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SARDONIA Ventisettesimo Anno / Vingt Septième Annèe
Giugno 2020/Juin 2020
Mauro Manca Artisti a Rischio / Sergio Risaliti Mimmo di Caterino / Barbara Ardau Bistrot 100 Gastronomia Romana Antica MACC Calasetta Nicolò Bruno Finirla con Marcel Duchamp Sigismondo Arquer Storia di Sardegna e Spagna Aurelio Demontis Artista Laura Cattigno Settantanove Saddi Giulia Capsula Casula Roby Anedda in Cina Solidarietà in tempi di pandemia Teogonia Esiodo Patrizia Mureddu Mattia Berto L’ora d’aria Costantino Nivola La Pecora Nera di Arbus
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Cagliari Je T’aime Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche nella città di Cagliari a cura di Marie-Amélie Anquetil Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue “Ici, Là bas et Ailleurs” Espace d’exposition Centre d’Art Ici, là bas et ailleurs 98 avenue de la République 93300 Aubervilliers marieamelieanquetil@gmail. com https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs Vittorio E. Pisu Fondateur et Président des associations SARDONIA France SARDONIA Italia créée en 1993 domiciliée c/o UNISVERS Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari vittorio.e.pisu@email.it http://www.facebook.com/ sardonia italia https://vimeo.com/groups/ sardonia https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime SARDONIA Pubblicazione dell’associazione omonima Direttore della Pubblicazione Vittorio E. Pisu Maquette, Conception Graphique et Mise en Page L’Expérience du Futur une production UNISVERS Commission Paritaire ISSN en cours Diffusion digitale
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uotidianamente occupati a seguire le diverse versioni che il presidente (sic) della Regione Autonoma di Sardegna distribuisce sulle eventuali misure che intende adottare rispetto ai visitatori estivi dell’isola, senza contare il contro canto del sindaco di Milano che ci spiega che sono stati loro (i Lumbard) ad avere inventato il turismo in Sardegna (anche se credo che confonda con l’opera di Giuseppe Verdi sul libretto di Temistocle Solera), ci siamo dimemnticati alcune evidenze, per esempio il fatto che la Sardegna da duemila anni é un penitenziario e già dall’epoca romana i funzionari incapaci, inefficaci o importuni venivano mandati nell’Isola come capita ancora oggi con lo Stato Italiano. Per di più la malaria non fu debellata che negli anni cinquanta quindi non si trattava proprio di una meta ambita. A parte Alghero, lanciata dagli Inglesi, che inventarono il turismo alla fine del 900, fuggendo l’uggioso inverno londinese i ricchi aristocratici e borghesi investirono la Cote d’Azur, dove fino alla seconda guerra mondiale gli alberghi erano chiusi d’estate, faceva troppo caldo. Bisognerà aspettare Coco Chanel perché l’abbronzatura diventi chic e non riservata ai manorba ed altri agricoltori. Negli anni cinquanta una società italobelga alla ricerca di uno spot velico nel Mediterraneo incomincio ad acquistare terreni sulla Costa Smeralda dove non c’era assolutamente niente, neanche l’acqua. Intelligentemente impiegarono Karim Aga Khan come homme sandwich per attirare i ricchi proprietari di velieri di più di 60 metri. Oggi il Qatar si rende conto di essersi fatto rifilare un bel bidone ma questo é un’altra storia. A parte la pagliacciata degli alberghi ESIT gestiti come al solito dai più incapaci che non mancano tra il personale politico, solo alla fine degli anni sessanta la popolazione locale incominciò a frequentare le spiagge a parte qualche eccezione come il Poetto o Stintino. Negli anni settanta il turismo di massa, favorito dal basso prezzo dei voli aerei ed altre facilità, dilagò trasformando piano piano anche i più ambiti paradisi in depositi di plastica. Alcuni pensano che il pane della Sardegna sia il turismo, quando questa attività non corrisponde al massimo che al 7% del PIL regionale, anche considerando l’indotto siamo lontani da vederla come l’attività principale, senza contare che la Sardegna rimane una delle mete turistiche più care nel Mediterraneo. Sembra che la stagione 2020 sia compromessa e forse anche quella del 2021, forse questa é un’occasione per rivedere il modo di funzionare, primo fra tutti quello dei trasporti sia navali che aerei, senza parlare di quelle che sono le risorse alimentari proprie che bisogna assolutamente ridimensionare e smettere di importare pomodori e carne da altri paesi. Rimane nonostante tutto l’Arte e la Sardegna é capace di avere e di aver avuto non solo artisti insigni ma anche iniziative culturali ed artistiche eccellenti, forse bisogna ripartire anche dal patrimonio archeologico, uno dei più importanti al mondo ed invece di negare la nostra storia, appropiarcene. Spero che questo numero di Sardonia vi sia d’aiuto. V. E.Pisu
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MAURO MANCA M
auro Manca, nacque il 23 dic. 1913 da Luigi e Antonietta Dessena a Cagliari, dove il padre, proveniente da un’agiata famiglia sassarese, era magistrato militare. Dopo un soggiorno a Venezia la famiglia si stabilì a Sassari, dove il M. frequentò il liceo classico. Si iscrisse poi alla facoltà di medicina, che subito dopo lasciò per giurisprudenza, conseguendo la laurea nel 1937. A partire dal 1934 frequentò - seppure sporadicamente - la scuola comunale di incisione diretta da Stanis Dessy e, dall’anno successivo, i corsi serali di nudo della R. Scuola d’arte. Espose alle mostre sindacali del 1934 e del 1935; nel 1936 partecipò ai Littoriali di Venezia e alla I Mostra del Movimento d’arte moderna mediterranea, suscitando l’interesse della critica, e particolarmente di Eugenio Tavolara. Trasferitosi a Roma con la madre e la sorella Lina nel 1938, entrò subito in contatto con l’ambiente artistico romano, frequentando soprattutto lo studio di Gino Severini e stringendo relazioni con Giuseppe Capogrossi ed Emanuele Cavalli. I molteplici interessi e stimoli determinarono una certa erraticità dei risultati, orientati talvolta verso esiti metafisici o anche verso l’avanguardia espressionista:
le prove di questo periodo, selezionate ed esposte ai prelittoriali dal 1939 al 1941, mostrano debiti soprattutto nei confronti di C. Cagli, ma anche di Severini e M. Sironi. Richiamato in Sardegna per il servizio militare, rinsaldò i legami con Tavolara e con altri esponenti della vita intellettuale sassarese, tra i quali Giuseppe Biasi e Giuseppe Dessì. Verso la fine del 1942 il M. tenne una personale al dopolavoro Aldo Solinas nella quale espose numerose opere, tutte chiaramente memori dell’esperienza espressionistico-tonalista della prima Scuola romana. Nel 1943-44 insegnò storia dell’arte presso il liceo Canopoleno e l’istituto d’arte di Sassari e allestì una seconda personale (giugno 1944) alla galleria L’acquario: le posizioni assunte dal M., e in particolar modo il suo esplicito rifiuto di riconoscere i valori di una pretesa scuola regionale innescarono una polemica con l’ambiente artistico cittadino e in particolare con il pittore Pietro Antonio Manca; benché eletto nel luglio membro del consiglio del nuovo Sindacato artisti, maturò comunque la decisione di rientrare a Roma, dove erano rimaste la madre e la sorella. L’8 sett. 1946 sposò Francesca Binna, figlia di un noto avvocato sassarese, conosciuta già molti anni addietro:(segue p 4)
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(segue dalla pagina 3) dall’unione nacquero Luigi, Giuseppe e Giovanni. Stabilitosi con la famiglia a Roma, dove aveva ottenuto, grazie all’intervento del suocero, un impiego presso il ministero della Guerra, riallacciò i rapporti con Capogrossi, S. Monachesi e A. Corpora e iniziò un periodo di studio sulla pittura tra postimpressionismo e fauvisme, maturando un’attenta riflessione su P. Picasso, P. Bonnard, A. Derain e H. Matisse. La prima esposizione romana (galleria Il cortile, giugno 1946, presentazione di A. Trombadori) era tuttavia ancora incentrata sulle opere dei tre anni precedenti; e la critica, pur apprezzandone le capacità figurative, ne rimarcò l’inattualità e l’estraneità al dibattito culturale corrente, teso invece a sottolineare l’urgenza di un’arte di tema sociale. Sostanzialmente sordo a tali sollecitazioni, il M., pur non aggiornando il proprio repertorio iconografico (i modelli restarono soprattutto le nature morte e le figure femminili), si avvicinò allo stile neocubista, anche sulla scorta dell’impressione suscitata dalla mostra “Pittura francese d’oggi”, tenutasi alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma alla fine del 1946. Gli esiti di questa riflessione sfociarono nella personale tenuta alla Galleria di Roma (marzo 1947, presentazione di
M. Venturoli), replicata presso la galleria L’acquario di Sassari. In risposta al celebre articolo di Palmiro Togliatti sul realismo in arte, nel dicembre 1946 il Manca aveva firmato (con A. Vangelli, G. Stradone, Monachesi e R. Vespignani) l’antimanifesto della Giovane pittura italiana, in cui si rivendicavano più ampi spazi per la ricerca artistica contro le forzature ideologiche del dibattito. Il Manca infatti, seppur politicamente orientato a sinistra, rifiutò ogni appartenenza schierata, e la sua espressione artistica oscillò ancora a lungo fra modi e tematiche neocubisti e approdi più compiutamente astratti, secondo un percorso sperimentato negli stessi anni - seppure con esiti differenti - da Giulio Turcato. Lasciato l’impiego presso il ministero per dedicarsi esclusivamente alla pittura, ottenne nel dicembre del 1947 il premio della Fondazione Umiastowska alla II Mostra annuale dell’Art Club presso la Galleria di Roma. Nel 1948 partecipò alla V Quadriennale di Roma, dove due suoi dipinti furono esposti nella sala XII, unitamente alle opere di R. Guttuso e di altri neocubisti. Esemplare di questa fase di passaggio è il raffronto tra Natura morta con fichi (1947: Università di Cagliari, Collezione Piloni), nella quale le linee di scomposi-
zione e compenetrazione definiscono comunque ancora in modo chiaro la struttura della figurazione e dei campi di colore e Insetti nel bosco (1948: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), dove invece si fa evidente la riduzione dell’impianto neocubista a struttura puramente cromatica e in cui ai riferimenti di matrice surrealista si affianca una ricerca sul colore già di tipo materico. La varietà degli orientamenti della ricerca del M. e l’eclettismo degli esiti permasero nelle successive esposizioni e nelle opere che presentò a numerose collettive in Italia e all’estero, prevalentemente nell’ambito delle iniziative promosse dall’Art Club. Prese inoltre parte, nell’estate del 1949, alla Mostra d’arte moderna della Sardegna, organizzata a Venezia presso l’Opera Bevilacqua La Masa, e alla sua riedizione dell’anno successivo presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma; partecipò inoltre a diversi premi in ambito nazionale (vinse, fra l’altro, il premio Sassari del 1950), e lavorò anche come grafico (affiches per le mostre regionali dell’artigianato, tavole per le riviste di turismo Vita italiana e Italy, realizzazione dell’agenda illustrata dell’Ente nazionale italiano per il turismo), vignettista (per il periodico Il Pensiero nazionale) e finanche scenografo, nel 1952, per la produzione del film La maschera nera.
Assunto nel febbraio 1952 come operaio permanente presso la Galleria Borghese, collaborò (sotto la direzione di Paola Della Pergola) al riallestimento della collezione e svolse attività di restauratore; nello stesso anno assunse inoltre la direzione artistica della galleria L’Aureliana, al n. 29 di via Sardegna. Amico dell’architetto Ernesto Maria Rossi, progettò con questo la decorazione interna della Camera di commercio di Treviso (opera poi non realizzata); e insieme i due artisti curarono l’edizione della rivista “Inchieste di urbanistica e di architettura”, programmaticamente attenta allo sviluppo dei rapporti tra architettura e arti figurative. A partire dal 1954, anche sotto l’impressione prodotta dalle esposizioni dedicate a P. Picasso tenutesi a Roma e a Milano l’anno precedente, il M. passò dalla sperimentazione astrattista degli anni precedenti a una figurazione stilizzata e ispirata, sia nelle forme sia nei contenuti, alla mitologia mediterranea preclassica, in cui gli spunti vengono tratti dalla mitografia minoica (riletta talvolta alla luce di M. Campigli) e, successivamente e con maggior peso, dall’arte nuragica. Gli esiti di questa fase, in cui le immagini tendono vieppiù a ridursi a cifre essenziali e archetipe, (segue pagina 6)
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(segue dalla pagina 5) furono presentati nel 1955 a L’Aureliana; e lo scarso riscontro critico evidenziò l’eccentricità del Manca rispetto al panorama contemporaneo, ormai focalizzato su un’avanguardia compiutamente astratta e già impegnata nelle prime esperienze informali. Nel 1955 ricevette dall’amico Tavolara, impegnato con l’architetto Ubaldo Badas nella riorganizzazione dell’artigianato sardo che sfocerà nella creazione dell’ISOLA (Istituto sardo organizzazione lavoro artigiano), l’incarico di progettare (per conto dell’ENAPI (Ente nazionale artigianato e piccole industrie) gioielli e tappeti, che verranno poi eseguiti dall’orafo sassarese R. Deliperi e dalla manifattura di Emilia Musio Vismara di Dorgali. I rapporti con la terra d’origine si facevano sempre più stretti: insieme con Tavolara elaborò un progetto di istituzione di un Ufficio autonomo per le belle arti in Sardegna che non venne però accolto. Il Manca nel medesimo periodo suggerì a Fernanda Wittgens, organizzatrice della Triennale di Milano delle arti decorative, l’idea di allestire all’interno della rassegna del 1957 una mostra dell’artigianato sardo, che riscosse un buon successo. Partecipò quindi alla prima Biennale di Nuoro, aggiudicandosi il primo
premio con l’opera astratta “L’ombra del mare sulla collina” (Nuoro, Museo d’arte della Provincia di Nuoro): l’assegnazione del premio a un’opera di netta rottura con la tradizione artistica isolana suscitò interminabili polemiche tra i critici; mentre la reazione del pubblico fu di perplessità, se non di vero e proprio rifiuto. Il dibattito scaturito, coerente in fondo con quanto avveniva in ambito nazionale intorno al corso filoastrattista impresso da Palma Bucarelli all’attività della Galleria nazionale d’arte moderna, indusse il M. a chiarire la propria posizione: nell’articolo Storicità dell’astrattismo (pubblicato in Inchieste di urbanistica e di architettura, novembre-dicembre 1957, pp. 135 s.) egli rivendicava il valore semantico dell’arte astratta e la sua capacità di sondare, per il tramite di materia e forma, le profondità enigmatiche del reale. In aderenza a questa posizione si sviluppò il lavoro successivo, a partire dalle opere esposte alla rassegna “Nuove tendenze dell’arte italiana”, organizzata da Lionello Venturi alla Rome-New York Art Foundation. La svolta verso l’informale fu poi ribadita nella personale tenuta nel maggio del 1959 alla galleria Selecta di Carlo Cardazzo: le opere esposte si liberano dalle architetture segniche e cromatiche e la materia
rimane protagonista, mostrata, più che nella sua fisicità, nel suo divenire metamorfico, nella sua capacità di disgregarsi per ricostituirsi in nuovi corpi (Modificazioni del reale, 1959: collezione della Provincia di Sassari). Si tratta dell’ultima mostra romana, seguita subito dopo dall’aggiudicazione del premio Michetti; quindi il M. si trasferì a Sassari, dopo aver ottenuto la direzione dell’Istituto d’arte della città, incarico per il quale aveva concorso l’anno precedente. Il M. si concentrò sull’attività didattica, con l’obiettivo di modernizzare l’indirizzo pedagogico dell’Istituto d’arte, favorendo il comparto delle arti applicate e attivando un’organica collaborazione con l’ISOLA. Il M. riteneva che si potesse orientare la produzione artistica artigiana da un ambito di derivazione popolare a quello del design, e in tal senso curò e promosse, specie nei settori orafo e tessile, la realizzazione di manufatti innovativi, dal disegno anche estraneo alla tradizione regionale. Promotore dell’avanguardia artistica in Sardegna, il M. richiamò intorno a sé, inserendoli nel corpo docente della scuola, i più promettenti giovani artisti sardi, divulgandone l’attività attraverso la fondazione e il sostegno di due gallerie, ambedue denominate “A” e ubicate ad Alghero e a Sassari: in questo clima
le mostre degli artisti di Realtà nuova (in seguito Gruppo A) e le stesse personali del M. - la cui ricerca rimase sempre incentrata, con esiti significativamente risolti, sul nodo problematico segno/materia - costituirono momenti di vivo dibattito, di riflessione e di formazione. Il M. fece anche parte del Consiglio superiore dell’ANISA (Associazione nazionale insegnanti di storia dell’arte), contribuendo attivamente alla formulazione di proposte didattiche assai innovative. Di questo ampio progetto culturale, che a uno sguardo odierno appare sicuramente come il contributo più originale del M., sono efficace testimonianza i disegni forniti per la tessitura di tappeti del Centro tessile di Aggius, presso Sassari (anni 1958-60: oggi, Collezione ISOLA di Sassari), che aggiornano gli schemi tessili alle coeve sperimentazioni in campo pittorico: il M. delineò per le tessitrici soggetti astratti differenziati, dal pattern segnico al dripping sino alla inedita trasposizione sul tessuto di effetti di sovrapposizione o di velatura dei colori e alla rottura del tradizionale impianto simmetrico. Nel segno di questa evoluzione si annoverano anche i modelli ideati per la produzione di gioielli, i quali passano da un iniziale(segue page 8)
