoli al Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia, mentre è presente nel Castello Svevo di Bari nella mostra Libri d’Artista. “L’arte di leggere”. Il 9 febbraio il Comune di Genova, nel salone di rappresentanza di Palazzo Tursi, presenta in anteprima nazionale il film CARTA. In Sardegna a Sassari le sue germinazioni scultoree diventano la scenografia che celebra la Natura per l’evento “Che gusto!”, in tale occasione Carta è insignito dal quotidiano regionale La Nuova Sardegna del premio La Nuova Sardegna quale “Artista celebre che porta alto il nome della Sardegna nel mondo, dall’Occidente all’Oriente”. In Calabria, su invito e per la città di Tropea, Giuseppe Carta realizza “La Rossa di Tropea” una grande Cipolla scultorea che diviene il simbolo del TropeaCipollaParty, festival promosso dal Comune di Tropea e da Paolo Pecoraro art director. Con la comunità calabrese s’instaura un importante rapporto di stima e amicizia e il Comune di Tropea

conferisce a Giuseppe Carta la cittadinanza onoraria. Il grande evento espositivo Giuseppe Carta. Epifania della Terra, voluto e promosso dal Polo Museale della Puglia e dal Mibac, è prorogato fino alla fine di maggio. In Toscana a Pontedera è tra gli artisti protagonisti della mostra, diretta da Aberto Bartalini, “I moti dell’anima”. “Tributo a Leonardo Da Vinci” ed altre sue opere sono esposte ai Bagni Alpemare di Andrea Bocelli (Forte dei Marmi). Un altro grande ed importante evento vede l’Arte di Giuseppe Carta protagonista nel panoramico artistico nazionale e internazionale: in Sardegna a Nuoro l’Istituto Regionale Superiore Etnografico promuove al Museo del Costume l’evento Giuseppe Carta. “Orti di Grazia”, che vede la partecipazione e il contributo di Vittorio Sgarbi e la direzione artistica dell’architetto Alberto Bartalini. L’evento, che vede il connubio tra il luogo storico e il patrimonio delle tradizioni sarde, ben custodite e presentate, del Museo del Costume e l’Arte pop di Giuseppe Carta, racconta il lungo percorso pittorico e scultoreo dell’artista, autore dei famosissimi peperoncini e dei grandi frutti della Terra, veri e propri Inni alla Natura. Oltre 180 tra giganti sculture, (segue pagina 24)

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(segue dalla pagina 23) dipinti e grandi installazioni sono le opere dell’artista che celebrano la Natura e il grande premio Nobel Grazia Deledda, l’evento infatti è a lei dedicata. L’evento è aperto al pubblico fino alla fine del mese di ottobre. Durante l’esposizione, considerato lo spazio espositivo reso scenografico da un particolare allestimento di luci e visioni che accendono di nuova ispirazione sia le opere di Carta che la struttura del Museo del Costume insieme alla collezione etnografica in essa custodita, l’ISRE promuove l’evento “Orti di Notte” (23 luglio) facendo l’apertura notturna della mostra e anticipando l’evento con la proiezione del film CARTA all’auditorium Giovanni Lilliu. L’evento notturno riscontra un grandissimo successo di pubblico, trattenutosi fino a tarda notte per ammirare non solo l’arte, non solo il museo ma anche il fascino dei canti tradizionali accompagnati da alcuni tipici alimenti dell’enogastronomia isolana. A Porto Rotondo, nell’evento letterario “La poesia di Marella Giovanelli” incontra la scultura di Giuseppe Carta, che presenta ufficialmente al pubblico l’opera dedicata al premio Nobel Grazia Deledda. Il 28 Settembre è la Sicilia di Priolo Gargallo

a consegnare a Giuseppe Carta il premio nazionale Ambiente e Società per l’importante impegno sociale profuso in Italia e nel mondo con le sue opere dedicate ai frutti della terra 2020 L’Arte di Giuseppe Carta è ancora una volta oggetto di grande interesse sia in Italia che all’estero. Il preoccupante diffondersi in tutto il mondo del virus Covid-19 sconvolge l’umanità intera e ogni attività e progetto viene cancellato o reso live, la priorità di tutti e per tutti è quella di salvare vite umane e porre fine alla grave emergenza sanitaria che imperversa in ogni nazione. Dopo un lungo periodo di lockdown generale in tutto il territorio nazionale e non solo, vi è la volontà di infondere nuova speranza in tutti i contesti sociali traumatizzati dalla pandemia e anche l’arte partecipa a questa importante ripresa, Giuseppe Carta è così invitato dal Comune di Tropea ad intervenire alla conferenza live del festival Tropea Cipolla Party in qualità di artista che con le sue opere celebra la Natura e la Rinascita. Carta è legato alla città di Tropea non solo per la Cipolla alla quale ha dedicato una sua scultura ma anche per esserne diventato nel 2018 cittadino onorario. È con l’obiettivo di favorire una ripresa sociale e cul-


Foto giuseppecarta

turale post lockdown che il 18 luglio è inaugurata a Porto Rotondo la Porto Rotondo Art Gallery, voluta dal Conte Luigi Donà dalle Rose e da Leonardo Donà dalle Rose e dallo stesso diretta, con oltre 25 opere di Giuseppe Carta dedicate ai frutti della terra quale simbolo di germinazione e di rinascita. È dai primi di luglio che Carta inizia a collaborare con la Galerie Jedlitschka di Zurigo dove espone, nel parco delle sculture della galleria, due grandi peperoncini dal colore rosso squillante e dalle forme vibranti. In Toscana Carta aderisce all’iniziativa di solidarietà, promossa dal Comune di Pietrasanta a favore dell’Ospedale Versilia e delle realtà imprenditoriali e famiglie in difficoltà a causa del Covid-19, donando una sua opera per l’asta di beneficenza battuta dalla casa d’aste londinese Sotheby’s il 12 settembre nel chiostro di Sant’Agostino della città pietrasantina. È invitato dalla Sgaravatti Group, storica e prestigiosa azienda vivaistica italiana operante a livello internazionale e altamente specializzata nella progettazione e realizzazione di giardini e spazi verdi, ad arricchire con le sue germinazioni scultoree i festeggiamenti per la celebrazione dei 200 anni di attività dell’azienda tenutasi il 18 Settembre 2020 nel garden di Capoterra (Sardegna). A fine settembre si conclude con grande successo

l’esposizione a Porto Rotondo. Il 6 Novembre la città toscana di Pontedera, attivo e riconosciuto polo italiano dell’arte contemporanea, inaugura l’evento Natale ad Arte, diretto da Alberto Bartalini, con importanti installazioni scultoree, l’Orto dei Sogni di Giuseppe Carta celebra la vita con una complessa installazione di germinazioni scultoree colorate e dal forte valore evocativo. Chi vuole vedere a Cagliari dal vivo una delle sculture che rappresentano i peperoncini, potrà ammirarla sulla terrazza del Banco di Sardegna di viale Diaz ed in altre piazze e strade della città come davanti al Bastione Saint Rémy o nella centralissima via Manno dove sono allineate altre forme naturali riprodotte dal noto scultore. Le cui opere hanno immediatamente fatto nascere una violenta polemica sui social media dove si affrontano gli ammiratori ed i detrattori. Come dice il proverbio “Nemo profeta in patria“. Ai posteri l’ardua sentenza. Giuseppe Carta ha ormai stabile dimora a Banari, il suo paese natio, dove nella sua casa-museo-atelier è anche promotore e organizzatore di importanti iniziative e realtà culturali quali BanariArte e la Fondazione Logudoro Meilogu. https://www.giuseppecarta.net/

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Foto museicivicicagliari.it

tavano per lasciare la Sardegna ed essere venduti nella Penisola i 35 reperti altomedievali e medievali di inestimabile valore recuperati dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Sassari nell’operazione ‘Canico”. Erano stati rubati fra il’91 e il’92 dal museo archeologico di Cagliari. Approfittando di un periodo di trasloco dei pezzi dovuto a lavori, i ladri si impossessarono, tra l’altro, della collezione di sigilli del canonico Giovanni Spano, considerato il padre dell’archeologia sarda, che l’aveva donata al museo nel 1859. I 31 sigilli bronzei - impiegati anticamente per imprimere il segno dell’autorità sulla cera applicata per chiudere documenti - sottratti alla ricettazione assieme a due sigilli di piombi, due croci pettorali e una medaglia in bronzo, sono stati trovati a Cagliari città, in un luogo accessibile a più persone. Per questa ragione non ci sono indagati. C’era anche un raro sigillo dei Conti Donoratico della Peradersca. I reperti erano custoditi perfettamente, nel velluto, come si usa in questi casi. I Carabinieri del Nucleo di Sassari, istituito nel luglio 2001, hanno seguito una pista che poco dopo il furto portò i colleghi di Roma sulle tracce di alcuni sardi, uno dei quali fu arrestato. Nell’occasione furono re-

MUSEO SIAM cuperate anche alcune medaglie e monete, ma il 30% della refurtiva non è stata ancora trovata. I militari, al comando del tenente Gianfilippo Manconi, che ha illustrato i dettagli dell’operazione in una conferenza stampa insieme al sovrintendente ai beni archeologici di Cagliari, Vicenzo Santoni, sperano di mettere mano su altri pezzi trafugati. (AGI) Il furto della «Collezione Siamese» dalla Galleria comunale a Cagliari scatenò lo stesso clamore della Gioconda strappata dal Louvre. Era la notte tra il dodici e tredici gennaio del 1975, quando un manipolo di ladri fece razzia nel palazzotto dei giardini comunali. Con tutta calma: il custode che fino qualche settimana prima dormiva in una dependance, nel frattempo era stato sfrattato e, all’epoca, mentre allarmi e telecamere erano accesi in pochi altri musei nazionali qui niente. Fu un furto su commissione, anche se messo a segno da una banda raccogliticcia, che di questi tempi sarebbe stata arrestata poco dopo per i tanti errori commessi. Non fu cosi. I centocinquanta pezzi più preziosi si volatilizzarono per diciotto lunghi mesi: leoni d’avorio, Buddha in bronzo e altri monili della collezione messa assieme alla fine del 1800 dal viaggiatore cagliaritano Stefano Cardu, nelle sue missione in Siam.