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(segue dalla pagina7) arcaismo mediterraneo a forme sempre più aeree ed essenziali, che evocano le ricerche di Lucio Fontana. Morì a Sassari il 22 febbr. 1969. Maura Picciau
A. d. G. (A. Del Guercio), Il pittore M. M. alla galleria del Cortile, in L’Unità, 30 giugno 1946; N. Ciarletta, M. M. al “Cortile”, in Espresso, 16 luglio 1946; E. Tavolara, Le mostre: M. M., in La Nuova Sardegna, 1 giugno 1947; M. Venturoli, M. M. da Chiurazzi, in Paese sera, 18 marzo 1950; V. Fiori, Preziosi accordi e nuovi ritmi rielaborano motivi primordiali, in L’Unione sarda, 4 nov. 1956; N. T. (N. Tanda), Il “Premio Sardegna” di un milione assegnato al pittore M. M., in Il Giornale d’Italia, 22 ag. 1957; M. Valsecchi - E. Baggio, Opinioni sulla Mostra nuorese, in La Nuova Sardegna, 18 sett. 1957; V. Fiori, Una sottile polemica nei tappeti ricavati dai cartoni di M., in L’Unione sarda, 30 marzo 1958; P.A. Manca, Genesi e metamorfosi della materia nella pittura di M. M. al “Cancello”, in La Nuova Sardegna, 9 febbr. 1960; F. Masala, Sull’arte di M. M. Il primo demitizzatore del folklore in Sardegna, ibid., 5 marzo 1967; S. Naitza, Oltre la sardità di maniera, in Almanacco di Cagliari, XXXI (1996), pp. n.n.; G. Murtas, M. M., Nuoro 2005; Dalla figuratività all’astrazione. Percorsi dell’arte italiana tra 1945 e 1960 dalle collezioni della Galleria nazionale d’arte moderna (catal., Nuoro), a cura di M. Margozzi, Milano 2006, pp. 47, 110. http://www.treccani.it/enciclopedia/mauro-manca_
Foto ansa
Fonti e Bibl.:
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igura di artista estroverso, dall’entusiasmo contagioso e dal forte carisma personale, Mauro Manca (1913-1969) è colui che negli anni Cinquanta, in una Sardegna ancora fortemente condizionata in campo artistico dal permanere delle poetiche primonovecentesche, appare come il portatore del nuovo. Inserito sin dagli anni Trenta in una situazione operativa ricca di fermento come quella romana, volge incessantemente il suo spirito nomade verso tutto ciò che reca il segno del tumulto e dell’inquietudine esistenziale: dalla pittura sfocata e nervosa di Scipione e di Mafai a quella carica di umori sociali del neocubismo, dal mediterraneismo di segno picassiano all’informale materico. Volume di 240 pagine, formato 32 x 24, 341 illustrazioni a colori e 25 in bianconero. La stampa è stata effettuata con un retino a 90 linee in quadricromia su carta patinata. Apparato testuale e didascalie facilitano la consultazione del volume e rispondono alla vocazione scientifica della risorsa. Apparati: profilo biografico, carteggio Mauro Manca-Eugenio Tavolara, itinerario espositivo, scritti di Mauro Manca, bibliografia.ID: 193874 ISBN: 88-85098-29-0 http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=2436&id=193874
Foto PAOLOCANEVARI
ARTISTI A RISCHIO
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iamo nell’occhio del ciclone. E quando ne saremo fuori, conteremo i danni alle persone e alle cose. Piangeremo i morti, cureremo le ferite. Faticheremo moltissimo a ripartire. Ci rivolgeremo agli esperti di scienza e dell’economia, ai massimi interpreti della geopolitica per capire come riparare i danni e sostenere i nuovi inevitabili sacrifici. Ma avremo soprattutto bisogno di artisti e di poeti, di coscienza critica, di idealisti e sognatori, perché nel tempo della povertà sono loro gli unici capaci di andare a fondo, di rischiare le domande più importune, quelle più scabrose e antipatiche, quelle meno alla moda e che non producono necessariamente il consenso. Forse troveremo i rimedi scientifici e finanziari, per scoprire poi che hanno purtroppo vita breve; fragili panacee di massa a tappare le falle di una civiltà che a stento ormai galleggia nel tempestoso mare della globalizzazione. E allora prepariamoci a prendere sul serio le critiche ai modelli di sviluppo, alle politiche di sfruttamento, alla ingiusta distanza tra pochi e molti, tra ricchi benestanti e poveri nullatenenti. Adesso, siamo giustamente angosciati per la salute
e per la spaventosa crisi economica. Un combinato che sarà causa di altre epidemie psicologiche e morali, un terremoto sociale di cui non possiamo giudicare ancora la scala Mercalli. Domani, ancora più che oggi, avremo bisogno di guardarci nello specchio delle opere d’arte e della letteratura. Avremo necessità di riflettere e di andare a fondo, di rivoltare il pensiero di questi giorni come un terreno su cui coltivare la reazione, il cambiamento. Saremo obbligati a ripensare a tutto quello che di negativo e di positivo (perché ci sono anche aspetti positivi) abbiamo sperimentato e scoperto durante questo tempo estremo; un tempo vissuto nella sospensione di futuro e passato, ora che il presente si è fermato. Abbiamo alle spalle un passato da correggere e davanti ci si prospetta un futuro a rischio. Stiamo vivendo il cambiamento in una contrazione temporale inedita, inaudita e inattesa. Ci siamo arrivati per causa di forze maggiori: l’imprevedibile ci ha raggiunto in modo repentino e drammatico, e ora ci obbliga a rinegoziare il nostro patto con la sopravvivenza e con il progresso. Due orizzonti che oggi più di ieri si mostrano contrapposti e non allineati. (segue a pagina 10)
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Foto oknostudio
(segue dalla pagina 9) R.M. Rilke sosteneva che gli artisti sono i più a rischio. Ora lo sono veramente. Lo sono perché non hanno nessuna tutela alle spalle. Perché il sistema dell’arte sta entrando in una tempesta perfetta. E perché, più banalmente, anch’essi sono in difficoltà seria e come altri disagiati travolti dalla pandemia e dalla crisi temono per la loro salute e per quella dei loro cari. Anche loro provano sentimenti di angoscia che derivano dal fatto di non poter pagare l’affitto, di non essere in grado di sostenersi dignitosamente nel quotidiano, di non avere la possibilità di lavorare nei propri studi. Insieme a quella di migliaia se non milioni di italiani anche gli artisti stanno per entrare a far parte della schiera dei senza lavoro con poche risorse. Si dirà che la povertà allinea tutti e non fa differenze o sconti a nessuno. Certamente. Penso tuttavia che il problema della vita degli artisti nel nostro paese e della loro sopravvivenza creativa sia un grosso problema di civiltà; a meno di non giudicare la loro professionalità e il loro valore poetico qualcosa di marginale e non funzionale nella società. Cosa che tante volte abbiamo riscontrato a livello politico e in gran parte della società.
È questa, d’altronde, una vecchia faccenda. Ai primi del XX secolo molti degli artisti, tra quelli che oggi ammiriamo e celebriamo come fari della cultura italiana nel mondo, se ne scapparono dal paese per cercare fortuna all’estero, soprattutto a Parigi. Cercavano un ambiente fecondo, dove poter contare su un mercato generoso, su una maggiore considerazione pubblica. Vennero definiti meteci, e non ebbero vita facile. Ma ci provarono a fuggire da un paese conservatore, retrogrado, clericale, bigotto, fermato sulla rendita di posizione, fondamentalmente antimoderno. “Io vendo pochi quadri, a pochi raccoglitori più incuriositi che convinti, a bassissimo prezzo, giusto per comprare i colori”, lamentava Renato Birolli negli anni trenta del secolo scorso. L’arte contemporanea non godeva in Italia di grande fortuna. Soffici più o meno tre decenni prima di Birolli notava: assenza di cultura, inesistenza di critica, incoerenza di mercato, povertà di raccoglitori. In un mondo incapace di organizzarsi e darsi unità di intenti le strutture sono spaesate, manca il mercato ed è assente un collezionismo in grado di produrre ed espandere una concreta attenzione ed investimenti condivisi in base a scelte e preferenze.
Foto collez<ione mameli
È trascorso un secolo e da allora sembra che la situazione si di poco migliorata. Sono preoccupato, fortemente preoccupato, per la sorte di molti artisti, giovani e non solo. Ecco la ragione di queste note, assieme a certe proposte o richieste che preciserò di seguito. Non vorrei che come al tempo del secondo conflitto mondiale i giovani artisti di oggi arrivassero a ringraziare l’arrivo di beni di prima necessità come fecero Guttuso e Mafai che dovettero alla generosità di Alberto della Ragione il loro sostentamento durante i gironi spaventosi della dittatura nazifascista, quelli delle persecuzioni e della guerra. Il generoso e coraggioso collezionista (cui si deve la nascita del Museo Novecento a Firenze) non portava ai suoi artisti denari, ma viveri, beni di prima necessità: olio, carne, stoffe per cucire vestiti e i materiali per creare opere. Mesi fa ho proposto all’Assessore alla Cultura di Firenze Tommaso Sacchi, sulle pagine di un quotidiano locale, di creare un fondo di investimento per acquistare opere d’arte di giovani artisti (e nel nostro paese la categoria arriva disgraziatamente fino alla soglia dei 40 anni e oltre), da utilizzare anche per sostenere la ricerca e la formazione di curatori e critici, una base di avvio di una seria progettazione di mostre dedicate
all’arte moderna e contemporanea. Non avevo previsto quello che poi è accaduto, la crisi che ci travolgerà nei prossimi mesi in modo ancora più drammatico per quanto riguarda risorse e investimenti. Partivo dall’analisi del deficit strutturale di una strategia da impresa culturale, così evidente nel nostro paese, nonostante i proclami di modernizzazione e alcune prove empiriche di organizzazione di bandi e borse di studio. Vorrei, quindi, proporre di nuovo oggi la questione, ma questa volta la vorrei far arrivare al nostro Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che è molto sensibile e attento, e soprattutto molto vicino al mondo dell’arte. In un momento di crisi spietata come questa, è il momento di restituire centralità nel sistema dell’arte al rapporto tra artista e museo, tra artista e sistema pubblico. È il momento di far sentire la presenza e necessità sui territori delle strutture museali e dei centri d’arte pubblici, come strumenti indispensabili ora più che mai alla tutela della creazione artistica e della formazione critica e curatoriale. È il tempo di rimpolpare le collezioni dei nostri musei di arte contemporanea, puntando sulle nuove generazioni che sono il nostro presente e l’immediato futuro. (segue pagina 12)
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Foto elenamazzi
(segue dalla pagina 11) Rischiamo di perdere per strada una o due generazioni. Rischiamo di indebolire ancor di più il nostro sistema, che già soffre di molti handicap nella competizione internazionale. Qualcosa fortunatamente si è fatto negli ultimi anni. Adesso l’intervento deve essere assai più massiccio e strutturato. Prima che la crisi produca danni irreversibili al sistema, e lo faccia colpendo dalle sue fondamenta: gli artisti e di seguito musei e centri d’arte, senza poi dimenticare la miriade di associazioni e spazi d’arte che hanno dato ospitalità agli artisti e ai curatori, luoghi di aggregazione sociale, in una rete diffusa utile al sorgere e crescere della creatività d’avanguardia. utta la filiera (lunghissima e articolatissima) si regge, volenti o meno, sull’artista e la sua opera, sul museo e la sua funzione di storicizzazione, su quella formativa, indispensabile strumento per una conoscenza di base e per la propagazione di una sensibilità condivisa. Il museo poi è, come noto e da qualche secolo, obiettivo principale di ogni carriera artistica, e resta punto di riferimento anche dei collezionisti e delle gallerie. Se questi due fondamentali e necessari attori del sistema collassano, ecco che il sistema intero entra in crisi.
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Ora gli artisti sono i più a rischio, non solo poeticamente, adesso lo sono parlando da un punto di vista materialistico. L’artista non si ferma neppure nei momenti più drammatici, lo sappiamo: produce instancabile come sempre, forse è ancora più motivato adesso dalla drammatica esperienza che tutti viviamo. Nel suo intimo le sensazioni collettive si riproducono ingigantite e cercano uno sbocco per essere testimonianza un domani di quanto vissuto oggi. Bloccato il circuito commerciale, quello espositivo, quello di formazione, l’artista isolato e tenuto ai margini, e in più senza risorse, entra in una situazione di difficoltà oggettiva. Mentre ogni altra categoria è tutelata da sistemi di assistenza, di protezione sociale e salariale, i giovani artisti non hanno nessun meccanismo di questo genere a garantire loro la dignitosa sopravvivenza. In questi giorni sono molto preoccupato della sorte di generazioni di artisti. Si dirà che sarà fatta una selezione durissima, che pochi potranno resistere e rialzarsi. Si dirà che agli artisti compete vivere e produrre nel disagio e nella sofferenza. Può essere.
Foto f.bianchelli
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pero tuttavia che, a livello del governo centrale e delle amministrazioni pubbliche, non ci si accontenti di questa vulgata romantica, e si mettano, piuttosto, in campo soluzioni di sostegno e di benefit che possano dare speranza non solo ai pochi ma ai più, che facciano sentire gli artisti come vitali alla felicità della collettività e che facciano intendere che l’arte, la creazione contemporanea è un bene necessario alla salute pubblica, indispensabile al mantenimento del benessere spirituale e non solo materiale di una civiltà intera. L’entrata in gioco del governo e delle amministrazioni vorrebbe dare un segno non di protezione paternalistica, ma di civile e moderna cura del proprio patrimonio che non è solo quello del passato. Infine, significherebbe aver compreso che l’arte contemporanea è fattore di identificazione e promozione di una peculiare identità italiana, forse il principale prodotto del made in Italy. Non è questo il momento di pensare a una aristocrazia dell’arte. Il sistema dell’arte ha molte pecche, è difettoso, e uno dei maggiori problemi è l’interesse marginale che suscita nel mondo politico e in quello culturale. Giusto dire che le città senza teatri e cinema aperti sono città spente.
Aggiungiamoci anche loro in questo genere di appelli che circolano in questi giorni in Italia: comprendiamo nella lista anche gli artisti e i musei. Un’epoca segnata da grandi personalità nasce dal sottosuolo dove crescono e si nutrono i talenti; e senza sottosuolo neppure i grandi potrebbero emergere. Puntiamo al sodo e non facciamo passare tempo. La depressione, l’angoscia, il vuoto davanti noi tutti, saranno sicuramente una bella importante esperienza per chi fa arte. Ma la dignità sociale, la sopravvivenza materiale, è essenziale per sentirsi amati, rispettati e valorizzati dal proprio paese. Concludo gridando ai nostri governanti: “Fate presto”. Sergio Risaliti Chi é Sergio Risaliti? Nato nel 1962, si è laureato a Firenze in Storia dell’arte moderna e contemporanea con il massimo dei voti. Si è perfezionato al Corse Europeo per Curatori Arte Contemporanea al Magasin di Grenoble. E’ uno storico e critico d’arte, ideatore e curatore di mostre e di eventi interdisciplinari, scrittore e giornalista. Ha fondato e diretto sedi espositive pubbliche e private tra cui Palazzo delle Papesse a Siena e Quarter Centro per l’Arte Contemporanea a Firenze. (segue alla pagina 14)
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Foto firenzeurbanlifestyle
(segue dalla pagina 13) Tra le mostre ideate e curate si ricordano, Bacon Beuys Burri, La collezione della Fondation Cartier, Pascali e Savinio, Le Repubbliche dell’Arte. Israele e Palestina, Lo spazio Condiviso, Moltitudini Solitudini, Bambini nel tempo, Boom. Ha curato il nuovo allestimento del museo Marca di Catanzaro. Ha collaborato per un biennio con la Galleria Christian Stein a Milano. È stato membro del comitato scientifico del Frac Rhône-Alpes di Lyon e della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Ha curato il censimento dell’arte giovane italiana Espresso (Electa, 2000), Toscana contemporanea (Maschietto, 2001), i libri d’artista di Giulio Paolini La verità (Einaudi, 1996) e Dall’Atlante al vuoto (Electa, 2010), il Catalogo generale della grafica di Fausto Melotti (Electa, 2009). Con Achille Bonito Oliva ha curato De Gustibus (Siena, 2002) e Orizzonti. Belvedere dell’Arte (Firenze, Forte Belvedere, 2003). Con Stefania Ricci ha ideato e curato Ispirazioni e visioni (2011), Marilyn (2012), Il Calzolaio prodigioso (2013), Equilibrium (2014) al Museo Salvatore Ferragamo di Firenze. In occasione di Florens 2012 ha ideato l’accostamento dei Crocifissi di Donatello, Brunelleschi e Michelangelo nel Battistero di Firenze e ha cu-
rato l’installazione della Croce di Mimmo Paladino in piazza Santa Croce. Nel 2013 e nel 2014 ha ideato e curato progetti per Marco Bagnoli e per Domenico Bianchi alla Limonaia di Boboli in Palazzo Pitti. Nel 2013 e 2014 ha ideato e curato le installazioni di Maurizio Nannucci e Marco Bagnoli alla Stazione Leopolda di Firenze in occasione del Festival Internazionale Fabbrica Europa. Nel 2013 ha ricevuto l’incarico per la Direzione Artistica della mostra personale di Zhang Huan a Palazzo Vecchio e Forte Belevedere, Con Cristina Acidini ( ideatrice) ed Elena Capretti ha curato la mostra Michelangelo Buonarroti. Incontrare un artista universale, presso i Musei Capitolini di Roma. Ha ideato e curato l’esposizione dei Tre profeti di Donatello nel Battistero di Firenze, (maggio-dicembre 2014). Con Francesca Campana Comparini ha ideato e curato la mostra Jackson Pollock, “La figura della furia”, in Palazzo Vecchio a Firenze. Ha ideato e curato (con Arabella Natalini) la mostra personale di Giuseppe Penone. “Prospettiva Vegetale” al Forte Belvedere e nel Giardino di Boboli nel 2014 e Human di Antony Gormley nel 2015.
Assieme alla Biblioteca Nazionale di Firenze ha curato AlfaZeta. Libri d’artista. Ha ideato e curato la mostra In principio, ( 28 novembre 2014, Novara Broletto). E’ stato direttore artistico del primo Festival dei bambini. Nuovi mondi, organizzato a Firenze, nel 2014. Nel 2015 ha curato la mostra Jeff Koons. In Florence ( Piazza Signoria e Palazzo Vecchio, Firenze), Alighiero Boetti. Mappe ( Salone dei Cinquecento. Palazzo Vecchio, Firenze) e la mostra antologica di Alighiero Boetti presso la Galleria Stein di Milano (con Francesca Franco). Ha ideato e curato per la Galleria Tornabuoni di Firenze e Londra la mostra Il dado è tratto. Arte italiana oltre la tradizione. E’ stato direttore artistico del festival fiorentino Flight per il 2015. Nel 2016 si è occupato della direzione artistica della mostra personale di Jan Fabre. Spiritual Guards al Forte Belvedere. Palazzo Vecchio e Piazza Signoria (a cura di Melania Rossi e Joanna de Vos). Ha ideato e curato (con Antonella Nesi) la mostra personale in Italia di John Currin. Paintings a Museo Bardini di Firenze. Ha curato con Elena Capretti la mostra Michelangelo e Vasari. Preziose lettere all’amico caro a Palazzo Medici-Riccardi.
Ha inoltre curato la mostra personale di Massimo Giannoni presso la Galleria Farsetti di Firenze. Nel 2014-2015 a ideato e curato la Settimana Michelangiolesca. Dal 2007 ha avviato con Francesco Vossilla un’indagine non convenzionale sull’opera di Michelangelo che lo ha portato alla pubblicazione di una serie di volumi dedicati al Bacco, alla Zuffa dei Centauri, al David, alla Pietà vaticana. Dal 2015 è consulente alla direzione artistica e coordinamento scientifico dell’Associzaione Mus.e. Dal 2015 è membro onorario dell’Accademia dell’Arti del Disegno di Firenze. Collabora regolarmente con “Il Venerdì - la Repubblica”, “Il Corriere fiorentino”, “ Arte mondadori”, “Flash Art”enze di Torino. Ha pubblicato “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio” (scritto con Corrado Sinigaglia e Raffaello Cortina, 2006) e “Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale” (scritto con Lisa Vozza, Zanichelli, 2007).temporaneo. http://www.zam.it/biografia_ Sergio_Risaliti http://www.treccani.it/magazine/webtv/esperti/risaliti_sergio https://www.artribune.com/ arti-visive/arte-contemporanea/2020/04/fate-presto-lappello-al-governo-di-sergio-risaliti-per-salvare-gli-artisti/
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ifficile oggi manifestare e rappresentare altre idee e cognizioni sul senso del fare ricerca di arte contemporanea fuori e oltre le logiche del mercato dominante, negli anni manifestandomi ho raccolto solo diffide legali; Vito Pacelli, con il suo gruppo di collaboratori della BookSprint, è stato in grado di comprendere che in un tempo di mutazione profonda del mercato, vittima dei suoi stessi eccessi, si può lavorare in un altra maniera editoriale auto determinando l’autore e il suo pubblico, dandomi la possibilità di cogliere e raccontarvi nuove possibilità economiche nell’arte contemporanea, in grado di accompagnarci verso una felicita decrescita usando i new media integrati e i social network per elaborando altri prodotti e evitare di subirli, approfitto di questo spazio per ringraziarlo di cuore, sperando che non termini qui la nostra collaborazione, inseguendo una idea di processo del cambiamento in corso che non può limitarsi esclusivamente a un prodotto”.
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ualcuno in Italia racconta che la Sardegna è un’isola. In Sardegna sembrano essersene dimenticati nel nome della massidiozia determinata dai social network, che tutto omologa e appiattisce. In quest’Isola, ogni artista sardo è isola nell’isola, isolato nella sua stessa comunità, impossibilitata a determinarsi come cifra culturale identitaria e simbolica, e questo isolamento, di fatto, sta annientando linguaggi, saperi e competenze che in quest’Isola si trasmettono da millenni. La storia dell’arte isolana sembra impossibile da raccontare in maniera fluida, è una moltitudine di dettagli e punti di vista che paiono impossibilitati a connettersi per raccontarsi; omissioni colpevoli, trame e intrighi che sembrano determinare verità storiche sbagliate e discutibili se comparate con l’altrove. Qualcosa di definito e non ancora defunto è possibile analizzarlo, prima di tutto il fatto che in quest’isola la creatività e l’Arte siano, in questo passaggio di millennio, prevalentemente donna, da Maria Lai a Jole Serreli, da Caterina Lai ad Annalisa Achenza, da Rosanna Rossi a Monica Lugas, dalle Lucido Sottile a Barbara Ardau, da Silvia Argiolas a Silvia Mei. Si potrebbe tracciare una storia dell’arte al femminile tra iconografia e iconoclastia da fare invidia a tutto il
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mare è fornita grezza dalla materia, lavata in acqua dolce, sbiancata con l’acido naturale del limone e filata a mano. Ancora ci sono maestri del bisso, e sono donne, perché la creatività in quest’isola è donna da sempre: Assuntina e Giuseppina Pes e Chiara Vigo hanno reso Sant’Antioco avanguardia culturale dei fasti e dei saperi dell’isola. A proposito di Sant’Antioco, quando verrà riconosciuto al maestro Gianni Salidu il suo ruolo nella storia dell’arte isolana? Quanti Giganti si vuole continuare ad abbattere e sommergere per ricominciare sempre dal punto zero della civiltà nuragica al servizio del migliore offerente? Il muralismo politico in quest’isola, arriva insieme al Liceo Artistico di Cagliari, nel 1968 con Pinuccio Sciola (che al “Foiso Fois” ha anche insegnato), che da San Sperate innescò una reazione d’arte a catena: a Orgosolo si mosse il collettivo anarchico Dyonisos e nel 1975 si trasferì da Siena Francesco Del Casino, che riqualificò i muri con colori e contenuti; nel 1976, a Villamar arrivarono i pittori dissidenti cileni, Alan Joffré e Vriel Darvex. Oggi, l’Isola sembra, anche dal punto di vista amministrativo istituzionale, avere rinunciato a proseguire quei fermenti (segue a pagina 18)
pianeta terra, non per nulla questa è la terra della Dea Madre. Possiamo definire anche altre specificità, alcune attestate dall’archeologia: Giovanni Patroni, napoletano, direttore del Museo archeologico nel 1904, individuò, a ragione, la civiltà nuragica come la prima civiltà del Mediterraneo centro occidentale. In quest’isola nasce la scultura a tutto tondo tra il IX e l’VIII secolo a.C. coi Giganti di Mont’e Prama. In quest’isola, con i bronzetti nuragici, tra il IX e il VI secolo a.C., hanno determinato la rivoluzione espressionista, hanno turbato Picasso e determinato Giacometti: un bronzetto nuragico, quello itifallico, racconta come nell’isola nuragica già esistesse la polifonia con le launeddas, mentre in Francia e Inghilterra la polifonia fu registrata soltanto dopo il 1000 d.C., una rivoluzione polifonica che con i Nuragici c’era già stata. Il suonatore itifallico testimonia anche, con il suo pene in erezione mentre emette suoni, come la seduttività dei linguaggi dell’arte alimenti la fertilità e la prosperità. Questa è potenzialmente la Sardegna. Quest’isola con i suoi linguaggi ha attraversato millenni, è l’isola del bisso, estratto di fibra animale dalla pinna nobilis, mollusco che secerna fili, la seta di
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Foto mimmo di caterino
(segue dalla pagina 17) d’autodeterminazione culturale e identitaria, che, ad oggi, sono stati l’unico momento artisticamente pregno di movimenti del secolo passato, l’unica visione d’insieme sembra essere quella del folk agropastorale ad esotica dimensione turista balneare. Eppure, basterebbe poco a proteggere e rivitalizzare nel tempo tutto: un museo a cielo aperto dell’arte residente a dimensione turista e due Accademie di Belle Arti (a Cagliari e Sassari) che sappiano essere nodi e tamponi istituzionali nell’interesse culturale del territorio tutto, dinanzi alle derive di un mercato sempre più connesso e omologato. Servirebbe nel nome di una Regione a statuto autonomo un piano programmatico regionale che impedisca di uccidere la Dea Madre, in una terra da sempre fertile all’arte e ai suoi linguaggi, nata per essere avanguardia del Mediterraneo. Domenico Di Caterino Artista, docente del Liceo Artistico e Musicale “Foiso Fois” di Cagliari. Vive in Sardegna dove ha sposato l’Artista Barbara Ardau. Ha collaborato con Exib Art, Flash Art, Tiscali Arte, Lobo di Lattice, Cagliari Pad e Ad Maiora Media; con la BookSprint Edizioni ha pubblicato “Altro sistema dell’Arte”, “Oltre il sistema dell’Arte” e “Dentro il sistema dell’Arte”.
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’idea progettuale è quella di creare “movimento” virale a bordo di una automobile che trasporti energia artistica, una installazione mobile di sinergie di processi di ricerca artistica, risultante vettoriale di forze attive di artisti di movimento, non prodotti ma letture di processi che rinnovino energie per rappresentare un altro sistema dell’arte. Artisti navigatori di rotte semantiche che stimolino la comprensione dei fatti artistici contemporanei oltre le logiche del mai libero mercato privatizzato”. In coppia con la moglie Barbara Ardau organizzano un serie di private esposizione d’arte contemporanea nella loro automobile processo di comunicazione del senso del fare artistico contemporaneo dove diventa complicato scindere tra arte, artista, spettatore e promotore (Tavor Art Mobil). “Ci siamo detti, adesso cosa facciamo?Come facciamo a ragionare d’arte contemporanea in un posto dove l’arte contemporanea come formazione ed educazione è assente? Facciamo diventare la nostra automobile uno spazio d’arte contemporanea, in questa maniera siamo in connessione con le ricerche più significative ed interessanti semplicemente facendo circolare linguaggi dell’arte. Il principio è quello del dono, della condivisione e della libera circolazione dei linguaggi dell’arte.”
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a Balena, noto ristorante gastronomico cagliaritano ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook questo post che riportiamo fedelmente perchè non è tanto corrente di ritrovare gli incoraggiamenti, sopratutto a Cagliari città con una lunga tradizione di maldicenza e gelosia, sopratutto fra concorrenti, anche se i due ristoranti distano l’uno dall’altro sufficientemente perché non ci possa essere esitazione nella scelta. “La bella ristorazione:noi siamo chiusi ma c’è chi con coraggio e tenacia non si ferma. Oggi vi parlo di Francesco Zucca, patron del Bistrot100. Cucina sarda classica e rivisitata con maestrìa, pasta fresca spettacolare, coccoi prena, panadine, culurgiones artigianali che son bellissimi già in foto figurarsi nei nostri piatti. Francesco è uno chef giovane e brillante, e con la moglie Katya ha costruito una realtà importante nella ristorazione cagliaritana.Purtroppo quest’emergenza non ci ha ancora permesso di andarlo a trovare nel locale che aveva appena finito di ristrutturare, ma con la sua simpatia e professionalità per ora viene lui a casa nostra a farci assaggiare le sue specialità . Quindi, cosa aspettiamo? P.s: e da poco ci sono anche i crudi di mare!” Ma sentiamo che cosa ne pensano i clienti.
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BISTROT 100 Via G. M. Tuveri 100 09128 Cagliari Tel +39 070 733 3300 Cel+39 331 540 7639
Piccolo locale dove è possibile gustare gustosi piatti di pesce, con proposte fuori menù di pesce fresco, nel nostro caso ci è stato proposto un bel trancio di orata in guazzetto. Buoni anche i culirgiones agli scampi Scoperto su the fork, siamo stati molto fortunati, il locale è facilmente raggiungibile, molto carino all’interno, personale squisito, molto attento e premuroso. Il pesce ottimo, molto saporito e abbondante. Il conto assolutamente giusto, anche senza lo sconto di the fork. Lo consiglio a tutti! Tornati dopo più di un mese, abbiamo apprezzato le continue modifiche del menù e l’ampliamento della carta. Davvero ottime e abbondanti le cozze al formaggio, buoni i culurgiones e come sempre eccellenti i gamberi L’atmosfera è piacevole, il personale molto disponibile e professionale. I piatti sono davvero validi e abbondanti, da non perdere le cozze al pecorino e la fregola! Consigliatissimo. Sperando che al momento della pubblicazione la nostra libertà di circolazione sia stata ritrovata non ci resta che precipitarci in questo locale prenotando per tempo visto che “les places sont chères” come dicono in Francia. Buon appettito. Vittorio E. Pisu
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e principali notizie, sull’alimentazione e sulle abitudini alimentari dell’Antica Roma, giungono a noi grazie alle testimonianze lasciateci da scrittori, poeti e storici latini. Non sono da tralasciare anche i trattati agronomi: accanto a nozioni agricole e zootecniche, nelle opere di autori come Catone il Censore troviamo anche svariate ricette di cucina. Egli è noto per l’esattezza con cui andava specificando ingredienti, dosi e metodi di cottura, indicazioni assenti in altri autori, come Apicio. Successivamente anche i poeti iniziarono a riportare, nei loro componimenti, elementi della vita conviviale dei loro contemporanei. Petronio, nel suo Satyricon, dedica molto spazio al ricco quanto ridicolo banchetto di Trimalcione, di cui riportiamo solo uno breve stralcio, dedicato all’inizio della cena: “Tuttavia, fu portato un antipasto molto raffinato; infatti ormai tutti eravamo sdraiati, eccetto il solo Trimalchione, a cui, secondo un costume insolito, era riservato il primo posto. Del resto nell’antipasto era posto un asinello di bronzo corinzio con una bisaccia a due tasche, che aveva olive in una parte chiare, nell’altra scure. Coprivano l’asinello due
GASTRONOMIA R piatti, sui cui orli era iscritto il nome di Trimalchione e la caratura dell’argento. Piccole impalcature inoltre saldate sostenevano ghiri cosparsi di miele e polvere di papavero. Ci furono anche salsicce scoppiettanti poste sopra una graticola d’argento e sotto la griglia prugne siriane con chicchi di melograno.” (Petronio, Satyricon, 31) Giovenale, in una sua Satira, racconta la storia di un rombo dalle dimensioni inusitate, che un pescatore aveva regalato all’imperatore Domiziano. “Fu preso, e tutta empì la rete un rombo / Maravigliosamente bello e grosso; […] / Una tal maraviglia è destinata, / Dal padron della barca e della rete, / Al Pontefice Massimo.” (Giovenale, Satire, IV) Egli, non avendo a disposizione una pentola adatta alla cottura del pesce, convocò a villa Albana una sessione straordinaria del Senato: la seduta sancì che si sarebbe prodotto un tegame su misura. Non solo i poeti, ma anche gli storici ci parlano di cibo, in particolare delle preferenze gastronomiche dei personaggi più in vista della società. Elio Sparziano fu autore della Historia Augusta, una raccolta di biografie imperiali del periodo 117-284 d.C.
Cos’è il garum
ROMANA ANTICA In questa opera, emerge che il piatto preferito dell’Imperatore Adriano fosse il tetrafarmacum, un involucro di pasta dolce ripieno di un trito di carni di selvaggina miste, come lepre e fagiano. Abbiamo indiscrezioni anche sui gusti dell’Imperatore Tiberio: questa volta è Plinio il Vecchio ad essercene testimone, nella sua opera omnia Naturalis Historia. “Il cetriolo è del genere dei cartilaginosi e fuori del terreno, ricercato con incredibile piacere dal principe Tiberio. Non gli capitò infatti alcun giorno senza, grazie a quelli che rinnovavano i loro giardini pensili, che spingevano al sole su macchinari con ruote e nei giorni invernali di nuovo dentro ripari di vetri. Anzi fu scritto presso gli antichi autori della Grecia necessitare di essere seminati anche con il loro seme macerato nel latte mielato per due giorni, affinché diventassero più dolci.” (Plinio, Naturalis Historia, libro 19, 64) Incline a gusti sobri e semplici, egli adorava anche le pastinache, al punto da farle importare dalla Germania dove ne cresceva una qualità migliore. Martina Tapinassi http://www.storieparallele.it/aneddoti-gastronomici-della-roma-imperiale/
Pur avendo raggiunto la sua massima fama a Roma in età imperiale, ha in realtà un’origine molto più antica e lo ritroviamo ampiamente diffuso in tutto il Mediterraneo e impiegato anche dai Greci e dai Fenici per la preparazione dei piatti. In senso proprio, il garum costituisce il prodotto finale della fermentazione di alcuni tipi di pesce, spesso pesce azzurro, talvolta con l’impiego di erbe e spezie. Con il passare del tempo, il termine garum è stato impiegato per designare il cosiddetto liquamen, ovvero la salsa liquida ottenuta alla fine del processo di fermentazione, distinto dall’allec che invece ne costituisce la componente solida. Grazie alla recente riscoperta dell’enogastronomia antica, sono sempre più numerosi i produttori che si mettono alla prova sperimentando prodotti di altri tempi e il garum non fa eccezione. Una variante economica ma di buona qualità e prodotta secondo tecniche identiche a quelle impiegate nell’Antichità è la salsa di pesce come la ritroviamo nella cucina del sud est asiatico, facilmente reperibile nei negozi etnici e, più di recente, in molti supermercati. La salsa di pesce deve essere impiegata in piccole quantità, secondo il principio del bilanciamento dei sapori. Idonidellemuseedizioni/
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omenica 5 aprile è stata issata sulla terrazza del Museo MACC la bandiera della Resistenza, attraverso la performance del suo creatore, l’artista Nicolò Bruno, trasmessa sui canali social della Fondazione MACC. Nicolò Bruno, classe 1989, è un giovane artista che dopo la sua formazione alla Nuova Accademia di Brera si perfeziona in Svizzera a Basilea dove lavora attualmente. Approdato a Calasetta a fine febbraio per il progetto della Fondazione MACC delle residenze interazionali, si ritrova coinvolto nel lockdown dato dall’emergenza del COVID19. Questa mutazione di esistenza che tutti stiamo vivendo, trasforma quindi la residenza di Nicolò in una sorta di particolare, inaspettata, travolgente e inimmaginabile resistenza. Da questa imprevista circostanza nasce il lavoro di Bruno che, insieme al direttore del Museo MACC Efisio Carbone, dialoga sul valore dell’arte e della sua fruizione ai tempi del CoronaVirus. La riflessione suggerisce come il concetto di resistenza è applicabile a tutte le realtà museali che in questo momento hanno dovuto chiudere le porte al pubblico cercando nuove forme di interazione, trovandole prevalentemente nelle nuove tecnologie e nel web.