MESE CARDU I ladri finirono in carcere qualche mese prima del ritrovamento e la leggenda racconta: l’espatrio del bottino fu evitato soltanto grazie al ravvedimento di uno della banda, sconfortato all’ipotesi che la collezione fosse destinata ai collezionisti svizzeri. Quel pentimento scongiurò la vendita al mercato nero, c’erano già diversi compratori al di là delle Alpi, e il nove giugno del 1976 un vigile urbano ritirò l’ex malloppo in una caserma dei carabinieri di Roma. Con il tesoro di nuovo a casa, il Comune cercò di custodirla al meglio sempre nella Galleria dei giardini pubblici, ma ci vollero altri cinque anni prima del trasferimento nella Cittadella di Musei, fortezza ed ex Regio Arsenale che domina il quartiere di Castello. Quello della Collezione siamese è stato uno dei furti d’arte più clamorosi commessi in Sardegna. La storia del Museo d’Arte Siamese inizia con la donazione alla sua città natale da parte di Stefano Cardu (Cagliari 1849 – Roma 1933) di una preziosa collezione di oggetti d’arte provenienti dall’Estremo Oriente. Cardu, imbarcatosi da Cagliari in giovane età, dopo quasi dieci anni di navigazione approda in Siam, l’attuale Tailandia. A Bangkok, sotto il regno di Rama V, egli diviene progettista e costruttore di importanti edifici per la nuova capitale: fra questi il Palazzo del Principe Chaturonra-

tsami (1879) il Royal Military College (1890-92), l’Hotel l’Oriental (1890), destinato a ospitare i diplomatici e regnanti in visita alla corte siamese. Stefano Cardu è assiduo viaggiatore e raffinato collezionista dell’arte d’Oriente. Raccoglie negli anni oltre milletrecento manufatti di squisita qualità e fattura, databili tra il XIV e il XIX secolo, provenienti dal Siam e dal Sud Est asiatico, da Giappone, Cina e India. Tornato in Europa nel 1900, con grande generosità, il 22 luglio 1914 egli offre in dono alla città di Cagliari parte cospicua della sua collezione. Il Museo Siamese è finalmente aperto al pubblico nel 1918, in una sala dedicata al piano nobile del Palazzo civico Ottone Bacaredda. Lo stesso Cardu si occupa dell’allestimento e del catalogo della mostra, i cui proventi, per sua volontà, saranno destinati agli orfani della Prima guerra mondiale. Trasferita per essere salvata dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale nelle grotte dei Giardini Pubblici, la collezione fu riordinata dall’orientalista Gildo Fossati e esposta nella Galleria Comunale d’Arte fino al 1981. Il Museo d’Arte Siamese Stefano Cardu è oggi ospitato nella Cittadella dei Musei, il maggiore polo museale dell’Isola. museicivicicagliari.it/

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etto scarabeo fu fatto conoscere da Aba Losi al pubblico del blog MONTEPRAMA BLOG (v. Atropa Belladona, 'Gli scarabei sigillo della Sardegna e la scrittura segreta del dio nascosto', 26,10, 2013). E' piuttosto malandato nella parte raffigurante l'animaletto ma integro nella parte 'scritta'. Naturalmente Maria Scandone (Scarabei e scaraboidi egiziani ed egittizzanti del Museo Nazionale di Cagliari,CNR ROMA 1975) non riuscì a capirci nulla e giudicò l'oggetto 'scarabeo indecifrabile'. Non potè che definire così quei segni che certo non erano egizi, nè fenici nè di altri alfabeti conosciuti. Ma oggi si sa cosa foneticamente essi vogliano significare e si sa anche quale lingua si cela dietro di essi. Sono nuragici e riportano una lingua semitica, quella che gli scribi sardi usarono in omaggio al loro dio per millecinquecento anni e più. Più precisamente sono, a partire dalla destra, una 'yod', una 'lamed' , una seconda 'yod' e una 'he'. La lettura è estremamente facile per chi conosce il system nuragico: YL YH, cioè 'DIO YH'. YL o YLY è il 'dio', come lo chiamavano i Cananei. In ebraico divenne 'EL. YH invece è il nome proprio del dio, anch'esso ripreso dagli israeliti e

LO SCARABEO DEL CORPUS DEGLI SCARABEI SARDI DEL MUSEO NAZIONALE DI CAGLIARI? E CHE E’? NULLA. PER I CIECHI E PER I SORDI NON ESISTE. https://www.facebook.com/gigi.sanna.98

mantenuto identico. IL (o YLY) si trova nella documentazione nuragica così come si trova yh per indicare la divinità suprema. Appena qualche settimana fa abbiamo visto la scritta del vaso del Nuraghe Palmavera custodito nel Museo Nazionale di Sassari che recita ' YLY YH', cioè la stessa espressione dello scarabeo. Se aggiungiamo, come di norma, anche il valore fonetico del supporto, così come per il vaso del reperto di Sassari, la scritta dello scarabeo del museo di Cagliari significherà, con ogni probabilità, ' luce continua del dio yh'. Aggiungiamo 'luce' perchè il significato dell'animaletto, simbolo di Horus, è quello di 'luce continua, eterna' . Ci sarebbe da dire dell'altro sulla scrittura ed il significato dello scarabeo ma pensiamo che ciò possa bastare per capire, soprattutto, chi era il dio venerato dai sardi alla fine dell'età del bronzo e per tutta quella del ferro. Una comprensione che non si ha per indizi ( come fu quella dell'antropologo Pettazzoni circa lo yhwh sardo) ma per fonti documentarie dirette. Scusate se è nulla sapere quello che nessun archeologo, Lilliu compreso, non è mai riuscito a comprendere! Chi era la divinità sarda.


Ora mi chiedo: perchè gli archeologi che ci seguono ormai esaminando anche le nostre virgole e sempre pronti a leggere e a commentare (a parole!) i nostri post con il caffè mattutino, non collegano la scritta dello scarabeo con quella del vaso del Palmavera? Mica sono scritte sospette, frutto di 'officina falsariorum'! Sono scritte di reperti visti e catalogati dagli archeologi in persona, quelli che curano diligentemente le esposizioni nei musei collocando accanto agli oggetti le didascalie. Cosa ci vuole perchè si faccia due + due? Un due + due arcisicuro? Non ci vuole niente se non fosse che per i ciechi (e i sordi) i segni sono indecifrabili o, come talora scrive qualcuno, 'senza significato'. Ma noi, che ce ne freghiamo della cecità e della sordità altrui, diciamo le cose come stanno, mostriamo la realtà: il dio dei sardi era yh (o yhw, o yhh o yhwh: tutti attestati). Diciamo di nuovo di YH ciò che scrivemmo nel sottotitolo di Sardoa Grammata, ovvero 'ag 'ab s'an yhwh (toro padre yhwh santo), il dio unico del popolo nuragico. Più di quindici anni fa! Gigi Sanna https://www.facebook.com/gigi.sanna.98

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resso il Nuraghe Losa di Abbasanta, proprio nella direzione dell’entrata del monumento, si trova una vera e propria perla epigrafica. Ma la perla è lì, abbandonata, nascosta tra cardi selvatici e cicoria. Nessuno la nota perchè non la può notare . Perchè perla? Per il fatto che contiene scritto in brevissima sintesi il significato di quel nuraghe in forma di ‘toro’ ( se ne sono ben accorti della strana forma con il loro drone, dietro mio suggerimento, gli operatori del National Geographic!) che per la massa imponente nessuno, come per la pietra scritta, vede veramente. Il contenuto epigrafico della pietra è, come si può vedere, dato da una protome taurina con il corno asimmetrico e da una serpentella gravida. Chi non conosce a fondo i simboli, alfabetici e non, della scrittura nuragica non può capire granchè circa i due animali disegnati in rilievo nel masso. Non può capire soprattutto che c’è la scrittura e neanche tanto nascosta. Il toro straordinario (dato il corno straordinario) e il serpente danno subito il significato di ‘Toro celeste ( come il bue Api egiziano) immortale ( la continuità e l’immortalità del serpente). Ma chi è il toro celeste immortale? Uno direbbe che non è specificatoInvece specificato lo è e come! (segue p 30)

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(segue dalla pagina 29) Basta ricordare che il nuragico fa uso continuo dell’acrofonia e basta domandarsi il motivo per cui abbiamo una serpentella gravida. Ora ‘gravida’ , ‘essere gravida’ nel semitico ‘alto’ del Vecchio Testamento si dice ‘hrh’, cioè con una voce iniziante per la consonante aspirata ‘h’. ‘he’, oltre che essere articolo è anche pronome, cioè LUI/LEI. Quindi, come altre numerose volte in altri documenti, il nome della divinità (yh) viene espresso non direttamente ma con il pronome. La lettura completa della pietra sarà dunque ‘DI LUI IMMORTALE IL TORO DELLA LUCE (in egiz. sarebbe stato ‘di lui immortale il Bue Api). Perchè dunque quella pietra scritta si trova vicino al nuraghe? Perchè essa spiega il nuraghe stesso, cosa esso sia. E’ il tempio ‘conico’ di Yh, con il toro immortale che dà continuamente la luce. Il nuraghe non è che il fallo (toro e fallo sono la stessa cosa) divino della luce solare (NULAC) . Il fallo gigantesco che dà la vita nel mondo. Il 22 Dicembre astronomicamente assistiamo alla rinascita del sole, cioè alla rinascita dell’astro taurino che è strumento creatore (fallico) di vita creato dal Dio (la famosa lampada maggiore di Genesi). Gigi Sanna

ANCHE NOI CI SIAMO VACCINATI. DUE GIORNI FA. ED E’ STATO DAVVERO UN ‘DIES NATALIS’.