In questo sforzo di passaggio tra l’analogico e il digitale, dell’implementazione dei contenuti culturali in rete necessari a non interrompere la relazione con il pubblico, si inserisce anche il MACC. “La Bandiera mi è sembrata subito il vessillo perfetto, nella forma e nella sostanza. Un oggetto che per sua natura veicola un messaggio politico e sociale.” afferma l’artista Nicolò Bruno, non nuovo all’utilizzo della bandiera come strumento di rivendicazione sociale. Nicolò è anche l’ideatore del logo della Milano Pride che ha sventolato dal balcone di Palazzo Marino nel 2016 e ancora oggi è il simbolo ufficiale della parata LGBT. Per il tema figurativo da rappresentare ha scelto un grande cuore rosso sormontato da un arcobaleno, inserito all’interno di uno spazio fumetto che ricorda le strutture tipiche delle conversazioni WhatsApp, nel momento in cui quest’ultimo diventa il mezzo privilegiato di incontro tra le persone che vivono il trauma più forte del distanziamento sociale. Un distanziamento che è anche distanziamento dagli affetti, che restituisce una forma di solitudine che si radica dentro di noi e che rende difficile resistere. L’artista sceglie così il carattere universale degli emoji di WhatsApp, che è l’elemento emotivo che si inserisce all’interno di un testo, per suggerire il proprio stato d’animo alla persona che riceve il messaggio. Le emoji intervengono a dare carattere a ciò che scriviamo, esprimendo quelle emozioni che non possono essere tradotte verbalmente ma che mai come ora vengono tradotte con forme sempre più simboliche. I cuori e gli arcobaleni “piovuti” dai balconi e disegnati sin da subito dai bambini con la scritta #andràtuttobene, vengono recuperati dall’artista che così facendo riprende anche la forma storica dell’ex-voto cuoriforme. L’ex voto, soprattutto nelle sue forme anatomiche, è simbolo devozionale che parte dal basso restituendo quella dimensione di confine tra arte e artigianato troppo spesso dimenticata dalla storia. L’ex-voto cuoriforme tra le altre cose gode, in questi tempi, di particolare notorietà essendo passato da oggetto di preghiera, ad elemento estetico del glamour contemporaneo. “Questo non è un progetto Site Specific, ma Time Specific. Per sua natura non appartiene a Calasetta ma ai tempi che stiamo vivendo.” scrive Nicolò Bruno. Con queste premesse e con la consapevolezza che chiunque operi nel settore culturale stia facendo un grande sforzo di comunicazione la bandiera vuol essere un veicolo per creare una rete (segue pagina 24)
Foto macc calasetta
MUSEO M.A.C.C.
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(segue dalla pagina 22) di rapporti con gli altri musei in particolare con i musei della Regione Sardegna chiamati a ricercare connessioni per rendere disponibili pratiche sperimentali relative alla divulgazione digitale. Una bandiera può diventare il simbolo che unisce permettendo l’incontro dei presidi culturali per dimostrare che la cultura sopravvive. Il canale Instagram www. instagram.com/fondazionemacc/ ospita le dirette con l’artista in residenza, all’interno del sito www.fondazionemacc.it si possono trovare i contenuti video più lunghi delle diverse iniziative. Ma il MACC si racconta anche attraverso le pillole giornaliere su Facebook, all’indirizzo www.facebook.com/macccalasetta/, con approfondimenti sulle opere della collezione permanente recentemente riallestita dagli artisti Lea Gramsdorff e Simone Dulcis nella mostra “The artista as curator”. Ed è sempre Facebook, arricchito in questo caso dalla piattaforma YouTube, ad ospitare le interviste in diretta con i protagonisti del comparto culturale dell’Isola. Il primo ospite è stata lo scorso 1 aprile, Maria Paola Zedda, co-curatrice dell’Across Asia Film Festival. L’incontro doveva svolgersi in presenza del pubblico negli spazi del Museo MACC, ma il
giusto distanziamento sociale che siamo tutti tenuti a rispettare si è trasferito sul palcoscenico digitale dove la riflessione si è concentrata sugli sconfinamenti tra arte e cinema nei movimenti artistici del dopo guerra in Giappone presentando una selezione di corti Pop Art Shots, oltre alle frontiere della sperimentazione nel cinema indipendente filippino e il programma #AcrossAsiaFilmFestival4quarantine. Ecco il link con il press kit da cui scaricare fotografie, video, materiali per i social e il file sorgente per stampare la bandiera: https://drive.google.com/open?id=14gW7q3KC8dqyWZlo477Dq0zdONFA1W44
Residenza Internazionali Macc
“Il progetto Residenze internazionali è un progetto di accoglienza, scambio e crescita, in ambito artistico e sociale. Invitare nel territorio del Sulcis Iglesiente artisti con esperienza internazionale può diventare un motore di energie e di valorizzazione dei luoghi e della cultura. Gli artisti ospitati nella Casa delle Residenze al centro del paese, lavorano dalle 4 alle 8 settimane, in un laboratorio permanente che è tutto il paese di Calasetta interagendo con i cittadini e le maestranze locali:
artigiani, pescatori, produttori, realtà imprenditoriali. Lo studio sul porto guarda al mare con le sue ampie vetrate diventa spesso momento di condivisione della ricerca con la comunità e il pubblico del museo MACC negli Studio-visit periodici che vengono organizzati in accordo con gli artisti. Il progetto Residenze Internazionali prevede infatti che gli artisti presentino la loro esperienza di residenza pubblicamente. Non sono richieste opere, anche se le donazioni sono un felice riscontro, non è obbligatorio che gli artisti lavorino “fisicamente”. Il dono più grande che le Residenze Internazionali fanno agli artisti che partecipano al progetto è il tempo: ri-appropriarsi dei ritmi umani in un rapporto tra uomo e natura che sull’isola è particolarmente forte. Il Progetto Residenze Internazionali, è a cura di Claude Corongiu della Galleria Macca di Cagliari, che invita gli artisti di concerto con la direzione e il CDA della Fondazione, in attesa di predisporre una commissione che selezioni gli artisti attraverso concorso a partire dal 2021. Il progetto Residenze Internazionali è reso possibile grazie al finanziamento Cultur_LAB 2018 di Regione Sardegna (Fondi POR FESR), Fondazione di Sardegna e FREM GROUP”
NICOLO’ BRUNO
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icolò Bruno nasce a Milano nel
1989. Si laurea in pittura e arti visive presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Nel 2010 fonda, assieme ad altri 6 colleghi, il collettivo artistico F84 con focus su arte pubblica e arte relazionale. Nel 2014 si trasferisce in Svizzera dove prosegue i propri studi presso la Fachhochschule Nordwestschweiz di Basilea. Nel 2019 fonda assieme all’artista Maurizio Bongiovanni, Metodo Milano un artist run space aperto alla condivisione e sperimentazione delle pratiche artistiche del contemporaneo. Importanti le sue collaborazioni con Fiorucci Art Trust di Londra (per cui lavora tutt’oggi ai progetti curati da Milovan Farronato), Rappaz Museum di Basilea, MadeinBritaly, Vinyl Factory e MilanoPride. Nicolò oggi collabora con la galleria Massimo Ligreggi di Catania e il suo lavoro è presente nelle collezioni di Nicoletta Fiorucci, Stefano Boeri, Fabio Cherstich, Andrea Bruciati, Emanuele Mocarelli, Amanda Prada e presente nelle collezioni della Galleria Civica di Modena, nella fondazione MACC di Calasetta e nel museo d’Arte Moderna Ugo Carà di Muggia.
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l critico Waldemar Januszczak svela il lato nascosto dell’artista Marcel Duchamp. L’ossessione per la vagina, la misoginia, i giochi di parole eccentrici e volgari, l’assillo per L’origine del mondo di Gustave Courbet. L’orinatoio della “Fontana” di Marcel Duchamp, una delle opere più famose del leggendario artista francese-americano, anzi per qualcuno “l’opera più importante del XX secolo”, sarebbe tutto questo. Ossia una candida e alternativa rappresentazione della vagina, firmata con uno suoi classici o oltraggiosi giochi di parole nella firma, l’altrettanto famosa “R. Mutt”. È l’”eureka”, come lo definisce lui in un suo articolo su The Art Newspaper ripreso dal Sunday Times, di Waldemar Januszczak, rinomato critico d’arte nel Regno Unito, che lavora da molti anni per Bbc e Times. In realtà, la teoria vaginale della “Fountain” non è nuova nel mondo dell’arte (in passato si è pensato a un utero), ma Januszczak dice di esserne oramai convinto: “Duchamp voleva creare una vagina gigante di porcellana”, dando così una risposta secondo lui definitiva a uno dei tanti enigmi lasciati dall’artista (1887-1968) e dalle sue opere “ready-made”.
FINIRLA CON MA Il 66enne critico d’arte inglese avrebbe avuto la prima conferma leggendo uno dei tanti appunti che il maestro concettuale e surrealista disseminava nei suoi scritti e che oggi è conservato nel tomo “The Writings of Marcel Duchamp” curato da Elmer Peterson. “Ne ha solo uno”, si legge in un passaggio dell’artista, “un orinatoio pubblico per la donna, che vive di quello”. Secondo Januszczak, tali scritti dell’artista sono stati spesso sottovalutati ma sarebbe proprio in queste pagine la chiave del mistero che negli anni ha ispirato, tra gli altri, Andy Warhol e Tracey Emin. Duchamp era un terribile misogino, un po’ come la Francia di quel periodo e il suo sodale Salvador Dalí. Diverse opere di Duchamp lo confermano, come per esempio alcune vignette satiriche che schizzava agli inizi, vedi “Femminismo: il curato donna”, nel quale una donna emancipata è vestita con una tonaca monacale e ha una lavanda vaginale alle spalle. Oppure, un’altra ragazza indipendente, una tassista di Parigi, in cui però dal disegno se ne evince il secondo lavoro da prostituta, con numero del suo taxi l’evocativo “6969”. Non solo: Duchamp era ossessionato dalla vagina ritratta dettagliatamente nell’Origine del mondo di Coubert.
Foto endertrenta.it
Non a caso, l’ultima opera di Duchamp prima di morire sarà proprio l’Étant donnés, una rivisitazione di quel quadro scandaloso e oggi esposta al meraviglioso Museo d’Arte di Filadelfia, negli Stati Uniti, dove in una piccola crepa nella porta si scorge una donna nuda su un prato, con le gambe aperte, più o meno nella stessa posizione del dipinto di Courbet. La “Fontana”, che venne rifiutata da un’esposizione a New York dalla femminista Katherine Dreier (poi convertitasi in sostenitrice dell’artista) e che Apollinaire definì un “Buddha del bagno”, rientrerebbe proprio in questa categoria artistica e allusiva di Duchamp. Un altro indizio per cui Januszczak è ormai certo della “Fontana” come vagina è proprio la firma fasulla “R. Mutt” lasciata da Duchamp. Come già ipotizzato negli anni scorsi da altri colleghi, secondo il critico inglese quella firma, pronunciata in tedesco, sarebbe il corrispettivo fonetico di “Urmutter”, ossia la “madre primordiale”, o meglio “madre natura”. A conferma della lettura vaginesca di una “sfida intellettuale” con Courbet, anche se ufficialmente Duchamp identificò “R. Mutt” con un presunto tizio di Filadelfia di nome Robert Mutt, citando poi anche un fittizio riferimento a “Mutt & Jeff”, due personaggi
Foto leblogdemmeetmrbrogne
ARCEL DUCHAMP
dei fumetti americani a inizio XX secolo. Non sarebbe una novità per Duchamp, amante dei giochi di parole affilatissimi. Per esempio, come ricorda il Sunday Times, uno dei suoi nomi alter ego era Rrose Selavy, che letto in francese era “Eros, c’est la vie.”. Oppure, quando tracciò dei baffi su una cartolina della Gioconda, la chiamò LHOOQ. Ossia, se letto ancora in francese, “Elle a chaud au cul”, di cui vi lasciamo l’onere della traduzione, senza “spoiler”. Antonello Guerrera Waldemar Januszczak è un critico d’arte britannico e produttore e presentatore di documentari televisivi. Già critico d’arte di The Guardian, ha assunto lo stesso ruolo al The Sunday Times nel 1992, e ha vinto per due volte il premio di Critico dell’anno. Dopo aver studiato storia dell’arte all’Università di Manchester, Januszczak è diventato critico d’arte - e poi redattore artistico - di The Guardian. Nel 1990 è stato nominato capo delle arti presso la televisione britannica Channel 4 e nel 1992 è diventato critico d’arte per il Sunday Times. Januszczak è stato descritto come “un appassionato d’arte, critico d’arte e scrittore. https://rep.repubblica.it/pwa/robinson/2020/04/20/news/ duchamp-254535508/
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’era un tempo in cui Cagliari era dilaniata dalla corruzione e dal malaffare e ovunque, tra le spesse mura della cittadella, nel silenzio delle chiese e dentro le stanze dei palazzi aviti, si cospirava nell’ombra. Era il tempo in cui su Cagliari si stendeva l’ombra della Santa Inquisizione, spesso strumentalizzata per favorire o rovesciare complessi equilibri di potere. In quest’epoca di tumulti, paura e contraddizioni, molti però furono gli uomini che si distinsero per fermezza e coraggio, scrivendo alcune tra le più belle ed avvincenti pagine di storia sarda. Tra questi il giovane cagliaritano Sigismondo Arquer, che passò alla storia come il “Giordano Bruno sardo”. Sigismondo nacque a Cagliari nel 1530 nella nobile famiglia Arquer, stimata e vicina alla Corona spagnola. Giovanni Antonio, suo padre, era un uomo di grande rettitudine e coraggio che lavorò fianco a fianco con il vicerè di Sardegna Antonio Cardona, il quale si avvalse della sua preziosa collaborazione per tentare di metter fine ad alcune losche attività di peculato che coinvolgevano il clero e l’aristocrazia feudale sarda. Il giovane Sigismondo, quindi, crebbe in un ambiente dominato dal rigore e dall’onestà e a soli diciotto anni, seguendo le orme di suo padre, si laureò in “Utroque Iure” (Diritto Canonico e Civile) presso l’Università di Pisa e in Teologia a Siena. La frequentazione degli am-
bienti umanistici toscani lo portò a sviluppare una coscienza critica nei confronti dell’istituzione inquisitoriale ed in particolare del clero cagliaritano, che egli considerava ignorante e corrotto. Fu soprattutto durante una breve esperienza in Svizzera, nella quale vigeva un clima di assoluta libertà religiosa, che Sigismondo sviluppò una posizione aperta nei confronti degli ambienti luterani. In particolare strinse rapporti d’amicizia con il monaco svizzero Sebastian Münster, il quale lo coinvolse nella stesura di una complessa opera enciclopedica che egli stava da tempo scrivendo. L’ambizioso lavoro – intitolato “Cosmographia Universalis” – diede a Sigismondo l’opportunità di scrivere nel 1548 la “Sardiniae Brevis Historiae et Descriptio” nella quale erano contenuti disegni e carte geografiche di Cagliari e della Sardegna, riflessioni personali, statistiche, descrizioni e contenuti storiografici di vario genere. La collaborazione con Münster fu fondamentale nella formazione giovanile dell’Arquer, ma purtroppo gli procurerà più tardi la pesante accusa di eresia. Quando nel 1559 l’opera di Münster (e di conseguenza quella di Arquer) verrà messa all’Indice dei libri proibiti, la direzione che la Santa Romana Chiesa stava assumendo nei confronti del Luteranesimo – e dell’eresia in generale – era ben chiara.
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Tornato a Cagliari sul finire del 1555 Sigismondo fu nominato funzionario del regno di Sardegna e, successivamente, avvocato fiscale dal re Filippo II di Spagna. Questo incarico lo portò a viaggiare a lungo tra Spagna e Sardegna. A Sassari conobbe Gaspare Centellas, castellano di Sassari e Castel Aragonese (attuale Castelsardo), col quale condivise interessi e riflessioni. Anche l’amicizia con il Centellas (accusato di eresia e condannato alla pena del rogo a Valencia nel 1564) verrà strumentalizzata nel processo che Sigismondo subirà più tardi. Ma oltre che a viaggiare e conoscere uomini di grande intelletto, la carica di avvocato fiscale lo portò a mettere le mani su quei loschi affari che già trent’anni prima avevano portato Giovanni Antonio a smascherare i mebri più in vista dell’aristocrazia feudale sarda. Fu soprattutto Salvatore Aymerich a reggere le intricate fila del malaffare cagliaritano e a muovere la potente macchina dell’Inquisizione contro Sigismondo Arquer. In virtù della sua amicizia con l’inquisitore Andrea Sanna, nel 1558 l’Aymerich riuscì a far aprire un fascicolo contro l’Arquer, montando una serie di accuse per eresia, le quali, però, caddero proprio grazie alla difesa che quest’ultimo riuscì a prepararsi Consapevole che Cagliari non era più una città sicura per lui, nel 1560 Sigismondo ritornò in Spagna. Ma il suo destino sembrava ormai segnato.
Nel 1562 diventò inquisitore il temuto e feroce Diego Calvo, corrotto e deciso ad andare fino in fondo alla questione. Trascorse poco meno di un anno e Sigismondo fu arrestato definitivamente con l’accusa di eresia a Toledo. Cominciò un processo lungo e doloroso durato oltre 7 anni, durante i quali Sigismondo provò in tutti i modi a difendersi, dichiarandosi fino all’ultimo cattolico. Provò perfino ad evadere, per poi essere catturato e nuovamente rinchiuso nelle carceri del Sant’Uffizio. Fu torturato due volte con l’obiettivo di estorcergli quella confessione necessaria per porre fine alla questione. Dichiararsi colpevole avrebbe significato ammettere il falso e non poteva. Cominciò a scrivere un memoriale difensivo in lingua castigliana, annotando i suoi appunti nel retro delle carte processuali nelle quali erano riportate le accuse contro di lui. Quelli che erano semplici annotazioni, diventarono un componimento poetico che egli intitolò “Passion”, composto da 45 strofe e 10 versi ottosillabi con rima baciata e alternata. La condanna fu emessa ed eseguita al termine di un lungo autodafè il 4 Giugno del 1571 a Toledo e fino alla fine, nonostante le fiamme avessero già cominciato a lambire il suo corpo, Sigismondo, poco più che quarantenne, si dichiarò innocente. www.meandsardinia.it/il-giordano-bruno-sardo-sigismondo-arquer/
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a storia della Sardegna spagnola si fa comunemente iniziare nel 1479. In quell’anno, alla morte di Giovanni II di Aragona, IX re di Sardegna, gli succedeva suo figlio Ferdinando II, il cui matrimonio con Isabella di Castiglia sanciva la nascita, per unione personale dei due regni, della corona di Spagna, di cui il Regno di Sardegna entrava automaticamente a far parte. La fine del periodo spagnolo è convenzionalmente posta al momento del passaggio della corona sarda agli Asburgo, con i trattati di Utrecht e Rastatt (1713 e 1714). Attraverso il loro matrimonio nel 1469 le corone di Aragona e Castiglia si unirono in un unico regno (pur mantenendo ciascuno istituzioni proprie) I catalani erano stati i protagonisti della conquista dell’Isola (13231326) e della realizzazione di fatto del Regno di Sardegna. L’aristocrazia e la grande borghesia mercantile di Barcellona avevano investito uomini e risorse nell’impresa, diventando, a conquista effettuata, la classe dirigente del nuovo regno. Le città di Castel di Calari (Cagliari) e Alghero, rimaste in mano aragonese anche durante gli anni di predominio dell’Arborea (tra il 1355 e il 1410), erano etnicamente cata-
STORIA DI SARD lane, mentre i compagni di ventura dei sovrani aragonesi che avevano combattuto sull’Isola erano diventati i signori dei feudi in cui il territorio era stato suddiviso. A questo si deve l’introduzione delle istituzioni feudali (nella forma del mos italicus) in Sardegna. Quando si estinse la casata dei conti-re di Barcellona, con la morte di Martino il Giovane nel 1409 e di suo padre Martino il Vecchio l’anno successivo, la corona aragonese andò alla famiglia castigliana dei Trastámara, relegando la componente catalana del regno a ruoli sempre meno importanti. Tale fenomeno si accentuerà con la nascita della corona di Spagna. I malcontenti della Catalogna saranno dunque una costante della storia iberica da allora sino ai giorni nostri. In Sardegna, invece, la componente principale dell’aristocrazia rimarrà a lungo catalana. Col passaggio alla corona di Spagna, tuttavia, le istituzioni, i documenti ufficiali e gli stessi interessi politici ed economici sardi subiranno uno spostamento del punto di riferimento del potere verso la Castiglia. Il castigliano diventerà dunque, sia pure lentamente e non ovunque allo stesso modo, la lingua ufficiale e di cultura.
EGNA E SPAGNA La lunga guerra tra Aragona e Arborea (1353-1420) e le pestilenze susseguitesi sin dalla metà del XIV secolo (a cominciare dalla tremenda Peste Nera del 1347) avevano devastato il tessuto socio-economico della Sardegna. A questo bisogna aggiungere che le attività commerciali e manifatturiere, fiorite soprattutto nelle città un tempo pisane di Villa di Chiesa (Iglesias) e Castel di Calari (Cagliari), la prosperità agricola di Oristano e dei Campidani e tutto il sistema di rapporti economici con l’esterno (per es. con Genova) furono sottoposti al regime feudale e agli interessi della corona, modificando alcune strutture fondamentali della società sarda, sia dal punto di vista economico che culturale. L’imposizione del feudalesimo fu una delle maggiori cause di resistenza dei sardi alla conquista iberica, tanto che ancora nel 1470 era bastato a Leonardo di Alagon innalzare l’antico vessillo del regno di Arborea per guadagnarsi l’appoggio della popolazione. Dal punto di vista demografico, nel giro di poco più di un secolo, c’era stata una perdita netta di popolazione difficilmente quantificabile, ma certamente cospicua, la cui misura ci viene data dal numero di villaggi censiti nel 1485: 369, contro i più di 800 ancora esistenti un secolo prima.
Il sistema produttivo, prostrato dal lungo periodo di crisi, stentò a riprendersi ancora per decenni. Le comunità fondarono la propria sopravvivenza sulla conservazione delle consuetudini ereditate dai secoli precedenti: usi comunitari delle terre, rotazione delle colture, pastorizia transumante. L’anno prima della nascita del Regno di Spagna, nel 1478, si concludeva dunque in Sardegna una fase di crisi iniziata nel 1470. Per ragioni di successione nel patrimonio dei marchesi di Oristano, eredi dei possedimenti del giudicato d’Arborea, erano venuti alle armi il viceré e marchese di Quirra Nicolò Carroz, aspirante all’eredità, e colui che tale eredità aveva acquisito, Leonardo Alagon, il cui zio materno Salvatore Cubello era stato l’ultimo legittimo marchese di Oristano. Tanto Leonardo quanto Nicolò avevano ascendenti nella famiglia dei De Serra Bas, sovrani di Arborea. Dalla parte di Leonardo si erano schierati molti sardi insofferenti al regime aragonese. A causa di queste tensioni fra opposte fazioni, ad Oristano scoppiò una rivolta capeggiata da Leonardo Alagon. Il 14 aprile 1470, l’esercito del Viceré - che si apprestava ad occupare la città e a sedare i disordini, fu sconfitto dai rivoltosi nella battaglia di Uras. (segue alla pagina 32)
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(segue dalla pagina 31) Nicolò Carroz riferì al Re di Sardegna del pericolo che Leonardo Alagon potesse scatenare una rivolta generale nell’isola. Giovanni II allora, dopo aver concesso a Leonardo l’investitura del marchesato, allarmato, sentenziò nei confronti di tutta la famiglia Alagon - una terribile condanna di morte e la confisca di tutti i beni concessi. A quel punto nel 1475, la rivolta si allargò ulteriormente e Leonardo Alagon, riunì tutte le genti insofferenti al dominio straniero. Dalla Spagna e dagli altri stati della Corona furono inviati rinforzi, mentre sull’isola una violenta epidemia di peste bubbonica devastava i villaggi e le città. Insorsero contro il regno di Sardegna le regioni della Barbagia, del Goceano, il Marghine, il Mandrolisai, il Campidano e tutta l’isola fu scossa da violenti tumulti. La battaglia decisiva fu preceduta da sanguinosi scontri a Mores e ad Ardara. Il 19 maggio 1478, l’esercito del viceré sorprese i sardi ribelli nei pressi di Macomer. Lo scontro fu durissimo. Leonardo de Alagòn fu sconfitto dalle soverchianti forze aragonesi, formate da contingenti di spingarderos e armate con potenti artiglierie giunte dalla Sicilia.
Artale, il figlio di Leonardo morì combattendo. Sul campo perirono dagli 8.000 ai 10.000 uomini. Leonardo de Alagòn fuggì a Bosa da dove si imbarcò per raggiungere Genova. In alto mare fu però tradito, fatto prigioniero e consegnato all’ammiraglio aragonese Giovanni Villamarì che lo condusse a Valencia. Condannato a morte, successivamente la pena gli fu tramutata in carcere a vita. Fu rinchiuso nel castello di Xàtiva, dove morì il 3 novembre 1494. Nonostante le scoperte geografiche e l’apertura delle nuove rotte oceaniche avessero sottratto al Mediterraneo gran parte dei grandi traffici marittimi, la Sardegna rimase comunque uno scalo importante nelle rotte tra la penisola iberica, la penisola italiana e l’oriente. Inoltre, la definitiva pacificazione interna e l’accresciuta potenza esterna del regno spagnolo, diventato egemone di un impero sconfinato con Carlo I (V) d’Asburgo, favorirono un certo progresso economico e culturale anche sull’isola. Principale fattore di insicurezza divennero sia la continua situazione di belligeranza tra l’impero spagnolo e le potenze europee concorrenti (in special modo la Francia), sia le ricorrenti incursioni saracene. Queste ultime, partivano soprattutto dalle sedi di Tunisi e Algeri.
Contro di loro Carlo V dovette allestire due grandiose spedizioni che ebbero come base di partenza la Sardegna (Alghero e Cagliari). Le spedizioni si rivelarono però fallimentari e il pericolo della pirateria musulmana dovette attendere la fine del secolo (dopo la battaglia di Lepanto, 1571) per vedere una diminuzione. Alleati con i francesi e con i pirati barbareschi tunisini e algerini guidati da Kair ed-Din (chiamato «Barbarossa»), i turchi di Solimano II il Grande razziarono costantemente le coste spagnole, italiane e sarde. Nel 1509 avevano messo a ferro e a fuoco Cabras, nel 1514 Siniscola subiva la stessa sorte e l’anno dopo ancora Cabras. Nel 1527 i francesi assalirono Castellaragonese (l’odierna Castelsardo), Sorso e Sassari. Carlo I, allora sovrano del regno di Spagna, tentò di porre rimedio al flagello dei pirati barbareschi e, radunata a Cagliari una grande flotta, nel luglio del 1535, si diresse contro la loro principale base, situata a Tunisi, senza però conseguire apprezzabili risultati visto che le scorrerie continuarono ancora. Nel 1538 i predoni saccheggiarono Porto Torres, nel 1540 fu la volta di Olmedo.
Nel tentativo di porre rimedio a questa piaga, nel 1541, fu allora allestita un’altra spedizione, avente come obiettivo di assalire Algeri, ma la flotta fu distrutta da una terribile tempesta prima ancora di raggiungere la costa magrebina. Dopo la vittoriosa battaglia di Lepanto nel 1571 contro Alì Pascià, a cui prese brillantemente parte il Tercio de Cerdeña (sotto il comando del fratello del Re di Sardegna, Don Giovanni d’Austria)e dopo la temporanea presa di Tunisi nel 1573, dal 1577 l’importante base barbaresca venne riconquistata dai musulmani e da allora la pressione turca nel Mar Mediterraneo aumentò ulteriormente. Gli spagnoli persero l’avamposto africano più orientale e furono obbligati ad arretrare la frontiera difensiva Il Regno di Sardegna, che fino ad allora aveva avuto un ruolo secondario nello scacchiere difensivo mediterraneo, da allora in poi divenne un avamposto contro l’espansione ottomana: nell’isola passava quel confine invisibile che costituiva la frontiera tra paesi cristiani e musulmani. Si pose allora, urgentemente, il problema del potenziamento delle difese costiere e delle tre più importanti piazzeforti marittime: la capitale del Regno, la città di Alghero e la rocca di Castellaragonese, che costituivano l’ossatura nevralgica del sistema difensivo. (segue a pagina 34)
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(sefgue dalla pagina 33) Le incursioni barbaresche intanto diventavano ancora più incessanti e non davano tregua. Per proteggere le popolazioni, come negli altri Stati della Corona, anche il regno di Sardegna si dotò di una rete difensiva costiera. A partire dal 1572, sotto la direzione di Marco Antonio Camos, si iniziò la costruzione di torri di avvistamento, poste in vista una dell’altra in modo da allertare la popolazione. Alla fine del Cinquecento quelle costruite sul mare erano ben 82. Dei grandi padelloni in ferro battuto, collocati in cima alle torri, servivano da contenitori per bruciare l’erica bagnata ed il bitume: si formava così un fumo denso e scuro, ben visibile da lontano. Ma nonostante gli sforzi sostenuti per rafforzare la sicurezza dell’isola, la difesa continuava ad essere abbastanza precaria anche perché le torri avevano il compito di segnalare l’imminente pericolo e dare l’allarme, ma gran parte di esse erano prive di adeguate guarnigioni e di armamento pesante. Si possono ancora ammirare lungo la costiera sarda un centinaio di queste torri: nella parte settentrionale da Stintino fino a Santa Teresa di Gallura, da Posada alla famosa torre di Bari Sardo a Villasimius lungo la parte orientale, nonché da Carloforte ad Alghero, sulla costa occidentale.
Restarono attive fino al 1815, quando dopo il Congresso di Vienna venne imposto agli stati barbareschi la fine della tratta degli schiavi. Furono smilitarizzate nel 1867 dal nascente Regno d’Italia. Col tempo, si creò in Sardegna una classe aristocratica locale, sia pure in gran parte di origine catalana, nonché un ceto di intellettuali e funzionari sardi, impegnati nell’amministrazione del regno o in quella feudale. Le città (Cagliari, la capitale, e ancora: Iglesias, Oristano, Bosa, Alghero, Sassari e Castelaragonese), sottratte al regime feudale, godevano di larghi privilegi (doganali, commerciali, giurisdizionali), dipendevano direttamente dall’amministrazione reale (per questo si chiamavano “città regie”) e mandavano loro propri rappresentanti alle Cortes (il parlamento). Nel 1543 si formalizza la parificazione davanti alla legge dei sardi con i sudditi di origine iberica del Regno di Sardegna. Evento che sanciva l’abbandono da parte dei sardi di qualsiasi velleità di rivincita e la diffusa rassegnazione al dominio iberico. Alcuni intellettuali sardi tenteranno, nel corso del secolo, di emancipare la cultura dell’Isola dalla condizione di inferiorità in cui era stata relegata.
Figura emblematica di tale rinnovamento fu Nicolò Canelles o Canyelles prima vicario vescovile di Cagliari e poi Vescovo di Bosa, che nel 1566 fondò a Cagliari la prima tipografia della Sardegna. Il risveglio culturale venne però in parte soffocato dall’azione dell’Inquisizione spagnola, alla cui giurisdizione la Sardegna era sottoposta, a imporre un pesante controllo delle vita culturale sarda, sia tra la classe dominante, sia a livello popolare. Episodio simbolo di questa fase storica fu la vicenda di Sigismondo Arquer, giudice della Reale Udienza (il supremo organo giurisdizionale del regno), intellettuale e discendente di una famiglia nobile. Accusato di simpatie per il luteranesimo, fu processato e messo a morte sul rogo come eretico a Toledo nel 1571. Con l’istituzione nel 1564 della Reale Udienza come supremo organo giurisdizionale del regno, si completò l’assetto istituzionale del regno. L’organizzazione politica era la stessa del periodo aragonese. Al vertice c’era il viceré con i funzionari governativi a lui sottoposti. Il Capo di Sopra, il cui capoluogo era Sassari, era sottoposto ad un governatore, seconda carica, per importanza, dopo il viceré.
Al potere viceregio erano naturalmente associate importanti facoltà in ogni ambito, da quello normativo a quello militare, essendo una diretta proiezione della potestà regale. La rappresentanza di nobili, ecclesiastici e città era garantita dall’istituzione parlamentare delle Cortes, i cui bracci o stamenti si riunivano all’incirca ogni dieci anni per discutere le questioni politiche, economiche e soprattutto fiscali del regno. In tali occasioni veniva stabilito, tramite una sorta di pattuizione, l’ammontare della tassa generale dovuta alla corona, il cosiddetto donativo. Al vertice dell’apparato giurisdizionale, al cui primo grado stava la giurisdizione baronale, c’era la Reale Udienza. Tuttavia, la giurisdizione era complicata dai privilegi aristocratici, da quelli ecclesiastici, dalla vigenza come legge generale comune della Carta de Logu del regno di Arborea e dalla presenza del tribunale dell’Inquisizione (la cui sede sarda era a Sassari). La difficoltà di districarsi tra consuetudini antichissime e normative diverse e spesso contrastanti lasciava ampio spazio all’arbitrio della classe baronale. Esso poté essere temperato, col tempo, grazie agli accordi che le comunità riuscirono a strappare ai rappresentanti in loco dei signori.(segue pagina 36)
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(segue dalla pagina 35) Dal punto di vista economico, sociale ed anche politico acquistarono grande rilevanza le associazioni degli artigiani e di certi gruppi di lavoratori, le corporazioni dette gremi, le quali regolavano con propri statuti l’attività dei propri associati e gestivano eventi molto rilevanti dal punto di vista sociale e culturale come le grandi feste cittadine e comunitarie. Nelle campagne prevalevano ancora strutture e ordinamenti ereditati dal passato e adeguati alle nuove condizioni scaturite dall’imposizione del regime feudale. Gli usi comunitari, le consuetudini, il patrimonio di credenze e conoscenze magiche e simboliche. Contro quest’ultimo si scaglierà a più riprese l’opera di repressione dell’Inquisizione. Nel XVII secolo la Sardegna fu ancora coinvolta nelle vicende dell’Impero spagnolo, subendone il declino. I conflitti con le altre potenze europee e le incursioni saracene e turche, come nel secolo precedente, esposero l’Isola ad una mobilitazione militare quasi continua, richiedendo l’impiego cospicuo di risorse e uomini. A ciò si aggiunse una serie di nuove ondate di peste, che colpirono duramente la popolazione. Tristemente famosa la recrudescenza del 1652, che colpì duramente l’isola, specialmente le città principali.
L’epidemia colpì Alghero, il secondo scalo principale dell’isola, e rapidamente giunse a Sassari, decimando la popolazione. Si espanse poi verso sud, colpendo il nord del Campidano, tanto che Cagliari fu fortificata con muri di argilla e pattugliata da mille cavalieri per impedire i contatti con l’esterno, che avrebbero portato l’epidemia dentro le mura. Dopo una leggera flessione il morbo divampò nuovamente, colpendo anche Cagliari nel 1656 (la città accolse emissari da tutta l’isola per calcolare il donativo per il re, esponendosi al contagio). I voti fatti allora per invocare l’aiuto dei santi protettori nelle città e nei villaggi sono alla base di molti riti religiosi che si celebrano ancora oggi in tutta l’Isola, come la Faradda di li candareri a Sassari e la processione di Sant’Efisio a Cagliari. Dall’isola l’epidemia colpì Napoli e Genova, divenendo nota come la peste del 1656. Ma la situazione economica e demografica risentì del ciclo negativo. Le zone spopolate ai quattro angoli dell’Isola (da nord-ovest in senso orario: Nurra, Gallura, Sarrabus, Sulcis-Iglesiente) furono in qualche modo ripopolate, tramite l’incentivazione di forme di colonizzazione, a volte regolata dall’alto, a volte spontanea.