Gigi Sanna 27 dicembre 2020 https://www.facebook.com/gigi.sanna.98

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nche noi abbiamo avuto il nostro Vday, nel giorno di Natale quando tutto simbolicamente rinasce. Ci siamo vaccinati a dovere contro gli increduli, i supponenti, gli scettici, i negazionisti, i passatisti, i semplicisti, i colonialisti. Anche contro non poche figure di imbecilli e delinquenti frequentatori dei muretti a secco. Ci siamo vaccinati perchè sarà ora difficile trovare degli anticorpi contro gli anticorpi. Sarà assai difficile contrastarci oggi, anche con intenso fuoco di sbarramento e con furore, contro l’attestato principe della scrittura (per altro raffinatissima e pressocché imbattibile) dei nuragici. Per anni e anni il virus è stato quello diffuso dagli untori artisti per far penetrare nelle menti di tutti i sardi (e non) che le ‘tavolette’ di Zricotu di Cabras fossero delle ‘volgari’ matrici bizantine per linguelle oppure dei falsi lapalissiani. Un lavorio continuo, cattivo, spesso assai sporco e vigliacco, per salvare poi che cosa? Un paradigma di scuola assurdo, infantile, del tutto insostenibile. Anche gli scolaretti, in tutto questo tempo di ostinata negazione, hanno gridato in coro e fatto la domanda più semplice: ‘Com’è possibile che un civiltà così


evoluta, a contatto con le civiltà di tutto il mediterraneo non conoscesse e applicasse, in qualche modo, la scrittura?’ Già, com’è possibile? La risposta non c’è stata e non c’è. Perché non ci può essere. Invece c’è la risposta contraria. C’è nelle decine e decine, nelle ormai centinaia di scritte che si sono trovate in tutta la Sardegna, realizzate con un system o codice ‘alfabetico’ che non ha riscontri precisi in tutto il Mediterraneo del secondo e del primo Millennio a.C. Scritte non sospette perchè trovate anche nei musei, spesso non viste (?) e catalogate impropriamente o in modo del tutto oscuro. E dal momento che c’è una spiegazione per tutto, dal momento che ogni cosa può essere, anche con la retorica, addomesticata a piacimento, si è detto che quelle scritte non sono ‘sarde’ ma sono scritte ‘in Sardegna’. Capite la malizia? Dal momento che esse non si possono più rifiutare con la sola banale e comoda accusa di falso si reclamizza l’idea che Sirii, Fenici, Ciprioti, Cretesi, Euboici, Greci, Etruschi e Romani hanno lasciato di volta in volta le loro manifestazione alfabetiche con i Sardi ignoranti e rincoglioniti a guardare e, di quando in quando, pro-

pensi anche ad imitare e ad applaudire. Ma si è capito subito che quella malizia dell’apporto esterno non poteva essere adoperata per i bronzi nuragici, semplicemente perché il mix delle lettere era del tutto originale e sconosciuto. Dove si trovava mai nella storia epigrafica e paleografica, ‘mediterranea’ e non, l’ugaritico accanto al protocananaico e addirittura accanto al gublitico? Tre alfabeti per giunta tutti estintisi prima dell’anno Mille a.C.? Se Gigi Sanna ed altri strillano ogni giorno che i documenti del Nuraghe Tzricotu sono bronzi del XII secolo a.C. , che sono SARDOA GRAMMATA, bisogna correre ai ripari e rispondere in qualche modo. Ed ecco il falso ed il bizantino che fanno muro per salvare il paradigma, un trucco in grado di negare, in un colpo solo, quella particolare ingombrante scrittura. Come fai allora a sconfessarli per il loro ‘logicismo’, ovvero un autentico delirio? Ci sarebbe la perizia, il pronunciamento scientifico ‘senza se e senza ma’; ma questa non si fa neppure se li lasci senza la pelle per le frustate. Dopo la perizia della ceramica di Teti, dopo la figuraccia e il disastro ermeneutico di Teti, è bene perizie non farne più. Tanto più che si hanno fondati sospetti, in ambito archeologico, sull’identità dei minuscoli bronzetti La perizia non si fa? Bene. Anzi, male. Malissimo. Ma noi ci siamo decisi di assumere il vaccino contro tutte le stupidaggini che si dicono sulla documentazione scritta della Sardegna dell’età del bronzo e del primo Ferro. Il ripostiglio a Tholos nuragico ci immunizza tutti, ci salva in massa, perché quell’olla nuragica infranta (come si dice) custodiva, senza dubbio alcuno, i sigilli dei Giganti di Monte ‘e Prama, i primi documenti della scrittura nobilissima e religiosissima, dei nostri avi ‘reges Sardiniae’. Chi ora vorrà sorridere o addirittura ridere della nostre 200 pagine di SAGRA? Delle pagine dei primi tentativi, faticosissimi e di estremo coraggio, di spiegare ‘ SEGNI DELLA SARDEGNA’ degli antichi Sardi? Chi parlerà, senza ammalarsi, di segni forestieri in Sardegna? Certo, ci sarà bisogno di un completamento per l’immunizzazione, perchè quell’immagine ‘nuragica’ non è del tutto esaustiva. Ma è solo questione di tempo, non molto tempo. (la fotografia rappresenta il particolare di uno dei sigilli dei ‘Giganti’ con il nome proprio GAYNY) https://www.facebook.com/gigi.sanna.98

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Museo Immateriale dell’Immagine Sardegna Confini / Orizzonti Meditazioni Mediterranee

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elle sale espositive della collettiva sono presenti parte delle opere inserite nella collezione permanente di Space9 – MidI, selezionate dai curatori Sonia Borsato e Giovanni Follesa; gli scatti di alcuni fotografi siciliani, scelta critica di Ezio Ferreri; un lavoro fotografico realizzato in Catalogna da Myriam Meloni e Arnau Bach, con il patrocinio dell’Ajuntament de Barcelona. Ciascuno dei curatori ha dato un’interpretazione personale, intima, del significato Confini/Orizzonti. La mostra nasce dalla volontà di strutturare un dialogo tra Sardegna-Sicilia-Barcellona, nella consapevolezza di essere tappa irrinunciabile in un mare di geografie e nella responsabilità di leggere Il Mediterraneo che, per sua natura, unisce e divide, concede e toglie, racconta e silenzia.

Confini/ Orizzonti

LINDE di Myriam Meloni e Arnau Bach Valentino Bellini, Roberto Boccaccino, Chiara Caredda, Giulia Casula, Valeria Cherchi, Erik Chevalier, Lorella Comi, è la mostra Chiara Coppola, Alfredo D’Amato, Tiinaugurale di Space 9 ziano Demuro, Pierluigi Dessì, Stefano Ferrando, Turiana Ferrara, Fausto Ligios, Museo Immateriale Emanuela Meloni, Giaime Meloni, Pietro dell’Immagine Motisi, Rori Palazzo, Chiara Porcheddu, Silvia Sanna, Mario Saragato, Alessandra Sarritzu, Ambra Iride Secchi, Riccardo Scibetta, Alexa Vinci https://www.facebo- Giulia Casula, Sardinia Remix ∞ ok.com/capsulagiulia Unconventional Guide, 2017


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ome da disposizioni siamo nuovamente aperti e lo facciamo proponendovi una novità di un bravissimo artista : Gavino Ganau. Nasce a Tempio Pausania nel 1966. La prima mostra, nel gennaio 1998 a Bologna: Exit, a cura di Edoardo Di Mauro, una ricognizione sulle modalità creative nell’arte visiva di fine anni novanta. È del 2001 la personale al MAN di Nuoro, allora diretto da Cristiana Collu, curata dalla critica romana Claudia Colasanti nell’ambito della rassegna MANovre. Inizia in quel periodo a lavorare con diversi critici (Claudia Colasanti, Luca Beatrice, Gianluca Marziani, Maurizio Sciaccaluga, Antonio Arévalo, Chiara Argenteri, Davide Mariani, Roberta Vanali, Valentina Scanu, Anna Rita Punzo, Sonia Borsato, Mariolina Cosseddu, Alessandra Menesini, Micaela Deiana, Giannella Demuro e altri) che lo curano in collettive e personali in buone gallerie e situazioni. Ha collaborato con: Viafarini e Care/Of, Milano; Guidi&Schoen, Genova; AndreA artecontemporanea, Vicenza; PiziArte Teramo; Novato, Fano; 3G, Udine; Ingresso Pericoloso, Roma; Loft Gallery, Corigliano, Arte & Altro, Gattinara; Temporary Storing, della Fondazione Bartoli Felter, Cagliari; Contemporanea, Sassari; Pairone9, Roma; Galleria Lazzaro by Corsi, Milano; Micro Gallery, Roma e Altri.