Tale processo di ripopolamento proseguirà ancora a lungo fino all’epoca sabauda, con esiti diversi, ma nell’insieme non decisivi. Il Seicento (el siglo de oro, il secolo d’oro, per la cultura e l’arte spagnola) è però la fase di declino definitivo della potenza iberica. Il continuo stato di guerra, le carenze strutturali interne e la pesante rivolta catalana del 1640 indebolirono le fondamenta di un impero sterminato, difficile da tenere insieme, per di più con mezzi e decisioni di politica economica spesso inadeguati e controproducenti. La Sardegna, inserita a pieno titolo in tale contesto, ne subirà in buona misura la sorte. Le più importanti famiglie dell’aristocrazia sarda saranno protagoniste delle vicende del secolo, traendone vantaggi e titoli e accendendo aspre rivalità al proprio interno. Rivalità che finiranno per avere esiti politici molto gravi nel corso del secolo. Tuttavia, è innegabile il tentativo da parte delle autorità iberiche di adeguare la situazione isolana al mutare dei tempi. Alla necessità di formare funzionari e impiegati nell’amministrazione regia fu risposto per un certo periodo con l’emigrazione accademica verso la Spagna e l’Italia (Salamanca e Pisa erano le mete più ricercate).
Infine, negli anni venti del secolo, vennero fondate le due università di Sassari e Cagliari. Da qualche decennio operavano sull’Isola i collegi dei gesuiti, che già fungevano da centri di studio e di formazione per l’intellettualità sarda. La loro riforma e ristrutturazione diede vita ai due atenei. Il loro non fu mai un livello di eccellenza, ma si mantenne buono per molti decenni, fino alla fine del secolo, quando la crisi generale delle istituzioni iberiche travolse anche quelle sarde. Agli inizi del secolo, scoppiò tra Cagliari e Sassari una violenta polemica a causa del rinvenimento presso il capoluogo settentrionale delle spoglie di alcuni martiri sardi. A Cagliari l’arcivescovo d’Esquivel rispose con la scoperta (vera o architettata) di numerosissime reliquie. La rivalità, sempre forte e latente per ragioni politiche, culturali ed economiche tra i due maggiori centri sardi, trovò materia per alimentarsi in questa contesa di carattere religioso. Sempre nel corso del Seicento, ad opera dei gesuiti (presenti sull’Isola dalla fine del secolo precedente), riprendeva l’opera di evangelizzazione dei sardi, caratterizzati da una religiosità molto fervida, ma ancora legata a culti antichissimi di matrice prettamente pre-cristiana. (segue alla pagina 38)
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(segue dalla pagina 37) Tale opera si affiancò al controllo e alla repressione messi in atto dall’Inquisizione spagnola. I padri gesuiti, spesso sardi, riuscirono a inserirsi a pieno titolo nella vita delle comunità, divenendone spesso interpreti e custodi, adeguando i riti e la liturgia alle conoscenze ed alla lingua delle popolazioni. Soprattutto in quest’ultimo ambito, quello della conservazione ed evoluzione della lingua sarda, l’opera dei gesuiti nel corso del seicento e del primo Settecento fu senz’altro rilevante. Sebbene la Sardegna non si sollevasse in rivolta generalizzata come aveva fatto la Catalogna nel 1640, la situazione nell’Isola non era del tutto pacifica. Al diffuso malcontento della popolazione, specie nei momenti di maggiore crisi, si aggiungeva la sempre più marcata rivendicazione aristocratica di cariche e posti di potere, di solito appannaggio di funzionari mandati dalla Spagna. Nella seconda metà del secolo l’aristocrazia sarda si divise chiaramente in due fazioni, una decisamente filo-spagnola, l’altra più critica e desiderosa di conquistare uno spazio di potere autonomo. Dal conflitto tra i due partiti, che si caratterizzò per congiure e agguati anche mortali, scaturì una serie di eventi che minacciarono di travolgere l’assetto politico e istituzionale del regno.
Nel 1668, nel corso della riunione del parlamento che doveva decidere sull’ammontare del donativo, gli stamenti, e in particolare quello militare (in cui sedevano i rappresentanti della nobiltà) rifiutarono di accollarsi il tributo, pretendendo che le cariche fossero affidate a nativi dell’Isola. Poco dopo venne ucciso in un agguato il capo della fazione anti-governativa, Agostino di Castelvì, marchese di Laconi. Come rappresaglia, un mese dopo, moriva in un agguato per le vie del Castello di Cagliari lo stesso viceré, marchese d Camarassa. Dall’episodio, che suscitò enorme scandalo a Madrid e venne interpretato come il probabile inizio di una rivolta generalizzata, nacque una feroce repressione. Furono inviate truppe, istruiti processi, spesso sommari, attirati in trappola e uccisi, chi in combattimento, chi dal boia, i presunti capi della congiura. Tuttavia, la reale portata degli avvenimenti rimase limitata alle fazioni interne dell’aristocrazia sarda. Non ci fu alcuna conseguenza presso le popolazioni, che non furono affatto coinvolte. Iniziata in Boemia nel 1618 tra cattolici e protestanti, la guerra dei Trent’anni fu trasformata dal cardinale Richelieu in lotta politica contro la dinastia degli Asburgo di Spagna e d’Austria.
Foto_cella lapide che commemora l’assassinio del Camarassa in Castello a Cagliari
Durante questo conflitto, una flotta di quarantasette vascelli, al comando di Enrico di Lorena, conte di Harcourt, il 21 febbraio 1637, sbarcò nei pressi di Oristano e saccheggiò la città per circa una settimana. Non volendo poi affrontare le milizie del Regno di Sardegna che arrivavano in soccorso della città assalita, i francesi si ritirarono precipitosamente, abbandonando anche gli stendardi che oggi sono custoditi nella cattedrale di Oristano. Dopo questo tentativo di invasione, si rese necessario ed urgente munire il regno di una flotta navale di difesa, ma le galee varate negli anni successivi furono solamente tre. Sul finire del XVII secolo era ormai chiara la crisi generale dell’impero spagnolo. La stessa dinastia degli Asburgo di Spagna era prossima ad estinguersi. Queste circostanze mobilitarono le diplomazie europee e gli appetiti delle potenze maggiori. In particolare la Francia di Luigi XIV, potenza egemone di quel periodo, desiderava mettere sul trono spagnolo un Borbone, così da assicurare un asse privilegiato, diplomatico-militare, ma anche economico, tra la Francia e l’immenso impero iberico. La lunga crisi politica della Spagna si rifletteva sulla vita dei sudditi sardi, le cui condizioni alla fine del secolo erano decisamente peggiorate.
Le istituzioni, anche quelle culturali come le università, erano in decadenza; l’economia languiva e rimaneva esposta alle fluttuazioni produttive tipiche dell’Antico Regime; le popolazioni erano sempre più esposte alla prepotenza baronale. Quando morì l’ultimo rappresentante degli Asburgo spagnoli, si aprì la grande crisi diplomatica che di lì a poco sfociò nella guerra di successione spagnola, uno dei più grandi conflitti della storia, prima delle guerre mondiali del XX secolo. In Sardegna, in proposito, circolavano i versi popolari in gallurese secondo cui: «Pa’ noi non v’ha middori, né importa qual ha vintu, sia ellu Filippo Quintu o Càralu imperadori» «Per noi non c’è migliore né importa chi abbia vinto che sia Filippo V o Carlo l’imperatore» Il che stava a significare l’assoluta indifferenza del popolo verso l’esito del conflitto, che non avrebbe certo modificato gli assetti di dominio del tempo. Nobiltà e clero dal canto loro si divisero nei partiti filo-spagnolo e filo-austriaco. Agli inizi del XVIII secolo, quasi tutte le case regnanti in Europa erano unite tra di loro da legami di parentela. Quando un sovrano moriva senza lasciare eredi, si aprivano dure lotte per la successione al trono, lotte che spesso sfociavano in vere e proprie guerre. (segue alla pagina 40)
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(segue dalla pagina 39) Una di queste fu la guerra di successione spagnola che vide Spagna e Francia affrontare Austria, Prussia, Inghilterra, Portogallo, Paesi Bassi e gli Stati Sabaudi. La guerra scoppiò nel 1700 quando, a 39 anni, Carlo II di Spagna morì senza figli che potessero succedergli. Prima di morire, nelle sue ultime volontà, indicò come erede il duca d’Angiò, suo nipote. Ciò provocò le preoccupazioni delle altre potenze europee che temevano l’unione delle corone di Spagna e Francia e proposero come erede l’arciduca d’Austria, Carlo d’Asburgo. Il conflitto investì anche il Regno di Sardegna e nel 1708, una flotta anglo-olandese, composta da quaranta vascelli, si presentò nel golfo di Cagliari. La capitale del Regno, dopo un furioso bombardamento navale, si arrese il 13 agosto, aprendo le porte alla conquista dell’isola. Gli Alleati, dopo una serie di rovesci iniziali, vinsero battaglie decisive in Germania ed in Italia. Nel 1706 Torino, (per la difesa della quale Pietro Micca perse la vita in un eroico gesto), fu salvata dall’assedio francese da Eugenio di Savoia. L’Inghilterra dominava in lungo e in largo nel Mediterraneo arrivando ad occupare Gibilterra e riuscendo a sbarcare a Barcellona.
In seguito agli aggiustamenti territoriali seguiti alla pace firmata a Utrecht nel 1713, il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, ottenne il Regno di Sicilia con il relativo titolo regio. Il Regno di Sardegna, conteso tra Francia e Spagna, alla fine del conflitto, a causa del rovesciamento delle alleanze iniziali, col Trattato di Rastatt del 1714 viene assegnato agli Asburgo d’Austria, legati da parentela con gli Asburgo spagnoli. L’occupazione dell’Isola da parte delle forze armate e dei funzionari austriaci fu breve, ma rapace. L’imposizione fiscale e il controllo militare diventarono ferrei e capillari. Successivamente, la Spagna riprese le ostilità nel tentativo di riappropriarsi della Sicilia e della Sardegna. Comandata dall’ammiraglio Stefano Mari, una flotta di centodieci navi, inviata dal potente cardinale Alberoni, cannoneggiò Cagliari, mentre 8000 soldati sbarcarono sulla spiaggia del Poetto. Il 29 agosto 1717 la città si arrese. Un anno dopo gli spagnoli riuscirono a prendere anche la Sicilia, ma la guerra si risolse in un disastro e furono sconfitti dall’Alleanza composta da Inghilterra, Savoia, Austria e Paesi Bassi. Seguì un nuovo trattato (trattato di Londra del 1718), nel quale fu convenuto - tra l’altro - che il re Vittorio Amedeo II cedesse la Sicilia all’Austria in cambio della Sardegna.
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In ottemperanza al trattato di Londra, fu sottoscritto all’Aja l’8 agosto 1720 l’accordo che sanciva il passaggio del Regno di Sardegna ai Savoia. D’ora in avanti tutti gli stati appartenenti a Casa Savoia formeranno il «Regno di Sardegna, Cipro e Gerusalemme»: l’amministrazione statale utilizzerà l’aggettivo «sardo», dove richiesto, per tutti gli atti del Regno e il popolo sarà “suddito di Sua Maestà il Re di Sardegna, Cipro e Gerusalemme”. Sebbene la Spagna uscisse allora per sempre dalla storia della Sardegna, il lungo contatto dei sardi con la cultura prima catalano-aragonese e poi spagnola lasciò tracce durature. Per molti decenni e almeno sino all’età della Restaurazione fu difficile per i governanti sabaudi estirpare usi e forme culturali profondamente radicati, specie tra la classe aristocratica, ma anche nella popolazione rurale. Nelle lingue sarde poi le impronte lessicali iberiche sono ancora evidenti, così come nei costumi, nelle grandi feste religiose e in molte forme di socializzazione. In questo senso, benché il periodo spagnolo sia diffusamente considerato quello più buio della storia dell’isola, bisogna ammettere che una parte cospicua del patrimonio culturale sardo ancora oggi rivela vincoli profondi di affinità e condivisione con quello della penisola iberica.
asa Savoia è una tra le più antiche e importanti dinastie d’Europa. La sua origine è attestata sin dalla fine del X secolo nel territorio del Regno di Borgogna, dove venne infeudata della Contea di Savoia, elevata poi a Ducato nel XV secolo. Nello stesso secolo, ottenne la corona titolare dei regni crociati di Cipro, Gerusalemme e Armenia. Nel XVI secolo circa spostò i suoi interessi territoriali ed economici dalle regioni alpine verso la penisola italiana (come testimoniato dallo spostamento della capitale del ducato da Chambéry a Torino nel 1563). Agli inizi del XVIII secolo, a conclusione della guerra di successione spagnola, ottenne l’effettiva dignità regia, dapprima sul Regno di Sicilia (1713), dopo alcuni anni (1720) scambiato con quello di Sardegna. Nel XIX secolo si pose a capo del movimento di unificazione nazionale italiano, che condusse alla proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861. Da questa data e fino al giugno del 1946, quando il referendum sulla forma istituzionale dello Stato sancì l’abolizione della monarchia in favore della repubblica parlamentare, fu la Real Casa d’Italia. (segue alla pagina 42)
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(segue dalla pagina 41) Al di fuori della penisola italiana, il duca Amedeo di Savoia-Aosta fu inoltre re di Spagna dal 1870 al 1873, con il nome di Amedeo I di Spagna. Durante il regime totalitario di Benito Mussolini, la dinastia ottenne formalmente con Vittorio Emanuele III le corone di Etiopia (1936) e di Albania (1939) in unione personale, mentre nel 1941, col duca Aimone di Savoia-Aosta, anche la corona di Croazia. Questi ultimi titoli cessarono tuttavia definitivamente nel 1945, con l’assetto internazionale seguito alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1947, la XIII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione della Repubblica Italiana dispose l’esilio degli ex-re e dei loro discendenti maschi. Nel 2002, in vista della cancellazione della XIII Disposizione, Vittorio Emanuele di Savoia e suo figlio Emanuele Filiberto di Savoia giurarono per iscritto “fedeltà alla Costituzione repubblicana e al nostro presidente della Repubblica”. Nel 2003 i discendenti di casa Savoia poterono rientrare in Italia.
AURELIO DEMO A
urelio Demontis è stato un pittore e un vignettista sardo, campione regionale di sollevamento pesi massimi negli anni Sessanta, che nel ‘63 realizza i primi cartoni animati in Sardegna. Da genitori grossisti di frutta, lavora sodo alla costruzione della sua identità leggendo molta stampa politica, con un interesse particolare per tutto ciò che parla dell’Unione Sovietica, s’interessa ai maestri impressionisti come Monet, Cezanne e Utrillo e nel 1961 parte per Milano dove lavora come tornitore, disegnatore per una fabbrica di confezioni per bimbi, magazziniere e cartellonista nei supermarket. Dipinge la vecchia Milano industriale, nebbiosa tra i suoi navigli, conosce diversi pittori e partecipa ai dibattiti sull’arte e alle mostre dei maggiori maestri contemporanei. Rientrando a Cagliari si concentra sul lavoro di cartellonista, disegnatore e vignettista; intorno al ‘63 realizza con due amici pittori alcuni filmini a cartoni animati: saranno i primi in Sardegna. Contemporaneamente continua a creare opere a olio e ad acquerello che espone in numerose mostre a Cagliari, la Maddalena, Lanusei e Nuoro. Nel 1966 dipinge vignette politiche sulla carrozze-
ria bianca della sua Fiat 500, cosa che gli consente di divenire molto popolare in città, poi nel 1967 sposa Dolores Demurtas, la scultrice contemporanea esponente di uno scenario artistico sardo che da locale è divenuto internazionale. Aurelio Demontis è un ragazzo del Quaranta, come Al Pacino e Borsellino, di lui la moglie racconta la straordinaria capacità di empatia: «Gli piaceva scherzare, in particolare con chi riusciva a fargli accendere l’ispirazione, rubava dalla realtà per creare le situazioni, in paese si soffermava a chiacchierare con tutti, provocando in particolar modo i personaggi più bizzarri». Per la figlia, Angela Demontis, anche lei disegnatrice di strisce ironiche che hanno come soggetto i giganti di Mont’è Prama , questo era il suo modo di curiosare tra la vita, di giocare coi fatti di un‘attualità che si dimostra sempre tanto ricca di suggerimenti. Comincia a disegnare già da piccolo, avvalendosi del carbone come strumento per le sue prime esperienze. Diplomato alla Scuola tecnica industriale di Cagliari e con un diploma di cartellonista conseguito alla fine di un corso triennale promosso dalla Regione Sardegna e organizzato dal Liceo artistico, che allora era un istituto privato, fra i suoi profes-
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ONTIS ARTISTA
sori entra in contatto con Polidoro Benvenuti, Sabino Jusco e Foiso Fois. Da sempre appassionato di sport, gareggia nel sollevamento pesi per la palestra Eleonora d’Arborea di Cagliari, nei primi anni Sessanta vince il campionato regionale di sollevamento pesi massimi. Nel 1970 partecipa alla famosa Contromostra della Cripta di San Domenico insieme a numerosi artisti sardi. È un vignettista severo, la sua verve non risparmia la politica e la società sarda, a partire dagli anni Settanta produrrà varie serie di vignette sul mondo pastorale, diventano iconiche le sue pecore a nuvoletta. È Marcello Serra, un carissimo amico di famiglia, a scrivere le recensioni delle sue opere e, accanto al generale Angelino Usai zio della moglie, diviene protagonista di momenti dall’incandescente valenza rivoluzionaria negli anni in cui una montagna di soldi pubblici vengono messi per un’industria che non riesce a risolvere i problemi dell’isola e replica la decadenza della chimica in Italia. La sua pecora, disegnata con uno sportello sul vello come il cavallo di Troia, diventa il simbolo di un nuovo insediamento ideologico, di un sovrappensiero sardo pop che in quegli anni farà saltare (segue p 44)
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(segue dalla pagina 43) i tavoli del festival della satira previsto in Sardegna. Nella rappresentazione popolare ed esilarante che fa del consiglio regionale interamente costituito da pecore, il presidente ha il classicocopricapo sardo mentre gli altri sono rappresentati con la piccola coppola dotata di visiera. Irriverente e sferzante è allo stesso tempo un pittore poliedrico e romantico che dipingere le strade della sua Cagliari, il lavoro dei pescatori di Santa Gilla e le marine desolate eppure così intime. Predilige i toni caldi e morbidi sperimentando la pittura materica a spatola. È uno dei fondatori del Sindacato artisti CGIL, attivo fino agli anni Ottanta. Diverse sue opere si trovano in collezioni pubbliche e private dalla Sardegna all’Europa fino agli Stati Uniti. È nel 1975 che si recherà a Bagheria su invito del poeta siciliano Ignazio Buttitta, titolare del Premio Viareggio 1972, col quale stringe un’amicizia importante in luoghi di condivisione dove la pratica artistica trova ampio spazio. Conosce lo scrittore Leonardo Sciascia, il pittore Carlo Puleo: anche con loro nasce un forte sodalizio. Tra le numerose collaborazioni ricordiamo:
nel 1975 Festival nazionale dell’Unità di Firenze, disegnando nello spazio serigrafico con altri pittori del festival; nel 1976 con l’Arci di Cagliari invita l’amico Ignazio Buttitta per un tour di recital in cui sostiene l’importanza della poesia in generale, promuovendo in particolare la diffusione di quella estemporanea come mezzo di diffusione della lingua sarda; nel 1978 per la televisione TVC Quattro Mori, nel telegiornale delle 20.30 condotto da Giorgio Ariu è protagonista di “La notizia disegnata da Demontis” e infine le sue vignette per la rivista mensile “Il Cagliaritano”. Angela Demontis, figlia d’arte insieme a Lavinia, di lui ricorda: «Era un padre divertente per l’intellettualizzazione che riusciva a fare della realtà ma anche per la sua anima di scenografo, per lui una cosa non era mai come la si vedeva. Ha curato svariate scenografie anche per la compagnia teatrale “Il piccolo teatro” di Cagliari, accanto alla sua visione da vignettista io e Lavinia abbiamo acquisito un approccio all’arte e alla vita che esorcizza la paura e accede al gioco. Per questo motivo abbiamo lasciato che il gruppo musicale “Il cattivo costume, Simona Izzo e Marco Milone”, utilizzassero per la copertina del loro disco il disegno della pecora di Troia, simbolo di una
Foto costasmeralda
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campagna politica condotta contro il petrolchimico di Ottana.» Molte le strisce disegnate da Aurelio Demontis che compaiono sull’annuale regionale illustrato “Sport Sardegna” e sul giornale “L’altro”. La moglie Dolores Demurtas, una tra le più inquiete esponenti dell’arte contemporanea, descrive la sua vita accanto a quest’uomo come la fervida parabola di due personalità che si sono attratte e alimentate reciprocamente, in una Laguna blu assurda come solo la Sardegna sa essere, un’esistenza vorticosa tra due soggetti che hanno saputo proteggersi rispettando la loro natura così diversa. E poi racconta la fortuna sfacciata di poter mettere le mani sul proprio destino. «Negli ultimi tre anni è stato colpito da una malattia che lo ha immobilizzato a letto, poi un giorno quando gli ho chiesto cosa volesse per cena mi rispose “un bicchiere di latte”, glielo andai a prendere in cucina ma tornai e capii che aveva scelto quel momento per andarsene, rimasi col mio bicchiere di latte candido tra le mani, ecco lui è la sorpresa che è sempre dietro l’angolo.» Anna Maria Turra https://www.costasmeralda.it/aurelio-demontis-il-padre-dei-cartoni-animati-sardi/
iamo onorati di presentarvi “La pecora di Troia“, l’opera del maestro Aurelio Demontis che è l’immagine di copertina del nostro disco “‘O cunto e ‘a ‘mbasciata”. Con Sonia Somma siamo saliti sulla cima di una montagna della nostra amata terra per ritrarre la copia fisica di questo lavoro. Quel giorno c’era una nebbia stupenda e insolita, che nascondeva alla vista addirittura il Vesuvio. Quando vedemmo la prima volta questo disegno del maestro Demontis ne rimanemmo folgorati, per l’estetica e per la potenza del concetto che porta in se. Lo stesso del lavoro concettuale svolto per scrivere le canzoni di questo disco e il sunto della versione teatrale sviluppata con Gaspare Nasuto. Il risveglio della coscienza sociale degli esseri umani e l’azione per riprenderci ciò che è nostro, una condizione di vita migliore, i diritti umani conquistati dalle lotte delle generazioni precedenti e almeno sulla carta scritti, oltre i paradossi dalle tinte grigie che uno stato non potrà mai dire ai suoi sottoposti, ma col tempo, se ti svegli, li vedi e li comprendi. Ringraziamo il maestro Aurelio Demontis, che nel 2011 è passato oltre, come mio padre. Ringraziamo la nostra amica Angela Demontis, Dolores Demurtas, Lavinia Demontis e la famiglia Demontis per averci concesso, dopo aver sentito il disco e letto i testi, l’utilizzo di questa meraviglia. Grati. https://cattivocostume.wordpress.com/2017/09/22/ aurelio-demontis-la-copertina-del-disco/
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Foto laura saddi
Il collage è rivoluzione “Laura Saddi mostra il suo alter ego attraverso le Stupid Girls, una serie di collage, acrilico e pastello a olio, che proprio per la tecnica utilizzata, rendono al meglio il significato intrinseco nelle opere. Scomporre e ricomporre i pezzi non è mai un processo affidato al caso, anzi richiede studio e selezione, di quelli che, altrimenti, verrebbero considerati meri scarti (del passato o del presente) per la creazione di nuove forme e nuove storie. Ritagliare giornali e riviste, scegliere gli elmenti che, ricomposti trovino il legame con il pensiero dell’artista permette la creazione di un nuovo racconto e di una nuova vita, diventano un gioco fra simmetrie e analogie, contrapposizioni e legami che ogni singola immagine può avere con l’altra. Come le sfaccettature della personalità di ognuno di noi, tenute assieme nella vita quotidiana, nel nostro personale collage, le Stupid Girl sono una delle immagini di sé che l’artista propone all’osservatore. Il collage è rivoluzione, è sovversione del canone, delle informazioni di cui siamo continuamente bombardati, è la rielabo-
LAURA CATTIGNO SETTANTANOVE SADDI
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aura Catigno Settantanove Saddi est à MANCASPAZIO.
razione di una realtà patinata, di una bellezza irreale che invece ritorna completamente trasfigurata nelle opere di Saddi. Muta il significato originale delle immagini nella creazione di una nuova realtà. Dall’ipocrisia delle modelle nelle riviste all’illusione delle Stupid Girl”. Grazie @chiara.manca_ Seguite il profilo @mancaspazio per tutte le mostre online. Laura Saddi vive e lavora a Sinnai (Ca). Dopo gli studi classici, prosegue la sua formazione al corso serale del Liceo Artistico Foiso Fois di Cagliari. Nel 2007 frequenta la scuola di pittura dell’Accademia Albertina e l’anno successivo si trasferisce in quella dell’Accademia Mario Sironi di Sassari. Partecipa a diverse esposizioni in Sardegna e in Italia. https://www.facebook.com/laura.laura.96155 #alterego #collage #journal #rivoluzione #revolution #beautiful #beautifulgirl #bizzare #popsurrealism #popsurrealist #lowbrow #lowbrowpopsurrealism #outsiderart #grotesque #illustration #illustrazione #painting @ MANCASPAZIO vedi il video vimeo.com/channels/spazioemovimento/327404189
Photo giulia capsula casula
GIULIA CAPSULA CASULA TAC! è un progetto dedicato agli studi degli artisti che operano in Sardegna. Abbiamo iniziato il nostro viaggio a gennaio, attraversando l’isola da nord a sud per incontrare gli artisti e scoprire i loro spazi di ricerca e produzione. Ci siamo chiesti come il complesso periodo che stiamo vivendo stia modificando il rapporto degli artisti con il proprio spazio di lavoro, in termini di luogo, di tempo e di modalità della stessa prassi artistica. Incominciamo con una delle più promettenti artiste isolane, diplomatasi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Giulia Casula, classe 1977, vive e lavora a Cagliari, dove nel 2016 ha fondato Mezzopiano, un artist-run space aperto alla collaborazione con giovani artisti locali e internazionali e al dialogo con il territorio e la città. “Insieme a Federico Carta abbiamo raccolto l’invito dell’associazione Efys, che si occupa di politiche culturali nel quartiere della Marina, a collaborare alla trasformazione di questi spazi in luoghi di scambio e condivisione. Mezzopiano è un luogo informale dove sperimentare e realizzare progetti, seguendo la linea degli artist run space europei, ovvero luoghi gestiti da artisti che ci lavorano e interagiscono con il territorio e la città.”
vedi anche
vimeo.com/297426433 vimeo.com/348335140 vimeo.com/379498619 vimeo.com/381300711
“Errare spaziale” è una mostra di installazioni site specific alla quale Giulia Casula ha partecipato. “Nello spazio ci si ferma e si pensa: non tutto è funzionale e non tutto deve scorrere veloce”. Quello che ci suggerisce Giulia Casula è di rivedere le nostre convinzioni e di ascoltare voci dal passato che hanno vissuto la nostra terra, pensando che chi ha disobbedito e chi ha letto le distanze chilometriche non come mezzo funzionale ad un popolo, ma come garante identitario, ha cambiato nel suo piccolo la nostra percezione di realtà. Il suo ultimo lavoro prende forma tra le mura domestiche. Interrogandosi sui concetti di “certezza”, di “traccia” e di “presente”, l’artista ha mappato il proprio quotidiano, dallo spazio all’arredo, dagli oggetti personali al corpo stesso. Beni di prima necessità conservati in casa, come il sale, la farina e il caffè, diventano la materia con la quale “tessere” sopra le cose (effimeri) trafori che, se da un lato richiamano i centrini tradizionali - e la loro funzione sia decorativa che di protezione -, dall’altro recuperano il valore della griglia, della ripetizione, della regolarità, della possibilità di dare un ordine e di definire. Dalla pagina STAC facebook.com/stac.studiografia/
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Foto Roby Anedda
Vision of China num 3 E’ ormai arrivata l’ultima settimana in Cina, il lavoro è stato completato, la sala rianimazione è completa e funzionante dopo il collaudo è stata consegnata operativa, ancora qualche giorno di puro turismo, ormai è inverno e la neve e il vento freddo dalla Mongolia hanno ghiacciato il lago che circonda la residenza d’estate, si pattina ora sul lago, le vie di Pechino sono coperte dalla neve ma il sole ogni tanto fa capolino tra le nuvole, è il giorno giusto per visitare la Grande Muraglia, tra una manciata di ore tornerò a casa portandomi dietro un (segue pagina 49)
Foto Roby Anedda
La penultima domenica è dedicata alla visita della grande muraglia, il tempo è ancora mite e si trova a pochi chilometri dalla città.
Foto Roby Anedda
I visitatori arrivano dalle regioni più lontane del paese, questi visitatori vengono dalla lontana Mongolia.
In città si aspetta alla fermata del Bus.
Foto Roby Anedda Foto Roby Anedda
ed ecco che da un giorno all’altro tutto cambia, tutto si imbianca.
Ma ormai è tutto più freddo, tra un po si rientra a casa.
Foto Roby Anedda
ogni tanto si rivede il sole.
bel po’ di ricordi di un’esperienza fantastica. Ho ritrovato queste fotografie quest’anno ed ho avuto la sorpresa di vederle pubblicate su questo mensile che già mi aveva portato a Parigi dove le mie fotografie sulle sagre e carnevali della Sardegna sono state esposte in settembre alla Abbaye du Moncel, poi in dicembre al Centre d’Art Paris-Aubervilliers e finalmente a Parigi stessa a Saint Germain des Près alla galleria Bonaparte. vedi i video vimeo.com/233081460 vimeo.com/247475637 vimeo.com/249137999 Le foto pubblicate sono state realizzate a Pechino il 27 Novembre 1986
Roby Anedda
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Foto bassoaldo
n fila davanti al Supermarket cerco di ingannare l’attesa conversando, a distanza di sicurezza, con le persone a portata di voce. La conversazione si svolge come segue: -Signore, di mezza età: “s’è fatta ora di pranzo e devo ancora comprare il pane! “ -Una distinta signora: “E io la frutta”. -Io (rivolto a entrambi): “Per fortuna c’è il sole”. -Signora: (verso di me) “...però la sera fa freddo...e non si sa come vestirsi. Meno male che Cinema e Ristoranti sono chiusi” -Signore anziano: “...con la mia pensione? E chi ci va al Ristorante...” -Signore di mezza età: “Mah! Non ci sono più le mezze stagioni.” -Io: “...e neppure le mezze porzioni.” Silenzio. La Signora si volta e non aggiunge parola fino al momento in cui entra nel market. Quando esce non ci guarda. Né ci saluta. Non so se il signore di mezza età volesse fare dell’ironia. Io sì. Ma la Signora l’ha presa male. Colpa nostra? Forse. Ma anche della mascherina sul viso. Soprattutto sulla bocca. E’ difficile fare ironia col volto coperto. Si corre il rischio di essere lapidati. Ma che conversazione è quella in cui non si riesce a capire l’intenzione di
SOLIDARIETA IN TEM chi parla? Quella in cui manca ogni tratto paralinguistico? Il problema si era già posto con le chat Social che imponevano l’uso di un numero limitato di caratteri. Si poteva scrivere “tvb come 6”. Ma la “intenzione” restava assente. E chi riceveva il messaggio era autorizzato a chiedersi “perché? come sono? Troppo brutto? Troppo povero?”. E’ per questo che furono inventate, e adottate dai Social, le “faccine” (H. Ball; 1963). Nella scrittura/lettura i segni di interpunzione aiutano. Ma non sempre lo fanno con efficacia. A volte è solo alla fine di una frase che emerge l’intenzione interrogativa. Per evitare sorprese, in spagnolo il segno viene posto anche all’inizio, seppure rovesciato. Nella scrittura musicale, alla notazione sul pentagramma, si aggiungono descrizioni, più o meno lunghe, dell’intenzione con cui deve essere letto e interpretato il passaggio (con brio; allegro ma non troppo). Nella narrativa l’intenzione del locutore si evince dal contesto e da precedenti descrizioni della sua personalità. Nel teatro antico era la Maschera che indicava il ruolo del personaggio e soprattutto suggeriva il “genere” del discorso che lo spettatore avrebbe ascoltato.
MPO DI PANDEMIA Nella conversazione orale è soprattutto il sorriso del locutore che indica la disposizione emotiva al destinatario. Certo, l’ironia è una figura retorica che va maneggiata con cautela. Come pure la Citazione: se si coglie fa sorridere, altrimenti sembra un commento strampalato e inopportuno. L’ironia può essere arguta o banale, ma per avere qualche chance di raggiungere l’effetto per il quale è stata inventata, è sempre bene corredarla di un segno identificativo, un ammiccamento, un bonario sorriso. Il sorriso funziona da “captatio benevolentiae” e da chiave interpretativa. E, in assenza di maggiori spiegazioni, stabilisce comunque un contesto amichevole*, cordiale, faceto e, per l’appunto, “risibile”. *(E’ ovvio che si può approfittare del contesto amichevole per raggirare o truffare gli astanti. Ogni linguaggio può dire il vero o mentire: è’ il limite dell’ironia che contiene un elemento di “dissimulazione”. Ma un truffatore, in genere, si avvale di strumenti meno sofisticati.) Un commento ironico non tende a “far ridere”. Fa solo sorridere. Ma il sorriso con la mascherina, come segnale preventivo, non c’è, non è ostensibile. E ciò ostacola la cooperatività richiesta agli interlocutori. (www.sardegnadomani.it)
Perché l’ironia è insieme etero e auto-irona, altrimenti diventa sberleffo o sarcasmo. Implica complicità tra emittente e destinatario. Funziona se tra loro si stabilisce una sorta di gioco, di sorpresa e di improvvisa condivisione emotiva. Per questo non può essere preannunciata. Non si può sollevare una paletta con scritto: “attenti che quello che dirò va interpretato in senso ironico”. Il locutore può solo segnalarla con un vago segno d’intesa al fine di rendere più evidente la contraddizione del commento, e più probabile la adesione del destinatario al gioco. Il sorriso è il segno più utile a tale scopo. E’ una istanza di solidarietà. Ora noi, costretti ad agire con circospezione da appelli e ordinanze, a parlare con voce soffocata di lutti e crisi, con naso e bocca protetti e nascosti, esortati al distanziamento sociale e abituati a comportamenti prossemici più esclusivi che inclusivi, riusciremo a essere ancora solidali? Saremo in grado, a emergenza terminata, di sorridere di noi e dell’universo mondo? Riscopriremo i segni opportuni? Ritroveremo motivazioni e condizioni? Oppure la guerra epidemica, come è stata definita da molti, lascerà solo la protervia degli scampati, il cupo rancore dei feriti e il riso isterico dei pazzi?
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ATRIZIA MUREDDU si è laureata (1970) presso l’Università di Cagliari, dove ha insegnato Grammatica Greca e poi Letteratura Greca fino al 2018. I suoi interessi scientifici si sono indirizzati soprattutto all’epica greca arcaica, al teatro attico tragico e comico di V secolo e alle teorie del linguaggio retorico in Grecia tra V e IV sec. a. C., con particolare attenzione alla sofistica (Gorgia) e a Platone. A Esiodo ha dedicato una monografia (Formula e tradizione nella poesia di Esiodo, Roma 1983) e diversi saggi, tra i quali si possono citare: “Radiografia di un poema arcaico”. “La struttura della Teogonia”(«SemRom» 2004), Epiteti femminili nel ‘Catalogo’ esiodeo (Atti del convegno Esiodo. Cent’anni di papiri, Firenze 2008) e “Prometeo (e Pandora) in Esiodo” («Aevum Antiquum» 12-13, 2012-2013).