Gavino Ganau “L’ Attesa”

Acrilico su tela Cm 40*50 2018

Via Principessa Maria 29

07100 Sassari, info@artespaziosassari.com www.artespaziosassari.com/

Tel: +39 079 219063 vedi il video https://www.facebook. com/artespaziosassari/videos/715237636042422

Diverse le mostre istituzionali e i premi cui ha partecipato, tra i quali: “Insulae Creative Turbolences” e “URBS”, curate dalla fondazione Bartoli Felter di Cagliari, “Arte e Sud”, “Human@art”, “Arte Italiana” a Dubai. E’ stato finalista del IV Premio Cairo, del Premio Lissone, e del Premio Celeste. Partecipa, con le sue gallerie, a varie Fiere di arte contemporanea (Miart Milano, Riparte Roma e Genova, Arte Padova, Vicenza Arte e Bologna Flash Art Show. Viene presentato in diverse esposizioni e fiere grazie a collaborazioni importanti con gallerie d’arte in Italia e all’estero. Nel 2018 vince il Premio Marchionni per la sezione pittura con conseguente mostra personale alla prestigiosa Galleria Lazzaro by Corsi di Milano. Questo video presenta ciò che potrete vedere in Galleria per tutto il mese di Dicembre e Gennaio. Sono una piccola ma significativa parte delle nostre opere, assemblate e collegate in un video di cui siamo veramente orgogliosi. Sono sette minuti che per noi hanno un grande significato. Vi aspettiamo per poterle apprezzare e vedere dal vivo! Un ringraziamento speciale a chi ci ha accompagnato nella realizzazione di questo progetto. Con questo racconto noi ci presentiamo e vi aspettiamo.

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Foto meandsardinia.it

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Parco Aymerich: un gioiello nel cuore della Sardegna, fra storia, arte e natura Un luogo incantato e di grande fascino, immerso in un bosco di lecci, querce, carrubi, olivastri e ricco di ruscelli e cascate: il Parco Aymerich si trova a Laconi, come un prezioso gioiello incastonato nel cuore della Sardegna. A volerne fortemente la realizzazione fu la nobile famiglia Aymerich, marchesi dell’omonimo paesino del Sarcidano dal XVII secolo e feudatari tra i più potenti dell’isola fin dal XIV secolo. Gli Aymerich sono una tra le più antiche casate della Sardegna. Originari della Catalogna, si trasferirono sull’isola nel XIV secolo, partecipando attivamente alla presa dei territori dell’ex Giudicato di Cagliari, a loro volta sottratti dai Pisani nella seconda metà del XIII secolo. Oltre ad armare le navi della flotta d’Aragona a seguito dell’Infante Alfonso IV, gli Aymerich contribuirono in maniera significativa alla presa della città di Cagliari. La loro fedeltà al sovrano e i loro successi in battaglia gli valsero numerosi privilegi e rendite feudali in molti territori dell’isola. Gli Aymerich compaiono nei documenti della cancelleria spagnola e in numerosi verbali della Reale Udienza, anche in relazione a numerosi fatti

IL PARCO A di cronaca. Alcuni di loro, tra cui Pietro, Salvatore e Silvestro, sono legati a crimini efferati ai danni della nobiltà e della Corona, tra cui – la più celebre – è la famosa congiura di Camarassa. Il castello: tra storia e leggenda Costruito nel 1053 per segnare il confine tra i Regni di Arborea e Cagliari, il Castello ha subito numerosi rifacimenti nei secoli ed oggi si erge ancora maestoso, nonostante sia ridotto allo stato di rudere. Le indagini stratigrafiche hanno evidenziato aggiunte e demolizioni di carattere funzionale, dovute senz’altro alla volontà di rispondere meglio alle esigenze della corte. Le poche notizie pervenuteci, unite ai resti archeologici, ci permettono di ipotizzare un impianto longitudinale, con mura possenti, un fossato e ampie finestre ogivali modanate e dotate di piccoli affacci lungo la vallata. Era provvisto di torri merlate, di cui una, ancora oggi superstite, fu utilizzata come carcere nel Settecento. L’ingresso ad arco portava a un passaggio voltato a botte che a sua volta immetteva in una corte interna, su cui si affacciavano depositi, stalle e magazzini. Una scala introduceva alla grande sala di rappresentanza di pianta rettangolare, probabilmente usata per riunioni solenni ma anche sontuosi banchetti. Oggi sprovvista della copertura, la sala è ancora prov-


AYMERICH vista di alcune finestre gotiche, sedute in pietra e un lavabo che serviva per i commensali. Come ogni castello che si rispetti, anche quello degli Aymerich è legato a numerosi racconti e leggende, soprattutto di fantasmi. Si racconta, infatti, che ad infestare le rovine dell’antico maniero sia il fantasma di una nobildonna, la giovane Isabella Aymerich, morta assassinata nella sua camera da letto nel 1616. Ma la morte della giovane non fu tutto: pochi giorni prima, un clerigo, uomo di fiducia della nobildonna, fu ucciso ad archibugiate nel bosco ad opera di banditi. Il Vicerè de Gandia e la Reale Udienza incriminarono il marito della donna, Don Salvatore di Castelvì, per uxoricidio e lo condannarono alla pena del garrote, ovvero lo strangolamento per mezzo di un cerchio di ferro. Contemporaneamente vennero accusati come complici del delitto il padre Don Giacomo di Castelvì, Marchese di Laconi, e il fratello don Paolo, Procuratore Reale (poi primo marchese di Cea), i quali vennero posti agli arresti domiciliari. Don Salvatore riuscì a fuggire da Laconi e si rifugiò in un convento vicino a Cagliari usufruendo del diritto d’asilo. Per sfuggire alla giustizia reale, essendo familiare del Sant’Uffizio, egli cercò di ottenere di essere giudicato dal Tribunale Ecclesiastico e domandò il pri-

vilegio di foro che competeva loro come Cavalieri di Sant’Jago. La causa finì a Madrid dove, grazie alle numerose conoscenze che i Castelvì avevano a Corte, fu possibile ottenere un nuovo processo davanti al compiacente Consejo de Ordenes. Don Paolo, per poter rientrare nei poteri della sua carica ottenne per sè e per suo padre una sentenza di innocenza. Don Salvatore, per sfuggire alla pena, fuggì dall’Isola, si arruolò nel tercio delle Fiandre e poi andò a combattere in Lombardia e in Sicilia. Per i suoi meriti militari e grazie al perdono della famiglia della defunta, ottenne la commutazione della pena nell’esilio nei Regni della Corona. Nel 1622 il Reale Consiglio di Aragona con il parere favorevole del nuovo Vicerè de Erill gli accordò il perdono. A quanto pare, però, l’anima tormentata della giovane Isabella non ha ancora trovato la pace. Il Parco: un’oasi di ristoro e bellezza Nel 1830 per volere di don Ignazio Aymerich Ripoll, senatore del Regno d’Italia e appassionato di botanica, attorno ai ruderi del castello fu realizzato il più grande parco urbano della Sardegna che oggi conta 24 ettari. Come da consuetudine nell’estetica romantica, il giardino fu arricchito da essenze floreali e piante esotiche (segue pagina 36)

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Foto galleriacomunaled’artecagliari

(segue dalla pagina 35) come il Cedro del Libano, uno dei primi esemplari del genere introdotti in Europa, e il Cedro dell’Hymalaia. Oltre alla piantumazione di alberi e specie esotiche, il parco fu arricchito dalla presenza di ruscelli e laghetti, che lo rendono una località da vivere tutto l’anno, specialmente in estate, dove la presenza dell’acqua e la frescura dovuta all’ombra delle piante lo rendono un’oasi di ristoro e tranquillità. Ancora visibili e molto ben conservate sono numerose grotte naturali, in parte nascoste dalla vegetazione rigogliosa e utilizzate come rifugio durante i bombardamenti del 1943. Furono proprio gli Aymerich ad aprire il parco affinchè potesse essere utilizzato come rifugio per gli sfollati cagliaritani. Ma la regina indiscussa del Parco è la Cascata Maggiore che, con i suoi oltre 12 metri d’altezza, conquista il cuore di chiunque abbia la fortuna di mostrarsi al suo cospetto. Proprio l’acqua è l’elemento vitalizzante del parco, immerso nel quasi totale silenzio della natura. L’acqua crea rivoli, laghetti e cascate, contribuendo a caratterizzare il parco con un’atmosfera fiabesca e fuori dal tempo. Roberta Carboni https://www.meandsardinia.it/il-parco-aymerich/

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naugurata nel marzo del 1975, la Collezione d’Arte Contemporanea fu fortemente voluta da Ugo Ugo, direttore della Galleria Comunale d’Arte dal 1966 al 1985, il quale decise di documentare a Cagliari, con opere acquistate dal Comune a prezzo politico, i più significativi indirizzi della ricerca contemporanea in campo nazionale e internazionale tra gli anni Sessanta e Settanta. Il progetto, avviato nel 1968 con la collaborazione dell’allora vice direttore dei Musei Civici di Torino Aldo Passoni, porta in circa otto anni all’acquisizione di ottantadue opere d’arte, eseguite tra la fine degli anni Sessanta e il 1974, tranne due eccezioni, costituite dalla tempera di Gastone Biggi del 1963 e dall’olio di Valentino Vago del 1977, che sostituisce l’opera acquistata dalla Galleria, danneggiata in modo fortuito, restando sempre in linea con il progetto della collezione, fondata “su linee di tendenze artistiche e problematiche ben precise, emerse o emergenti in un clima culturale e storico determinato”, come spiega Antonello Negri nel catalogo della mostra. Per quanto non siano rappresentati tutti gli artisti significativi per l’arte contemporanea italiana, sono di certo rappresentate tutte le tendenze e i principali nodi di dibattito che hanno caratterizzato la scena artistica italiana e internazionale in quel periodo, segnato da


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quello che è stato definito lo “spirito del ’68”. Tra gli artisti sono presenti anche tredici sardi, selezionati con la consulenza di Salvatore Naitza, i quali, come scrive Ugo, “tenevano il passo con la ricerca contemporanea”. Ugo, nella realizzazione di questa straordinaria Collezione d’Arte Contemporanea, fu supportato da un importante gruppo di critici e studiosi; oltre ai già citati Aldo Passoni, Antonello Negri e Salvatore Naitza, si ricordano Zeno Birolli, Corrado Maltese, Vittorio Fagone, Gillo Dorfles e Marisa Volpi Orlandini. Le opere presenti nella collezione, dipinti, sculture e opere grafiche, sono ascrivibili all’Arte Pop e all’Arte Concettuale, all’Arte Minimal e all’Arte Povera, all’Astrazione, alla Pittura Analitica e all’Arte Optical. Dall’ottobre 2020 Efisio Carbone presenta DELIVE-ART - live dalla Passeggiata Coperta dentro la Collezione d’Arte Contemporanea UgoUgo. Attraverso la fitta corrispondenza tra il direttore Ugo e gli artisti scopriremo come è nata una collezione così straordinaria. Vedi il video h t t p s : / / w w w. f a c e b o o k . c o m / G C D A C / v i d e os/399390781368487

a Passeggiata Coperta è situata al secondo livello del Bastione di Saint Remy, sul cui scenografico scalone in marmo, che prende avvio da piazza Costituzione, si apre, all’altezza dell’arco trionfale. Sovrastata dalla maestosa Terrazza Umberto I, si sviluppa lungo il viale Regina Elena, sul quale si affaccia la serie di undici finestroni. La Passeggiata Coperta e la Terrazza Umberto I furono progettate dagli ingegneri Giuseppe Costa e Fulgenzio Setti e realizzate tra il 1899 e il 1902. L’ampio spazio della Passeggiata Coperta, inaugurata nel 1902 e in seguito denominata Galleria Umberto I, si presenta tripartito da alti pilastri in navate, delle quali la mediana, con copertura piana, è maggiore delle laterali, le quali presentano una copertura a crociera. Utilizzata dapprima come sala dei banchetti, nel corso degli anni avuto avuto diverse destinazioni d’uso, diventando, durante la grande guerra, un’infermeria, poi dal 1921, con il tamponamento delle arcate, sede scolastica e quindi, tra i due conflitti mondiali, sede di mostre e del festival “Primavera cagliaritana”. Ristrutturata dopo i danni causati dai bombardamenti del 1943, ospitò gli Uffici del Ministero del Tesoro e fu rifugio per i senzatetto. Nel 1949 fu sede della prima Fiera Campionaria della Sardegna.

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Foto sardiniapost

amore per il buon cibo vincerà anche sul Covid. Lo pensa anche il Gambero Rosso, la più famosa guida enogastronomica italiana, che ha incoronato Cagliari come “città dell’anno”. Sì, perché nonostante la pandemia mondiale, la paralisi pressoché totale del turismo e la chiusura forzata di migliaia di ristoranti, nel capoluogo sardo batte ancora forte il cuore di un popolo che ama mangiare bene e lo fa in una città ricca di possibilità, incastonata tra cielo e mare. Tra tradizioni e innovazioni culinarie. “A tenere banco è il Mercato di San Benedetto spiegano i responsabili della guida - intorno al quale ruota tutta una serie di cuochi che in parte hanno nel cuore la tipicità, ma che non rinunciano all’alta cucina e alla sperimentazione”. A impressionare i palati esperti del “Gambero” è stata la grande varietà di offerte di qualità racchiuse in un centro così piccolo, che può vantare chef stellati e giovani artigiani della cucina. “Ma questo è nulla rispetto ai tanti piccoli progetti indipendenti (dai panifici ai laboratori di pasta fresca) - conclude la guida - che stanno facendo virare verso la qualità tutta l’offerta cittadina”. Luca Mascia unionesarda.it

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on il suo fascino a metà tra terra e mare, con il suo centro storico suggestivo, ampio e ben tenuto, con il suo attaccamento alle tradizioni… Cagliari ben si merita il titolo di città dell’anno. Nonostante la pandemia, qui c’è una istituzione che continua a tenere banco ed è il Mercato di San Benedetto intorno al quale ruota tutta una serie di cuochi che in parte hanno nel cuore la tipicità, ma che non rinunciano all’alta cucina e alla sperimentazione. Accanto a un nome di livello, come quello di Stefano Deidda al Corsaro, sono nati in questi mesi due altri progetti: il ristorante gourmet emanazione del Forte Village, Palazzo Doglio, con la cucina firmata da Alessandro Cocco; e l’Osteria Moderna dove ha iniziato a muovere i suoi passi in autonomia Alessio Signorino, sbarcato nell’isola dalle cucine dell’Enoteca Pinchiorri. Ma questo è nulla rispetto ai tanti piccoli progetti indipendenti (dai panifici ai laboratori di pasta fresca) che stanno facendo virare verso la qualità tutta l’offerta cittadina. https://www.gamberorosso.it/notizie/best-of-2020tutto-il-meglio-dellanno-secondo-il-gambero-rosso/


Città italiana dell’anno

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Foto storienapoli.it

omenico Fontana, uno degli architetti svizzeri più famosi al mondo, fu l’inconsapevole scopritore di Pompei ben 200 anni prima della scoperta ufficiale. Eppure è strano: le montagne innevate e lontane della Svizzera sembra che abbiano davvero poco in comune con il le dolci rive del Mar Tirreno. Non è assolutamente vero. Anzi, nonostante il loro splendido isolamento fra le montagne, gli svizzeri ebbero sempre grande interesse nel mare e proprio a Napoli ci fu una delle più ricche e vive colonie svizzere d’Europa, sin dal Rinascimento: un sodalizio fra popoli che unì il fiuto per gli affari degli imprenditori alpini alla ricchezza del Sud Italia. Se però i banchieri potentissimi, i fratelli Meuricoffre, affrontano l’oblio delle loro memorie con la silenziosa compostezza del popolo elvetico, lo stesso non accadde per Domenico Fontana, che lasciò in tutta la città testimonianze dei suoi lavori straordinari. Fontana nacque nella piccolissima Melide nel ‘500, un paesino di circa 500 abitanti nel Cantone Ticino, in tempi assai particolari: la Svizzera stava infatti affrontando la maggiore emigrazione di giovani nella sua Storia. Senza alcun futuro se non quello di modesti agricoltori, infatti, gli alpini si specializzarono nell’arte

DOMENICO FONT militare e dell’artigianato fino a diventare i soldati ed artigiani più bravi e famosi d’Europa, in un flusso migratorio che portò i mercenari e lavoratori svizzeri in ogni paese del Vecchio Continente. In questo contesto Domenico Fontana fu sin da giovane un grande amante della cultura e della Storia antica, sin da piccolo si diede agli studi dell’architettura e, come tanti suoi coetanei, a vent’anni partì verso l’Italia con il sogno di poter disegnare arte. E diventò architetto. Dalle rive del lago Ceresio passò quindi prima su quelle del Tevere e, dopo aver raccolto successi ed enormi fortune grazie ai suoi progetti (riuscì a progettare il macchinario capace di alzare il pesantissimo obelisco al centro di San Pietro! Alzò anche altri tre obelischi, destando stupore in tutta Europa per la sua abilità), trovò poi accoglienza sul Golfo di Napoli come architetto dei viceré. Inizialmente fu richiesta la sua perizia per lavori di idraulica, poi gli fu affidata la progettazione del Palazzo Reale. Era l’anno 1594 e Domenico Fontana non avrebbe più abbandonato Napoli. Proprio in quei tempi Muzio Tuttavilla, conte di Sarno, acquistò il feudo di Torre Annunziata per sfruttarne i terreni agricoli.