TEOGONIA ESIODO
Saggio introduttivo, nuova traduzione e note di Patrizia Mureddu Testo greco a fronte Collana “Classici Greci e Latini” diretta da Anna Giordano Rampioni Rusconi Libri ISBN 978-88-18-03542-1
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itemi dall’inizio come dèi e terra nacquero, e i fiumi e l’infinito pelago gonfio di flutti e le stelle che brillano, e lassù l’ampio cielo; e chi da loro nacque, gli dèi che danno i beni: come abbondanza ottennero e gli onori spartirono, come fu che abitarono il corrugato Olimpo.” La Teogonia di Esiodo rappresenta il primo e il più compiuto tentativo di disporre in un insieme coerente tutte le varie entità divine che – fin da remote tradizioni pre-omeriche – popolavano il mito greco. Il poeta, consapevole della vastità e della delicatezza del suo compito, dedica un lungo Proemio alle Muse, sue divine ispiratrici, prima di tracciare le ampie linee di una complessa genealogia che, partendo da Chaos, il vuoto primordiale, giunge infine all’ordinato regno di Zeus, presidiato dalle prime spose del nuovo sovrano, le dee dell’intelletto (Metis) e del diritto (Themis). Il Catalogo vero e proprio è frequentemente interrotto da narrazioni primitive e terribili: l’evirazione di Ùrano, la violenza antropofaga di Crono, i paurosi scontri tra le divinità per la conquista del potere, l’estremo tentativo di Tifone di impadronirsi del trono. In questo quadro, un ampio spazio è riservato a Prometeo, il Titano che per aiutare gli uomini non esita a scontrarsi con il re degli dèi, a costo di incorrere nella sua ira e di dover subire la più crudele delle punizioni.
Ettore vs Achille Iliade ’Iliade Libroracconta XXIIdi
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siodo nacque probabilmente a Cuma, intorno al 740 a. C . Ben presto fu attratto dal mestiere di cantore, e dovette entrare in una delle consorterie poetiche che fiorivano in Beozia. La sua crescente fama gli consentì di partecipare a una gara aedica, dove – forse proprio con una versione della Teogonia – ottenne una prestigiosa vittoria, vincendo un tripode di bronzo, che dedicò alle Muse d’Elicona. Alla morte del padre, tra lui e il fratello Perse si aprì una contesa giudiziaria per la divisione dell’eredità; al fratello egli dedica perciò il suo secondo poemetto, Le Opere e i Giorni, di impostazione prettamente didascalica, nel quale lo invita a lasciar perdere le ingiuste rivendicazioni e a dedicarsi piuttosto al lavoro nei campi. L’antichità gli attribuiva altre opere: un “Catalogo delle Donne”, che si presenta come un’ideale continuazione della Teogonia, e un bizzarro ‘epillio’, “Lo Scudo di Eracle”, che alcuni indizi portano però a datare nel pieno VI secolo.
un evento reale, la guerra di Troia, che si concluderà con la distruzione della città per opera di una confederazione di popoli greci, forse l’ultima grande impresa prima della fine dei regni micenei, databile intorno al 1100 a.C. Sicuramente, in quegli anni non esistevano un alfabeto o dei materiali scrittori adeguati per registrare un testo poetico così lungo e complesso: per molto tempo, perciò, i fatti che diventeranno il nucleo del poema – tra i quali dovette avere un posto importante l’episodio cruciale dello scontro tra i ‘campioni’ dei due eserciti nemici, Achille ed Ettore – vennero raccontati e tramandati oralmente. Nel corso di questo processo di elaborazione, durato almeno tre secoli, si deve collocare l’attività di quel grande aedo di nome Omero che fu, secondo gli antichi, l’autore dei due grandi poemi. Radici tanto oscure e remote nel tempo spiegano perché il mondo che essi raccontano (e lo stesso modo di raccontarlo) ci può apparire estraneo, misterioso, duro. Ma proprio in questa diversità risiede gran parte del fascino di queste opere straordinarie, che hanno finito per rappresentare il principio ed il fondamento di tutta la nostra storia letteraria. Traduzione di Patrizia Mureddu
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hiuso il Camploy, la rassegna Altro Teatro di Verona è diventata un appuntamento due volte alla settimana su Facebook. Tutti i venerdì e i martedì mattina il direttore artistico Carlo Mangolini suggerisce letture, articoli, video di spettacoli mai andati in scena e podcast
“Piccoli suggerimenti tratti da come il mondo teatrale sta reagendo a questa fase delicata”, aggiunge Mangolini. “Potranno essere anche registrazioni di spettacoli veri e propri o ancora dei podcast di trasmissioni radiofoniche. Un selezione mirata e ragionata per sollecitare curiosità e attenzione”. VETTORE UTOPIA Ha la forma del festival invece Vettore Utopia, una possibilità di parlare d’arte, uno spazio sorgivo, un archivio in divenire, un diario aperto. “Siamo partiti dalla voglia di utilizzare questi limiti per continuare a far circolare voci ed energie di un mondo, quello dell’arte, profondamente colpito dalle restrizioni
MATTIA BERTO
È “un modo per essere vicini ai veronesi e offrire occasioni per occupare questo tempo in maniera ‘virtuale’ ma anche virtuosa’” – spiega l’assessore alla Cultura di Verona Francesca Briani.
della quarantena”, spiegano gli organizzatori, cioè la compagnia Città Sommerse Teatro, la Scuola FuoriNorma, il Teatro Astra – La Piccionaia, Canecapovolto, EXP Are We Human e OpenDDB. Sei giorni (dal 21 al 26 aprile) e ogni giornata un tema diverso: corpo e assenza, fiaba e violenza, autentico e téchne, casa e sacro, dentro e fuori, attesa e ricordo). Due i momenti giornalieri, uno dedicato a contributi in forma di video e uno in forma di talk per parlare di arte e di teatro. Intenzione dei curatori è quella di creare una sorta di archivio che si arricchisce di volta in volta e sopravvive agli eventi. Oltre sessanta gli artisti coinvolti provenienti dal cinema, dalla fotografia, dalla musica oltre che dalla danza e dal teatro e la lirica. Nel cartellone i Motus stanno assieme a Cecilia Ligorio, a un fotografo come Enrico Fedrigoli e a una coreografa come Camilla Monga. “Per noi i talk”, spiega Tommaso Rossi di Are We Human, “sono uno spazio dove continuare a scambiarsi idee ed energie, sono la necessità di essere lì presenti, in quel giorno”. Ecco perché poi i video si dileguano dalla rete.
Foto Il-divano-di-Mattia-Berto.-Courtesy-L’ora-d’aria
postando diversi materiali tematici autoprodotti: brevi testi, commenti, fotografie, video o disegni. Il pubblico de “L’ora d’aria” “non è solo un ascoltatore passivo ma ritrova quella magia del sentirsi parte di un processo. Nei miei laboratori di Teatro di cittadinanza, infatti, lavoro spesso sulle idee, sui gesti, sulle immagini che gli stessi partecipanti propongono, trasformando ogni contributo in materiale drammaturgico per la messa in scena. Anche in questa modalità online abbiamo trovato il modo di fare interagire ogni partecipante a partire da suggestioni teatrali date in diretta”. La scelta dei contenuti organizzati nella puntata è guidata da un canovaccio pensato dalla docente Arianna Novaga. Su quel canovaccio Berto improvvisa la performance. “A un certo punto abbiamo deciso di inserire anche alcuni ospiti, invitati a collegarsi durante la diretta dalle loro abitazioni, che rispondono ad alcune domande legate al tema del giorno. Infine si lancia la sfida al pubblico e si risponde in tempo reale”. La stanza da cui Berto trasmette è una sorta di salotto. “Non sono io il protagonista, io sono il tramite. Il salotto è uno spazio condiviso, è platea e palcoscenico fusi insieme. .(segue pagina 56)
L’ORA D’ARIA Decisamente eccentrica è invece L’ora d’aria – Laboratorio di cittadinanza teatrale online, progetto che nasce in collaborazione con il Teatro stabile del Veneto e ha avuto migliaia di iscritti in poche settimane. L’intento, spiega il creatore dell’iniziativa Mattia Berto “è quello di usare il teatro come pretesto, come motore per aggregare, per condividere, per mantenere viva una comunità che ama le arti dal vivo e che attraverso il teatro si nutre e crea famiglia”. Nel panorama del teatro online “L’ora d’aria” ha nell’interattività e nella partecipazione una caratteristica sicuramente peculiare e caratterizzante. “Il teatro non si può fare in rete, è un’esperienza da vivere in presenza, è fatta di corpo, di respiri, di tatto, di odori, insomma ha bisogno di un incontro ravvicinato. Ma credo anche che in un momento come questo sia necessario continuare a sentire e a muovere emozioni”. Scopo è principalmente quello di aggregare: “Se non si incontrano i corpi si incontrano le anime”, spiega Berto. In ogni giornata, oltre alla diretta delle 17, c’è il lancio di una call che prevede una partecipazione attiva dello spettatore, invitato a rispondere alla chiamata
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Foto Mattia Berto.-Courtesy-L’ora-d’aria
(segue dalla pagina 55) Tutti nostri salotti sono in fondo i teatri delle nostre vite, cosi come mi piace sempre pensare al teatro come una casa, dove tutti sono invitati a entrare e a partecipare. Mi piace saltare questa soglia. Vorrei teatro e vita dappertutto” Nel salotto sono passati da Shakespeare a Ionesco, da Beckett a Brecht, da Pirandello alla Duse, da Pina Bausch a Stanislawski.
GLI OSPITI DI MATTIA BERTO
E “la mia camera è diventata un palcoscenico e ho invitato alcuni ospiti a condividere il mio letto attraverso un iPad appoggiato sul cuscino”. Il regista, la studiosa di teatro e un grafico (Roberto Piffer) hanno già coinvolto nel progetto attori come Francesco Wolf, Margherita Mannino, Alex Cendron, Stefano Scandaletti, Filippo Quezel, Selene Gandini, Maurizio Lombardi, Serra Ylmaz, Eleonora Fuser. Ma anche le cagliaritane Lucide di Lucido Sottile, le danzatrici Silvia Gribaudi e Laura Moro, il
MATTIA BERTO
L’abitazione è diventata una cella quando si parlava di Jean Genet o una cucina per parlare di teatro come cibo per l’anima.
fotografo di teatro Guido Mencari, la poetessa Anna Toscano, l’artista Lucia Veronesi e il regista Giorgio Sangati. Cosa diventerà questo progetto alla riapertura dei teatri? “Mi piacerebbe che il progetto continuasse ancora nella sua dimensione online, ma vorrei che alla fine diventasse una grande performance che coinvolge tutti i partecipanti. Ho condiviso l’idea con lo Stabile perché mi piacerebbe davvero dare una forma teatrale a tutto questo materiale. Ho già in mente un ambizioso progetto di Teatro di cittadinanza che coinvolga i più di 1500 iscritti alla pagina Facebook per raccontare le tante sfaccettature e i punti di vista di questo incredibile e assurdo momento storico. Con Arianna Novaga stiamo già lavorando sui materiali anche per realizzare una pubblicazione”. Simone Azzoni https://www.facebook.com/altro.teatro.camploy/ https://www.facebook.com/festivalvettoreutopia/ https://www.facebook.com/groups/899497943838398/
Foto galleria comunale d’arte cagliari
TINO NIVOLA C
ostantino Nivola all'anagrafe Costantino Nivola Mele, e conosciuto anche come Antine Nivola (in Sardegna) e Tino Nivola (negli Stati Uniti) (Orani, 6 luglio 1911 – East Hampton, 6 maggio 1988) è stato un artista e scultore italiano. Il Museo Nivola di Orani, in Sardegna, conserva la più importante collezione delle sue opere. Il padre era muratore e da lui Costantino apprese i primi rudimenti del mestiere. Nel 1926 iniziò a lavorare come apprendista presso Mario Delitala, pittore e incisore, che stava lavorando alla decorazione dell’aula magna dell’Università di Sassari. Dal 1931, grazie a una borsa di studio, frequentò a Monza l’ISIA (Istituto Superiore di Industrie Artistiche) dove si diplomò come grafico pubblicitario nel 1936. A Monza ebbe come compagni di corso Fancello e Pintori, sardi come lui. L’anno successivo divenne direttore dell’ufficio grafico della Olivetti, per la quale realizzò le decorazioni del padiglione italiano presso l’Esposizione Universale di Parigi (Exposition Internationale de Arts et Techniques dans la Vie Moderne). Nel 1938 sposò Ruth Guggenheim, una compagna di corso tedesca di religione ebraica (deceduta il 18 gen-
Galleria Comunale d’Arte di Cagliari https://www.facebook. com/GCDAC/videos/224867432283204/
naio 2008) e fu costretto dalle persecuzioni antisemite ad abbandonare l’Italia, rifugiandosi prima a Parigi, dove lavorò come disegnatore, e poi come molti altri intellettuali e artisti europei, dopo l’invasione nazista della Francia, a New York. Qui dovette superare inizialmente molte difficoltà, finché nel 1941 fu nominato Art Director per la rivista “Interiors and Industrial Design”, incarico che mantenne per sei anni. A New York trovò un ambiente culturale ricco di fermenti stimolanti e strinse amicizia con molti rappresentanti delle avanguardie artistiche del momento, in particolare con il grande architetto Le Corbusier, con cui spesso condivise lo studio e soprattutto alcune scelte stilistiche, e Saul Steinberg. Nel 1944 nacque il figlio Pietro, padre dell’attore Alessandro Nivola, e nel 1947 la figlia Chiara. Nel 1948 stabilì il suo studio in una casa acquistata a East Hampton, a Long Island, dove creò la tecnica della colata di cemento sulla sabbia modellata (sand casting) e conobbe Jackson Pollock. (vedi articolo nel numero di Sardonia del Marzo 2020 “The Nivola Guggenheim House”) In questo periodo era dirimpettaio di casa di Albino Manca, ma nonostante ciò con quest’ultimo non strinse alcun rapporto d’amicizia. (segue alla pagina 58)
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Foto commons wikipedia
(segue dalla pagina 57) La casa venne ristrutturata nel 1951-52 utilizzando la nuova tecnica, in collaborazione con l’architetto Bernard Rudofsky. Ritornò in Sardegna per realizzare per conto della rivista “Fortune” dei disegni sulla campagna antimalarica della Fondazione Rockefeller. Si dedicò soprattutto alla plastica decorativa legata all’architettura, settore nel quale ricevette incarichi sempre più importanti. Insegnò disegno presso la “Graduate School of Design” dell’Università di Harvard e ricevette il “certificato di eccellenza” dell’”American Institute of Graphics”. Nel 1962 insegnò presso il dipartimento d’arte della Columbia University e ottenne riconoscimenti a New York (medaglia d’argento della “Architectural League” e diploma della “Municipal Art Society”; nel 1967 medaglia d’oro e nel 1968 “Fine Arts Medal” dell’”American Institute of Architets”). L’attività di insegnamento continuò negli anni successivi (“Carpenter Center for the Visual Arts” presso l’Università di Harvard e Università di Berkeley) e fu inoltre membro dal 1972 della “American Academy and Institute of Arts and Letters” di New York, sebbene non avesse la cittadinanza americana. Fu diverse volte a Roma ospite dell’”Accademia americana”.
Nel 1975 divenne membro onorario della “Royal Academy of Fine Arts” dell’Aja. Negli anni Settanta, a Cagliari conosce l’artista Maria Lai, con la quale stringe una grande amicizia, insieme realizzeranno negli anni a seguire il Lavatoio Comunale di Ulassai. L’arte di Nivola parte dai materiali tradizionali che imparò a maneggiare nella sua terra di origine e si sviluppò a contatto con il ricco ambiente culturale newyorkese, dove erano rappresentate le maggiori correnti artistiche del momento e che fu importantissimo nella sua formazione, mentre il distacco dalla Sardegna gli permetteva di acquisire consapevolezza delle proprie radici. La serie delle “Madri” che richiama la scultura della civiltà cicladica, ne riprende la forma archetipa ed essenziale e l’attenzione all’espressività della materia. La sensualità della materia si ritrova anche nei grandi rilievi, che appartengono alla cultura dell’arte informale. Un’altra importante caratteristica è la vocazione delle sue opere ad un dialogo con lo spazio circostante e ad una presentazione corale e pubblica più che privata. Da citare la serie dei “lettini” in terracotta. Oggi a Orani c’è un importante museo dedicato a lui, il Museo Nivola. https://it.wikipedia.org/wiki/Costantino_Nivola
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epositato in via telematica presso il Ministero dello Sviluppo Economico ed a cura del comune di Arbus, il marchio collettivo: PECORA NERA DI ARBUS. Coronando infine gli sforzi dei numerosi allevatori arburesi, di Sardegna Ricerche, dell’Agenzia Laore Sardegna. Particolare eco ebbe la distribuzione ai numerosi sindaci delle città italiane, del filo della lana nera della pecora di Arbus, organizzata dall’artista tessile Pietrina Atzori, coadiuvata dal marito Umberto Petri, durante un viaggio in tutta Italia (vedi filmato) La pecora nera di Arbus è una biodiversità tipica del territorio Arburese da cui prende il nome. A differenza della tipica “pecora sarda”, la pecora nera di Arbus ha le corna e, negli esemplari più puri, le orecchie piccolissime. Il latte della pecora nera di Arbus ha una più alta resa casearia ma viene prodotto in minor quantità. Pregiata è anche la lana di questa biodiversità tipica, usata in passato per realizzare i tipici abiti in orbace della Sardegna. Riconosciuta come biodiversità tipica, la pecora nera di Arbus sopravvive oggi grazie all’impegno di alcuni allevatori locali e, nel 2010, è stata portata all’attenzione del grande pubblico dalla trasmissione “Linea
Verde”, andata in onda su Rai1, che ha visitato l’azienda agricola dei fratelli Lampis. Considerata la scarsa popolazione della pecora nera di Arbus e la peculiarità di questo endemismo, la comunità europea, riconoscendo la funzione di tutela del territorio operata dagli allevatori, ha approvato dei finanziamenti per la salvaguardia di questa ed altre biodiversità. La Sagra della Pecora Nera si tiene ai primi di agosto presso la località Pitzinurri di Ingurtosu ed è organizzata dall’Associazione Allevatori di Pecora Nera di Arbus, in collaborazione con il Comune di Arbus. La manifestazione celebra le qualità di questo tipico animale arburese con momenti di informazione e visita agli ovili locali, allestimenti di stand espositivi, laboratori ed ovviamente degustazioni dei prodotti ricavati dall’ovino. La pecora nera rappresenta una delle principali biodiversità presenti nel territorio di Arbus e più in generale nel Medio Campidano. Questa specie, che era stata messa da parte per parecchio tempo e rischiava l’estinzione, ha recentemente riacquistato la sua importanza grazie all’impegno di allevatori locali che ne hanno accresciuto la presenza negli ovili Vedi il filmato
vimeo.com/360012316
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