TANA E POMPEI Fu quindi ingaggiato proprio lo svizzero Domenico Fontana, ritenuto il massimo esperto di ingegneria idraulica, per costruire un acquedotto moderno che garantisse forniture d’acqua al nuovo feudo. Con una stretta di mano ed una paga assai lauta si strinse l’accordo ed i lavori cominciarono. Quando gli scavi cominciarono a toccare i terreni neri e cinerei dell’antica Pompei, però, cominciarono ad uscire dal terreno monete d’oro, lapidi ed iscrizioni in lingua latina su muri rossi che ospitavano mosaici e pavimenti di marmo perfettamente conservati: allo stesso Fontana furono notificati i ritrovamenti e, giunto fra gli scavi, cominciò a visionare di persona i reperti. Capì che qualcosa non tornava e, sotto i piedi, c’era qualcosa di davvero grosso. Non poteva nemmeno lontanamente immaginare che si trattasse di Pompei: in quanto all’epoca le conoscenze della città perduta non erano sufficienti. Come in una impossibile macchina del tempo, quelle mura rosse gli fecero apparire in mente le immagini studiate nei vecchi e rosicchiati libri delle biblioteche romane in cui aveva appreso l’arte dell’architettura. Quelle scritte, quelle mura, dovevano essere solo l’inizio di qualcosa di molto grande, immenso, troppo importante per essere distrutto come stava accadendo

https://www.treccani.it/enciclopedia/ domenico-fontana_%28Dizionario-Biografico%29/ https://www.progettostoriadellarte. it/2020/07/08/ storia-degli-studi-su-pompei/

a tutte le rovine romane di Napoli proprio in quegli anni, devastate per far spazio ai magnifici palazzi nobiliari del centro storico. Fontana decise di non indagare ulteriormente. Quella breve esperienza sotterranea era solo la punta di un iceberg che sarebbe stato scoperto ben 150 anni dopo dallo spagnolo Joaquin de Aucubierre, per conto di Re Carlo di Borbone. Ma anche il primo direttore degli scavi, inizialmente, prese un granchio: credeva di aver trovato le rovine di Stabiae. Il mondo, la società, i potenti del 1600 probabilmente non erano ancora pronti ad affrontare la magnificenza del popolo romano: Fontana decise quindi di sottrarre alla sua umana e breve vita la curiosità di scoprire cosa c’era sotto il terreno che stava cominciando ad esplorare. Altri, invece, sostengono che l’architetto svizzero sia semplicemente stato molto ignorante, cosa che lascia abbastanza perplessi considerando la levatura culturale del personaggio. Quel che è molto probabile è che, se quelle pietre antiche fossero state scoperte proprio in quegli anni, probabilmente sarebbero state in fretta smantellate per costruire ornamenti e gioielli che avrebbero arricchito le case delle ricche famiglie napoletane e vesuviane. (segue pagina 42)

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foto facebook nuraghe s’urachi

(segue dalla pagina 41) Fontana ordinò l’interruzione degli scavi e si recò a parlare personalmente con Don Tuttavilla, nella speranza di riuscire a convincerlo modificare il progetto dell’acquedotto, ma il nobile, non comprendendo le reali motivazioni di tale richiesta, credette che l’architetto fosse giunto lì solo per chiedere un aumento della paga: lo congedò dicendo di continuare il lavoro e di non importunarlo ulteriormente. Fu estremamente criticato dal committente per l’apparentemente inutile spreco di soldi, ma Fontana non rivelò mai la ragione delle sue scelte che apparvero insensate. Non ci sono documenti che attestano con certezza le ragioni dietro la scelta di Fontana di non continuare gli scavi. Fra le teorie presentate dai tanti studiosi, si pensa anche che per l’epoca disseppellire una città sepolta fosse un sacrilegio. Oppure, semplicemente, che l’architetto svizzero avesse preferito concludere il suo lavoro in modo pulito dato che costruire una struttura su un suolo ipoteticamente vuoto poteva compromettere la stabilità dell’acquedotto. E intanto, il giovane Domenico Fontana non immaginava di aver appena scoperto i primi reperti di Pompei. Il genio dell’architettura, inconsapevole, consegnò al futuro un antico dono con il dignitoso silenzio del popolo svizzero. Federico Quagliuolo

A

NURAGHE

lle porte di San Vero Milis e a pochi passi dal mare, si può ammirare uno dei più grandi complessi archeologici non solo della provincia di Oristano ma di tutta la Sardegna: il nuraghe S’Urachi. Oltre mille anni di storia sono racchiusi all’interno di questo importante sito nuragico, unico nel suo genere e ancora in fase di scavo e ricerche archeologiche. L’intera area si estende su un dosso ai margini dell’abitato, precisamente nella località Su Padru (“prato”), un’ampia zona destinata, sin dall’antichità, ad usi comunitari. Da qui sono visibili ben sette delle dieci torri che un tempo, costituivano le mura perimetrali. Le sue dimensioni e la sua posizione, in un territorio densamente popolato fin dall’età nuragica, fanno sì che il sito nuragico di S’Urachi, da sempre, sia stato considerato un punto di riferimento per le tante popolazioni che si sono stanziate tra il Sinis settentrionale e il Campidano Maggiore. Il nuraghe S’Urachi, di recente tra i “protagonisti” dell’ultimo numero di “Archeologia Viva”, il periodico bimestrale divulgazione archeologica, viene descritto come “un grandioso complesso nuragico insolitamente costruito in basso nella pianura alluvionale non lontano dal golfo di Oristano, le cui vicende in-


S’URACHI

sediative e architettoniche segnano oltre mille anni di storia della Sardegna”. S’Urachi è un nuraghe complesso e che, attualmente, rimane in gran parte interrato. Ciò che è visibile, messo in luce dalle recenti campagne di scavo, è buona parte della sua cinta muraria esterna che colpisce più per la sua estensione che per l’altezza delle murature superstiti. Il sito si compone oltre alle sette torri dell’antemurale – le altre tre sono ancora sepolte dall’ampia coltre di terra depositatasi nel tempo – al suo interno, anche di un corpo del nuraghe di cui però ancora non si conosce l’esatta planimetria. Si tratta di un polilobato, ovvero presenta una parte centrale, il “mastio”, e forse altre cinque torri di cui per ora solo due di queste sono visibili. Le ricerche e gli scavi archeologici avviati nel 1948 nel sito nuragico e ripresi con cadenza regolare dal 1979, continuano fino ad oggi. Le indagini per ora non hanno permesso di stabilire una datazione precisa per il complesso nuragico, si sa però che intorno al nuraghe si estendeva un villaggio. Si sa, inoltre, che l’area nuragica fu frequentata anche in età romana e furono costruiti degli edifici al di sopra dei resti interrati del nuraghe e una strada passava accanto all’antemurale.

Quest’ultima, ormai non più utilizzata, verrà a breve eliminata per render maggiormente visibili le torri esterne. “Il sito nuragico di S’Urachi”, racconta Alfonso Stiglitz, archeologo e direttore del Museo Civico di San Vero Milis, e condirettore scientifico degli scavi che interessano il sito archeologico, “è stato interessato da diverse campagne di scavi. La prima che portò alla luce le mura e le torri che racchiudono il nuraghe, fu eseguita nel 1948, a opera tra gli altri di Giovanni Lilliu, accademico dei Lincei. Interrotte per anni, le ricerche ripresero nel 1979 e continuano fino a oggi, anche se eseguite in modo discontinuo”. “Quest’anno”, aggiunge sempre Alfonso Stiglitz, “a causa dell’emergenza coronavirus, la campagna di scavi è saltata. Si sarebbe dovuta svolgere in due aree in particolare, esterne all’antemurale del nuraghe, dove gli archeologi si aspettavano di trovare interessanti contesti di età fenicia e punica”. Intorno al sito archeologico di S’Urachi ruota anche un progetto omonimo “Progetto S’Urachi”. Nasce tra il 2012 e il 2013, dall’incontro tra lo stesso Alfonso Stiglitz, e Peter van Dommelen, dell’americana Brown University, che già da anni scavava in Sardegna, nell’area di Terralba. (segue alla pagina 44)(se-

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foto facebook nuraghe s’urachi

gue dalla pagina 43) L’equipe internazionale del progetto S’Urachi si divide in due filoni: il primo riguarda la ricostruzione del paesaggio naturale e umano della comunità di S’Urachi, il tutto dilazionato nel tempo e nelle sue varie fasi. Il secondo filone, invece, studia il processo di incontro, unione e condivisione avvenuto tra comunità venute da fuori – fenicie – che si sono installate pian piano nel sito di S’Urachi, e hanno interagito con la comunità preesistente. Tra i ritrovamenti più interessanti legati al nuraghe, oltre al famoso torciere bronzeo di tipo cipriota, databile tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. ed esposto oggi al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, dati interessanti arrivano da alcuni scavi fatti nel 2005 riguardanti la base, nel fossato davanti all’antemurale, forse utilizzato come deposito o per riti votivi. Qui sono state ritrovate delle ossa di pollo, una delle più antiche attestazioni (VII sec. A. C.) in Sardegna e in Italia. La leggenda di Sa musca maghedda. Attorno al sito di S’Urachi si legano anche tante leggende e racconti tipici della tradizione popolare sarda. Tra questi, quella più narrata, probabilmente dagli anziani per intrattenere i bambini – i classici con-

tus de forredda o contus de foghile detti davanti al focolare domestico – è quello di sa musca maghedda. Si narra infatti che all’interno del nuraghe S’Urachi fosse sepolto un tesoro ma che questo fosse protetto da pericolose mosche pronte ad aggredire chiunque ci si avvicinasse. “Un detto”, racconta l’assessore comunale di San Vero Milis, Cristina Cimino, “forse nato a seguito delle tante pietre del sito nuragico che venivano prese in passato e spostate via per costruire parte di quello che sarebbe stato poi il nostro paese”. C’è anche una seconda versione di questa leggenda raccontata dall’archeologo Alfonso Stiglitz: l’esistenza all’interno del nuraghe di due forzieri, uno con dentro tesori e un secondo con dentro queste terribili mosche e quindi la possibilità, fatale o meno, di chi si addentrava dentro il nuraghe ad aprire il forziere “sbagliato” e rischiare così la vita. Porta di ingresso all’antemurale di S’Urachi – Foto Alfonso Stiglitz Alla scoperta del sito nuragico di S’Urachi. L’intera area la si può conoscere durante le campagne di scavi, di solito nei mesi estivi, oppure visitando il Museo Civico di San Vero Milis, strettamente connesso con gli scavi e che si trova nel centro abitato del comune.


Il museo, infatti, oltre a essere uno spazio espositivo è anche uno spazio di ricerca. Le vetrine espositive verranno “informatizzate”: il nuovo progetto, ancora in fase di allestimento, permetterà al visitatore non solo di ammirare fisicamente i reperti finora ritrovati a S’Urachi ma darà modo, tramite pannelli touch screen, di contestualizzare i reperti storici in una visita più completa. Un altro modo per valorizzare e raccontare il sito nuraghico di S’Urachi è anche quello di connetterlo alla musica e all’arte. Il comune di San Vero Milis lo fa con una rassegna estiva, intitolata “Altrimari” ,e che prevede suggestivi concerti notturni al nuraghe S’Urachi, alternando un programma di conferenze e visite guidate volte alla promozione identitaria e storica del sito. Quest’anno ad esempio, il tema per il concerto era “I suoni del cinema”, le composizioni di Morricone, Williams, Piovani e Rota tratte dalle colonne sonore di capolavori del grande schermo suonate ai piedi del nuraghe. D’interesse turistico e culturale, sempre volto alla promozione del territorio, anche l’appuntamento imperdibile di fine estate a San Vero Milis, con la manifestazione Intrecci Sanveresi: una rassegna di promozione dell’artigianato tipico sanverese, che ha come

obiettivo quello di dare una nuova luce all’artigianato locale. Durante la manifestazione viene infatti riproposto l’antico corredo della sposa per la panificazione. Is crobis, is canisteddas e i chibirus, ma anche i buttiglias vengono confezionati dalle abili mani di alcune donne del paese che mantengono in vita la tradizione dell’intreccio di giunco, cipero e paglia. Simile negli intenti anche la manifestazione “Artigianato in riva al mare” che si tiene solitamente per tutto il periodo estivo fino a ottobre nella borgata marina di Su Pallosu, di San Vero Milis. Dove un tempo si preparavano immersioni per la pesca di corallo e pesce, per tutta l’estate si possono ammirare veri e proprio capolavori dell’artigianato sardo: cesti, nasse, maschere, ceramiche, quadri e tanti altri oggetti, tutti realizzati a mano. L’esposizione viene organizzata annualmente nella centralissima via Ziu Triagus 14 di Su Pallosu, dall’associazione culturale “Amici di Su Pallosu”. Il territorio di San Vero Milis offre diversi luoghi di interesse da visitare. Restando in ambito archeologico, di grande interesse è l’area di Serra Is araus, un sito archeologico caratterizzato dalla presenza di una necropoli prenuragica. (segue p.46)

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foto Göbekli Tepe il manifesto.it Göbekli Tepe

(segue dalla pagina 45) Qui sono state ritrovate due gruppi di domus de janas, distanti da loro circa 60 metri l’una dall’altra; un insediamento di fase nuragica e due nuraghi, Priogu e Serra is Araus. La zona si trova nel Sinis settentrionale a poche centinaia di metri della strada provinciale che da San Vero Milis porta poi alla marina di Putzu Idu. La collina appare come una sorta di isola nella campagna circostante. La necropoli di Serra Is araus è molto importante perché è dagli scavi effettuati nelle sue tombe che venne identificata, per la prima volta in Sardegna, la corretta sequenza delle fasi culturali comprese tra il neolitico recente e la prima età del Bronzo. La zona di San Vero Milis è inoltre ricca di zone umide, come Sa ‘e proccus, uno stagno temporaneo tra i più estesi dell’intera Sardegna. Ben 325 ettari di superficie. Nei mesi estivi e autunnali, per l’assenza delle piogge e per l’evaporazione naturale, lo specchio d’acqua si trasforma in una immensa salina, meta ogni anno di numerosi visitatori. La presenza di specie particolarmente tutelate ne fanno uno dei punti di osservazione più importanti del Mediterraneo. Particolarmente importante è la sosta di migliaia di fenicotteri. www.linkoristano.it/

“E

ra dunque già la Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome». Così Machiavelli sulla fine della civiltà etrusca, scomparsa nel nulla da cui era venuta. Negli stessi anni in cui Machiavelli faceva la spola tra Firenze e la corte papale di Roma e stava ancora lavorando a quei Discorsi su Livio che non avrebbe mai pubblicato in vita, un altro uomo rifletteva sullo stesso problema: perché delle civiltà, nel suo caso quelle dell’Africa, spariscono senza lasciare traccia? «Non è da dubitar – questa la sua risposta – che quando i Romani, che fur loro nimici, dominarono quei luoghi essi, come è costume dei vincitori e per maggior loro disprezzo, levassero tutti i loro titoli e le lor lettere e vi mettessero i loro, per levar insieme con la dignità degli africani ogni memoria e sola vi rimanesse quella del romano popolo». Quell’uomo era, come Machiavelli, un diplomatico, non però della Repubblica fiorentina, ma del sultano wattaside del Marocco. Il suo nome era al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi, ma da quando dei pirati cristiani lo avevano


catturato e offerto in regalo a papa Leone X, aveva preso il nome del suo nuovo padrone e padrino di battesimo. Non sappiamo se Leone l’Africano e Machiavelli, che frequentarono gli stessi ambienti negli stessi anni e avevano molte conoscenze in comune (come il grande Paolo Giovio), si siano mai parlati; né se il primo abbia intercettato il manoscritto dei Discorsi e il secondo quello della Descrittione dell’Africa. Di sicuro, avrebbero entrambi letto con curiosità un libro come questo del linguista tedesco Harald Haarmann, Culture dimenticate Venticinque sentieri smarriti dell’umanità (Bollati Boringhieri, pp. 290, e 22,00). Culture dimenticate non è una versione riveduta e corretta del vecchio e ristampatissimo Civiltà sepolte di Ceram, quel «romanzo dell’archeologia» che raccontava le straordinarie scoperte di Troia e della Valle dei Re, di Pompei e Tenochtitlan. Mentre infatti le civiltà raccontate da Ceram, una volta riportate alla luce, erano piano piano divenute patrimonio comune, quelle descritte da Haarmann non sono mai entrate nella nostra memoria culturale, nemmeno nel caso di civiltà ancora oggi in vita. Molti di noi hanno sentito nominare la regina di Saba, o i moai dell’Isola di Pasqua (capitoli 19-20), ma chi

CULTURE DIMENTICATE ISBN 9788833934723 Autore HARALD HAARMANN Temi STORIA Anno 2020 22,00 Euro FormatoCartonato https://www.bollatiboringhieri.it/

sapeva dell’esistenza dei chachapoyas (cap. 17), peruviani biondi e con gli occhi azzurri, che stupirono già i conquistadores per quei tratti somatici così familiari e frutto della loro discendenza da popolazioni europee (forse celtiche) arrivate in Sudamerica molto prima degli spagnoli? E, ora che siamo al corrente della loro esistenza, come e dove inseriamo questi gringuitos – come li chiamano spregiativamente i peruviani – nella storia delle civiltà? Combinando archeologia e linguistica, antropologia e genetica, Haarmann ci aiuta a rispondere a queste domande, accompagnandoci in un percorso lungo più di trecentomila anni, segnato da venticinque culture cancellate dalla storia. Dieci pagine per civiltà: poco, anche per gli amanti delle sintesi stringate, ma tutto spiegato con fiuto per i dettagli veramente rivelatòri di ognuno di questi piccoli mondi. Culture dimenticate è una lettura salutare per gli studiosi di qualunque periodo storico, perché ci mostra come la necessità di adottare un approccio meno eurocentrico e lineare non valga solo per i periodi più vicini a noi, come la storia della prima età moderna, ormai vista non più come la marcia trionfale dell’Europa, bensì come momento di confronto paritario con imperi che avrebbero capitolato sì, (segue p. 48)

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foto europa antica einaudi

(segue dalla pagina 47) ma solo tre secoli dopo, con la Rivoluzione industriale. Ecco, lo stesso vale anche per la preistoria: «Le storie d’Europa o del mondo partono spesso dall’Egitto e dalla Mesopotamia, perché da lì provengono invenzioni importanti come lo stato e la scrittura. Il minuscolo Israele non viene mai omesso perché vi si fondano le radici della cristianità europea, e anche alla piccola Grecia viene dedicato ampio spazio per via della democrazia, della filosofia e del teatro». Isolare queste, e non altre, radici della nostra storia comune ha avuto però ragioni e conseguenze ben precise: le nostre società, organizzate secondo una più o meno rigida gerarchia di ruoli e generi, inquadrate in stati-nazione, burocratici ma caratterizzati da un più o meno marcato pluralismo democratico, sono il frutto di quel passato lì, e non di altri. Come ogni buon libro di storia, quello di Haarmann parla insomma anche, se non soprattutto, dell’uomo presente, perfino quando, come nel primo capitolo, il discorso è sull’Homo heidelbergensis, una delle tre specie che vivevano in Europa prima dell’arrivo del sapiens. Nel 1994 vennero ritrovate alcune lance appartenenti a individui di quella specie (a tutti gli

Europa antica. Dagli inizi dell’agricoltura all’antichità classica Stuart Piggott Traduttore: A. Bechelloni Editore: Einaudi Anno edizione: 1976 € 30,00 Venduto e spedito da STUDIO BIBLIOGRAFICO MARINI

effetti le più antiche armi da caccia mai rinvenute). Queste lance erano posizionate non in un luogo casuale, come dimenticate, ma accanto a dei crani di cavallo molto probabilmente sacrificati ritualmente. «In questo modo – commenta Haarmann – gli inizi della religiosità si spostano molto indietro nella storia dell’evoluzione, molto prima della nostra specie». Una rivincita di Vico su Darwin? Di certo un notevole spostamento all’indietro delle prime tracce di contatto con il soprannaturale, anche quando il sentimento religioso si estrinseca nei primi templi: non quelli urbani della Mesopotamia e dell’Egitto, ma quelli – risalenti al decimo millennio avanti Cristo – rinvenuti nel sito mesolitico di Göbekli Tepe, in Anatolia (cap. 4).Le culture dimenticate di Haarmann non riservano però piacevoli sorprese solo agli assetati di sacro, ma anche a chi crede in una società più egualitaria nell’aldiquà. È il caso della cosiddetta civiltà danubiana (o «Europa antica»), scoperta negli anni settanta dell’Ottocento dalla baronessa ungherese Zsófia Torma (a cui nessuno all’epoca diede il minimo credito, se non un altro dilettante di genio come un certo Heinrich Schliemann), e da un’altra donna, l’archeologa lituana Maria Gimbutas, portata all’attenzione dei colleghi. Con l’Europa antica – una civiltà di alto livello economico e culturale, sviluppatasi tra il VI e il III millennio


S

a.C. – ci troviamo di fronte non a una società patriarcale e neanche matriarcale (come pure ce ne furono), bensì a una in cui «i rapporti di genere erano bilanciati» e che «ci regala un sapere molto importante: è possibile raggiungere alti standard socioeconomici e tecnologici, anche se la società non è organizzata in maniera gerarchica». Perché, allora, continuiamo a considerare i modelli di civiltà del Vicino Oriente e dell’antico Egitto come la via maestra che ha portato alle società complesse che conosciamo e in cui viviamo? Può darsi che il motivo sia – seppure nella forma più dolce della rimozione che in quella violenta della distruzione – lo stesso che ha portato il leader dei salafiti del Bahrain a cementare le rovine di Dilmun, una metropoli cosmopolitica nel Golfo Persico del III millennio a.C., per costruirvi squallide case per famiglie di probi musulmani (cap. 10); oppure lo stesso motivo che ha spinto i funzionari (e gli archeologi) cinesi a occultare il ritrovamento di mummie dai capelli biondi nello Xinjiang per frenarne la riappropriazione ideologica da parte degli uighuri (cap. 10). Il libro di Harald Haarmann ci invita a mettere in discussione questa rimozione e a immaginare un futuro diverso per il nostro passato, e quindi anche per il nostro presente. Lucio Biasiori ilmanifesto.it

eduto sul tavolo del locale Sabìr, tra un narghilè ed un tè Turco e la piacevole lettura di un interessante saggio di Roberto Sottile e Francesco Scaglione, in questo luogo ideale di incontro tra vari popoli, ho avuto l’ispirazione per la stesura di questo breve articolo su una lingua utilizzata molti secoli fa dai popoli del Mediterraneo per potersi incontrare e comprendersi. Molti studiosi del passato consideravano come periodo di nascita del nuovo idioma quello delle crociate, cioè come una lingua di origine “Franca” che potesse essere “comune” per permettere il commercio tra le varie etnie in maniera semplice e veloce, ma in realtà non fu così sia sotto il profilo storico che linguistico. In verità la prima fase della lingua Sabìr nasce da una serie di contatti convenzionali tra i popoli europei ed arabi nel medioevo sollecitata dalla presenza di commercianti, marinai, pirati, fortezze europee nel maghreb e gruppi di europei stabilizzatisi in quei territori che importarono una forte presenza di lingue Romanze (Italiana e Spagnola in particolar modo) e che si stabilizzò, (segue pagina 50)

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(segue dalla pagina 49) come codice convenzionale, intorno XVI° secolo per sopravvivere, con dei cambiamenti dovuti alla dominazione Francese nelle zone berbere, sino al XIX° secolo. A conferma di quanto precedentemente scritto, in riferimento alla presenza Spagnola, a cavallo tra il XVI° e XVII° secolo, vi è una forte presenza Iberica nella lingua Sabìr dovuta ai moriscos cacciati dai territori andalusi durante la Reconquista intorno al 1492 e che importarono nelle zone del maghreb lo Spagnolo, che conoscevano abbastanza bene, influenzato notevolmente dalla loro lingua d’origine. Inoltre, la conquista Spagnola di Oran nel 1509 e altre città della costa Algerina e la presenza di gruppi di interesse economico e politico di origine Iberica a Tunisi ed Algeri, sicuramente favorirono il diffondersi di questo nuovo tipo di comunicazione soprattutto per i loro interessi. Ed a proposito di Spagnoli e del Sabìr, il saggio riporta una notizia interessante e che coinvolge direttamente la Città di Palermo poiché nell’opera “Topographia e historia general de Argel” del 1621 un certo fraticello Diego de Haedo, nel Capitolo XXIX, sulla base dei resoconti

La storia della creazione di una lingua, ormai persa ma recuperabile, e unica nel suo genere in grado di unire il Mediterraneo: «Avutru ca Inglese! Se ti Sabìr…»

Gianluca Pipitò https://www.balarm. it/news/quando-il-mediterraneo-parlava-una-sola-lingua-all-infinito-se-ti-sabir-ti-rispondir

raccolti dall’Arcivescovo di Palermo suo omonimo e parente, riportò la presenza ad Algeri di un terzo idioma oltre il Turco ed il Moresco: il Sabìr! Fatto molto importante che conferma quanto già detto precedentemente sulla diffusione di questo idioma con una forte impronta Spagnola, differente da quella Tunisina, e che ci fa capire le alterazioni e differenziazioni tra le varie zone del nord africa. Pertanto, la nascita e lo sviluppo del primo Sabìr, nelle sue varie sfaccettature, è dovuta soprattutto per una esigenza di tipo commerciale e diplomatica, essendo il Mediterraneo il fulcro principale del commercio e luogo di incontro e sincretizzazione delle varie realtà culturali e religiose di questo bacino, ma anche per riconciliare chi è nato al di fuori del maghreb e reintegrarlo nella società di origine. Ma da dove proviene la dicitura Sabìr? Talmente era usuale e conosciuta questa lingua interculturale che anche i grandi letterati, romanzieri e commediografi del passato conoscevano il Sabìr e ne diedero testimonianza come fece Molièr nel suo “Le Bourgeois Gentilhomme” in cui fece cantare dal personaggio del Mufti: «Se ti Sabìr, ti rispondir, se no Sabìr, tazir, tazir».


Questa mistura di vari idiomi venne sin da subito conosciuto con il termine Sabìr che, come specificato nel saggio, era considerata come una lingua “povera” che ha come aspetto fondamentale l’utilizzo quasi caricaturale e caratterizzante dell’uso dell’infinito, pertanto, le si dava quasi una indicazione denigratoria ma che in realtà ebbe un notevole sviluppo e diede l’impulso alle diverse genti del bacino del Mediterraneo di tessere una rete commerciale vasta ed importante. Come è evidente nella prima fase del Sabìr come base della lingua è presente soprattutto l’Italiano, all’epoca molto conosciuta ed utilizzata nel Mediterraneo, con delle contaminazioni provenienti da altre lingue e dialetti del posto come lo Spagnolo, l’Arabo, il Berbero, il Turco, il Siciliano, ecc... mentre la seconda fase del Sabìr è influenzata dalla lingua Francese, dovuta alle colonizzazioni del XIX° Secolo. Il professore Cifoletti, come evidenziato nel saggio, riporta una indicazione ben precisa per la diffusione del Sabìr identificandola come lingua franca barbaresca poiché nel tempo si stabilizza e si sedimenta in alcune aree geografiche ben precise come Algeri, Tunisi e Tripoli; una definizione molto interessante, so-

prattutto per noi siciliani, visto il nostro legame con il Nord Africa, cioè in quelle zone (soprattutto Tunisi) da dove partì la dominazione Araba in Sicilia e che dopo diede l’inizio dello stile Berbero - Normanno. Quindi, per concludere questo articolo, immaginate un commerciante Veneziano ma cittadino Palermitano e un marinaio della Kalsa di Palermo che si imbarcano insieme per raggiungere il Nord Africa, uno per concludere transazioni commerciali e l’altro alla ricerca di lavoro. Il commerciante un po’ erudito ed il marinaio ignorante ma entrambi capaci di discutere tranquillamente con un moriscos, con un arabo o con un turco creando, di fatto, legami di amicizia, rispetto e armonia in un periodo turbolento ma stimolante per la creazione di una lingua, ormai persa ma recuperabile e proponibile, ma unica nel suo genere in grado di unire il Mediterraneo: «avutru ca Inglese! Se ti Sabìr…». Gianluca Pipitò https://www.research g a t e. n et /p u b lication/326466005_Tanti_popoli_una_lingua_ comune_Aspetti_socio-linguistici_della_ lingua_franca_del_Mediterraneo

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